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Stop alla «rivoluzione bolivariana»: Chávez accusa il colpo

di Alessandro Armato
da Mondo e Missione – gennaio 2008

«Non ci siamo riusciti, per ora». Ha ammesso la sconfitta il presidente venezuelano Hugo Chávez, all'indomani del referendum che doveva trasformare il Venezuela in una repubblica socialista. Anche se per stretto margine (poco più del 50 per cento), il 2 dicembre la maggioranza dei venezuelani ha detto no alla proposta di riforma di 69 dei 350 articoli della Costituzione del 1999. Per il momento, quindi, niente rielezione indefinita del presidente, niente ridefinizione della proprietà privata, niente divieto di privatizzare le aziende statali, niente riforma della Banca centrale, niente riduzione della giornata lavorativa da otto a sei ore, niente copertura sociale per i lavoratori informali, niente ratifica della «solidarietà tra i popoli nella loro lotta per l'emancipazione», niente promozione della «Confederazione e Unione dell' America Latina e del Caribe», eccetera.

La rivoluzione bolivariana subisce una battuta d'arresto. È la prima volta in nove anni che il governo viene sconfitto. Ciò però non significa che Chavez getterà la spugna. TI presidente ammette di avere perso, ma solo «per ora».

Tempo e potere per ribaltare il risultato non gli mancano, visto che rimarrà in carica fino al 2012, gode di un parlamento al 100 per cento in camicia rossa, dispone di una ley ha

bilitante che gli concede poteri speciali e può contare su un prezzo del petrolio alle stelle. Un primo passo per capitalizzare la sconfitta Chávez lo ha già fatto, accettandola serenamente, mostrandosi il più democratico possibile agli occhi di un' opinione pubblica che iniziava a guardarlo con sospetto.

E l'opposizione, comunque, ad uscire rafforzata. Un'opposizione che ha trovato nel movimento studentesco nuova linfa vitale. Cresciuto all'ombra delle istituzioni educative più prestigiose, tradizionalmente frequentate dalle classi sociali medio-alte («riccaccioni» e «figli di papà», nel colorito linguaggio di Chávez), gli studenti antichavisti si sono imposti all'attenzione pubblica quando sono scesi in piazza per protestare contro il mancato rinnovo della concessione al canale televisivo Rctv. Uno dei suoi leader è Yon Goicoechea, studente di diritto all'Universidad Catolica Andrés Bello, ateneo gesuita.

La Chiesa ha pesato nella sconfitta del «sì». Le alte gerarchie – che Chávez ha minacciato di incarcerare, definendole «il demonio» - sono state sostanzialmente compatte nel rifiutare la proposta di riforma costituzionale. Ma anche settori della Chiesa tradizionalmente non del tutto osti li al chavismo, come i gesuiti del Centro Gumilla e della rivista Sic, sono stati molto critici. Solo una base di «preti chavisti» l'ha sostenuta apertamente e acriticamente.

Adesso si intravedono due possibili scenari: l'inizio di un processo di dialogo e riconciliazione, che potrebbe sfociare in una collaborazione tra chavisti e oppositori nella trasformazione del Paese; oppure un radicaIizzarsi delle posizioni. Chávez potrebbe tentare di imporre ugualmente molte delle riforme costituzionali, utilizzando i poteri speciali che gli concede la ley habilitante. E non è escluso che l'opposizione, rinvigorita dal referendum, possa premere perché Chávez abbandoni il potere prima del tempo.

Il risultato del referendum apre nuovi scenari anche sul piano politico continentale. In particolare sorgono una serie di interrogativi sul futuro dei processi costituenti in corso in Bolivia ed Ecuador, due Paesi allineati politicamente con Chávez.

Negli ultimi vent'anni - sia detto di passaggio - convocare assemblee costituenti è diventata una moda in America Latina. Nel 1984 è accaduto in Nicaragua, dopo la vittoria elettorale dei sandinisti; nel 1991 in Colombia, per suggellare la pace con la guerriglia dell'M19, nel 1992 in Perù, con Fujimori; nel 1994 in Argentina, con Menem; nel 1997 in Ecuador, dopo la rinuncia di Abdahi Bucaran; nel 1999 in Venezuela, in seguito all'arrivo al potere di Hugo Chávez. I casi della Bolivia, nel 2006, dopo l'arrivo al potere di Evo Morales, e nel 2007 dell'Ecuador, dopo l'elezione di Rafael Correa, sono soltanto gli ultimi di una lunga lista.

In Ecuador, Alianza Pais, il movimento politico del presidente Correa, ha la maggioranza assoluta nell' Assemblea costituente e può cambiare radicalmente il modo di governare il Paese. I lavori della nuova Assemblea sono iniziati lo scorso 29 novembre nella città di Montecristi. I deputati hanno 180 giorni di tempo, con una proroga massima di 60, per redigere una bozza di Costituzione che dovrà poi essere sottoposta a referendum nel 2008 (cfr.M.M., dicembre 2005, pp. 70-73; M.M., agosto-settembre 2007, pp. 65-67).

Come annunciato, dato che Alianza Pais non ha rappresentanti in parlamento, la prima mossa dell' Assemblea costituente è stata quella di sospendere l'attività del parlamento unicamerale, definito «corrotto e incompetente», le cui funzioni sono state assunte dall'Assemblea stessa. Il passo successivo dovrebbe essere aumentare il controllo dello Stato sull'economia. Correa concepisce le sue proposte come un modo per restituire potere al popolo - quella che lui chiama revolución ciudadana -, mentre l'opposizione vede in tutto questo un disegno del presidente per concentrare ulteriore potere nelle sue mani.

Più complicata e drammatica, invece, appare la situazione boliviana. Il presidente Morales voleva un'Assemblea costituente che «rifondasse» il Paese. Ma l'anelito al cambiamento, duramente contrastato da un'opposizione razzista e separatista, ha portato la Bolivia sull'orlo di una guerra civile.

L'Assemblea costituente boliviana, dopo mesi di paralisi dovuta alla disputa tra Sucre e La Paz su quale città dovesse essere la capitale, lo scorso 24 novembre ha approvato «in grande» - solo con la lettura dell' indice - la nuova Carta magna, in una sessione in cui l'opposizione non si è presentata. I membri della Costituente hanno lavorato asserragliati dentro il liceo militare di Sucre, mentre fuori echeggiavano vibranti proteste che hanno causato quattro morti e centinaia di feriti.

L'opposizione ritiene il testo illegale e ha iniziato la «resistenza civile». «Un' Assemblea costituente in una caserma e senza la presenza dell'opposizione non sarà mai accettata dal popolo», ha avvertito Branco Marinkovic, presidente del Comitato civico di Santa Cruz, la capitale dell'opposizione. Restano comunque da approvare i singoli articoli della nuova Costituzione, che contempla una riforma della terra e la nazionalizzazione delle risorse naturali. Perché il testo venga approvato, servono i due terzi dell'Assemblea costituente. MoraIes non li ha ed è obbligato cercare accordi con l'opposizione. Ma cosa accadrà se l'opposizione si rifiuta di dialogare?

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 14 Marzo 2008 19:38

Torino, terzo mondo

Torino, terzo mondo

di Gad Lerner
da Nigrizia gennaio 2008

Scrivo sotto l'impressione del mio incontro con gli operai dell'acciaieria ThyssenKrupp di Torino, colpiti da un incidente sul lavoro che gli ha portato via quattro colleghi (e altri tre stanno lottando per sopravvivere). Un incidente che nessuno potrà mai addebitare a fatalità, dopo le loro testimonianze sull'incuria, il lassismo e la rinuncia a una seria attività di manutenzione e prevenzione. Già, perché lo stabilimento torinese di corso Regina Margherita era destinato a prossima chiusura, essendo stato raggiunto un accordo che concentra a Terni le attività italiane della multinazionale.

Voi mi potreste chiedere: «E cosa c'entra la nostra rivista Nigrizia con la tragedia degli operai di Torino?». Vi risponderei: c'entra, eccome, perché quella che fu la capitale della classe operaia italiana ha percepito sulla sua pelle nel dicembre 2007 cosa voglia dire essere trattati da Terzo mondo.

Lo stabilimento sta per essere smantellato? E allora, perché .bisognerebbe dedicare soldi e lavoro alla sua manutenzione? Tanto gli operai che ci lavorano non sono mica i "nostri", si trovano all'estero rispetto alla casa madre della multinazionale (Dusseldorf, Germania). Un trattamento "asiatico", mi viene da dire. Occhio non vede, cuore non duole. Man mano che ci si allontana dalla sede centrale, viene considerato naturale che si allenti la vigilanza sulle condizioni di lavoro e la correttezza delle relazioni sindacali.

Solo che, di solito, questo lo tolleriamo perché riguarda lavoratori africani, cinesi, indiani, vietnamiti... Stavolta è toccato ai torinesi, facendoci piangere al fianco delle loro famiglie. Gente di una dignità straordinaria. Volti e storie di un'Italia retrocessa e umiliata dalla falsa idea di una società luccicante in cui l'acciaio, certo, serve. Ma tanto lo facciamo produrre a debita distanza.

Naturalmente, la dignità e la rabbia degli operai italiani della ThyssenKrupp non sono diverse da quelle dei loro omologhi dagli occhi a mandorla o dalla pelle scura che lavorano per stipendi nettamente inferiori e senza uno straccio di protezione antinfortunistica. Ma, si sa, il relativismo lo si combatte solo quando ci fa comodo.

Con il risultato che ora succede l'esatto contrario: anche gli operai italiani tendenzialmente diventano Terzo mondo. Le loro buste paga non crescono da anni. Gli infortuni sul lavoro aumentano. La fatica fisica viene accettata come destino d'infelicità.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 12 Marzo 2008 14:21

Indipendenza finanziaria targata Bancosur

Ormai. è cosa fatta. Il Sudamerica avrà un proprio organismo di credito, che porrà fine al monopolio del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale e del Banco interamericano de desarrollo (Bid).

In giugno è stato firmato in Argentina l’atto costitutivo del Banco del Sur (Bancosur), cui aderiscono Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Paraguay e Venezuela. L’entrata in funzione effettiva dell’organismo - che potrà contare su un capitale di sette miliardi di dollari - è avvenuta a fine giugno, con una cerimonia d’inaugurazione a Caracas. Il Banco del Sur avrà la sua sede principale a nella capitale venezuelana e uffici a Buenos Aires e a La Paz.

Si tratta di un importante progetto finanziario regionale, che rientra nel cammino verso l’integrazione del Sudamerica e che, allo stesso tempo, può essere letto come un modo per rafforzare i Paesi dell’area Mercosur (mercato comune dell‘America meridionale).

I principali promotori dell’iniziativa sono stati il presidente venezuelano Hugo Chàvez e il suo omologo argentino Nestòr Kirchner, che tempo fa aveva già rotto i ponti con l’Fmi, cancellando completamente il debito del suo Paese.

L’obiettivo principale dell’organismo è garantire l’indipendenza finanziaria del continente, facendo leva sulle ingenti riserve di dollari accumulate negli ultimi tempi dai Paesi sudamericani, soprattutto dal Venezuela. Recentemente il cancelliere venezuelano Nicolàs Maduro ha assicurato che il Banco del Sur è «un’ alternativa forte» per porre fine al monopolio dei tradizionali enti finanziari internazionali. Riferendosi all’Fmi e alla Banca mondiale, Maduro ha spiegato: «Loro ci pagano due o tre punti percentuali per il nostro denaro e in cambio ci fanno pagare l’8 o il 10 per cento di interessi per prestarci il nostro stesso denaro. Ci saccheggiano».

Il nuovo organismo di credito, che è stato concepito come «la banca per lo sviluppo del futuro», ha tra i suoi obiettivi principali quello di attrarre investimenti economici verso l’America Latina e sostenere la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali. Chàvez ha già proposto il progetto anche al Paesi non allineati, a quelli asiatici e africani. Il tempo dirà se si tratta di una trovata ideologica o un efficace volano per lo sviluppo.

Di Alessandro Armato
MM/8-9/07


Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
Etichettato sotto
Lunedì, 10 Marzo 2008 15:38

RIPARTIAMO DAL BENE CHE C’È

Per quanto riguarda lo spettro degli
argomenti scelti e l’accuratezza con cui sono trattati, penso che i Lineamenta
per la Seconda assemblea speciale per l’Africa del sinodo dei vescovi siano
sufficientemente ampi e adeguatamente dettagliati, benché strutturati attorno a
tre sole aree principali: riconciliazione, giustizia e pace. Anche
l’intelaiatura teologica che sottostà ai tre temi è ugualmente comprensiva e
tale da offrire solide e profonde basi alla discussione: precisi sono i
parametri in fatto di cristologia, ecclesiologia, teologia dei sacramenti,
pastorale missionaria e spiritualità. In altre parole: ci è stato messo nelle
mani un documento ben fatto.

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I temi della giustizia e della pace sono
appropriati all’Africa odierna. E per le più svariate ragioni: storiche,
economiche, socio-politiche e culturali. I problemi più pressanti del
continente riguardano proprio questi due fondamentali valori. Onestà vuole,
però, che si ammetta che la storia mondiale è sempre stata crudele nei
confronti dell’Africa, anche se gli africani sono stati spesso la causa
strumentale delle loro sventure. Penso alla schiavitù, al colonialismo, al
neo-colonialismo (sotto forma di strutture economiche ingiuste che tendono a
perpetuare il circolo vizioso della povertà), al debito estero, ecc.

I Lineamenta descrivono l’odierna
situazione sociale, economica e politica dell’Africa con taglienti pennellate.
«Una delle sfide maggiori è il fallimento dello stato post-coloniale. Sarebbe
troppo semplicistico attribuire le ragioni di un tale insuccesso della politica
in Africa alla composizione plurietnica degli stati o ancora alle frontiere
artificiali ereditate dalla colonizzazione.

Al di là delle differenze e rivalità
etniche, esiste in effetti presso gli africani un’idea nazionale. Non sarebbe
altrimenti possibile spiegare l’attaccamento di ogni africano al proprio paese
e alla propria storia. La questione è sapere come trasformare la pluralità in
fattore positivo, costruttivo e non distruttivo (...) La sfida è quella del
buon governo e della formazione di una classe politica capace di recuperare il
meglio delle tradizioni ancestrali ed integrarlo ai principi di “efficienza di
governo” delle società moderne» (11).

Ancora: «In alcuni paesi africani
esistono tensioni sociali durature che bloccano il progresso, dando vita a
disordini politici e a conflitti armati. Il tribalismo, le dispute per le
frontiere e i tentativi di espansione conducono alle lotte armate, con un
pesante tributo in termini di vite umane, e all’esaurimento delle risorse
finanziarie. In alcune nazioni si assiste alla continua violazione dei diritti
fondamentali dell’uomo, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. (...)
Fino a che non si arriverà alla creazione di stati di diritto, governati da
africani veramente democratici, c’è l’alto rischio che una tale situazione
possa ancora perdurare» (12).

Tutti gli africani sono consapevoli della
fondamentale “delinquenza” delle loro leadership politiche, della tendenza dei
loro presidenti e capi di governo ad atteggiarsi a semi-dei, della politica
discriminatoria messa in atto nei confronti di numerosi gruppi etnici, degli
innumerevoli colpi di stato... Tuttavia, ritengo di dover fare alcune
osservazioni riguardo al modo in cui i Lineamenta riassumono quanto è avvenuto
dal 1994 a oggi.

 

Analisi
economica da migliorare

Al termine della lettura del documento,
l’immagine che emerge dell’Africa e della sua chiesa appare alquanto negativa,
quasi che, a tredici anni dal primo sinodo, ad eccezione dell’aumento del
numero delle vocazioni sacerdotali e dei cattolici, non ci sia molto da
riportare come “passi positivi compiuti” dal continente, soprattutto dal punto
di vista socio-politico. È vero che il documento riconosce che «anche dal punto
di vista sociale, possiamo rilevare alcuni nuovi sviluppi» (7). Ma mi sarei
aspettato un’analisi più approfondita e più realista della situazione.

Non ci si può limitare a scrivere che
«nutriamo la speranza di vedere l’Unione africana diventare più effettiva e più
efficace nella risoluzione dei conflitti tra nazioni africane e tra gruppi
etnici» (ib.). In verità, ci sono stati autentici sviluppi positivi nel campo
socio-politico, soprattutto in termini di democratizzazione in molte nazioni.
Anche il semplice menzionarli avrebbe aiutato a presentare un’immagine più vera
dell’Africa contemporanea.

Il nuovo documento riconosce che, «di
fronte a situazioni così diverse, risulta difficile pronunciare una parola
unica e prevedere una soluzione che abbia valore universale. (...)

L’intento dei Lineamenta non è dire
tutto, ma elencare alcune priorità che emergono dallo studio e dall’azione nel
campo della riconciliazione, della giustizia e della pace». Cosa più che
comprensibile. Tuttavia, nel periodo preso in esame, i leader africani hanno
deciso alcune mosse politiche importanti e sarebbe stato bene riconoscerle. Dal
1994 a oggi, molte nazioni africane hanno fatto decisivi passi in avanti in
termini sia di democratizzazione e di primato della legge, sia di buon governo
e di trasparenza amministrativa.

Come dimenticare la disponibilità
espressa da vari capi di stato a sottostare al Meccanismo africano di
valutazione inter pares (Aprm), destinato a favorire la stabilità politica, la
crescita economica e lo sviluppo sostenibile, in virtù del quale i governi
accettano di sottoporsi a periodiche revisioni sulla base di criteri quali trasparenza,
“buon governo”, rispetto dei diritti umani e primato della legge?

Inoltre, a livello regionale, alcune
comunità economiche – come la Comunità economica degli stati dell’Africa
Occidentale (un accordo economico stipulato da 16 stati nel 1975 e tuttora in
vigore) – hanno portato la pace (e la mantengono) in varie ragioni e prevengono
la guerra in altre.

Sono chiari segni che l’africano sta
sempre più assumendo le proprie responsabilità, e spero che saranno debitamente
notati nel documento che guiderà i lavori del futuro sinodo.

In materia economica, il documento mi
sembra troppo cauto e diplomatico. Uno dei concetti meglio sviscerati e
spiegati nel corso del primo sinodo africano fu quello dell’autosostentamento,
nel contesto di una diminuzione degli aiuti esteri.

Eppure, quasi nulla è detto al riguardo
nel nuovo documento. Mi domando se ci sia una ragione per tale lacuna. Forse
non si è voluto dare l’impressione che gli africani stiano ancora incolpando il
mondo esterno dei propri problemi, invece che accettarne, almeno in parte, la
responsabilità?

Sta di fatto che i Lineamenta dicono
molto poco sulle ingiuste strutture internazionali che rafforzano e perpetuano
il vizioso circolo della povertà nel continente (vedi il debito estero). Penso,
ad esempio, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto) e ai suoi molti
fattori limitanti (“colli di bottiglia”) che portano a sussidiare gli
agricoltori occidentali per consentire loro di esportare i propri prodotti sui
mercati africani, uccidendo le nostre industrie locali.

Come possiamo parlare di giustizia, se
poi non si dice nulla sulle alte tariffe imposte dalle nazioni ricche ai
prodotti africani di esportazione? E come è possibile parlare di pace, senza
tenere in considerazione i fattori esterni che contribuiscono alla mancanza di
questo bene nel continente?

Giustizia e pace presuppongono rispetto
reciproco, e questo rispetto dipende in gran parte dalla possibilità che uno ha
di gestire la sua vita con le risorse che ha a propria disposizione, senza
dover ridursi a elemosinare aiuti da altri. C’è sempre poca stima per un
mendicante! Negli scorsi tredici anni, si sono tenuti simposi e seminari su
questo tema a livello regionale, nazionale, diocesano, parrocchiale...
Paradossalmente, anche di questo lavorio niente è detto nei Lineamenta.

Spero che nella discussione che avrà
luogo nelle chiese locali si abbia il coraggio di approfondire questi e altri
punti non del tutto sviscerati dai Lineamenta. Se è vero che, sotto molti
aspetti, gli africani hanno mostrato di essere “irresponsabili”, è altrettanto
vero che fattori esterni hanno giocato – e continuano a giocare – un pesante
ruolo nel decadimento, specie economico, del continente.

Globalizzazione

La globalizzazione è un fenomeno sociale
che ha importanti effetti nel continente e penso che avrebbe meritato una
valutazione più ampia e precisa nei Lineamenta, anche solo per aiutare una
discussione pure nella sfera socio-economica, non solo in quella
socio-politica.

Considero i temi della riconciliazione, della
giustizia e della pace strettamente connessi con quello dell’odierna
infatuazione per la globalizzazione.

Questo fenomeno è ambivalente a livello
economico: una vera e propria spada a doppio taglio. Da una parte, potrebbe
alleviare la povertà globale (ammesso che le culture dominanti oggi nel mondo
acconsentano alla giustizia e alla pace di regnare); dall’altra, specie se
giustizia e pace non vengono fondate su una riconciliazione a livello mondiale,
potrebbe infliggere ferite ancora più profonde alle fragili economie africane.

È mia opinione che, anche se il tema è
stato menzionato al paragrafo 20 dei Lineamenta nel contesto socio-politico,
esso merita maggiore spazio e approfondimento nel contesto socio-economico.
Pertanto, nell’eventuale Instumentum laboris da mettere nelle mani dei padri
sinodali, la globalizzazione dovrebbe essere affrontata in maniera dettagliata,
sopratutto nelle sue ricadute sull’economia. Mi permetto di suggerire alcuni
punti: la globalizzazione nel contesto di uno scontro di culture; i suoi forti
interessi economici; il suo lascito di sofferenze e lagnanze; la possibilità
che le culture meno forti ne siano vittime, più che beneficiarie; l’onnipotenza
e l’onnipresenza delle forze del mercato globale; le politiche economiche delle
nazioni ricche; la disuguaglianza nelle forze di potere...

In altre parole, ci si dovrebbe domandare
se e in quale misura, dal primo sinodo a oggi, l’Africa è stata oggetto di una
massiccia manipolazione economica. E se il problema non fa che acutizzarsi,
allora il continente può fare ben poco per risollevarsi, senza una genuina
cooperazione internazionale. Ecco il contesto vero nel quale i Lineamenta
avrebbero dovuto affrontare la discussione sulla globalizzazione. Non l’ha
fatto. C’è solo da sperare che il documento di lavoro ripari a questa mancanza.

Guarigione
e armi

Trattando del problema della
riconciliazione, i Lineamenta osservano – e giustamente – che «qui tocchiamo la
questione della guarigione, che ha una grande importanza nell’Africa nera» (70).
Dopo aver presentato “la guarigione nella sua dimensione socio-religiosa e
spirituale” (72-73), il testo affronta l’argomento della “guarigione in
rapporto alla politica, all’economia e alla cultura” (74-76), notando che
«nell’Africa nera... questa problematica non si limita alla sola sfera
religiosa, ma comprende e presuppone le sfere politica, economica e culturale».

Pertanto, «nell’impegno per la politica,
e in ogni impegno per migliorare le nostre condizioni di vita e di salute, così
come per migliorare la cultura dei nostri popoli, noi facciamo sì che questa
sia per loro una sorta di guarigione». Poi, ancora una volta, il linguaggio si
fa pesante: «Cristo può essere percepito come guaritore soltanto se i cristiani
si impegnano nei diversi campi per liberare l’Africa moderna da tutti i mali
che stanno per soffocare il continente, e in particolare il male della guerra»
(corsivi miei).

Due osservazioni. La prima: è vero che
oggi si registrano ancora tracce di conflitti etnici, tensioni e contrasti
civili, ma sarebbe stato doveroso notare che, dal primo sinodo a oggi, ci sono
stati positivi sviluppi proprio nel campo della riconciliazione e della
guarigione, e non solo in Sudafrica, con la creazione della Commisione “Verità
e riconciliazione”, presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu, ma anche nella
regione dei Grandi Laghi (vedi i tribunali tradizionali in Ruanda), in Liberia,
in Sierra Leone... Per molti africani questi risultati – seppur modesti –
riflettono sia l’impatto che Ecclesia in Africa ha avuto sul continente, sia la
loro volontà di fare meglio che in passato.

In secondo luogo, ritengo che i
Lineamenta avrebbero dovuto almeno spiegare che, dietro le guerre e i conflitti
etnici, ci sono spesso subdole forme di neo-colonialismo. La cosiddetta “propensione
africana alla guerra” è (anche) il risultato del fatto che alcune potenze
mondiali continuano a considerare l’Africa come una loro “proprietà”. La loro
logica è nota: mantenere gli africani in un continuo stato di guerra rende più
facile derubarli delle loro risorse naturali (diamanti, petrolio, minerali
strategici...).

Il testo accenna alle “guerre per
procura”, ma soltanto di passaggio, citando un precedente testo dei vescovi
africani. Perché non dare più spazio a questa odiosa realtà, descrivendola con
maggiori dettagli, per suscitare più consapevolezza nella gente circa il fatto
che «gli africani distruggono i propri paesi e si uccidono tra di loro per gli
interessi e i profitti “di altri”» (17)?

Strettamente legato alle “guerre per
procura” è il commercio delle armi. I Lineamenta ne parlano – «Il commercio
internazionale delle armi continua a mantenere l’Africa in perpetuo stato di
guerra. Non c’è dubbio che, in gran parte, a seminare la morte in Africa siano
interessi potenti che dominano il mondo, e i cui attori principali sono
altrove» (17) – ma non con la necessaria enfasi. Al paragrafo 78, il testo
ritorna sull’argomento: «Esigere la pace significa esigere la fine del
commercio delle armi nelle zone di guerra. Tutti sanno in che modo le parti in
conflitto si procurano le armi. C’è in questo una grande ingiustizia e un
furto: le risorse dei paesi poveri sono sistematicamente saccheggiate per
alimentare tale commercio». Quindi, si aggiunge: «Dobbiamo pretendere che alla
forza delle armi si sostituisca la forza morale del diritto».

Convengo pienamente con quel
“pretendere”. Il prossimo sinodo dovrebbe concretizzare questa sacrosanta
pretesa, facendo un forte appello alla comunità mondiale perché sia approvata,
una volta per tutte, una legge internazionale contro il traffico delle armi.

 

Di Peter K. Sarpong

Nigrizia – Giugno 2007

 

 

Incongruenze

Dopo oltre un decennio dalla pubblicazione di Ecclesia in Africa,
cioè l’esortazione apostolica che riassumeva i frutti del primo sinodo
africano, i nuovi Lineamenta invitano l’Africa «a fare un inventario e un esame
di coscienza» (1). Tre gli interrogativi: «Cosa ha fatto Ecclesia in Africa?
Cosa abbiamo fatto di Ecclesia in Africa? Cosa resta da fare, nella sua linea,
in funzione del nuovo contesto africano?» (ib.).

Penso che non si possa rispondere alle prime due domande in modo
del tutto lusinghiero. (Del resto, l’esortazione fu presentata come “piano
d’azione a lungo termine”, e, come tale, è tuttora in progresso). Ma non sono
d’accordo con il senso di pessimismo che scorgo qua e là nella valutazione che
i Lineamenta danno del periodo preso in esame. C’è una stridente contraddizione
tra la positività della Prefazione e il quadro alquanto nero dell’intero
documento.

Apprezzo l’approccio adottato ai paragrafi 38 e 39, in cui si
riconosce, dapprima, la presenza nel continente di valori profondamente
radicati nelle culture, e, solo in seconda battuta, si enumerano le
“negatività” da correggere. «Il senso della fraternità (...) è un valore
realmente radicato negli ambienti africani. Esso è fonte di ispirazione dei
comportamenti di solidarietà che hanno condotto molta gente fino alla morte,
perché hanno rifiutato di partecipare alla violenza esercitata dai loro gruppi
contro gli altri, o perché hanno protetto e difeso gente votata allo sterminio
da parte dei loro stessi gruppi» (38). «È in questa tradizione (...) che si
iscrive la definizione della Chiesa come Famiglia di Dio (...) È lo stesso
Sangue di Cristo che circola in ciascuno di noi… Versare il sangue del proprio
fratello vuol dire versare il Sangue di Cristo, vuol dire uccidere la sua vita
in noi» (39).

Come si nota, mentre si riconoscono “gravi peccati” contro la
vita, si registrano anche testimonianze di eroismo cristiano, spesso fino al
martirio. (Personalmente, avrei elencato anche i numerosi “buoni sforzi”
compiuti nella sfera socio-politica in termini di consolidamento della
democrazia, di rispetto della legge e di buon governo).

Rimango alquanto confuso, invece, quando confronto ciò che viene
affermato nei paragrafi 6 e 7 dei Lineamenta con certe affermazioni riscontrate
al numero 30. Da una parte, si afferma che «si devono discernere segni di
speranza per la rinascita di un cristianesimo fecondo e dinamico e per
l’avvento di società nuove» (6).

E ancora: «Anche dal punto di vista sociale, possiamo rilevare
alcuni nuovi sviluppi: l’avvento della pace in alcuni paesi africani, l’ardente
desiderio di pace largamente diffuso nel continente, in particolare nella
regione dei Grandi Laghi, la crescente opposizione alla corruzione, la forte
presa di coscienza della necessità di promuovere la donna africana e la dignità
di ogni persona umana, l’impegno dei laici nelle “società civili” per la
promozione e la difesa dei “diritti dell’uomo”, il numero sempre maggiore di
uomini politici africani consapevoli e determinati a trovare soluzioni africane
ai problemi» (7).

Poi, invece, queste “positività” sembrano passare nel
dimenticatoio, per dare ampio spazio a “negatività” sconcertanti. Dopo aver
parlato di «tanti odi e tante divisioni», ci si chiede: «Come annunciare il
Vangelo, in un’Africa segnata da odi, guerre e ingiustizie?». La risposta
offerta pare dimenticare la presenza di «segni di speranza per la rinascita di
un cristianesimo fecondo e dinamico e per l’avvento di società nuove»
menzionati all’inizio del documento. Di fatto, s’invita la chiesa «a cominciare
da capo, partendo da Cristo» (30).

Dopo 13 anni dal primo sinodo africano, l’Africa è certamente
ancora ai margini del mondo, specie in termini economici. Ma la situazione è
davvero tanto nera da avvertire il bisogno di dover “cominciare da capo”, come
se non ci fosse nulla di buono e come se il periodo post-sinodale sia stato del
tutto inutile?






























































































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Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Il panorama multireligioso italiano sembra ormai
avere trovato una propria stabilità: i cristiani sono circa la metà del totale
degli immigrati e i musulmani circa un terzo. Tutto lascia pensare che, se
continueranno a prevalere i flussi migratori dall’Europa dell’est, questa
situazione permarrà per diversi anni. La metodologia di stima del Dossier
statistico immigrazione Caritas-Migrantes
si basa sulle statistiche relative ai gruppi religiosi nei singoli paesi
di origine, che vengono poi applicate alle rispettive comunità presenti in
Italia.

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Gli ultimi dati sono aggiornati a inizio 2006. Su una
presenza di 3.035.000 cittadini stranieri, i cristiani sono 1.491.000:
cattolici (668.048) e ortodossi (659.162) hanno quasi la stessa consistenza
(22% e 21,7%), mentre i protestanti si attestano al 3,9%. Nel 2006 i cristiani,
pur aumentati di 112mila unità in termini assoluti, sono lievemente diminuiti
in percentuale: i protestanti dal 4,7% al 3,9%, i cattolici dal 22,6% al 22%,
mentre gli ortodossi sono aumentati dell’1,4%.

I musulmani sono passati da 912.492(33%) a
1.009.023(33,2%): per capire questo dato, bisogna tenere conto del fatto che il
2005 ha fatto registrare il più elevato numero di ingressi per ricongiungimenti
familiari. di cui si sono avvantaggiati in particolare Albania e Marocco.
Sostanzialmente invariato è invece rimasto il peso di induisti (2,5% e 75.125
persone, con un aumento di 8 mila unità), buddisti (1,9% e 57.688 unità, quasi
5 mila unità in più) e seguaci di religioni tradizionali (1,2% e 36.202, quasi
3 mila in più), mentre gli ebrei (0,2%) sono diminuiti di un decimale e di un
centinaio di unità in termini
assoluti. I restanti 358 mila immigrati sono stati considerati non credenti o
appartenenti ad altri gruppi religiosi.

Ultima istanza di mediazione

Questi sono i numeri della differenza religiosa in
Italia. Da essa bisogna ricavare un messaggio di vita. Per il cristiano è
Cristo il perno (o sacramento) della salvezza universale. Questo è il nucleo
centrale della sua fede, che non pregiudica affatto il rispetto delle diverse
credenze: la coscienza di ogni persona rimane l’ultima definitiva istanza di
mediazione con la realtà divina, pertanto va sempre rispettata, almeno fino a
quando essa non travalichi i diritti altrui.

La chiesa cattolica italiana ha considerato l’immigrazione
un “segno dei tempi” nel quale coinvolgersi per proporre il proprio messaggio
spirituale e promuovere il dialogo interreligioso, oltre che per assicurare un
apporto sul piano culturale e sociale. Senza venir meno a un’apertura
rispettosa agli altri credenti, l’ispirazione all’annuncio di Cristo consente
di non relativizzare la propria fede e dimenticare la propria tradizione, e
neppure minimizzare gli aspetti problematici che possono insorgere, ad esempio nel
caso dei matrimoni misti.

Non bisogna dimenticare poi la presenza di movimenti
religiosi alternativi (il termine “sette” ormai è in disuso), in particolare
tra i sub-sahariani e gli zingari. Questi movimenti sono numerosi, ma
prevalgono quelli che si denominano evangelisti-pentecostali: pur prendendo
atto di tutte le difficoltà, non si vuole rinunciare ai tentativi di dialogo
anche con essi, soprattutto per individuare le istanze profonde di realtà che
spesso sembrano animate da autentici sentimenti religiosi. Ma prima di ogni
altra considerazione, la presenza di tante persone di altre fedi ci deve
interrogare, in quanto cattolici, sui motivi per i quali tanti si sono
disaffezionati alla chiesa in cui sono stati battezzati e hanno trascorso parte
della propria vita.

di Bruno Mioli Fondazione Migrantes 










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Ci sono tanti modi per affrontare la questione
femminile” e il radicale mutamento dell’immagine e ruolo delle donne nella
società. Paola Gaiotti de Biase, già parlamentare europea, esponente della
Margherita e che da molti anni vive e analizza questi temi in maniera
approfondita e originale, offre ora uno studio che è forse la cosa più
interessante e persuasiva che sia apparsa in argomento. Il volume di Paola
Gaiotti, recentemente edito dall’editrice Studium, che ricostruisce il ruolo
delle donne credenti di fronte alla modernità, è collocato, significativamente,
nella collana di Spiritualità cristiana contemporanea”, diretta dal professor
Massimo Marcocchi e dall’arcivescovo Cado Ghidelli.

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La tesi del libro è che il mondo di matrice cristiana
ha vissuto la modernizzazione (e la secolarizzazione) in un modo positivo,
scoprendo valori evangelici di libertà, uguaglianza, dignità personale.
Sappiamo tutti che si tratta di parole (ed espressioni) dal significato non
univoco e spesso ambivalente.

E tuttavia il nodo del problema appare ben chiaro
nelle pagine della Gaiotti: ci sono dei cattolici che pensano che il mondo
moderno, dall’illuminismo in poi, è tutto un cammino di allontanamento dal
cristianesimo, un cammino che trova oggi nella secolarizzazione il suo apice. E
secondo questi teo-con la nequizia dei tempi moderni, che hanno cancellato Dio
e la morale, si manifesta nella rivoluzione femminista: le donne rifiutano la
loro vocazione “naturale” di mogli e madri e vogliono imitare gli uomini: studiare,
lavorare, essere libere di decidere. Votano e persino fanno politica. Vogliono
parlare in chiesa e avere una responsabilità nel popolo di Dio anziché fare le
“perpetue” Con toni diversi e varia gradualità questo punto di vista è diffuso
nella società e anche nella comunità ecclesiale.

Questo libro affronta proprio la questione decisiva,
almeno dal punto di vista cattolico, perché dimostra che le donne hanno vissuto
il processo di secolarizzazione in maniera diversa e molto più positiva
rispetto agli uomini. Come hanno rilevato Pietro Scoppola, Renato Moro e lo
stesso Giuliano Amato, attuale ministro degli Interni, costituisce un passo
avanti anche nella storia della spiritualità e della vita cristiana.

Nelle note e in bibliografia, si ritrovano le intuizioni
e le analisi che hanno fatto maturare ed emergere questa nuova consapevolezza:
si pensi agli studi di Emma Fattorini, Cettina Militello, Maria Cristina
Giuntella, Adriana Valerio, Maria Cristina Bartolomei, Rosemade Goldie, Maria
Pia Bruzzichelli...

Ma nelle pagine di Paola Gaiotti accanto alle
studiose si incontrano anche le protagoniste che hanno segnato una strada
nuova. Non sempre capite e apprezzate all’inizio, esse hanno dimostrato coi
fatti che uscendo da un ruolo soltanto “domestico” le donne potevano portare
alla vita sociale ed ecclesiale idee, energie e valori in maniera nuova e
incisiva.

Basti pensare a riformatrici della vita religiosa
come la Vincenza Gerosa e Bartolomea Capitanio, fondatrici delle Suore di Maria
Bambina, la Verzieri e la Guerra; a innovatrici del costume e della cultura
come la Costanza d’Azeglio, la Da Persico, la Barelli, laTincani, la Piotti, la
Vittoria De Toni Trebeschi. Per non dire della vita politica, che sarebbe stata
certo più povera senza la Badaloni, la Gotelli, la Bianchini, la Cinciari
Rodano, la Martini, l’Anselmi (e la Bindi). E sarebbe certo migliore e più
ricca se le donne fossero molte di più...

Un capitolo particolarmente importante è quello che
riguarda il ruolo del grande associazionismo cattolico. Esso ha aiutato
tantissime donne a uscire dall’isolamento e dalla dedizione esclusiva ai
fornelli. Ha insegnato che si può integrare la vita familiare e quella sociale,
con vantaggio per ambedue, E attraverso l’associazionismo, come spiega Maria
Teresa Bellenzier nel suo saggio conclusivo, le donne hanno potuto dare alla
Chiesa e alla società un contributo di cultura e spiritualità che sarebbe stato
altrimenti impossibile.

 

Di Angelo Bertani

Jesus /Dicembre 2006

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Lunedì, 10 Marzo 2008 15:26

Spiritualità ecologica

La spiritualità africana affonda le proprie radici
nella convinzione di una mutua interdipendenza - in verità, di una unicità - di
tutto il creato, nelle sue origini, nella sua permanente esistenza e nel suo
destino finale. Ogni creatura - in particolare quella umana - esiste come
risultato della forza divina, è pregna di tale forza e tende verso il divino.
L’ordine che sostiene ogni esistenza è espressione di questa forza, e spetta
alla società umana salvaguardare tale ordine, in modo da poter vivere sempre in
armonia sia con l’energia divina, sia con tutte le forze soprannaturali che da
essa emanano. Offendere l’ordine, che fa del mondo un cosmo, significa, in
ultima analisi, mettere a repentaglio l’umanità e l’intero creato.
L’Occidente sta solo oggi scoprendo la cura per la
salvaguardia del creato come parte costitutiva di una nuova spiritualità
mondiale. L’Africa, invece, è sempre stata consapevole degli obblighi che gli
esseri umani devono avere nei confronti della Madre Terra, grazie soprattutto
alla loro fede nella costante presenza “spirituale” (che non vuol dire  “fantasiosa” o “non reale”) degli
antenati. Le tombe dei padri che fanno del luogo in cui una persona vive non
solo la “dimora ancestrale”, ma anche la sua patria e quella dei suoi figli meritano
un grande onore ed un trattamento speciale. Alcuni boschi, fiumi, laghi e
monti, come pure alcuni animali e alberi, sono considerati “sacri”(e, quindi,
da non “manomettere” o “corrompere”), perché strettamente legati al culto e più
direttamente connessi con la vita umana. Anche al sole, alla luna e alle
stelle, che illuminano la terra e rendono possibile una vita ordinata, sono
attribuite caratteristiche proprie della divinità; una corretta relazione tra
il cosmo e la comunità è giudicata non solo auspicabile, ma anche
indispensabile.
L’africano possiede una dettagliata conoscenza del
proprio ambiente. I confini tra il mondo umano e l’habitat naturale sono
interscambiabili. Nel suo stile di vita (o spiritualità) è implicita la
coscienza che la mutualità e la reciprocità tra il mondo antropologico e il
cosmo fisico sono necessarie e desiderabili.
La moderna visione del cosmo, che l’Occidente cerca
d’imporre al resto del mondo attraverso la globalizzazione, ha già causato
gravi danni all’umanità. In un certo senso, è riuscita ad intaccare anche la
tradizionale spiritualità africana. Ma l’africano, nel profondo del suo animo,
sa che le cose più importanti della vita non possono essere spiegate con la
sola ragione, ma sono “percepite” attraverso l’intuizione, il cuore e il rito.
In
quanto cristiani africani odierni, dobbiamo imparare di nuovo a bere dai pozzi
della nostra spiritualità più vera. Dobbiamo reclamare il nostro spazio
spirituale nelle dimensioni “affettive” della vita,non meno importanti di
quelle razionali. Questo recupero si tradurrà per l’Africa in “redenzione”
dall’ormai dominante cultura occidentale, la cui inerente “ostilità” nei
confronti del mondo non ha più bisogno di dimostrazioni. E si rivelerà anche un
catalizzatore per il cambiamento dell’intera umanità: questa si sentirà
invitata a tornare a essere amministratrice della terra e responsabile della
sua sopravvivenza. L’esistenza di tutti sarà più felice e sana.
 
di Laurenti Magesa
Teologo Tanzaniano
Nigrizia/ marzo 2007
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Lunedì, 10 Marzo 2008 15:25

La shoah del nostro tempo

Prima di oggi, sono stato in Africa una sola
volta,nel 1991. Da allora ho sempre portato nel cuore questo continente,
consentendogli di ferirmi con il peso delle sue infinite tragedie: le guerre
fratricide,il genocidio ruandese, la triste sorte delle sue donne, dei suoi
bambini,gli effetti deleteri della moderna globalizzazione……Due giorni fa lo shock
della visita a Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi. Ho capito perché
dom Pedro Casaldaliga abbia definito l’Africa “la shoah del nostro tempo”, e l’economista Luis de Sebastian
abbia titolato il suo ultimo libro Africa, peccato dell’Europa

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Nella globalizzazione si dà per scontato che chi
convoca (“globalizza”) salvificamente è il Potere, soprattutto quello
economico. A questo, la Bibbia oppone un altro centro,molto diverso e
contrario: sono le vittime a convocare. Nel Vangelo di Giovanni è il crocifisso
che “attrae tutto e tutti”; il maligno, invece, “è mentitore e assassino”

Le vittime aprono i nostri occhi alla realtà. Su di
esse si scatenano la povertà, la crudeltà e la morte, svelando la disumanità
del mondo in cui viviamo. Da esse proviene una luce che denuncia e smaschera la
grande menzogna della globalizzazione. Accettare questa verità è il primo passo
da compiere.

Le vittime possono muovere alla conversione. Una
globalizzazione senza verità non umanizza e non può ”globalizzare”: può solo
escludere.

La menzogna e il camuffamento della verità negano la
realtà stessa delle cose. E così, “l’Africa non esiste”: è stata esclusa dalla
realtà,dalla contro-globalizzazione del silenzio.

Le vittime sono oggi i nuovi “maestri del sospetto”.
Non solo denunciano, ma fanno anche sorgere il dubbio sul male che può
nascondersi tra ciò che è davvero bene e ciò che è tale solo in apparenza.

Esse smascherano la globalizzazione: come ogni altra
ideologia, anch’essa ha i suoi vincitori e i suoi vinti.

Le vittime denunciano l’esistenza di idoli e
chiariscono quale sia la loro essenza. L’idolo del capitale è un moderno Molok,
che ha bisogno di continue “vittime sacrificali” per vivere. Idoli sono tutte
le realtà storiche che esigono vittime per la propria sussistenza

Le vittime re-inventano un linguaggio ampiamente
dimenticato. Tornano a parlare di impero. Dopo la caduta del muro di Berlino, gli Usa sono rimasti l’unica
superpotenza mondiale, ed essi si colgono come impero, cui sarebbe stata
assegnata, dall’alto, una missione: quella di “omologare” tutti e tutto a sé
stessi. Ma le vittime ci ricordano quanto già ebbe a dire sant’Agostino: imperum
est
magnum latrocinium.

Porre al centro del “globo” la sofferenza delle
vittime porta alla verità. Tuttavia, non ha nulla a che vedere con la
canonizzazione del sacrificio: è, invece, richiesta-invito a rispondere
umanamente dinanzi alle vittime, con misericordia e giustizia.

Al mondo di oggi serve una nuova mistica, una nuova
spiritualità: quella della compassione. Una compassione che porti tutti ad avvertire il bisogno di liberare  dalla sofferenza gli esseri umani, per
il solo fatto che esistono. Una compassione che non ha limiti. Per questo, la
compassione può esigere tutto, anche il dono della vita stessa. In tanti popoli
del cosiddetto Terzo mondo, esistono oggi molti testimoni di questa
“compassione totale”. Essi sono motivo di grande  speranza
e di profonda gratitudine.

A Kibera ho visto come “la solidarietà è la tenerezza
dei popoli” (Casaldàliga). Ho toccato con mano una “santità primordiale” : le
vittime sanno celebrare insieme la gioia di essere persone umane. Da esse ci
viene la salvezza e la redenzione. Solo le vittime possono trasformare “un
globo” in “una famiglia”. Solo esse sanno cambiare un “gigantesco supermercato”
in una vera casa

 

Di Jon Sobrino

Teologo di El Salvador

Nigrizia/Marzo 2007

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Lunedì, 10 Marzo 2008 14:58

ULTIMA CHIAMATA PER LA RICONCILIAZIONE

«La pubblicazione della Lettera è
arrivata giusto in tempo per salvare la Chiesa cinese». Parole pesanti, quelle
che mons. Luca Li Jingfeng, vescovo di Fengxiang (Shaanxi, nella Cina centrale)
ha affidato ad AsiaNews il primo luglio scorso. Parole di un presule anziano
(87 anni) e autorevolissimo, uno dei quattro vescovi invitati da Benedetto XVI
(invano, perché il governo cinese lo proibì) al Sinodo sull’Eucaristia
nell’ottobre 2005. Nel 2004 mons. Li venne riconosciuto dal governo come
vescovo, senza dover sottoscrivere l’adesione all’Associazione patriottica. La
sua diocesi non è una qualunque: fino al 2003 Fengxiang era forse l’unica, in
Cina continentale, dove esistesse soltanto la Chiesa «non ufficiale».
Ebbene, mons. Li parla della Lettera come
di un documento arrivato al momento giusto. Le indicazioni del Santo Padre -
aggiunge Li - «vanno verso una giusta direzione: quelli che seguono la
tradizione cattolica si sentono rassicurati, mentre quelli che non la seguono
molto hanno sentito la grande chiamata del successore di Pietro a tutto il
gregge di Dio». L’appello del Papa alla riconciliazione, sottolinea Li, è
quanto mai opportuno, ma le difficoltà non mancano: «La Chiesa “più
clandestina” forse farà fatica a fare marcia indietro sulla complessa questione
della comunione con il Papa».
Dalla Chiesa underground, perlomeno in
alcune zone, sono venute - accanto a un generale plauso e viva riconoscenza per
le parole di Benedetto XVI - anche velate critiche.
Un prete della Chiesa non ufficiale
(formato nei seminari clandestini cinesi, ma che ha proseguito gli studi
all’estero), in una testimonianza anonima diffusa dall’agenzia Uca News, scrive
che «la Lettera non dice una parola su vescovi e preti ancora in prigione» e
definisce questa - a suo dire - dimenticanza come «frustrante e scioccante».
Un positivo «effetto collaterale» della
Lettera è che essa ha incoraggiato quanti credono nella riconciliazione. Mons.
Giuseppe Wei Jingyi, vescovo clandestino di Qiqihar (diocesi nell’estremo Nord
del Paese) - ad esempio - ha fatto leggere in tutte le Messe un suo messaggio
nel quale spiega di volersi riconciliare con alcuni sacerdoti della diocesi,
che sin qui gli avevano negato obbedienza giudicandolo troppo morbido nei
confronti del regime comunista. Mons. Wei Jingyi ha poi invitato tutti a
partecipare ai sacramenti amministrati dai vescovi e dai sacerdoti ufficiali,
purché in comunione con Roma.
 A parlare di un testo provvidenziale, arrivato al momento
opportuno «prima che si creassero i presupposti per uno scisma», è anche il
cardinale Joseph Zen, vescovo di Hong Kong. Interpellato da Mondo e Missione,
il presule salesiano elogia l’equilibrio di Papa Benedetto XVI nell’affrontare
la delicatezza della situazione cinese, esprimendo gratitudine per la premura e
la sensibilità manifestate dal Papa e, soprattutto, plaude al tono complessivo
del documento che contempera la tensione alla verità con un atteggiamento improntato
alla carità. Zen, però, puntualizza: «Adesso non c’è tempo da perdere. Occorre
attivare la Commissione vaticana per la Cina in modo da attuare al meglio, nel
concreto, le indicazioni della Lettera». Fin qui, fa capire il cardinale,
originario di Shanghai, Roma ha dato l’impressione di muoversi in risposta alle
iniziative di Pechino, mentre il combattivo porporato auspica che la Santa Sede
assuma una policy chiara e lungimirante in grado di anticipare le mosse dei
politici cinesi.
 I vertici di Pechino non hanno emesso commenti ufficiali.
Interpellato dall’agenzia Sir, il 16 luglio scorso, il cardinale Tarcisio
Bertone, segretario di Stato vaticano, dichiarava: «Dalle istituzioni cinesi
non abbiamo ancora avuto dei segnali precisi e siamo in attesa. Siamo in un
momento di riflessione e ripensamento». Quel che si sa è che il 28 e 29 giugno,
alla vigilia della pubblicazione della Lettera papale, un certo numero di
vescovi ufficialmente riconosciuti dal regime erano stati radunati nei pressi
di Pechino dal Fronte unito, organismo-chiave nell’attuazione della politica
religiosa. Obiettivo: un «indottrinamento preventivo».
Alle parole del Papa non fanno certo
difetto chiarezza e lucidità. Tuttavia, data la materia incandescente e la
pluralità di visioni che pure albergano all’interno della stessa Chiesa
cattolica, non sono mancati distinguo, precisazioni e persino polemiche
sull’interpretazione della Lettera di Benedetto XVI.
 Emblematico, sotto questo profilo, il dibattito fra uno dei
più noti e apprezzati sinologi cattolici - padre Jeroom Heyndrickx, fondatore
del Verbiest Institute dell’Università Cattolica di Lovanio (Belgio) - e lo
stesso cardinale Zen.
In una nota apparsa su Uca News, padre
Heyndrickx  aveva affermato che la Lettera del Papa invita gli appartenenti
alla Chiesa clandestina a uscire allo scoperto, e li incoraggia a ottenere il
riconoscimento delle autorità civili e a condividere i sacramenti con i vescovi
e i preti della Chiesa ufficiale.  La replica di Zen è netta: l’appello
non c’è nella Lettera di Bene-detto XVI; i sacramenti possono essere condivisi
solo con i vescovi e i preti della Chiesa ufficiale in comunione col Papa, non
con quelli in rotta con Roma. Infine Zen sottolinea che la condizione dei
vescovi che hanno scelto la clandestinità continua ad avere una ragion
d’essere. Almeno fino a quando le autorità comuniste pretendono di controllare
e soggiogare la Chiesa; purtroppo, in molti casi (anzi, «quasi sempre», dice
Zen citando il testo della Lettera) la richiesta di riconoscimento ufficiale
comporta obblighi «contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici».
Padre Heyndrickx non ha tardato a
rispondere, a sua volta, alle parole del cardinale Zen, in qualche passaggio
forse troppo dure, ribadendo che la finalità principale della Lettera di
Benedetto XVI è di incoraggiare le due comunità cattoliche cinesi, l’ufficiale
e la clandestina, a pregare e a celebrare l’Eucaristia insieme.
 Non si tratta di sfumature di poco conto o di mere diatribe
tra studiosi, come qualcuno potrebbe pensare. Data l’importanza del documento
pontificio, è logico che la sua interpretazione - corretta o meno - dia luogo a
precise conseguenze. Giacché l’una o l’altra delle componenti ecclesiali si
appellerà fatalmente ad essa per giustificare scelte e azioni. Tutto questo
aiuta a capire un piccolo «giallo» verificatosi nei giorni successivi
all’uscita della Lettera.
Ancora una volta, tra i protagonisti
della vicenda c’è il cardinale Zen. Che a Mondo e Missione spiega: «Da tempo
avevo fatto presente a chi di dovere la delicatezza della
questione-traduzione». Ma la versione cinese della Lettera, a detta di Zen, era
stilisticamente poco fluida. E dimenticava un inciso importante. Alla fine del
capitolo 7 della Lettera, il Papa scrive che «nella procedura di riconoscimento
[da parte delle autorità politiche] intervengono organismi che obbligano le
persone coinvolte ad assumere atteggiamenti, a porre gesti e a prendere impegni
che sono contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici». Ciò avviene -
recita il testo originale - «in non pochi casi concreti», «se non quasi
sempre». Ebbene: la versione cinese omette di tradurre queste ultime
significative parole.
 Per favorire una maggior diffusione del documento e una
comprensione più efficace del testo, il cardinale e i suoi collaboratori hanno
effettuato una nuova versione integrale del documento e lo hanno fatto stampare
in Hong Kong in trentamila copie.
La speranza è che la diffusione della Lettera apra un sereno
dialogo interno alle due comunità, in vista di un cammino di riconciliazione e
unità.

di Gerolamo Fazzini
Mondo e Missione / Ottobre 2007
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FRONTIERE SENZA PACE KIVU, LA PROVINCIA INSTABILE

di Francesco Meneghetti
da Italia Caritas dicembre 2007/gennaio 2008

Le guerre nella Repubblica democratica del Congo hanno causato, nell'ultimo decennio, 4 milioni di morti. Ma la lunga transizione e le elezioni della seconda metà 2006 hanno diffuso la pace in quasi tutto il paese. Anche il golpe tentato a marzo dall' ex capo ribelle Jean-Pierre Bemba è un ricordo lontano. Democrazia e sviluppo del paese guidato dal presidente Joseph Kabila sono sostenuti a livello internazionale dai governi dei paesi avanzati (accordi per investimenti economici e commerciali) e dall'Onu (la missione cui Monuc contribuisce alla transazione verso l'unità nazionale, monitorando la restituzione delle armi da parte della popolazione e dei gruppi ribelli, l'inserimento sociale degli ex bambini e adulti soldato, l'integrazione dei miliziani nell'esercito regolare).

L'unica delle undici province congolesi in cui si vivono ancora forti tensioni è il Nord-Kivu, anticamente indipendente, ricchissima di risorse minerarie e molto fertile, con una composizione etnica e un'organizzazione socio-economica molto simile a quella del piccolo e limitrofo Ruanda, col quale le relazioni politiche e commerciali sono forti. Nel Nord - Kivu da qualche mese si assiste nuovamente a combattimenti pesanti tra i circa 5 mila miliziani fedeli al generale dissidente e filo ruandese Laurent Nkunda e l'esercito regolare (Fardc), che ha dispiegato circa 30 mila militari con il sostegno logistico dell'Onu. Indipendentemente dalle ragioni politiche, la presenza di militari nei villaggi provoca insicurezza tra la popolazione: abbandono dei campi, estorsioni di alimentari e animali, violenze sessuali su ragazze e arruolamento forzato di ragazzini. Circa quest'ultimo tema - prioritario per l'azione di Caritas Italiana in Africa - il rappresentante speciale per i conflitti armati dell'Onu, signora Radhika Coomaraswamy, riferisce che sono già centinaia i bambini arruolati e presto potrebbero diventare migliaia. Intanto i campi profughi di Mugugna, Rutshuru e Kiwanga e quelli in Uganda contano decine di migliaia di nuovi sfollati interni, assistiti anche da Caritas.

Omicidi di carattere etnico

Il quadro del conflitto è complesso e mutevole. Difficile fare previsioni, a causa delle controverse alleanze internazionali e locali. Per esempio si registra nuovamente l'attivismo militare di gruppi armati stranieri (tra essi il Fdlr, Forze democratiche di liberazione del Ruanda), mentre il 27 ottobre si è arreso ai caschi blu Onu Kibamba Kasereka, capo delle forze patriottiche Mayi Mayi (partigiani filo-Kinshasa, tornati protagonisti dei combattimenti contro le milizie di Nkunda). I segnali positivi e negativi si alternano: oggi fonti ufficiali segnalano la deposizione delle armi e il processo di integrazione di centinaia di ribelli di Nkunda, domani l'arruolamento di altrettanti uomini e bambini.

Intanto i fatti di cronaca locale a Goma, capoluogo del Kivu, fanno registrare un' escalation di omicidi di carattere etnico ai danni di persone con ruoli sociali ed economici di rilievo (compreso, sembra, il tentato omicidio ai danni del vescovo, monsignor Faustin Ngabu, a fine ottobre) e il diffuso brigantaggio notturno, che impone ogni sera il coprifuoco alle 18. Si teme inoltre che l'ingente ingresso di armi pesanti, via terra e via aerea, contribuisca a inasprire il conflitto. Non va dimenticato che il Nord-Kivu rappresenta una zona cuscinetto di fondamentale importanza per il vicino e popolatissimo Ruanda, che guarda al Kivu per le sue risorse minerarie e alimentari, oltre che come sbocco residenziale per la sua popolazione. La pace, in Congo, rimane una missione impossibile?

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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