COMUNICO, QUINDI MOBILITO
Claudia Padovani
Docente di Comunicazione Internazionale
Università di Padova
Nigrizia – Marzo 2008
«Con la ricchezza della nostra pluralità e diversità (….), consapevoli della necessità di rafforzare la solidarietà e la convergenza fra le lotte e le campagne (...), ci impegniamo in una settimana di azione che culminerà, il 26gennaio
Da un lato, si è cercato il dialago con i media tradizionali: qui si è riproposta la difficoltà, da parte dei grandi network, di raccontare ciò che non è un evento, ma un processo. Notevoli le difficoltà in Italia; significativo, invece, la spazio che i media hanno dedicata al Forum in Messico, Brasile e Venezuela. Bene anche che video prodotti dal Forum e trasmessi da Eurovisione siano stati raccolti dalle reti pubbliche di Danimarca, Spagna, Croazia, Norvegia, Turchia...
Dall’altra lato, si è organizzata un’ampia copertura mediatica alternativa, basata sull’idea che la comunicazione possa essere anche spazio d’azione. E così, grazie al contributo di circa 115mila euro, fornito da Oxfam-Novib (Olanda), e all’impegno di decine di professionisti dell’informazione indipendente (numerosi italiani: fra loro, Jasan Nardi, Francesca Diasia, Monica Di Sisto, Antonio Pacor), si sono costituite diverse “squadre”, ciascuna con il compito di produrre materiali per stampa, radio, televisione e web.
Date un occhio al sito ufficiale www.wfs2008.net, per capire come stia prendendo forma uno concezione nuova di fare comunicazione. Ciascun evento è caratterizzato da parole chiave, che riflettono le molteplici direttrici del movimento; ed è seguendo questi filoni tematici (Itag) che si possono scoprire eventi dedicati ai diritti umani, ai migranti, alla cultura, all’economia solidale, alle questioni ambientali. Per avere un’idea complessiva, http://www.wsf2008.net/ view/colendar/2008/01.
Ma per “entrare nel vivo” del Forum, vanno esplorati i video che raccontano gli eventi di Ramallah, Barcellona, Città del Messico e Korea (www.wsftv.net) o le parole dei protagonisti attraversa i file audio e la staffetta radiofonica realizzata da Amisnet e diverse radio indipendenti, grazie alla quale le voci del Forum hanno rimbalzato attorno al pianeta, per essere ritrasmesse in molti luoghi e in molte lingue, via etere, Internet e satellite (http://www.wsf 2008. net/it/node/3492). Altri documenti interessanti sui siti della Ciranda www.ciranda.net), di Terraviva (http://ipsterraviva.net/tv/wsf2008) e di Amarc (www.arnarc.org).
Come dare una valutazione del Forum dal punto di vista della comunicazione? Certo, non solo rimanendo dentro la logica dei media mainstream, che concentrano la loro attenzione su grandi assembramenti di persone, personaggi e azioni eclatanti. Forse dobbiamo iniziare a modificare i nostri criteri di giudizio, riconoscendo che, dove ci sono volontà politica e capacità di lavorare insieme, l’Informazione si può trasformare in Comunicazione. Ad esempio, grazie a quelle tecnologie che hanno consentito la connessione diretta, a basso costo e in tempo reale, fra alcune delle città in cui si sono svolte le 22 conferenze stampa di presentazione del Forum, il 22 gennaio, quando il messaggio comune sì è fuso con i linguaggi e i simboli locali, da Roma ad Atlanta, da Barcellona a Città del Messico, da Mumbay od Erbil, in lraq. Ma anche riconoscendo che, in questa trasformazione, la comunicazione diventa parte integrante dello mobilitazione: le persone coinvolte nella copertura mediatico hanno usato le tecnologie d’informazione per organizzarsi su scala mondiale (mailing list e conferenze telematiche su Skype); hanno contribuito a comporre il mosaico di voci, immagini e messaggi del Forum, rendendo accessibili non sala file, ma sentimenti e significati; si sono mobilitate per rendere accessibile anche a noi, globalmente, la creatività locale.
Mentre ora si procede a una raccolta preziosa di materiali, che rimarranno accessibili, liberamente, in un archivio permanente della memoria, si raccolgono anche commenti e suggerimenti attraversa il blog (www.wsf2008.net/blog). Informazione e comunicazione si trasformano da strumento a spazio di azione, da forma del messaggio a sostanza del movimento. Un movimento che non si spegne quando si abbassano i riflettori, ma prosegue la propria costruzione attraverso l’altra comunicazione possibile.PESA IL VOTO NERO?
Primarie negli USA. Le scelte della comunità afro-americana
di Mariella Moresco
Nigrizia marzo 2008
Nonostante il “Supermartedì” elettorale del 5 febbraio, è una sfida ancora irrisolta quella in casa democratica tra Hillary Clinton e Barack Obama, la “prima donna” e il “primo nero” che potrebbero diventare presidente degli Stati Uniti. Altri candidati di colore, in passato, hanno partecipato alle primarie presidenziali: Dick Gregory nel 1968 Shirley Mita St. Hill Crisholm nel 1972 (prima donna eletta al Congresso), Jesse Jackson (erede di Martin Luther King e delle sue battaglie per i diritti civili) nel 1984 e nel 1988, e Al Sharpton nel 2004. Nessuno, tuttavia, ebbe mai qualche chance di farcela. Al contrario di Obama.
Le primarie presidenziali per la corsa alla Casa Bianca hanno avuto un’enorme copertura mediatica. Anziché tra i due maggiori partiti, il repubblicano e il democratico, la contesa più seguita è stata tra i due candidati democratici. I quali sono immediatamente divenuti candidati-simbolo, grazie a una identificazione razziale e di genere, che ha ben presto ottenuto l’effetto di rompere l’unità della base democratica, a volte in modo lacerante, come nel caso delle elettrici afro-arnericane.
The Joint Center for Political and Economic Studies, a sei settimane dal via delle primarie, pubblicò un sondaggio in cui Hillary Clinton raccoglieva oltre l’80% dei favori degli afro-americani, anche per l’effetto traino del marito, l’ex presidente Bill Clinton, molto popolare tra questo gruppo di elettori. Elettori che non riconoscevano, invece, in Barack Obama un african american, una persona, cioè, che, seppure indirettamente, aveva vissuto la realtà della segregazione e la grande stagione delle lotte per i diritti civili. Per di più, il consenso che aveva riscosso presso molti elettori bianchi aveva aumentato, inizialmente, la diffidenza dei neri verso Obama, che vedevano in lui «un nero dai modi di un bianco», ben educato e istruito nelle migliori scuole del paese. Comunque, la ripetuta enfasi su un candidato multirazziale (il senatore dell’Illinois è africano da parte di padre, bianco con sangue indiano da parte di madre) dimostra come non sia affatto vero che gli Stati Uniti sono una società che ha superato i traumi del razzismo. Il fatto che ai più alti livelli dell’amministrazione statale sono state cooptate persone come Colin Powell o Condoleeza Rice non significa che la popolazione di colore abbia un’effettiva uguaglianza di opportunità. Occorrerà ancora molto tempo prima che gli effetti del razzismo e della segregazione possano venire superati, dato che le condizioni economiche determinate da quella stessa situazione riproducono mentalità e atteggiamenti che tendono a perpetuarle e a mantenere, di fatto, un divario quasi incolmabile, non solo tra bianchi e neri, ma anche tra afro-americani e nuovi immigrati latini, caraibici e africani.
È noto come negli Usa le minoranze ammontino a circa 100 milioni di persone: 43 di ispanici, 40 di neri e 14,5 di asiatici. Ma il fatto nuovo è che il 22% dell’intera popolazione ha un parente stretto coniugato con una persona di etnia diversa. E nei prossimi decenni il 37% sarà di sangue misto.
Spesso si ricorre alla definizione “elettorato nero” per designare un gruppo di elettori che si presume condivida valori, aspettative, condizioni di vita e che, di conseguenza, esprima anche un voto tendenzialmente univoco. Anche se vero in linea di massima, l’assunzione acritica di questo giudizio fa perdere di vista una realtà più frammentata e complessa, fatta di retaggi del passato e di nuove spinte verso l’affermazione economico-sociale della borghesia e della recente immigrazione nera. Così, è fuorviante considerare la popolazione di colore come un corpo compatto, in grado di incidere in modo automatico sul risultato elettorale con la propria rilevanza numerica. Il voto nero è caratterizzato anche da un forte astensionismo e dalla preponderanza del voto femminile, causata dall’alta percentuale di giovani maschi incarcerati, cui viene precluso l’accesso al voto.
MIDDLE CLASS E IMMIGRATI
È negli anni ‘80 che nella vita economica e sociale statunitense emerge una nuova figura; la borghesia nera, costituita da professionisti, intellettuali e artisti, che compete con la classe media bianca nella conquista di vantaggi economici, e che non ha alcuna voglia di confondersi con chi vive nel degrado dei ghetti delle grandi città, divenuti centri di violente proteste, o negli stati rurali del Sud, dove è rimasto complicato affermare i propri diritti civili. Ancora oggi, in questi stati parte della popolazione bianca, gli angry white men (i “bianchi arrabbiati”, come vengono definiti), afferma: «We’re not racists; we just believe in segregation (“non siamo razzisti; solo che crediamo nella segregazione”).
Un recente sondaggio del Pew Research Center, svolto tra settembre-ottobre
Non tutti i neri che vivono negli Usa sono identificati come afro-american o black american, definizione utilizzata dai movimenti per i diritti civili degli anni ‘60, o ancora come african american, cioè africani che vivono in America, nella definizione preferita da Malcon X, l’attivista dei diritti dei neri assassinato a New York nel febbraio 1965. Nell’accezione statunitense, african american sono i neri anglofoni, residenti negli Usa e discendenti dagli schiavi tratti dall’Africa nelle colonie britanniche per venire impiegati, dopo la guerra di indipendenza, soprattutto nelle piantagioni del Sud, dove rimasero privi del diritto di voto e in uno stato di assoluta inferiorità sociale fino a tempi assai recenti. Non rientrano, quindi, in questa definizione i neri di altri paesi (ad esempio, brasiliani, caraibici, africani), né gli africani bianchi residenti negli Usa.
Negli ultimi anni, è aumentato il numero di persone di colore provenienti dall’Africa, dai Caraibi o da altri paesi dell’America Latina e, per distinguerli, è entrato nell’uso il termine new black o new black people, dei quali è ancora poco studiata la rilevanza politica.
Gli immigrati di colore, che hanno contribuito a una crescita del 25% del numero globale di neri americani tra il 1990 ed il 2000, sentono come un ostacolo la comunanza del colore della pelle con un gruppo posto ai più bassi livelli sociali. Preferiscono identificarsi come gruppi distinti, investendo più nella loro specificità nazionale che in quella di razza.
Si sono formate, di conseguenza, molte comunità nere separate da lingua, cultura e origine. Un fatto, questo, che ha un peso notevole specialmente nelle grandi aree metropolitane, dove i gruppi dei new black possono costituire anche il 20% dell’intera popolazione nera, arrivando a occupare cariche amministrative importanti. Un caso è quello di Boston, una delle 10 aree metropolitane con il maggior numero di cittadini neri, dove nel 1999 è stato eletto il primo haitiano nell’organo legislativo del Massachusetts. E se nel 1972 gli amministratori neri negli Usa erano solo 1.469 su un totale di 500mila circa, nel 2000 il numero è salito a 9.040, una cifra ancora pari solo al 2% del totale, ma 6 volte superiore a prima.
Il censimento del
Forse si può azzardare l’opinione che negli Stati Uniti, sia pure in maniera inconsapevole, è in atto una vera e propria ridefinizione dell’idea stessa di “nero”. Minacciati anche dalla crescita demografica dei new black e dai loro successi nell’occupare posizioni di grande rilevanza e visibilità sociale con un ritorno di prestigio sull’intero gruppo di origine, i leader degli african american diffidano di chi non ha fatto esperienza delle conseguenze, anche culturali, del razzismo e dell’emarginazione. È il caso di Obama, di cui è stata messa in dubbio la lealtà verso la causa dei neri, in quanto uomo che è venuto «dal di fuori della nostra storia».
VOTO E CONTROLLO SOCIALE
A partire dalla fine degli anni ‘60 - da quando si concluse, da un punto di vista legislativo, il lungo cammino dell’abolizione della segregazione, ma con l’avvio di politiche sociali sempre più discriminanti la popolazione più povera - il voto bianco, specie negli stati più conservatori del Sud, si è progressivamente spostato verso il partito repubblicano. È da quegli anni che gli Stati Uniti diventano il paese con il più alto tasso di incarcerazione (quadruplicato a partire dagli anni ‘70): situazione che colpisce in modo spropositato i ceti più poveri e le minoranze etniche, spesso per crimini non violenti, come quelli inerenti lo spaccio di droga. Alcuni studiosi hanno indicato nell’ampliamento eccessivo delle misure di incarcerazione una forma, per quanto degenerata, di controllo delle minoranze, attuato anche attraverso la lotta alla droga e la riduzione dell’assistenza sociale.
È importante ricordare che in molti stati vige il disenfranchisement, ossia la perdita del diritto di voto, per gli ex carcerati, anche se condannati a pene lievi. Ciò comporta la drastica riduzione del voto maschile nero rispetto a quello femminile, diviso, in queste ultime primarie, fra una identificazione razziale e una di genere, che ha impedito l’automatismo del voto nero indirizzato al candidato nero. Secondo un rapporto del Dipartimento di giustizia degli Usa, nel 2003 era incarcerato il 12% dei giovani afro-americani maschi tra i 20 e i 34 anni, contro il 3,6% degli ispanici e l’1,6% dei bianchi non ispanici della stessa fascia di età, raggiungendo la cifra più alta mai registrata fino ad allora. Più recenti ricerche delle università di Columbia, Princeton e Harvard hanno rilevato che fra i giovani afro-americani meno scolarizzati la disoccupazione è in continuo, allarmante aumento, favorendone l’emarginazione e le probabilità di commettere reati. Nonostante il diminuito numero di crimini, la popolazione carceraria nera è in costante crescita, tanto che nel 2004 il 72% dei ventenni afro-americani maschi che non aveva terminato gli studi era disoccupato (contro il 34% dei bianchi e il 19% degli ispanici) e il 20% era in carcere; nello stesso periodo, il 60% dei trentenni neri aveva già avuto un’esperienza carceraria.
Nonostante le sfavorevoli condizioni sociali che incrementano l’astensionismo (come la bassa scolarizzazione) o che addirittura impediscono il diritto di voto (come l’alta percentuale di maschi neri con trascorsi carcerari), l’appoggio, degli afro-americani è fondamentale per assicurare la vittoria del candidato democratico. Un sondaggio del Wall Street Journal, effettuato dopo le elezioni di metà mandato del 2006 per il rinnovo delle Camere, ha evidenziato come il voto bianco si fosse distribuito in modo paritario tra repubblicani (49%) e democratici (48%), rendendo quindi decisivo il voto delle minoranze, in gran parte riservato ai democratici, che nel novembre di quell’anno vinsero in entrambi i rami del parlamento, sostenuti dall’87% dei votanti neri, dal 72% degli ispanici e dal 61% degli asiatici.
È forse il timore di questa forza elettorale, comunque sottorappresentata a livello nazionale nella storia degli Stati Uniti (Obama è solo il quinto senatore nero), a indurre alcuni politici a tentare di limitare la partecipazione al voto dei neri: dalla manipolazione delle liste elettorali fino alla proposta (bloccata poi dalla magistratura e avanzata nel 2005 dal partito repubblicano della Georgia) di reintrodurrela PoIl Tax, una tassa di venti dollari per l’iscrizione nelle liste elettorali, con la speranza di allontanare dal voto i più poveri, in grande maggioranza neri.
Kenia - TERRA E MISERIA
di Nicholas Muthoka
MC – Marzo 2008
Quella che stiamo vedendo in Kenya non è una violenza qualsiasi. La causa apparente sono i brogli elettorali, ma questo accade in tanti paesi dopo le elezioni, e non scatenano tali reazioni. I veri problemi non sono politici. Altrimenti le manifestazioni e gli attacchi sarebbero state contro il governo e non gente contro gente, etnia contro etnia.
La ragione non riesce a spiegare come si possa uccidere un contadino, tuo vicino da anni, semplicemente perché il candidato che appartiene alla sua etnia è accusato di avere imbrogliato. Lo stretto collegamento che è stato fatto tra il presidente Kibaki e la tribù kikuyu a cui appartiene, ha fatto si che questo gruppo sia stato preso di mira. E non è la prima volta che in diverse parti del paese si accende una campagna contro di loro.
I problemi veri, rimasti irrisolti fin dall’indipendenza sono: il tribalismo e la questione kikuyu e i legami politici, la terra, la criminalità organizzata legata ad etnie diverse e la povertà. Questi problemi sono interconnessi, vanno esaminati l’uno in relazione con l’altro.
LA QUESTIONE KIKUYU
In Kenya, ci sono più di 50 tribù (etnie) che parlano lingue diverse, le quali si possono suddividere in due ceppi: bantu e nilotico. Le usanze e tradizioni non differiscono molto anche se ogni tribù è ben distinta dalle altre. Questo da una parte arricchisce culturalmente, socialmente ed economicamente il paese, ma la cattiva gestione di queste diversità ha generato, fin dai tempi precoloniali, tensioni e conflitti. Esistono dei pregiudizi tra le tribù, specialmente tra la gente di campagna non abituata a convivere con gli altri. Non si può parlare di odio, ma ci sono altri problemi come, per esempio, la terra. Il tribalismo è dunque una questione che rimane, anche se si parla molto di come superarlo, nella pratica non ci sono stati degli impegni reali.
Tra i pregiudizi che si hanno, ce n’è uno che è molto serio sui kikuyu, il gruppo più numeroso. Fin dall’indipendenza si dice che sono stati favoriti dal primo presidente e che si sono procurati proprietà, posti di lavoro, possibilità di commercio e terra in quasi tutte le parti del paese. Questo pregiudizio si è incarnato in conflitti soprattutto dove sono in gioco terra e commercio. In particolare dove la convivenza è con altre tribù che credono di possedere la terra per motivi ancestrali. Questo non avviene solo per i kikuyu ma anche per altri gruppi, in particolare in zone di confine, Ad esempio il conflitto costante tra samburu e turkana nel Nord del paese, tra pokot e marakwet nella parte occidentale ed altri ancora.
I kikuyu si trovano in molte zone del paese, fuori dalla provincia centrale che è la loro terra di origine. La costituzione concede a tutti la possibilità di potersi stabilire da qualsiasi parte del paese e possedere delle proprietà. Ma questa libertà non è stata ben riconciliata con altri concetti, per esempio, quello di terra ancestrale che è molto forte. Nelle violenze, si mirava soprattutto a loro, e membri di altre etnie (luo, kalenjin, luhyia e samburu) hanno assalito i loro vicini kikuyu che si trovano in zone dove queste tribù formano la maggioranza. E’ anche vero che i politici hanno strumentalizzato questi pregiudizi per i loro interessi, incitando la gente a far violenza, soprattutto dove le convivenze sono difficili.
LA POLITICA
Un altro problema legato al tribalismo è che i partiti politici, pur essendo nazionali, sono organizzati in linee tribali. Se voglio prendere i voti di un’etnia, devo avere nel mio partito un politico autorevole e forte politicamente di quel gruppo. Così, dipendendo da chi «rappresenta» una tribù in un partito politico, i gruppi etnici sono identificati con quel partito. In queste elezioni per esempio, i kikuyu, indipendentemente da chi hanno votato, erano in genere identificati con il partito del presidente (Pnu), e i luo con quello di Raila Odinga (0dm). I kalenjin, che per anni sono stati associati al partito dell’ex presidente Moi (Kanu), questa volta erano abbinati al partito di Raila, e hanno bruciato le case dei kikuyu nella Rift ValIey, che ai loro occhi appartengono al partito di Kibaki. La tribù, identificata con il partito avversario è vista come nemico.
LA TERRA
I vescovi del Kenya, in una lettera sulle violenze, hanno individuato la terra come uno dei problemi che ha giocato un ruolo importante. La maggioranza dei keniani pratica l’agricoltura e la pastorizia, perciò la terra è molto preziosa: da essa dipende la loro sopravvivenza. Inoltre, la terra è ancestrale, cioè è legata all’eredità dagli antenati, Il Kenya è diviso in otto province a loro volta suddivise in distretti. In genere questi sono legati alle etnie, e dove vivono popolazioni di diverse etnie, la convivenza è spesso difficile. Questo perché intere tribù si trovano nello stesso luogo e credono che quella sia la loro terra, ricevuta dagli antenati molti secoli fa. La presenza di altre etnie non è gradita perché è vista come una intrusione, un tentativo di rubare la terra. Sono frequenti anche i conflitti nelle zone di confine tra tribù.
Così molti dei kikuyu che si trovavano in terre «straniere» hanno subito omicidi e le loro case sono state bruciate, in Eldoret, Burnt Forest, in diverse parti della provincia occidentale, nel nord, ecc. Il problema sta nel fatto che la questione della terra non è mai stata affrontata e risolta, pur producendo da molto tempo tensioni tribali. Questo non solo per i kikuyu ma anche tra altre tribù e all’interno delle tribù stesse. Un conto è avere un sistema titoli di proprietà e un altro conciliarlo con il concetto di terra ancestrale, che corre nelle vene dei keniani.
LA POVERTÀ
Nelle città, le violenze più brutte si sono verificate nelle baraccopoli e in altri quartieri poveri, tra la gente disoccupata e spesso non istruita. La chiave qua è la vulnerabilità a essere incitato dai politici e potenti. Papa Paolo VI diceva: «L’altro nome della pace è sviluppo». Se la gente avesse lavoro e una vita dignitosa, non si sarebbe prestata alle incitazioni alla violenza e una soluzione pacifica sarebbe stata trovata presto. C’è poi la criminalità organizzata, come i mungiki e altri gruppi.l mungiki sono associati con i kikuyu. E’ un movimento politico - religioso, che s’ispira alla religione tradizionale e al movimento per la liberazione del Kenya dai colonialisti, chiamato Mau Mau. E’ un gruppo molto conosciuto per le sue attività criminali e per l’efferata violenza.
SOLUZIONI RADICALI
Una soluzione politica è indispensabile adesso per fermare il conflitto, ma non sarà sufficiente, perché i problemi rimangono. La gente è ferita. Né una soluzione solo politica né il tempo guariranno ferite interne e profonde. Ci vogliono iniziative concrete da parte di tutte le istituzioni capaci di affrontare i veri problemi del paese. Il governo deve saper trovare modi di «creare» un paese e non frammenti etnici messi insieme, rispettando le diversità che arricchiscono la società. Senza un impegno per un equo e costante sviluppo nel paese, non si potrà mai avere la vera pace. Questa non si può mantenere con la forza delle armi. Occorrono la riconciliazione e il perdono, affrontando soprattutto il problema della terra.
Le comunità cristiane devono prendere delle iniziative, possono giocare un grande ruolo nel superamento del tribalismo con progetti concreti, con la predicazione dell’amore, la fraternità e unità nella diversità.
Anche il sistema educativo deve essere coinvolto nella promozione dell’unità nel paese con programmi specifici mirati ad affrontare le diversità e a far crescere nei giovani i valori più alti e interessi più globali di quelli della propria etnia. Questo perché le sfide sociali come quelle che sono emerse in questi giorni chiedono tempo ed energie per essere affrontate.
Il fuoco è stato acceso dalla politica, ma è stato alimentato da questi aspetti molto concreti. Sono essi che hanno causato le violenze, nelle grandi città come nei paesi. Le violenze si sono verificate solo dove convivono tante etnie. Sono questi i veri problemi che dovranno essere affrontati seriamente nei prossimi anni con il coinvolgimento di tutti.PROTOCOLLI, CONVENZIONI, DECRETI…..
MC Marzo 2008
Sano almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est. Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.
Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra... E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, o che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente
la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.
Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.
Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale (http://www.hriawgroup.org/initiatives/rrafflckingpersons/). Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.
L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».
Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato
la GlobaI Iniziative to Fight Human Trafficking (iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift — www.ungift.org), che coordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.
Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.
Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.
Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore
la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «
la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».
Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 - strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati - e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede - sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio - il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.
Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di risocializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e coordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.
Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».
L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno - di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) - ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge –, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African markef’, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo...».
Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!... Ora Io sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).
PER SAPERNE DI PIÙ:
lsoke Aikpitanyi, L. Maragnani, Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia, Melampo, 2007 (www.isoke.org)
Wendy Uba, P. Monzini, Il mia nome non è Wendy, Laterza, 2007
R. Giarretta, Mai più schiave. Casa Ruth, il coraggio di una comunità, Marlin edizioni, 2007
R. Poulin, Prostituzione. Glabalizzazione incarnata, Jaka Book, 2006
Forum permanente sulla prostituzione (a cura di), Prostituzione: oltre i luoghi comuni, Gruppo Abele, 2008
A. Deaglio, Nera- Not the promised land. Documentario: storia di una ragazza nigeriana arrivata in Italia, costretta a vendersi in strada e a pagare i suoi sfruttatori. (www.colombre.it - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - 011.19703402)
Esohe Aghatise, Viaggio di non ritorno. Documentario: denuncia delle condizioni di violenza e schiavitù a cui le donne nigeriane vittime della tratta sono esposte in Italia.
Kit formativo su traffico di esseri umani, a cura del gruppo giustizia e pace di Uisc-Usg (disponibile in 7 lingue; info: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).
MAI PIÙ SCHIAVE: mostra fotografica itinerante.
APPELLO ALLA MOBILITAZIONE
di Nando dalla Chiesa - Comitato milanese per la legalità - 19 giugno 2008
(abstract)
Rompiamo gli indugi. Il nuovo assalto di Silvio Berlusconi ai principi di legalità e alla giustizia non può vederci testimoni immobili e dunque complici. Ancora una volta il potere politico viene usato per tutelare posizioni processuali personali, senza alcuno scrupolo né verso i principi costituzionali né verso gli effetti che si producono a cascata sull’amministrazione della giustizia, sulla sicurezza e sulla libertà d’informazione. Le scelte accomodanti dell’opposizione si stanno rivelando semplicemente sciagurate. L’idea che l’acquiescenza verso Berlusconi sia segno di maggiore consapevolezza e maturità politica sta portando il Paese alla deriva, privandolo di una voce forte e coerentemente risoluta nella difesa della Costituzione e della decenza repubblicana in parlamento.
Noi crediamo che la logica alla quale Berlusconi sta assoggettando l’azione del suo nuovo governo e della sua maggioranza meriti una forte risposta democratica, libera dai complessi di colpa che la politica e l’informazione hanno cercato di gettare su chi negli anni passati si è mobilitato contro le leggi-vergogna e contro la manomissione della Costituzione. Non è stata la difesa dei principi di legalità costituzionale a fare perdere il centrosinistra, il quale anzi dal
Per questo invitiamo i cittadini milanesi a una prima mobilitazione in difesa della Costituzione e della giustizia per lunedì 23 giugno alle 18 davanti al Palazzo di giustizia, luogo simbolico per l’opinione pubblica legalitaria della città. Del tutto consapevoli che non siamo noi il “già visto”. Il “già visto”, la ripetizione infinita della storia, una storia di arroganze istituzionali, è Silvio Berlusconi. Davanti a noi c’è solo una scelta: se tacere per stanchezza o mettere una volta ancora le nostre energie al servizio della democrazia repubblicana e dello spirito delle leggi.