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Lunedì, 23 Giugno 2008 23:12

COMUNICO, QUINDI MOBILITO

COMUNICO, QUINDI MOBILITO

Claudia Padovani

Docente di Comunicazione Internazionale
Università di Padova

Nigrizia – Marzo 2008

«Con la ricchezza della nostra pluralità e diversità (….), consapevoli della necessità di rafforzare la solidarietà e la convergenza fra le lotte e le campagne (...), ci impegniamo in una settimana di azione che culminerà, il 26gennaio 2008, in una Giornata globale di mobilitazione». Questo appello di decine di reti internazionali al Forum sociale mondiale (FSM di Nairobi 1 gennaio 2007). Su Nigrizia (marzo 2007) avevamo anticipato le sfide che l’edizione di quest’anno avrebbe dovuto affrontare: sviluppare una visione in cui informazione e comunicazione fossero percepite come spazi di azione partecipativa; adottare un piano di comunicazione capace di dare visibilità globale alla creatività locale. Ed eccola qui, l’edizione del Fsm 2008: decentralizzata, diffusa, quasi sfuggente e, al tempo stessa, connessa, concreta e transnazionale. Grazie (anche) alla comunicazione. Per la prima volta dal 2001, si è scelto d’investire in maniera esplicita nelle attività di comunicazione e di farla, sperimentando un diverso approccio e sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie.

Da un lato, si è cercato il dialago con i media tradizionali: qui si è riproposta la difficoltà, da parte dei grandi network, di raccontare ciò che non è un evento, ma un processo. Notevoli le difficoltà in Italia; significativo, invece, la spazio che i media hanno dedicata al Forum in Messico, Brasile e Venezuela. Bene anche che video prodotti dal Forum e trasmessi da Eurovisione siano stati raccolti dalle reti pubbliche di Danimarca, Spagna, Croazia, Norvegia, Turchia...

Dall’altra lato, si è organizzata un’ampia copertura mediatica alternativa, basata sull’idea che la comunicazione possa essere anche spazio d’azione. E così, grazie al contributo di circa 115mila euro, fornito da Oxfam-Novib (Olanda), e all’impegno di decine di professionisti dell’informazione indipendente (numerosi italiani: fra loro, Jasan Nardi, Francesca Diasia, Monica Di Sisto, Antonio Pacor), si sono costituite diverse “squadre”, ciascuna con il compito di produrre materiali per stampa, radio, televisione e web.

Date un occhio al sito ufficiale www.wfs2008.net, per capire come stia prendendo forma uno concezione nuova di fare comunicazione. Ciascun evento è caratterizzato da parole chiave, che riflettono le molteplici direttrici del movimento; ed è seguendo questi filoni tematici (Itag) che si possono scoprire eventi dedicati ai diritti umani, ai migranti, alla cultura, all’economia solidale, alle questioni ambientali. Per avere un’idea complessiva, http://www.wsf2008.net/ view/colendar/2008/01.

Ma per “entrare nel vivo” del Forum, vanno esplorati i video che raccontano gli eventi di Ramallah, Barcellona, Città del Messico e Korea (www.wsftv.net) o le parole dei protagonisti attraversa i file audio e la staffetta radiofonica realizzata da Amisnet e diverse radio indipendenti, grazie alla quale le voci del Forum hanno rimbalzato attorno al pianeta, per essere ritrasmesse in molti luoghi e in molte lingue, via etere, Internet e satellite (http://www.wsf 2008. net/it/node/3492). Altri documenti interessanti sui siti della Ciranda www.ciranda.net), di Terraviva (http://ipsterraviva.net/tv/wsf2008) e di Amarc (www.arnarc.org).

Come dare una valutazione del Forum dal punto di vista della comunicazione? Certo, non solo rimanendo dentro la logica dei media mainstream, che concentrano la loro attenzione su grandi assembramenti di persone, personaggi e azioni eclatanti. Forse dobbiamo iniziare a modificare i nostri criteri di giudizio, riconoscendo che, dove ci sono volontà politica e capacità di lavorare insieme, l’Informazione si può trasformare in Comunicazione. Ad esempio, grazie a quelle tecnologie che hanno consentito la connessione diretta, a basso costo e in tempo reale, fra alcune delle città in cui si sono svolte le 22 conferenze stampa di presentazione del Forum, il 22 gennaio, quando il messaggio comune sì è fuso con i linguaggi e i simboli locali, da Roma ad Atlanta, da Barcellona a Città del Messico, da Mumbay od Erbil, in lraq. Ma anche riconoscendo che, in questa trasformazione, la comunicazione diventa parte integrante dello mobilitazione: le persone coinvolte nella copertura mediatico hanno usato le tecnologie d’informazione per organizzarsi su scala mondiale (mailing list e conferenze telematiche su Skype); hanno contribuito a comporre il mosaico di voci, immagini e messaggi del Forum, rendendo accessibili non sala file, ma sentimenti e significati; si sono mobilitate per rendere accessibile anche a noi, globalmente, la creatività locale.

Mentre ora si procede a una raccolta preziosa di materiali, che rimarranno accessibili, liberamente, in un archivio permanente della memoria, si raccolgono anche commenti e suggerimenti attraversa il blog (www.wsf2008.net/blog). Informazione e comunicazione si trasformano da strumento a spazio di azione, da forma del messaggio a sostanza del movimento. Un movimento che non si spegne quando si abbassano i riflettori, ma prosegue la propria costruzione attraverso l’altra comunicazione possibile.
Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

PESA IL VOTO NERO?
Primarie negli USA. Le scelte della comunità afro-americana

di Mariella Moresco
Nigrizia marzo 2008

Nonostante il “Supermartedì” elettorale del 5 febbraio, è una sfida ancora irrisolta quella in casa democratica tra Hillary Clinton e Barack Obama, la “prima donna” e il “primo nero” che potrebbero diventare presidente degli Stati Uniti. Altri candidati di colore, in passato, hanno partecipato alle primarie presidenziali: Dick Gregory nel 1968 Shirley Mita St. Hill Crisholm nel 1972 (prima donna eletta al Congresso), Jesse Jackson (erede di Martin Luther King e delle sue battaglie per i diritti civili) nel 1984 e nel 1988, e Al Sharpton nel 2004. Nessuno, tuttavia, ebbe mai qualche chance di farcela. Al contrario di Obama.

Le primarie presidenziali per la corsa alla Casa Bianca hanno avuto un’enorme copertura mediatica. Anziché tra i due maggiori partiti, il repubblicano e il democratico, la contesa più seguita è stata tra i due candidati democratici. I quali sono immediatamente divenuti candidati-simbolo, grazie a una identificazione razziale e di genere, che ha ben presto ottenuto l’effetto di rompere l’unità della base democratica, a volte in modo lacerante, come nel caso delle elettrici afro-arnericane.

The Joint Center for Political and Economic Studies, a sei settimane dal via delle primarie, pubblicò un sondaggio in cui Hillary Clinton raccoglieva oltre l’80% dei favori degli afro-americani, anche per l’effetto traino del marito, l’ex presidente Bill Clinton, molto popolare tra questo gruppo di elettori. Elettori che non riconoscevano, invece, in Barack Obama un african american, una persona, cioè, che, seppure indirettamente, aveva vissuto la realtà della segregazione e la grande stagione delle lotte per i diritti civili. Per di più, il consenso che aveva riscosso presso molti elettori bianchi aveva aumentato, inizialmente, la diffidenza dei neri verso Obama, che vedevano in lui «un nero dai modi di un bianco», ben educato e istruito nelle migliori scuole del paese. Comunque, la ripetuta enfasi su un candidato multirazziale (il senatore dell’Illinois è africano da parte di padre, bianco con sangue indiano da parte di madre) dimostra come non sia affatto vero che gli Stati Uniti sono una società che ha superato i traumi del razzismo. Il fatto che ai più alti livelli dell’amministrazione statale sono state cooptate persone come Colin Powell o Condoleeza Rice non significa che la popolazione di colore abbia un’effettiva uguaglianza di opportunità. Occorrerà ancora molto tempo prima che gli effetti del razzismo e della segregazione possano venire superati, dato che le condizioni economiche determinate da quella stessa situazione riproducono mentalità e atteggiamenti che tendono a perpetuarle e a mantenere, di fatto, un divario quasi incolmabile, non solo tra bianchi e neri, ma anche tra afro-americani e nuovi immigrati latini, caraibici e africani.

È noto come negli Usa le minoranze ammontino a circa 100 milioni di persone: 43 di ispanici, 40 di neri e 14,5 di asiatici. Ma il fatto nuovo è che il 22% dell’intera popolazione ha un parente stretto coniugato con una persona di etnia diversa. E nei prossimi decenni il 37% sarà di sangue misto.

Spesso si ricorre alla definizione “elettorato nero” per designare un gruppo di elettori che si presume condivida valori, aspettative, condizioni di vita e che, di conseguenza, esprima anche un voto tendenzialmente univoco. Anche se vero in linea di massima, l’assunzione acritica di questo giudizio fa perdere di vista una realtà più frammentata e complessa, fatta di retaggi del passato e di nuove spinte verso l’affermazione economico-sociale della borghesia e della recente immigrazione nera. Così, è fuorviante considerare la popolazione di colore come un corpo compatto, in grado di incidere in modo automatico sul risultato elettorale con la propria rilevanza numerica. Il voto nero è caratterizzato anche da un forte astensionismo e dalla preponderanza del voto femminile, causata dall’alta percentuale di giovani maschi incarcerati, cui viene precluso l’accesso al voto.

MIDDLE CLASS E IMMIGRATI

È negli anni ‘80 che nella vita economica e sociale statunitense emerge una nuova figura; la borghesia nera, costituita da professionisti, intellettuali e artisti, che compete con la classe media bianca nella conquista di vantaggi economici, e che non ha alcuna voglia di confondersi con chi vive nel degrado dei ghetti delle grandi città, divenuti centri di violente proteste, o negli stati rurali del Sud, dove è rimasto complicato affermare i propri diritti civili. Ancora oggi, in questi stati parte della popolazione bianca, gli angry white men (i “bianchi arrabbiati”, come vengono definiti), afferma: «We’re not racists; we just believe in segregation (“non siamo razzisti; solo che crediamo nella segregazione”).

Un recente sondaggio del Pew Research Center, svolto tra settembre-ottobre 2007, ha rilevato un crescente divario di reddito, e del conseguente stile di vita, tra la middle class nera e gli afro-americani più poveri. Un divario che rende impossibile considerarli un gruppo sociale omogeneo. Oltre il 65% degli intervistati ha dichiarato che negli ultimi dieci anni si sono accentuate le differenze nel modo di pensare tra neri poveri e borghesia nera, mentre si sono assottigliate quelle tra neri e bianchi, entrambi accomunati dalla propensione verso le politiche conservatrici, ritenute più adatte alla difesa dei privilegi raggiunti.

Non tutti i neri che vivono negli Usa sono identificati come afro-american o black american, definizione utilizzata dai movimenti per i diritti civili degli anni ‘60, o ancora come african american, cioè africani che vivono in America, nella definizione preferita da Malcon X, l’attivista dei diritti dei neri assassinato a New York nel febbraio 1965. Nell’accezione statunitense, african american sono i neri anglofoni, residenti negli Usa e discendenti dagli schiavi tratti dall’Africa nelle colonie britanniche per venire impiegati, dopo la guerra di indipendenza, soprattutto nelle piantagioni del Sud, dove rimasero privi del diritto di voto e in uno stato di assoluta inferiorità sociale fino a tempi assai recenti. Non rientrano, quindi, in questa definizione i neri di altri paesi (ad esempio, brasiliani, caraibici, africani), né gli africani bianchi residenti negli Usa.

Negli ultimi anni, è aumentato il numero di persone di colore provenienti dall’Africa, dai Caraibi o da altri paesi dell’America Latina e, per distinguerli, è entrato nell’uso il termine new black o new black people, dei quali è ancora poco studiata la rilevanza politica.

Gli immigrati di colore, che hanno contribuito a una crescita del 25% del numero globale di neri americani tra il 1990 ed il 2000, sentono come un ostacolo la comunanza del colore della pelle con un gruppo posto ai più bassi livelli sociali. Preferiscono identificarsi come gruppi distinti, investendo più nella loro specificità nazionale che in quella di razza.

Si sono formate, di conseguenza, molte comunità nere separate da lingua, cultura e origine. Un fatto, questo, che ha un peso notevole specialmente nelle grandi aree metropolitane, dove i gruppi dei new black possono costituire anche il 20% dell’intera popolazione nera, arrivando a occupare cariche amministrative importanti. Un caso è quello di Boston, una delle 10 aree metropolitane con il maggior numero di cittadini neri, dove nel 1999 è stato eletto il primo haitiano nell’organo legislativo del Massachusetts. E se nel 1972 gli amministratori neri negli Usa erano solo 1.469 su un totale di 500mila circa, nel 2000 il numero è salito a 9.040, una cifra ancora pari solo al 2% del totale, ma 6 volte superiore a prima.

Il censimento del 2000 ha evidenziato, poi, che il 60% dei nuovi black people proviene da Haiti e Giamaica e vive sulla costa orientale, concentrandosi nelle aree metropolitane di New York, Miami e Fort Lauderdale. Invece chi proviene dai paesi dell’Africa subsahariana è più disperso, preferendo risiedere nelle città di Washington, New York, Atlanta, Minneapolis e Los Angeles. Anche se soffrono della discriminazione comune a tutti i neri ed esprimono naturali differenze di classe sociale, in genere i caraibici sono più istruiti e vivono meglio degli african american: di questi non condividono il substrato culturale della schiavitù, pur provenendo da paesi la cui storia ne è stata segnata, e come gli altri immigrati vivono gli Stati Uniti come il paese delle opportunità, nonostante una quotidianità che li accomuna ai neri nativi e tende a relegarli ai livelli più bassi della scala sociale. I giamaicani hanno vissuto, quindi, con grande orgoglio la nomina di Colin Powell a segretario di stato americano. La loro “diversa negritudine” è percepita dall’opinione pubblica nord-americana come una caratteristica più positiva rispetto a quella dei nativi: un successo che ha rafforzato nei caraibici la resistenza all’assimilazione con gli afro-americani. Una separazione aumentata anche dall’atteggiamento della popolazione bianca, che guarda ai caraibici come a un gruppo modello, meglio educato, non segnato dalle tensioni razziali e con l’ottimismo degli immigrati recenti, contrapposto agli african american, considerati fomentatori di problemi. Si favoriscono, in tal modo, tensioni e competitività tra gruppi già divisi da rilevanti differenze culturali, che giocano a sfavore dei nativi in termini di possibilità di lavoro e di istruzione.

Forse si può azzardare l’opinione che negli Stati Uniti, sia pure in maniera inconsapevole, è in atto una vera e propria ridefinizione dell’idea stessa di “nero”. Minacciati anche dalla crescita demografica dei new black e dai loro successi nell’occupare posizioni di grande rilevanza e visibilità sociale con un ritorno di prestigio sull’intero gruppo di origine, i leader degli african american diffidano di chi non ha fatto esperienza delle conseguenze, anche culturali, del razzismo e dell’emarginazione. È il caso di Obama, di cui è stata messa in dubbio la lealtà verso la causa dei neri, in quanto uomo che è venuto «dal di fuori della nostra storia».

VOTO E CONTROLLO SOCIALE

A partire dalla fine degli anni ‘60 - da quando si concluse, da un punto di vista legislativo, il lungo cammino dell’abolizione della segregazione, ma con l’avvio di politiche sociali sempre più discriminanti la popolazione più povera - il voto bianco, specie negli stati più conservatori del Sud, si è progressivamente spostato verso il partito repubblicano. È da quegli anni che gli Stati Uniti diventano il paese con il più alto tasso di incarcerazione (quadruplicato a partire dagli anni ‘70): situazione che colpisce in modo spropositato i ceti più poveri e le minoranze etniche, spesso per crimini non violenti, come quelli inerenti lo spaccio di droga. Alcuni studiosi hanno indicato nell’ampliamento eccessivo delle misure di incarcerazione una forma, per quanto degenerata, di controllo delle minoranze, attuato anche attraverso la lotta alla droga e la riduzione dell’assistenza sociale.

È importante ricordare che in molti stati vige il disenfranchisement, ossia la perdita del diritto di voto, per gli ex carcerati, anche se condannati a pene lievi. Ciò comporta la drastica riduzione del voto maschile nero rispetto a quello femminile, diviso, in queste ultime primarie, fra una identificazione razziale e una di genere, che ha impedito l’automatismo del voto nero indirizzato al candidato nero. Secondo un rapporto del Dipartimento di giustizia degli Usa, nel 2003 era incarcerato il 12% dei giovani afro-americani maschi tra i 20 e i 34 anni, contro il 3,6% degli ispanici e l’1,6% dei bianchi non ispanici della stessa fascia di età, raggiungendo la cifra più alta mai registrata fino ad allora. Più recenti ricerche delle università di Columbia, Princeton e Harvard hanno rilevato che fra i giovani afro-americani meno scolarizzati la disoccupazione è in continuo, allarmante aumento, favorendone l’emarginazione e le probabilità di commettere reati. Nonostante il diminuito numero di crimini, la popolazione carceraria nera è in costante crescita, tanto che nel 2004 il 72% dei ventenni afro-americani maschi che non aveva terminato gli studi era disoccupato (contro il 34% dei bianchi e il 19% degli ispanici) e il 20% era in carcere; nello stesso periodo, il 60% dei trentenni neri aveva già avuto un’esperienza carceraria.

Nonostante le sfavorevoli condizioni sociali che incrementano l’astensionismo (come la bassa scolarizzazione) o che addirittura impediscono il diritto di voto (come l’alta percentuale di maschi neri con trascorsi carcerari), l’appoggio, degli afro-americani è fondamentale per assicurare la vittoria del candidato democratico. Un sondaggio del Wall Street Journal, effettuato dopo le elezioni di metà mandato del 2006 per il rinnovo delle Camere, ha evidenziato come il voto bianco si fosse distribuito in modo paritario tra repubblicani (49%) e democratici (48%), rendendo quindi decisivo il voto delle minoranze, in gran parte riservato ai democratici, che nel novembre di quell’anno vinsero in entrambi i rami del parlamento, sostenuti dall’87% dei votanti neri, dal 72% degli ispanici e dal 61% degli asiatici.

È forse il timore di questa forza elettorale, comunque sottorappresentata a livello nazionale nella storia degli Stati Uniti (Obama è solo il quinto senatore nero), a indurre alcuni politici a tentare di limitare la partecipazione al voto dei neri: dalla manipolazione delle liste elettorali fino alla proposta (bloccata poi dalla magistratura e avanzata nel 2005 dal partito repubblicano della Georgia) di reintrodurre

la PoIl Tax, una tassa di venti dollari per l’iscrizione nelle liste elettorali, con la speranza di allontanare dal voto i più poveri, in grande maggioranza neri.

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Lunedì, 23 Giugno 2008 23:08

Kenia - TERRA E MISERIA

Kenia - TERRA E MISERIA

di Nicholas Muthoka
MC – Marzo 2008

Quella che stiamo vedendo in Kenya non è una violenza qualsiasi. La causa apparente sono i brogli elettorali, ma questo accade in tanti paesi dopo le elezioni, e non scatenano tali reazioni. I veri problemi non sono politici. Altrimenti le manifestazioni e gli attacchi sarebbero state contro il governo e non gente contro gente, etnia contro etnia.

La ragione non riesce a spiegare come si possa uccidere un contadino, tuo vicino da anni, semplicemente perché il candidato che appartiene alla sua etnia è accusato di avere imbrogliato. Lo stretto collegamento che è stato fatto tra il presidente Kibaki e la tribù kikuyu a cui appartiene, ha fatto si che questo gruppo sia stato preso di mira. E non è la prima volta che in diverse parti del paese si accende una campagna contro di loro.

I problemi veri, rimasti irrisolti fin dall’indipendenza sono: il tribalismo e la questione kikuyu e i legami politici, la terra, la criminalità organizzata legata ad etnie diverse e la povertà. Questi problemi sono interconnessi, vanno esaminati l’uno in relazione con l’altro.

LA QUESTIONE KIKUYU

In Kenya, ci sono più di 50 tribù (etnie) che parlano lingue diverse, le quali si possono suddividere in due ceppi: bantu e nilotico. Le usanze e tradizioni non differiscono molto anche se ogni tribù è ben distinta dalle altre. Questo da una parte arricchisce culturalmente, socialmente ed economicamente il paese, ma la cattiva gestione di queste diversità ha generato, fin dai tempi precoloniali, tensioni e conflitti. Esistono dei pregiudizi tra le tribù, specialmente tra la gente di campagna non abituata a convivere con gli altri. Non si può parlare di odio, ma ci sono altri problemi come, per esempio, la terra. Il tribalismo è dunque una questione che rimane, anche se si parla molto di come superarlo, nella pratica non ci sono stati degli impegni reali.

Tra i pregiudizi che si hanno, ce n’è uno che è molto serio sui kikuyu, il gruppo più numeroso. Fin dall’indipendenza si dice che sono stati favoriti dal primo presidente e che si sono procurati proprietà, posti di lavoro, possibilità di commercio e terra in quasi tutte le parti del paese. Questo pregiudizio si è incarnato in conflitti soprattutto dove sono in gioco terra e commercio. In particolare dove la convivenza è con altre tribù che credono di possedere la terra per motivi ancestrali. Questo non avviene solo per i kikuyu ma anche per altri gruppi, in particolare in zone di confine, Ad esempio il conflitto costante tra samburu e turkana nel Nord del paese, tra pokot e marakwet nella parte occidentale ed altri ancora.

I kikuyu si trovano in molte zone del paese, fuori dalla provincia centrale che è la loro terra di origine. La costituzione concede a tutti la possibilità di potersi stabilire da qualsiasi parte del paese e possedere delle proprietà. Ma questa libertà non è stata ben riconciliata con altri concetti, per esempio, quello di terra ancestrale che è molto forte. Nelle violenze, si mirava soprattutto a loro, e membri di altre etnie (luo, kalenjin, luhyia e samburu) hanno assalito i loro vicini kikuyu che si trovano in zone dove queste tribù formano la maggioranza. E’ anche vero che i politici hanno strumentalizzato questi pregiudizi per i loro interessi, incitando la gente a far violenza, soprattutto dove le convivenze sono difficili.

LA POLITICA

Un altro problema legato al tribalismo è che i partiti politici, pur essendo nazionali, sono organizzati in linee tribali. Se voglio prendere i voti di un’etnia, devo avere nel mio partito un politico autorevole e forte politicamente di quel gruppo. Così, dipendendo da chi «rappresenta» una tribù in un partito politico, i gruppi etnici sono identificati con quel partito. In queste elezioni per esempio, i kikuyu, indipendentemente da chi hanno votato, erano in genere identificati con il partito del presidente (Pnu), e i luo con quello di Raila Odinga (0dm). I kalenjin, che per anni sono stati associati al partito dell’ex presidente Moi (Kanu), questa volta erano abbinati al partito di Raila, e hanno bruciato le case dei kikuyu nella Rift ValIey, che ai loro occhi appartengono al partito di Kibaki. La tribù, identificata con il partito avversario è vista come nemico.

LA TERRA

I vescovi del Kenya, in una lettera sulle violenze, hanno individuato la terra come uno dei problemi che ha giocato un ruolo importante. La maggioranza dei keniani pratica l’agricoltura e la pastorizia, perciò la terra è molto preziosa: da essa dipende la loro sopravvivenza. Inoltre, la terra è ancestrale, cioè è legata all’eredità dagli antenati, Il Kenya è diviso in otto province a loro volta suddivise in distretti. In genere questi sono legati alle etnie, e dove vivono popolazioni di diverse etnie, la convivenza è spesso difficile. Questo perché intere tribù si trovano nello stesso luogo e credono che quella sia la loro terra, ricevuta dagli antenati molti secoli fa. La presenza di altre etnie non è gradita perché è vista come una intrusione, un tentativo di rubare la terra. Sono frequenti anche i conflitti nelle zone di confine tra tribù.

Così molti dei kikuyu che si trovavano in terre «straniere» hanno subito omicidi e le loro case sono state bruciate, in Eldoret, Burnt Forest, in diverse parti della provincia occidentale, nel nord, ecc. Il problema sta nel fatto che la questione della terra non è mai stata affrontata e risolta, pur producendo da molto tempo tensioni tribali. Questo non solo per i kikuyu ma anche tra altre tribù e all’interno delle tribù stesse. Un conto è avere un sistema titoli di proprietà e un altro conciliarlo con il concetto di terra ancestrale, che corre nelle vene dei keniani.

LA POVERTÀ

Nelle città, le violenze più brutte si sono verificate nelle baraccopoli e in altri quartieri poveri, tra la gente disoccupata e spesso non istruita. La chiave qua è la vulnerabilità a essere incitato dai politici e potenti. Papa Paolo VI diceva: «L’altro nome della pace è sviluppo». Se la gente avesse lavoro e una vita dignitosa, non si sarebbe prestata alle incitazioni alla violenza e una soluzione pacifica sarebbe stata trovata presto. C’è poi la criminalità organizzata, come i mungiki e altri gruppi.l mungiki sono associati con i kikuyu. E’ un movimento politico - religioso, che s’ispira alla religione tradizionale e al movimento per la liberazione del Kenya dai colonialisti, chiamato Mau Mau. E’ un gruppo molto conosciuto per le sue attività criminali e per l’efferata violenza.

SOLUZIONI RADICALI

Una soluzione politica è indispensabile adesso per fermare il conflitto, ma non sarà sufficiente, perché i problemi rimangono. La gente è ferita. Né una soluzione solo politica né il tempo guariranno ferite interne e profonde. Ci vogliono iniziative concrete da parte di tutte le istituzioni capaci di affrontare i veri problemi del paese. Il governo deve saper trovare modi di «creare» un paese e non frammenti etnici messi insieme, rispettando le diversità che arricchiscono la società. Senza un impegno per un equo e costante sviluppo nel paese, non si potrà mai avere la vera pace. Questa non si può mantenere con la forza delle armi. Occorrono la riconciliazione e il perdono, affrontando soprattutto il problema della terra.

Le comunità cristiane devono prendere delle iniziative, possono giocare un grande ruolo nel superamento del tribalismo con progetti concreti, con la predicazione dell’amore, la fraternità e unità nella diversità.

Anche il sistema educativo deve essere coinvolto nella promozione dell’unità nel paese con programmi specifici mirati ad affrontare le diversità e a far crescere nei giovani i valori più alti e interessi più globali di quelli della propria etnia. Questo perché le sfide sociali come quelle che sono emerse in questi giorni chiedono tempo ed energie per essere affrontate.

Il fuoco è stato acceso dalla politica, ma è stato alimentato da questi aspetti molto concreti. Sono essi che hanno causato le violenze, nelle grandi città come nei paesi. Le violenze si sono verificate solo dove convivono tante etnie. Sono questi i veri problemi che dovranno essere affrontati seriamente nei prossimi anni con il coinvolgimento di tutti.
Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Lunedì, 23 Giugno 2008 23:06

PROTOCOLLI, CONVENZIONI, DECRETI…..

PROTOCOLLI, CONVENZIONI, DECRETI…..

MC Marzo 2008

Sano almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est. Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.

Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra... E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, o che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente

la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.

Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale (http://www.hriawgroup.org/initiatives/rrafflckingpersons/). Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.

L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».

Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato

la GlobaI Iniziative to Fight Human Trafficking (iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift — www.ungift.org), che coordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.

Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.

Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.

Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore

la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «

la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».

Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 - strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati - e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede - sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio - il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.

Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di risocializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e coordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.

Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».

L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno - di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) - ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge –, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African markef’, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo...».

Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!... Ora Io sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).

PER SAPERNE DI PIÙ:

lsoke Aikpitanyi, L. Maragnani, Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia, Melampo, 2007 (www.isoke.org)

Wendy Uba, P. Monzini, Il mia nome non è Wendy, Laterza, 2007

R. Giarretta, Mai più schiave. Casa Ruth, il coraggio di una comunità, Marlin edizioni, 2007

R. Poulin, Prostituzione. Glabalizzazione incarnata, Jaka Book, 2006

Forum permanente sulla prostituzione (a cura di), Prostituzione: oltre i luoghi comuni, Gruppo Abele, 2008

A. Deaglio, Nera- Not the promised land. Documentario: storia di una ragazza nigeriana arrivata in Italia, costretta a vendersi in strada e a pagare i suoi sfruttatori. (www.colombre.it - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - 011.19703402)

Esohe Aghatise, Viaggio di non ritorno. Documentario: denuncia delle condizioni di violenza e schiavitù a cui le donne nigeriane vittime della tratta sono esposte in Italia.

Kit formativo su traffico di esseri umani, a cura del gruppo giustizia e pace di Uisc-Usg (disponibile in 7 lingue; info: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).

MAI PIÙ SCHIAVE: mostra fotografica itinerante.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Domenica, 22 Giugno 2008 21:17

LA NECESSITÀ DI UNA CONVERSIONE

Nell’ottobre del 2003, la nostra Commissione Affari sociali ha reso pubblica una lettera su "L’imperativo ecologico cristiano", intitolata: "Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, signore, amante della vita" (Sap 11, 26). In seguito, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2008 l’Anno del pianeta terra. Noi cogliamo questa occasione per prolungare la nostra riflessione con la popolazione cattolica del nostro Paese.

Il rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sull’evoluzione del clima (GIEC) ci fa prendere coscienza dell’ampiezza della sfida abbiamo di fronte. Sviluppi scientifici e tecnici potranno essere di aiuto. Ma non arriveremo a vincere tale sfida senza una conversione personale e collettiva. È in questo spirito che proponiamo la nostra riflessione.

La visione biblica della creazione e dell’essere umano

Per apprezzare l’ampiezza di questa conversione, ricordiamo il progetto di Dio sulla natura e sull’essere umano. Il Dio creatore porta la sua creazione dal caos al cosmo, cioè da un universo segnato dal disordine ad uno in cui regnano l’ordine e la bellezza. Dio stesso ne è fiero, e dice: "Ciò è buono". (Gn 1, 4 ss) È lo stesso sentimento che ci anima di fronte alle foto del nostro pianeta scattate dagli astronauti. Esso ci si presenta come una piccola palla azzurrina circondata da un fragile strato di aria e nuvole... Si direbbe una pietra preziosa.
Su questo minuscolo pianeta, un essere è creato a immagine e somiglianza di Dio: capace, come Lui, di conoscere, di amare, di agire in maniera libera e responsabile. "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gn 2,15). Coltivare è favorire la crescita; custodire è assicurare la continuità delle risorse. L’idea di "sviluppo durevole" è dunque prescritta in tutte le prime pagine della Genesi. La terra è affidata all’essere umano come un giardino di cui egli non è proprietario ma custode. Egli è chiamato ad essere un buon giardiniere di specie vegetali e un buon pastore di specie animali. Deve rendere conto non solo della gestione del giardino che gli è affidato, ma anche dell’immagine di Dio che egli riflette in questa gestione.
Il termine "ambiente" (il francese environnement significa letteralmente luogo circostante, ndt) suggerisce l’idea di un centro, che è l’essere umano. Quest’ultimo è legato agli equilibri fisici e biologici non meno che alla complessa rete di relazioni che lo caratterizzano. Intervenire sull’una o l’altra relazione modifica l’equilibrio di molte altre. Mons. Renato Martino dice: "C’è un accordo tra la teologia, la filosofia e la scienza, il cui effetto è l’armonia del nostro universo, un vero cosmo, dotato di una integrità propria e di un equilibrio interno dinamico. Questo ordine deve essere rispettato".

Rottura dell’armonia con la natura

Lo sviluppo della scienza e della tecnologia, che ci ha portato incontestabili benefici, ha avuto effetti devastanti sulla natura: inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra, aumento dell’effetto serra, distruzione dello strato di ozono, deterioramento dei grandi ecosistemi, estinzione di diverse specie viventi, riduzione della biodiversità, ecc. Il GIEC, insignito nel 2007 del Premio Nobel per la pace, afferma che tutti i Paesi saranno colpiti dall’aggravarsi dell’effetto serra. Questi esperti prevedono la crescita di siccità e inondazioni. Lo scioglimento accelerato dei ghiacci ai poli innalzerà in maniera significativa il livello degli oceani, con effetti devastanti soprattutto nell’emisfero sud, dove si trovano i Paesi più poveri.
Dopo la firma del protocollo di Kyoto, con cui ci impegnavamo a diminuire le nostre emissioni di anidride carbonica del 6% rispetto al 1990, queste, al contrario, sono aumentate di circa il 25%. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano descrive il Canada come un "caso estremo" di mancato rispetto degli impegni.
Gli attuali problemi ecologici attestano che non abbiamo rispettato le leggi della vita. Abbiamo dimenticato che "non si comanda alla natura che obbedendole". È risultato più difficile rispettare le leggi della natura che inviare degli uomini sulla luna e riportarli a casa! Il verdetto è semplice: non siamo stati dei buoni custodi del "giardino" che ci è stato affidato.

Rottura dell’armonia con i nostri simili

Questa rottura di armonia con la natura genera conseguenze non meno drammatiche per le persone che condividono con noi la stessa umanità. Il Concilio Vaticano II ha affermato: "Dio ha destinato la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli" (Gaudium et Spes, n. 69). Commentando questa affermazione, Giovanni Paolo II dice: "È ingiusto che pochi privilegiati continuino ad accumulare beni superflui dilapidando le risorse disponibili, quando moltitudini di persone vivono in condizioni di miseria, al livello minimo di sostentamento. Ed è ora la stessa drammatica dimensione del dissesto ecologico ad insegnarci quanto la cupidigia e l'egoismo, individuali o collettivi, siano contrari all'ordine del creato, nel quale è inscritta anche la nostra interdipendenza".
Invece di favorire questa interdipendenza, abbiamo lasciato che il pianeta si dividesse in pezzi, in Terzo mondo e in Quarto mondo, come se girasse a più velocità. Ora, ci dicono gli esperti del GIEC, sono i Paesi più poveri quelli che saranno più colpiti dai cambiamenti climatici.
Ma l’ingiustizia è commessa anche nei confronti delle generazioni future. I nostri attuali governanti si preoccupano di non trasmettere ai nostri discendenti un debito monetario troppo pesante. Dopo aver consumato al di là delle nostre possibilità, è ragionevole non far pagar loro il prezzo. Ma un ambiente devastato rappresenta un debito incomparabilmente più elevato e più difficilmente colmabile. I costi economici necessari al suo ristabilimento sono di un livello insospettato. Si pensi solamente al costo dello smog, dei problemi di salute, degli squilibri climatici, ecc.
Un articolo della Carta dei diritti del fanciullo dice che la società intera ha il dovere di donare ai bambini ciò che ha di meglio. Come possiamo essere fieri di trasmettere loro l’eredità di un ambiente a tal punto deteriorato? Noi l’ab-biamo ricevuto in condizioni ben migliori!

Alcuni passi fatti

Bisogna riconoscere tuttavia che le questioni ambientali sono sempre più spesso all’ordine del giorno di governi, amministrazioni comunali, industrie, media… Metodi di sfruttamento più razionali vengono applicati alle risorse del mare, delle foreste e della terra. Alcune industrie riducono le proprie emissioni inquinanti; le amministrazioni comunali si sono dotate di costosi stabilimenti di trattamento delle acque reflue. La percentuale di recupero e di riciclo dei rifiuti aumenta progressivamente. Un numero crescente di persone fa degli sforzi personali a favore dell’ambiente: riduzione della velocità sulle autostrade, uso di mezzi di trasporto pubblici, diminuzione e riciclo dei rifiuti, acquisto di prodotti locali o regionali, migliore controllo della temperatura della casa, ecc. Si sta sviluppando una sensibilità ecologica che è sul punto di diventare un fatto di cultura.
Inoltre, dieci anni dopo la firma del protocollo di Montréal sulla protezione della fascia di ozono (1997), gli scienziati constatano con soddisfazione che l’emissione delle sostanze che impoveriscono lo strato di ozono è sostanzialmente azzerata. Molte città importanti, preoccupate di ridurre la quantità di smog e di assicurare una buona qualità dell’aria, sono in procinto di realizzare gli obiettivi di Kyoto. E così anche diversi Stati americani e dell’Unione europea.
Tutti questi passi sono significativi. Ma, ci dicono gli scienziati, stiamo andando a sbattere contro un muro; ciò che facciamo ora avrà come unico effetto di ridurre la forza dell’impatto. I nostri governanti hanno assunto degli impegni a Rio (1992), a Kyoto (1997), a Johannesburg (2002) e recentemente a Bali (2007). Ma non passano dalle parole ai fatti.
 Giovanni Paolo II ce l’ha ripetuto: la crisi non è solo ecologica ma morale e spirituale. E una crisi morale si affronta con una conversione, cioè con un cambiamento di prospettiva, di atteggiamenti e di comportamenti. Questa conversione avrà per oggetto le fratture che abbiamo creato con la natura, con il nostro prossimo e con Dio. Essa dovrà ristabilire questi legami, cioè suscitare una riconciliazione.

Ristabilire i legami con la natura

Sappiamo di essere uniti al nostro ambiente di vita molto più strettamente di quanto avessimo immaginato. Il nostro pianeta è una navicella spaziale sulla quale viaggiamo insieme al nostro ambiente, nel bene e nel male. San Paolo afferma che "tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto", sperando "di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione" (Rm 8,22 e 21). Uno sviluppo rispettoso delle sue leggi e dei suoi ritmi non sarebbe una prima forma di liberazione?
In questa prospettiva, ciascuno di noi è responsabile dei propri comportamenti nei confronti dell’ambiente. Potremmo credere che le azioni degli individui, dei gruppi e delle comunità siano come gocce d’acqua nell’oceano, in confronto alle sfide mondiali a cui ci troviamo di fronte. Ma l’effetto cumulativo di gesti semplici ha un suo peso. Che si ricordi la bella parabola de L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, così brillantemente illustrata da Frédéric Bach. A titolo d’esempio, molti di noi potrebbero probabilmente ridurre di una tonnellata i gas ad effetto serra di cui sono responsabili annualmente.
Convertirsi è anche ritrovare il senso del limite. È adattare il nostro modo di vita alle risorse planetarie disponibili. Molte di queste non sono rinnovabili e quelle che lo sono possiedono un ritmo di rigenerazione troppo lento per la nostra impazienza. Un pianeta limitato non può rispondere a bisogni illimitati, soprattutto quando i suoi grandi ecosistemi subiscono un invecchiamento prematuro.
Poiché iperconsumo e spreco sono divenuti uno stile di vita, una conversione implica la liberazione collettiva dal-l’ossessione di possedere e consumare. Secondo l’espres-sione del famoso ecologista Pierre Dansereau, "un’austerità gioiosa" o una sobrietà volontaria ci aiuterebbero a ricentrarci sull’essere invece che sull’avere. Ne trarremmo un supplemento di umanità.
Ci sarà allora più facile rivolgere un altro sguardo alla natura. Invece di considerarla principalmente come una risorsa da sfruttare, saremmo meglio disposti ad ammirarne la bellezza e la grandezza. In questo modo, essa ci illuminerebbe sul mistero della Vita e del suo Autore. Giovanni della Croce diceva: "Egli è passato per questi boschi e il suo solo passaggio li ha lasciati impregnati di bellezza". Un atteggiamento di contemplazione contribuisce molto a stabilire una nuova alleanza con il nostro ambiente.

Riallacciare i legami con i nostri fratelli e sorelle

La questione ora cruciale dell’ambiente ci lega gli uni agli altri come mai prima. L’egoismo non è più soltanto immorale, diventa suicida. Non abbiamo altra scelta che una nuova solidarietà e nuove forme di condivisione.
La conferenza di Johannesburg del 2002 ha affermato chiaramente che la tutela dell’ambiente è impossibile se intere zone all’interno dei continenti continuano a vivere nella miseria. Molti fratelli e sorelle sono costretti ad uno stile di vita inaccettabile e indegno della loro condizione umana. Lo sappiamo oggi più che mai ma ci comportiamo come se fossimo miopi, sordi e insensibili.
Il nostro Paese si è impegnato, in passato, a versare lo 0,7% del nostro prodotto interno lordo sotto forma di aiuto allo sviluppo. Devolve attualmente meno dello 0,3%: briciole che cadono dalla tavola dei ricchi, mentre Lazzaro muore di fame (Lc 16, 19-30). Eppure, il messaggio evangelico ci ricorda che il cammino della ricongiunzione con Dio passa per quello dei nostri fratelli e sorelle.
Dobbiamo anche tessere, già ora, i legami con le generazioni future. Ricordiamo l’episodio evangelico in cui gli apostoli litigano per sapere chi di loro è il più grande. Gesù pone un bambino in mezzo a loro, invitandoli a vedere la realtà con gli occhi del bambino. I genitori e i nonni fanno esperienza di questa conversione dello sguardo che li riporta all’essenziale. Nell’ora delle decisioni importanti, ci auguriamo che i nostri eletti pensino innanzi tutto all’eredità che lasciamo ai figli. Quale ambiente, quale società vogliamo loro trasmettere? Un poeta spagnolo ha scritto: "È bello amare il mondo con gli occhi delle generazioni future" (Castillo).

Ricostruire i nostri legami con Dio

Non siamo come il figliol prodigo che ha chiesto a suo padre la sua parte di eredità e ha cominciato a dissiparla? (Lc 15, 11-32). Nella nostra volontà di guadagnare di più, di possedere di più, di consumare sempre di più, abbiamo sacrificato molto al dio denaro, diventato la sostanza della vita moderna. Abbiamo mal gestito il giardino dell’Eden che ci è stato affidato. Esso ha perduto una parte della sua integrità e della sua bellezza.
Inoltre, pur possedendo il sapere e i mezzi per condividere i beni della terra ai quali tutti hanno diritto, abbiamo preferito garantirci il nostro benessere e il nostro modo di vita di bambini viziati. Abbiamo ceduto a questo egoismo innato che segna ciascuno di noi come un peccato originale. Ancora oggi, Dio ci domanda: "Che hai fatto di tuo fratello?" (Gn 4,9).
Per questo, abbiamo offuscato l’immagine di Dio in noi. Ricevendo la sua benedizione originale, l’essere umano è stato invitato ad essere portatore dell’immagine di un Dio amico della vita, preoccupato della verità e della bellezza della vita, pieno d’amore e di compassione per tutti, in particolare per i poveri e i sofferenti. Siamo l’immagine di questo Dio?
Alcune delle nostre scelte dipendono dalla nostra condotta personale, altre da ciò che Giovanni Paolo II ha chiamato "strutture di peccato", alle quali partecipiamo di fatto più o meno consapevolmente. Portiamo in noi stessi un peso di morte e di rifiuto. Le sfide ecologiche ci offrono l’occasione di rilanciarci sui cammini del Vangelo. È, nel senso biblico del termine, un "momento favorevole" per affermare il nostro legame con Dio lasciandoci permeare dalla novità del Vangelo.

Conclusioni

La nostra fede in Cristo ci invita ad una scelta radicale: "Scegliere tra la vita e la morte" (Dt 30, 15). Tale invito non potrebbe essere più attuale. Solo un’autentica conversione ci permetterà di riparare le fratture e ritessere legami vitali con la natura, con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con l’Autore della Vita. In questo senso, Francesco d’Assisi rappresenta un bel modello di uomo nuovo e di armonia ritrovata.


ADISTA – 19 aprile 2008
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Domenica, 22 Giugno 2008 21:15

«CON LORO RITROVIAMO LA FEDE DEL CUORE»

Una voce di spicco dell’episcopato statunitense racconta le sfide e opportunità dell’incontro con i latinos

«I latinos? La loro influenza sul futuro della Chiesa degli Stati Uniti sarà enorme. E finirà per integrare tra loro sempre più le Chiese del Nord America e dell’America Latina». Non ha dubbi in proposito l’arcivescovo di Denver Charles J. Chaput, frate minore cappuccino e figura di primo piano dell’episcopato statunitense. Una voce non ispanica (le sue radici sono in una tribù dei nativi americani), ma ugualmente molto attenta alle potenzialità e alle sfide che questo nuovo volto della società pone a tutto il Paese.

Negli Stati Uniti oggi vivono circa 47 milioni di ispanici, in maggioranza cattolici. La loro presenza sta cambiando la Chiesa statunitense? In che modo?
 In questo nuovo secolo che stiamo vivendo i latinos avranno un’influenza enorme sul cattolicesimo statunitense. Un’influenza simile a quella avuta dagli irlandesi nei secoli XIX e XX. La demografia è destino. I numeri dei cattolici latinoamericani modelleranno, ad ogni livello, la vita della Chiesa. Come questa influenza si tradurrà concretamente è più difficile dirlo, perché la cultura statunitense ha un genio particolare nell’assorbire e amalgamare i nuovi immigranti.

Gli immigrati ispanici sono profondamente legati alla religiosità popolare. Quale può essere l’effetto di questo tipo di devozione sulla Chiesa statunitense?
Penso che la fede dei latinos abbia radici profonde, naturali. Ed è una fede del cuore. Ha una robusta tradizione intellettuale, ma non è divenuta «cerebrale» e sterile come è accaduto alla Chiesa in certe parti d’Europa. La fede dei latinos ha una dimensione umana molto ricca. Pervade l’intera cultura dei latinoamericani e servirà come un antidoto salutare a certe tendenze secolarizzatrici della vita americana.

La forte identità culturale e religiosa della comunità ispanica finisce per essere un muro che la isola e la separa da altre comunità, come ad esempio quella afro-americana? Come si rapportano gli ispanici con le altre comunità degli Stati Uniti?
 In America i nuovi immigrati hanno sempre trovato davanti a sé un muro da superare. Ma l’identità dell’America, diversamente da quella dell’Europa e di molte altre società, deriva dagli immigrati. È il grande paradosso di questa terra. Fin dall’inizio gli Stati Uniti hanno avuto bisogno e hanno accolto i nuovi immigrati; ma allo stesso tempo hanno provato risentimento e timore nei loro confronti. La paura per il nuovo arrivato fa parte della natura umana e gli americani non sono diversi dagli altri. Infatti occorrono sempre due o tre generazioni perché una comunità immigrata trovi il suo posto negli Stati Uniti. Alla fine, però, lo trova sempre, perché estrarre nuova vita dall’influsso di persone nuove, con nuove energie e nuovi sogni, fa parte della natura della società americana. Penso che il vero problema in America non sia il «muro» che separa i gruppi, ma piuttosto il potere della società americana di amalgamare tutte le differenze in un unico, generico stile di vita basato sul consumo personale come credo unificante.

Che cosa sta accadendo con gli immigrati ispanici di seconda generazione?
 Imparano l’inglese e tendono ad avere un discreto successo, sia sul piano economico che sociale. Inoltre, sfortunatamente, spesso dimenticano le loro radici e annacquano la loro fede.

Le differenti nazionalità di provenienza degli immigrati ispanici costituiscono un problema per l’opera della Chiesa statunitense?
Uno degli errori più grandi del mainstream americano è quello di raggruppare i latinos in un unico gruppo. Invece esistono enormi differenze sul piano delle esperienze e della mentalità tra messicani, brasiliani, cileni, peruviani, cubani, colombiani... Come Chiesa, il nostro ministero pastorale ha bisogno di una maggiore sensibilità verso queste diverse realtà.

La presenza dei migranti sta facendo crescere il clero ispanico?
Certamente qui a Denver le vocazioni dei latinos oggi sono una delle nostre priorità. Il clero di origine latinoamericana è ancora troppo esiguo in proporzione al numero dei cattolici di origine latinoamericana che dipendono dalla nostra Chiesa. E questo è un problema serio.

La presenza degli ispanici riduce le distanze tra Nord e Sud? Aumentano le forme di collaborazione tra le Chiese dell’America del Nord e dell’America Latina?
Giovanni Paolo II è stato profetico quando - in occasione del Sinodo continentale del 1997 - ha parlato di «America» invece che di «Americhe». L’America è un solo continente con economie e culture sempre più interdipendenti. Dal momento che negli Stati Uniti la popolazione latina continuerà a crescere, penso che nasceranno forme di collaborazione sempre più strette tra le Chiese del Nord America e dell’America Latina.

Molti immigrati ispanici sono poveri, senza documenti e senza assicurazione sanitaria. La loro situazione potrebbe peggiorare ulteriormente con l’annunciata crisi economica. Come si pone la Chiesa di fronte all’emergenza sociale ispanica negli Usa?
Negli Stati Uniti la Chiesa deve obbedire alla legislazione americana in materia di immigrazione e, allo stesso tempo, lavorare per riformarla. Oltre a fornire molto aiuto in termini spirituali e di assistenza d’emergenza agli immigranti indocumentados, la Chiesa ha il dovere di lavorare nel campo dell’educazione e della politica per rendere le nostre politiche sull’immigrazione più coerenti e più giuste.

Pensa che il voto ispanico sarà decisivo nelle prossime elezioni presidenziali? Come pensa che voterà la maggioranza degli ispanici?
Se gli ispanici voteranno in blocco, i loro numeri li renderanno molto influenti. I latinos tendono a votare per i Democratici, anche se molti hanno votato per i Repubblicani nel 2004. Ma questa è una tornata elettorale molto complessa e non vorrei avventurarmi a predire un risultato.

Qual è la posizione della Chiesa sulla riforma migratoria? C’è unità tra i cattolici o ci sono opinioni divergenti?
Molti americani - e quindi anche molti cattolici americani - si sentono lacerati tra il bisogno legittimo della sicurezza nazionale e della salvaguardia dei confini, e l’ugualmente legittimo bisogno di una riforma migratoria inclusiva. La Chiesa degli Stati Uniti non può permettersi di stare da una parte sola o di essere naive. Da un lato i cittadini americani hanno il diritto di insistere sul rispetto della legge, sul controllo dei confini, sulla protezione della pubblica sicurezza, e hanno il diritto di assicurare la solidità delle loro istituzioni pubbliche. D’altra parte, però, non possiamo pretendere di fare tutto questo sfruttando quegli stessi lavoratori indocumentados di cui abbiamo bisogno per far correre la nostra economia.

Qual è la chiave per risolvere questa lacerazione?

Le persone hanno il diritto di emigrare e lavorare per sostenere le proprie famiglie. Questo è un principio fondamentale del pensiero cristiano. Attualmente abbiamo un sistema che implicitamente incoraggia l’immigrazione illegale, perché prospera su questo fenomeno. Poi però punisce i lavoratori senza documenti quando questi vengono catturati. Non solo non ha senso. È un dilemma che ha dei costi umani reali. Qui in Colorado abbiamo migliaia di famiglie senza documenti, in cui i genitori lavorano duro, pagano le tasse e vivono in pace coi loro vicini. Ma sono «illegali», mentre i loro figli nati negli Stati Uniti sono cittadini americani. Che cosa ci guadagneremmo col rompere queste famiglie con una deportazione? Se vogliamo servire il bene comune, dobbiamo farlo in modo che non solo salvaguardi la nostra sicurezza nazionale, ma rispetti anche la dignità degli individui e delle famiglie colpite.

Secondo i sondaggi, l’America Latina conta poco per gli Stati Uniti. La popolazione non la ritiene una regione importante, l’agenda politica la relega in secondo piano, i media ne parlano poco… Non è una contraddizione data la vicinanza, l’importanza strategica e l’intensa presenza di ispanici sul territorio?
Penso che questo atteggiamento sia stato sciocco e poco lungimirante. Finora, però, la storia e il costume hanno legato l’America all’Europa e reso possibile il nostro campanilismo. Adesso viviamo in un mondo molto diverso rispetto a quello di cinquant’anni fa. Gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza mondiale, ma abbiamo a che fare con realtà globali molto diverse, che nessuna nazione può affrontare da sola. I cambiamenti demografici, economici e tecnologici ci porteranno sempre più verso l’America Latina. Ormai è un processo inevitabile.

di Alessandro Armato
Mondo e Missione / Maggio 2008


L’arcivescovo figlio dei nativi

Per metà di origine franco-canadese e per metà nativo-americano del popolo potawatomi, Charles J. Chaput nasce a Concordia, Kansas, nel 1944. La nonna materna è l’ultima della famiglia a vivere in una riserva indiana e lui stesso diviene membro della tribù in giovane età. Forse seguendo la via tracciata da due zie che - prima di lui - avevano scelto la vita monastica, nel 1965 entra nell’ordine dei frati cappuccini e nel 1970 viene ordinato sacerdote. Subito dopo frequenta un master in Teologia presso l’Università di San Francisco e nel 1983, dopo essere stato alla guida della parrocchia della Holy Cross a Thornton, in Colorado, diviene direttore generale e ministro provinciale dei cappuccini per il Centro America. Nel 1988 arriva l’ordinazione a vescovo di Rapid City (Sud Dakota) e nel 1997 Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo di Denver, carica che ricopre attualmente. Chaput è noto per pronunciarsi, con saggezza e coraggio, anche su tematiche controverse. Come, appunto, quella dell’immigrazione ispanica.

(a.a.)


«Per noi credere è una marcia in più»

Il testo che segue è stato raccolto nel corso di una conversazione con monsignor Jaime Soto a margine della Quinta assemblea dei vescovi latinoamericani ad Aparecida in Brasile, alla quale prese parte anche una delegazione di pastori provenienti dall’America del Nord. Classe 1955, di origini messicane, Soto è vescovo di Orange dal 2000; dall’autunno scorso è stato nominato vescovo coadiutore di Sacramento.

La maggioranza degli immigrati negli Usa dal Messico proviene dalle regioni rurali; è gente spesso senza un’educazione formale, ma molto lavoratrice e con grande fede.
Un sociologo californiano, David Haze Bautista, che ha analizzato le caratteristiche demografiche del popolo latinoamericano in California, sottolinea tre tendenze. La prima è che la popolazione latina lavora in percentuale in numero maggiore rispetto agli altri gruppi etnici (anglosassoni, asiatici e afroamericani). La seconda: i latinos si mantengono uniti come famiglia. Un terzo fatto è che i figli delle donne «ispaniche» nascono in genere sani e di buon peso, a differenza di quanto avviene tra i poveri di altri gruppi. Perché questi tre fattori nonostante la povertà e il trauma dell’immigrazione? Haze sostiene che c’entri, in qualche modo, la fede cristiana. L’idea che domani Dio ha in serbo qualcosa di positivo per tutti dà un orientamento ottimista e forza per lavorare duro.
I latinos portano inoltre un nuovo fervore religioso, un insieme di valori che non indeboliscono la cultura americana, ma, al contrario, la rafforzano, contrastando la secolarizzazione che la dissolve. Se si parla con i parroci che lavorano con la comunità ispanica, dicono che i latinos portano una fede molto viva, sono persone che sentono che Dio ha a che vedere con le loro vite. Nella comunità «latina» c’è grande fervore anche in virtù della religiosità popolare: Maria, i santi... Certo, talvolta si registra anche una tendenza al fatalismo o alla magia. Ma si è visto che la religiosità popolare arricchisce molto la fede cattolica negli Stati Uniti, che da sola è un po’ formale, perché manca di pratiche che mantengono quotidianamente un ritmo spirituale. I messicani, invece, hanno il santino della vergine di Guadalupe, la candela in camera, tengono il quadro del Sacro Cuore nella sala da pranzo… Tutti questi strumenti mantengono la coscienza della vicinanza di Dio. Alcuni affermano che nella Chiesa degli Stati Uniti sia in corso uno scontro. Più che di uno scontro siamo in presenza di due stili differenti. Io lavoro in una parrocchia trilingue, con anglosassoni, ispanici e vietnamiti; abbiamo tre sacerdoti che parlano le tre lingue, ma essi debbono lavorare insieme per non creare tre parrocchie parallele. Dobbiamo spronare i fedeli a una migliore comunione. Il consiglio parrocchiale e amministrativo, la celebrazione delle grandi feste (come il Natale), devono includere tutti. È una bella sfida.


Jaime Soto
vescovo di Orange
(testo raccolto da Gerolamo Fazzini)
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Domenica, 22 Giugno 2008 21:13

VICINI AL POPOLO, INQUIETI PER LE LEGGI

Lontani dal proselitismo, i cristiani algerini accolgono tutti nel rispetto delle differenze

In questi ultimi tempi, alcuni giornali algerini hanno ripreso a scrivere che l’impegno sociale della Chiesa locale è un mezzo per ottenere conversioni al cristianesimo. Si tratta ovviamente di falsità, che, una volta di più, cerchiamo di smentire innanzitutto con i fatti, ribadendo che la vita al seguito di Gesù implica la gratuità nel servizio. La nostra gioia più grande, infatti, è là dove noi possiamo accoglierci gli uni gli altri nel rispetto delle differenze. Far nascere la comunione tra gli uomini di origini, culture e religioni differenti è per noi la missione di Colui che «ha dato la sua vita per riunire tutti i figli di Dio dispersi».

Purtroppo numerosi fatti recenti hanno risvegliato, in certi ambienti, diffidenze e ostilità che ci sembrano ingiuste e ingiustificate. E non possiamo che vivere con dolore e preoccupazione il contrasto che si è creato tra il nostro desiderio di vivere la «solidarietà evangelica» con il popolo algerino e gli ostacoli che si sono presentati in questi ultimi mesi e che cerchiamo di affrontare senza perdere la speranza. Queste difficoltà non riguardano unicamente la Chiesa cattolica, ma colpiscono tutte le Chiese presenti in Algeria e le diverse comunità cristiane. In particolare, lo scorso marzo, abbiamo dovuto accomiatarci, con grande dolore e rammarico, dal pastore Hugh Johnson, 75 anni, ex presidente della Chiesa protestante d’Algeria, costretto a lasciare il Paese dopo 45 anni di vita e di servizio in questa terra. Il Consiglio di Stato, infatti, si è dichiarato incompetente a decidere il destino di Johnson e ha rifiutato di rinnovargli il permesso di soggiorno, dopo che in un primo momento aveva annullato l’ordine di espulsione. A nulla sono valsi i nostri appelli e il nostro intervento presso lo stesso ministro per gli Affari religiosi, Abdullah Ghulamallah. Eppure, in un recente incontro proprio con il ministro, gli avevamo ribadito la volontà di solidarietà di tutte le comunità cristiane con la popolazione locale, solidarietà attraverso la quale si esprime il rispetto della Chiesa per la società algerina, per le sue tradizioni e per i suoi riferimenti religiosi. Ma gli abbiamo espresso anche l’inquietudine della comunità cattolica in Algeria di fronte a certi provvedimenti e a certe decisioni amministrative recenti. E nonostante il ministro abbia ribadito che lo Stato non ha alcuna volontà di mettere in discussione la presenza della Chiesa cattolica nella società algerina, restiamo comunque alquanto preoccupati. Tanto più che, lo scorso mese di aprile, abbiamo dovuto affrontare il processo al padre Pierre Wallez della diocesi di Orano e a un medico algerino, accusati di aver visitato senza permesso un gruppo di migranti subsahariani che vivono alla frontiera con il Marocco e di aver celebrato in un luogo non riconosciuto dal governo. Eppure da almeno nove anni i servizi di sicurezza algerini sono al corrente del fatto che membri della Chiesa cattolica visitano regolarmente i migranti subsahariani in quella zona e garantiscono momenti di preghiera presso i cristiani.

In seguito a questo incontro con il ministro per gli Affari religiosi, ci incoraggia perlomeno il fatto che si sia previsto di lavorare, insieme ai suoi collaboratori, in una commissione creata ad hoc dal ministero per studiare nei dettagli i diversi articoli della legge del 28 febbraio 2006 e dei suoi decreti applicativi. Si tratta di un testo che regolamenta i culti non-musulmani e che prevede misure per noi difficili da accettare, in quanto si parla di prigione per tutti coloro che presentano il cristianesimo ai musulmani. Questo non è accettabile e non è una soluzione. Certamente bisogna trovare modi di relazione rispettosa tra cristiani e musulmani e allontanarsi da forme di proselitismo propagandistico. Io stesso ritengo che la comunicazione spirituale possa avvenire ad altri livelli. Ma speriamo anche che il governo trovi altre soluzioni, che non siano l’arresto e la prigione. Noi, come Chiesa d’Algeria, non possiamo far altro che continuare a dar prova, come abbiamo fatto nel corso di molti anni, del fatto che la ricerca di fratelli e sorelle in umanità è la nostra fondamentale vocazione e la nostra missione in questo Paese. In questo modo, realizziamo l’appello di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi», rinnovando ogni giorno il nostro impegno e la nostra solidarietà

Henri Teissier
arcivescovo di Algeri
Mondo e Missione / maggio 2008
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Domenica, 22 Giugno 2008 21:12

ORISSA, I PERSEGUITATI DI SERIE B

A Natale in India un’ondata di violenza ha lasciato dietro di sé morti e rovine. Per mesi alle ong cristiane è stato impedito di portare aiuti. E il mondo sta in silenzio


Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle loro. Ma adesso abbiamo tutti paura».

Parla della sua Baminigam padre Santosh Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack-Bhubaneswar. Parla di un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni. È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei fanatici indù dell’Rss che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E un clima di intimidazione che - a ormai diversi mesi di distanza - qui si tocca ancora con mano. Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la processione.

Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre. «Vuoi sapere come è andata davvero?», chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo. Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda Saraswati, un santone indù legato all’Rss che gira per l’Orissa per «riportare alle loro origini» i tribali convertitisi al cristianesimo. «Non è vero - ribatte padre Santosh -. Tutto è nato quando la mattina del 24 dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto».

Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a bruciare. Ci sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e di grossi dubbi.

«Avevamo capito quello che stava per accadere - racconta mons. Raphael Cheenath, l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal -. Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece non hanno fatto proprio niente». Incontriamo mons. Cheenath a Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal da qui dista cinque o sei ore di macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’Rss in cui si additano i cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma, più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale, guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del Bjp, il partito nazionalista indù.

«A febbraio - continua l’arcivescovo - proprio qui in Orissa c’è stato un attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente: nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, - quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani - ci sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?».

Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. «Non permettono alle nostre ong di  portare aiuti - denuncia mons. Cheenath -. Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire». Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza... Persino la casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta - che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi -, è stata attaccata. Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. Misereor - l’organizzazione di solidarietà internazionale della Chiesa tedesca - si è fatta avanti per aiutare a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le comunità colpite.

«Ufficialmente - commenta monsignor Cheenath - ci dicono che è per motivi di sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle ong cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa nel 1999, quando c’è stato il super-ciclone. Furono duemila i nostri volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni». Per sbloccare questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la Corte Suprema indiana, con una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.
 Guardi questa grande città, così uguale a tutte le altre, e fai fatica a credere che sia un covo di fanatici. «Sappiamo che molti indù sono contrari alle violenze - conferma il presule -. Privatamente ci hanno anche espresso solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono apertamente che vogliono distruggerci».
«Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?», gli chiediamo. «Sono convinto - ci risponde l’arcivescovo - che dietro all’estremismo religioso vi sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit. Prima erano come schiavi. Adesso - almeno una parte di loro - studia nelle nostre scuole, mette in piedi attività nei villaggi, rivendica i propri diritti. E chi - anche nell’India del boom economico - vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il Paese».

L’Orissa come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci dall’arcivescovado e ti imbatti nel «Big Bazar», il nuovissimo centro commerciale in stile americano. L’aeroporto - come tutti gli scali indiani - è in espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali. «Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era ancora la giungla», racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier Insitute of Management, uno dei fiori all’occhiello della città. Una facoltà di economia dalla storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la Provincia dei gesuiti. Anche in uno Stato in cui vige la legge anti-conversione, dunque, non c’è alcun problema a tenere il nome di San Francesco Saverio nella ragione sociale di un ente di diritto pubblico. Perché in India Xavier School  è ovunque sinonimo di qualità. «Tutti vogliono le nostre strutture - continua padre Augustine -, ne riconoscono la qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un centro d’élite. E allora - ad esempio - organizziamo anche corsi di management rurale, pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi». E poi - sempre qui a Bhubaneswar - c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti. Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di spoken English per aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubane-swar. Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.

L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi - al contrario - vuole mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata. C’è un importante appuntamento elettorale in vista: salvo elezioni anticipate, nel maggio 2009 in India ci saranno le elezioni generali. Il Bjp - il partito nazionalista indù, sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra - mira alla rivincita. E - come hanno dimostrato nel 2002 le violenze con i musulmani in Gujarat - soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo più efficace per serrare le proprie fila. «Non è un caso - sostiene padre Jimmy Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute - che queste violenze contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del Bjp. E che sia avvenuto proprio in Orissa, Stato dove nel 2009 si voterà anche per il governo locale».

È un gioco che - nonostante i fatti di Natale - a Bhubaneswar va avanti. Apriamo l’edizione locale del quotidiano The Indian Express in un giorno qualunque. E puntuali troviamo le dichiarazioni del leader del Rss K. S. Sudar-shan: «Sono diverse le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi».

La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto successo a Natale, sta procedendo con metodi quanto meno discutibili. «Dopo mesi in cui non se ne era saputo più nulla - ha denunciato sul suo blog John Dayal, segretario generale dell’All India Christian Council - il giudice incaricato è arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: “Avete convertito qualcuno qui?”». Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani, non le violenze commesse dai fanatici indù.

Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. «Finora non sono state ancora date indicazioni ufficiali - continua Dayal -. Su alcuni giornali, però, abbiamo letto che scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di 200 mila rupie (circa 5 mila dollari), ma le chiese e i conventi saranno esclusi. Se così fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi. Escluderli non ha alcun senso».

Questo è il tipo di calma che si respira oggi in Orissa. «Sotto la cenere cova una situazione esplosiva - denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action Net -. Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per “riconvertire” i tribali cristiani. Ci sono discriminazioni sulle terre. Non sono violazioni delle leggi anti-conversione? Perché non le applicano?».

Resta, però, una domanda: persone uccise, case e chiese bruciate, zone vietate ai cristiani. Dove sta la differenza rispetto al fondamentalismo islamico cui - giustamente - è riservato così tanto spazio sui nostri giornali? E perché nessuno in Occidente alza la voce sull’Orissa? A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al Parlamento a New Delhi non ha fatto notizia sui nostri giornali. La risposta del vescovo Cheenath è amara: «L’India di oggi è un mercato che fa gola a tutti - spiega -. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle minoranze non interessa a nessuno». È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.

Giorgio Bernardelli
Mondo e Missione / maggio 2008


Adivasi e «zone speciali»

Un quarto dei circa 36 milioni e mezzo di abitanti dell’Orissa è costituito da adivasi, cioè da popolazioni tribali. È la quota più alta tra tutti gli Stati indiani. E se ai tribali si aggiungono i dalit - l’altro gruppo sociale più emarginato nella rigida scala delle caste indiane - si arriva quasi a un 40 per cento per quelle che, utilizzando ancora l’eufemismo britannico, la burocrazia indiana classifica come «scheduled castes and scheduled tribes». Basta questo dato per spiegare perché l’Orissa (insieme al Bihar) figuri in fondo a tutte le classifiche sugli indicatori di ricchezza degli Stati indiani. Tanto per fare qualche esempio qui ancora oggi il 65 per cento della popolazione non ha accesso all’acqua potabile e solo il 20 per cento delle strade sono asfaltate. Eppure lo stereotipo dello Stato arretrato può essere anche fuorviante. Perché anche l’Orissa oggi è uno Stato su cui fioccano gli investimenti. Nei pressi di Paradip - il suo maggiore porto - la sudcoreana Posco ha realizzato un mega-impianto da 12 miliardi di dollari per la produzione dell’acciaio. E la Reliance Industries - una delle più importanti società industriali indiane - si appresta a costruire a Hirma la più grande centrale termoelettrica del mondo, che con i suoi 12 mila megawatt dovrebbe rifornire di energia sei Stati indiani. I tribali nei villaggi della foresta. Gli impianti industriali modernissimi nelle zone economiche speciali. La miscela esplosiva dell’Orissa si spiega anche così.


Tensioni in tutta l’India

L’Orissa è il caso più drammatico di una situazione grave che tocca purtroppo anche altri Stati dell’India. Nel mese di marzo - ad esempio - due suore carmelitane che da tredici anni svolgono il loro ministero tra i tribali, sono state assalite dai fondamentalisti indù  nel Maharashtra, lo Stato di Mumbai. «Gridavano accusandole di operare conversioni», hanno raccontato alcuni testimoni. Nel Madhya Pradesh, invece, a Pasqua il governo ha disposto che le forze dell’ordine fossero schierate all’esterno delle chiese durante le celebrazioni. Una misura presa dopo gli oltre cento attacchi subiti dal dicembre 2003, cioè da quando il Bjp ha conquistato anche questo governo locale. Proprio negli stessi giorni, però, il Parlamento di un altro Stato indiano - il Rajasthan, una delle mete preferite dei turisti – approvava una legge anti-conversione che prevede una pena di cinque anni di carcere e una multa di 50mila rupie (circa 800 euro) per chi opera conversioni «tramite forza, coercizione o frode». Con il Rajasthan diventano sei gli Stati indiani dove è in vigore questo tipo di normativa. «È un insulto alla cultura della nostra nazione - ha dichiarato ad AsiaNews il cardinale Varkey Vithayathil, neo-presidente della Conferenza episcopale indiana -. Questa legge è del tutto inutile ed è voluta dalle forze fondamentaliste che, in questo modo, creano soltanto sfiducia ed intolleranza nella nostra società».
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Domenica, 22 Giugno 2008 21:09

QUALE DIALOGO CON CHI CI SFIDA?

Islam / L’esperienza dei cristiani in Bangladesh

«Insomma, vuole spiegarci razionalmente la Trinità?». Sono stato invitato a presentare il cristianesimo ad un centinaio di studenti universitari musulmani a Dhaka. Sembrano ben disposti, e mi sento a mio agio finché un giovanotto m’interrompe sfidandomi con questa domanda. «Non sono Dio - rispondo - non posso  accontentarti. Nessun essere umano, nessuna religione può dare una spiegazione razionale di Dio». Il tipo lascia l’aula con un sorrisetto ironico, seguito da una decina di amici.

Terminata la conferenza, alcuni studenti si avvicinano per scusarsi. Parliamo cordialmente, e una ragazza si mostra sinceramente addolorata perché non sono musulmano: «Noi conosciamo e rispettiamo Gesù; perché anche lei non accetta Maometto come l’ultimo dei profeti? Il Vangelo stesso ha profetizzato la sua venuta». Spiego che secondo la nostra interpretazione di Giovanni 16, Gesù si riferisce alla venuta dello Spirito Santo...

Per la Chiesa che vive in Paesi a maggioranza musulmana si può parlare di vari tipi di «sfide». Qui faccio cenno soltanto ad alcune di quelle che il cristiano incontra nella vita quotidiana. Anche per un laico, le differenze teologiche non sono la sfida minore. «Sono stanca - mi confida un’insegnante - di sentirmi continuamente giudicata da colleghi e studenti su Gesù figlio di Dio, e perché non siamo monoteisti, mangiamo carne di maiale, crediamo in una Bibbia falsificata...».

Da un lato, siamo vicini perché l’islam conosce Gesù e lo rispetta. Dall’altro, il Corano menziona la Trinità, l’incarnazione e la morte di Gesù in croce, ma per affermare a chiare lettere che si tratta di falsità. Considera la dottrina sulla Trinità e sull’incarnazione come una violazione del monoteismo, e sostiene che Dio non può aver permesso che il suo profeta Gesù morisse sulla croce.

Ai musulmani viene insegnato che la Bibbia è stata manipolata e la parola di Dio distorta, perciò i cristiani o sono ingannatori, o sono ingannati. Normalmente non sentono il bisogno di conoscere la nostra fede: il Corano, rivelazione ultima e perfetta, contiene la verità e tutto ciò che occorre sapere per vivere bene, ottenere il paradiso dopo la morte, e anche per rapportarsi con gli altri, cristiani compresi. L’islam offre «a complete code of life», un codice di vita completo che risolve tutti i problemi religiosi, sociali, familiari, politici, economici di ogni tempo. Il moderno approccio critico alla Bibbia e al concetto di rivelazione, che la Chiesa cattolica ha fatto propri, sono ben lontani da come loro accolgono il Corano e la rivelazione. Usiamo le stesse parole, ma il significato è diverso.

Come vivere circondati da questa mentalità che pervade non tutti, ma molti? L’atteggiamento di sfida - a volte arrogante - che alcuni musulmani hanno, non dovrebbe condurci alla disputa. La Trinità, la divinità di Cristo e la croce dovrebbero essere argomento di vita più che di conflitto.

I primi cristiani sono arrivati a quello che è ora parte del nostro credo attraverso l’esperienza della profondità umana di Gesù, tale da «mostrare» il mistero di Dio in Lui; e attraverso la loro stessa esperienza di vita nello Spirito. Fu la riflessione sull’esperienza con Gesù e nella Chiesa a generare la dottrina: soltanto vivendo, per quanto possibile, quella esperienza possiamo realmente accettare la dottrina.
Giovanni Paolo II scrisse che il nostro programma per il terzo millennio «si incentra in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste» (Novo millennio ineunte, n. 29).

Siamo dunque chiamati a trasformare la storia «vivendo» la vita trinitaria, più che offrendone «prove razionali»; abbiamo bisogno, come dice l’enciclica, di una spiritualità della comunione che «significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi».La nostra non è la religione di un Libro, di una legge; è la religione nata da un Uomo che conosciamo e seguiamo nello Spirito Santo di Dio. Che la salvezza giunga attraverso la Croce è una «follia» rivelata ai piccoli, a coloro che sono aperti a Dio che è umile e ci ama, tanto da identificarsi con gli affamati, i prigionieri, gli infermi. La Chiesa non è la soluzione a tutti i problemi dell’umanità; è una comunione di persone che cercano Dio guidati dallo Spirito, seguendo la via di Gesù.

Restare fedeli a ciò che siamo può essere una scelta molto esigente. Qualche tempo fa ho chiesto ai miei studenti di islamologia di descrivere la loro esperienza di cristiani cresciuti in contesto a grande maggioranza musulmano. Sono bengalesi e tribali, provengono da villaggi dove vive gente semplice, con istruzione elementare o addirittura analfabeti.  Dai loro scritti emerge un quadro tutt’altro che roseo. Esprimono sentimenti contrastanti, ma a prevalere è il pessimismo.  I musulmani sono visti come persone che sanno poco della loro stessa storia e religione, eppure seguono ciecamente ciò che viene loro insegnato, senza porre domande. «Ripetono che l’islam è una “religione di pace”, ma nessuno si chiede perché siano in guerra ovunque». «Si sentono superiori, affermano che chi appartiene ad altre religioni è semplicemente khafir, pagano condannato all’inferno, non importa se buono e onesto oppure no…».
Alcuni miei studenti hanno l’idea che «non rispettano le loro donne, e tanto meno le nostre». Una giovane suora: «Nei nostri villaggi abbiamo un detto: “Il tamarindo non è dolce e i musulmani non sono ospiti”. Significa che non ci si può fidare: come non trovi un tamarindo dolce, così non trovi musulmano che sia vero amico». Questo sospetto, che spesso è paura, è vero specialmente per le famiglie che hanno figlie femmine. Quando un musulmano desidera una ragazza cristiana, la famiglia è quasi impotente: la comunità musulmana farà di tutto per avere la ragazza, che sarà «perduta» per i cristiani. D’altro canto, se un cristiano desidera una ragazza musulmana, la comunità cristiana può andare incontro a grossi guai.

La lista delle lamentele è lunga: «Sono duri, educano i loro figli a essere molto rigidi nel seguire le regole religiose, ma anche nel trattare con il prossimo... Spesso nei sermoni del venerdì lanciano accuse e false informazioni sulle altre religioni...». Nella minoranza cristiana predomina un senso di amarezza e frustrazione, convinti che non si possa mai avere giustizia quando si ha a che fare con un musulmano.
Non c’è da stupirsi che molti cristiani adottino un atteggiamento difensivo e cerchino di creare un ghetto chiudendosi il più possibile: «Il tamarindo non è dolce, i musulmani non sono ospiti». Da quando sono nati, i miei studenti sentono cinque volte al giorno, tutti i giorni, il richiamo islamico alla preghiera rovesciato su di loro a tutto volume da altoparlanti piazzati in ogni angolo, eppure nessuno si chiede quale sia il significato di quelle parole arabe. Non se lo chiedono i cristiani, perché quelle parole non li riguardano, sono un fastidio da subire fatalisticamente; non se lo chiedono i musulmani, per i quali sono un ordine cui obbedire ciecamente, senza bisogno di capire.

Tuttavia queste esperienze amare e la paura lasciano spazio, negli scritti dei miei studenti, alla sorpresa di alcune «eccezioni». Può trattarsi di una famiglia musulmana gentile che abita vicino; può essere un bravo insegnante, un amico, perfino qualcuno che ha affrontato l’ostilità della propria comunità per difendere i diritti di un cristiano... «Un imam ha infranto alcune delle mie idee negative. Guidava la preghiera e insegnava islam nella nostra scuola. Mi chiamava spesso abba per esprimere il suo affetto rispettoso. Ero l’unico cristiano della scuola, perciò non c’erano lezioni di cristianesimo, e per completare gli studi dovevo seguire il corso sull’islam. Mi aiutò molto e non mi invitò mai a convertirmi. Quando confidai il mio desiderio di diventare prete e di vivere il celibato, mi incoraggiò con calore...».

La sfida per la Chiesa è quella di prendere queste «eccezioni» sul serio, come segni da interpretare. Più ci isoliamo, meno riusciamo ad avere una percezione reale della società islamica; più siamo aperti e comunichiamo, più troviamo persone di buona volontà e fede sincera con cui poter interagire. Potremmo perfino scoprire che quelle «eccezioni» non sono, dopo tutto, tanto eccezionali…

Non dobbiamo essere ingenui: comprendo, ad esempio, la paura di genitori cristiani le cui figlie possono essere desiderate da ragazzi musulmani e quindi (non sempre, ma spesso) private della loro libertà. Tuttavia sono certo che esistono occasioni per tutti di avere relazioni sincere con musulmani onesti e disponibili. Potrà trattarsi di un’esperienza nuova per entrambe le parti, in alcuni casi sfocerà in una delusione, ma in molti altri sarà una reciproca scoperta di «mondi sconosciuti», e una base su cui costruire un futuro in cui le minoranze potranno sentirsi a casa nel loro stesso Paese, cosa che oggi spesso non avviene.

La sfida è ancora più seria in Paesi in cui, diversamente dal Bangladesh, non soltanto la gente comune, ma anche la Costituzione e la legislazione privano le minoranze di alcuni diritti. È noto a tutti che alcuni Paesi, in Asia e Africa, sono sotto pressione perché si introduca la sharia per tutti, affidando a tribunali religiosi la giustizia civile e penale. La libertà di conversione dall’islam è un tema scottante, come hanno dimostrato le polemiche di queste ultime settimane.

Purtroppo, non si può dire che questa situazione sia un retaggio del passato, destinata a cambiare in meglio, perché il fondamentalismo sembra piuttosto in crescita. In alcuni casi, le leggi «liberali» esistenti sono considerate un’imposizione dell’Occidente decadente e corrotto. L’islam - si sostiene - sa quel che è bene per l’umanità e come rispettare «i veri» diritti umani, compresi i diritti delle minoranze alle quali conferisce uno status speciale.

Questa tendenza potrebbe dimostrare che le società islamiche sono spaventate; potrebbe essere un segno di debolezza. Tuttavia, quando la Chiesa si trova di fronte a queste situazioni, sperimenta una dolorosa condizione di ingiustizia. In certi casi non c’è altra soluzione se non portare la croce in silenzio, perché anche la libertà di parola è stata soppressa... In altri casi è possibile una reazione pacifica ma chiara e aperta, come in Pakistan, Indonesia e altrove. La Chiesa, al fianco di molti musulmani di mentalità aperta, dovrebbe fare tutto il possibile perché i suoi diritti e quelli dei poveri siano rispettati.

Infine, vivere come cristiani in Paesi musulmani dovrebbe richiamarci a un rinnovato impegno all’ecumenismo. Ci presentiamo tradizionalmente come cattolici, battisti o evangelici, e sembriamo considerare le nostre divisioni più importanti del fatto stesso di essere cristiani. Non testimoniamo unità, ma una reciproca sfiducia. In un recente seminario sull’ecumenismo, tenutosi a Dhaka, ai partecipanti è stato chiesto perché l’ecumenismo è importante per la Chiesa in Bangladesh. Molti hanno risposto: «Per la nostra sopravvivenza. Uniti, possiamo sperare di avere diritto di parola in questa nazione, divisi no».

Non si tratta di volere a tutti costi dimostrare un’unità che non abbiamo. È un invito di Dio a renderci conto che siamo prima di tutto discepoli di Cristo, il quale è venuto per superare divisioni e odio, e per unire tutto e tutti per mezzo della sua croce. Portare la croce testimoniando l’incarnazione attraverso un amore attivo, e vivere la Trinità che ci porta a essere uno, sono - a mio parere - le principali sfide per i cristiani nei Paesi musulmani.

di Franco Cagnasso
Missionario del Pime a Dhaka
Mondo9 e Missione / Maggio 2008
(la versione originale dell’articolo è apparsa su World Mission, mensile dei Comboniani di Manila)


I passi
Vaticano-138: nasce un Forum


Non senza difficoltà, ma comunque  continua il dialogo tra la Santa Sede e il mondo musulmano avviato dalla lettera indirizzata da 138 saggi islamici alla fine del mese di Ramadan (cfr M.M., gennaio 2008, p. 41). Il 4 e 5 marzo si è svolto in Vaticano un incontro tra cinque rappresentanti dei 138 e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Il frutto è stata la decisione di istituire il Forum cattolico-islamico, un organismo destinato a dare continuità a questo dialogo. È stato anche stabilito che il primo seminario di questo Forum si terrà a Roma dal 4 al 6 novembre e vedrà la partecipazione di 24 esponenti religiosi per parte che saranno ricevuti in udienza dal Papa. Due i temi al centro della discussione: «Fondamenta teologiche e spirituali» e «Dignità umana e rispetto reciproco». Con la scelta di istituire un Forum permanente, il Vaticano ha scelto di considerare i 138 un punto di riferimento importante. La stessa polemica seguita al battesimo di Magdi Cristiano Allam, ne ha offerto una conferma indiretta. Uno dei cinque islamici ricevuti in Vaticano, il professore giordano Aref Ali Nayed, ha inviato una nota in cui «senza mettere in dubbio la volontà di continuare il dialogo» esprimeva delle critiche. A questo testo ha risposto il direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi. Difendendo le ragioni della scelta di battezzare Allam in San Pietro. Ma aggiungendo anche che Nayed «è persona con cui vale sempre la pena di confrontarsi lealmente».

(g.b.)
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Sabato, 21 Giugno 2008 00:04

APPELLO ALLA MOBILITAZIONE

APPELLO ALLA MOBILITAZIONE

di Nando dalla Chiesa - Comitato milanese per la legalità - 19 giugno 2008

(abstract)

Rompiamo gli indugi. Il nuovo assalto di Silvio Berlusconi ai principi di legalità e alla giustizia non può vederci testimoni immobili e dunque complici. Ancora una volta il potere politico viene usato per tutelare posizioni processuali personali, senza alcuno scrupolo né verso i principi costituzionali né verso gli effetti che si producono a cascata sull’amministrazione della giustizia, sulla sicurezza e sulla libertà d’informazione. Le scelte accomodanti dell’opposizione si stanno rivelando semplicemente sciagurate. L’idea che l’acquiescenza verso Berlusconi sia segno di maggiore consapevolezza e maturità politica sta portando il Paese alla deriva, privandolo di una voce forte e coerentemente risoluta nella difesa della Costituzione e della decenza repubblicana in parlamento.
Noi crediamo che la logica alla quale Berlusconi sta assoggettando l’azione del suo nuovo governo e della sua maggioranza meriti una forte risposta democratica, libera dai complessi di colpa che la politica e l’informazione hanno cercato di gettare su chi negli anni passati si è mobilitato contro le leggi-vergogna e contro la manomissione della Costituzione. Non è stata la difesa dei principi di legalità costituzionale a fare perdere il centrosinistra, il quale anzi dal 2002 ha sempre vinto tutte le prove amministrative, fino alle politiche del 2006. Non è la nettezza dei principi che fa perdere, come ha dimostrato il divario tra i risultati di Rita Borsellino in Sicilia e i disastrosi risultati successivi. A far perdere voti è l’incapacità di governare emersa tra rivalità, ambizioni, narcisismi e rendite ideologiche ai danni del governo Prodi. Ed è, oggi, l’incapacità di rappresentare i propri elettori, sempre più inclini a non partecipare al voto.
Per questo invitiamo i cittadini milanesi a una prima mobilitazione in difesa della Costituzione e della giustizia per lunedì 23 giugno alle 18 davanti al Palazzo di giustizia, luogo simbolico per l’opinione pubblica legalitaria della città. Del tutto consapevoli che non siamo noi il “già visto”. Il “già visto”, la ripetizione infinita della storia, una storia di arroganze istituzionali, è Silvio Berlusconi. Davanti a noi c’è solo una scelta: se tacere per stanchezza o mettere una volta ancora le nostre energie al servizio della democrazia repubblicana e dello spirito delle leggi.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico