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L’appoggio logistico dati dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Governi regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parola del vescovo di Amadhiya.
Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Governo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte di chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano al nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.


Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil - accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dai centro e dai sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Crc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina  vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuoli fare di Ankawa una città moderna e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.

In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti. La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ’60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Crc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano».Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte dei Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Balzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan, chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento.
Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Balzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa esterna all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, ma solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collaborazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze internazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana e quali?
Questa è una domanda che bisogna rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati USA che vi risiedono dicono che per loro è come “essere in vacanza”. Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace.

di Luigia Storti
MC  Luglio-Agosto 2007


Laboratorio Kurdistan: un paese in formazione

Il Kurdistan iracheno, formato dai tre governatorati di Dohuk, Erbil e Sulaymaniyah, occupa la parte nord e nord-orientale del paese. Oltre ad essere un’entità geografica, il Kurdistan è anche, nella sua visione più ampia, un «sogno» politico del popolo curdo. Con il dissolvimento dell’impero ottomano, i curdi avevano creduto di poter ottenere un proprio stato, come era stato promesso loro con il «Trattato di Sèvres» del 1920. Gli interessi delle potenze europee e dei nascenti stati nazionali arabi, però, misero fine a quel sogno e il «Trattato di Losanna» del 1923 ne sancì l’appartenenza a quattro stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria. Solo con la guerra all’Iraq del 2003 ha potuto assaporare per la prima volta una sorta di autogoverno riconosciuto, anche se non, per ora, indipendente.
Per quanto riguarda i curdi iracheni la loro storia è stata segnata da diverse lotte che li hanno opposti ai vari governi che si sono succeduti nel paese. Particolarmente aspra, è stata l’opposizione curda al regime baathista di Saddam Hussein, culminata con la «Campagna di Anfal» che, dal 1986 al 1988, portò alla morte di migliaia di curdi.
Nel 1991,dopo la sconfitta dell’Iraq nella prima guerra del Golfo, i curdi tentarono di ribellarsi al regime baathista, che reagì con una feroce repressione. A loro protezione venne varata l’operazione «Provide Comfort» che portò all’istituzione di una zona di interdizione al volo (no-fly zone) per gli aerei iracheni, a nord del 36° parallelo.
Grazie a questo ombrello protettivo, i curdi elessero, nel 1992, il primo parlamento regionale, i cui 105 seggi furono così assegnati: 5 ai cristiani, 50 al Partito democratico curdo (Pdk), guidato da Massoud Barzani, e 50 all’unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato da Jalai Talabani, attuale presidente dell’Iraq.
il governo curdo, però, durò solo due anni e da allora, per tutti gli anni Novanta, si succedettero varie lotte intestine, in cui si fronteggiarono militarmente i due maggiori partiti. Tali lotte causarono migliaia di morti e portarono la regione a una situazione di stallo, con il Kurdistan diviso in due zone di influenza: a ovest il Pdk e a est il Puk.
Al momento dell’invasione dell’Iraq del 2003 i curdi si rivelarono alleati preziosi degli usa e delle forze alleate, specialmente dopo il rifiuto dei governo turco di far transitare le truppe statunitensi per il proprio territorio. Nel gennaio del 2006 le due entità politiche curde si riunirono e, nel maggio dello stesso anno, diedero vita al Governo regionale curdo, con capitale Erbil (Hewlèr in curdo). Il governo ha come presidente Massoud Barzani e come primo ministro Nechirvan Barzani, e un parlamento regionale con i propri ministeri.
Per ora il Kurdistan, sebbene di fatto indipendente, fa parte della Repubblica irachena, anche se i suoi dirigenti continuano a invocarne la totale autonomia. Questa richiesta è però avversata sia dal governo centrale di Baghdad, sia dalla confinante Turchia. Quest’ultima, infatti, teme che anche i cittadini curdi che risiedono nei suoi confini siano tentati di richiedere autonomia e indipendenza; cosa che il governo di Ankara non è assolutamente disposto a concedere.
La relativa calma di cui il Kurdistan gode, e che ne ha fatto la terra di elezione per coloro che sfuggono alle violenze del centro e sud dell’Iraq, corre però il rischio di infrangersi. Alla fine del 2007, infatti, si dovrebbe tenere un referendum per decidere la sorte della città di Kirkuk, il capoluogo del governatorato di At-Ta’mim, attualmente facente parte della Repubblica irachena. Negli anni ‘90, questa città venne sottoposta dal regime di Saddam Hussein a una politica di «arabizzazione», che ne limitò la presenza curda e che di fatto ne mutò la composizione demografica. A partire dal 2003, invece, si è potuto assistere a un’opposta politica in favore della popolazione curda. Il referendum dovrebbe dare la possibilità ai suoi abitanti di scegliere se rimanere a far parte del governo centrale o essere ammessi a quello curdo, che ne vorrebbe addirittura fare la propria capitale. Il motivo di questo interesse speciale per Kirkuk è presto spiegato. Ai di là delle varie ragioni di ordine etnico, culturale, religioso o morale, bisogna ricondurre il discorso al cuore di tutti i problemi del paese: il petrolio, sui quale la città di Kirkuk letteralmente galleggia.
Lu.Sto.
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Domenica, 20 Aprile 2008 20:31

ASSIRI, SPERANZA DI DIALOGO

«Spero che potrà essere dato un nuovo impulso ai rapporti con la Chiesa assira d’Oriente». E’ quanto ha auspicato il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, in occasione della visita del patriarca Mar Dinkha IV, leader di una tra le più piccole Chiese orientali «precalcedonesi», a Benedetto XVI lo scorso 21 giugno. Secondo il cardinale, infatti, «il dialogo è decisivo nella risoluzione della crisi in Medio Oriente». La Chiesa assira d’Oriente, che oggi conta circa 400 mila fedeli tra l’Iraq e la diaspora, risale ai tempi della prima espansione missionaria della Chiesa primitiva oltre i confini dell’Impero romano, verso la Mesopotamia.

Jesus / Agosto 2007
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“In Guatemala abbiamo una situazione paradossale: il 95% dei guatemaltechi si considerano cattolici (o cristiani), ma abbiamo anche l’indice più alto di disuguaglianze nella ripartizione dei beni. Se cristianesimo significa condividere, come mai c’è questo altissimo divario tra  ricchi e poveri?”. Non usa mezzi termini monsignor Alvaro Leonel Ramazzini Imeri, vescovo di San Marcos, presidente della Conferenza episcopale del Guatemala, per descrivere la difficile situazione sociale del suo paese. Che si aggiunge a un dopoguerra che fatica a trovare un equilibrio tra esigenze della giustizia e della riconciliazione. E a una forte diffusione di violenza criminale e urbana.

Monsignor Ramazzini il Guatemala è un paese inquieto. Ancora tanta violenza, forti squilibri sociali. Perché?

Perché la vita non viene rispettata. Inoltre abbiamo una società molto conflittuale. La guerra vissuta per 36 anni ci ha condizionato in modo tale che non siamo più capaci di usare il dialogo e il ragionamento pacato per risolvere i nostri problemi. Ricorriamo alla forza, alla repressione, ai linciaggi. Io mi chiedo cosa facciamo, noi cristiani, per rispondere a questa violenza. Sul fronte sociale, c’è una disintegrazione molto forte della famiglia, a causa delle migrazioni in America del nord. Gli emigrati si creano nuove famiglie e credono di risolvere i problemi inviando soldi. Invece i bambini crescono da noi senza la presenza e la protezione dei padri. Questi segnali ci dicono che qualcosa non funziona a livello di pratica religiosa: molte persone cercano nella religione solo una sorta di guarigione alle malattie, ai loro problemi psicologici.

Un tema scottante è l’impunità dei protagonisti della guerra civile, La Chiesa può fare qualcosa?

Cerchiamo di fare qualcosa. Abbiamo uffici per i diritti umani che informano, formano, organizzano incontri per giustizia inefficiente, con giudici che si lasciano corrompere o che sono indifferenti, con processi che durano anni. È un problema serio: sappiamo che nelle istituzioni ci sono persone che hanno fatto cose molto gravi, ma continuano a vivere in tutta tranquillità. E le iniziative giudiziarie avviate in altri stati (Spagna, ndr) non funzionano perché si invoca il principio di sovranità del paese: li si ferma tutto, nonostante il Guatemala abbia ratificato accordi internazionali in materia. Non sono fiducioso in proposito.

Il 9 settembre (2007 ndr) in Guatemala si vota per le presidenziali. Tra i candidati c’è anche il premio nobel per la pace, Rigoberta Menchù, leader del movimento Indigeno. Che valore ha la sua candidatura?
È un buon segno, vuoI dire che c’è una maturazione politica all’interno dei popoli indigeni. Purtroppo in questo momento in Guatemala il movimento indigeno è molto disarticolato: le comunità non riescono ad agire insieme per raggiungere obiettivi comuni. Però temo che la candidatura della Menchù sia stata avanzata troppo in fretta. Avrebbe dovuto aspettare: negli ultimi anni è stata spesso fuori dal paese, di conseguenza la popolazione non la conosce abbastanza, soprattutto i giovani. In più non partecipa alle elezioni con un proprio partito, che sarebbe stato un fattore importante. Doveva cominciare a organizzare un partito a base indigena non esclusiva, ossia integrando altri settori sociali, e presentarsi alle prossime elezioni con una sua proposta. Spero di sbagliarmi, perché abbiamo bisogno di alternative, e un’alternativa dal mondo indigeno sarebbe interessante. Ma esercitare il potere è un lavoro di grandissima responsabilità, che richiede notevole preparazione, soprattutto in un mondo globalizzato, in cui la nostra economia dipende dagli altri e soggiace a pesanti condizionamenti esterni, soprattutto degli Stati Uniti.

Lei ha partecipato alla quinta Conferenza dell’episcopato latino-americano ad Aparecida, in Brasile, Quali frutti principali ha prodotto?
È andata molto bene. Abbiamo cercato di essere sinceri e obiettivi sui problemi più importanti della Chiesa e della società in America Latina. E’ stato molto importante riprendere il tema delle comunità ecclesiali di base e della scelta preferenziale ed evangelica per i poveri come esigenza da rivolgere all’intero popolo cristiano, compresi noi vescovi, per vivere davvero in atteggiamento di povertà, non rimanendo nella teoria. Abbiamo parlato anche della necessità di dichiararci in uno stato permanente di missione e pensare alla missione ad gentes, al di fuori delle nostre diocesi e paesi. In questo senso ci sono ottime aspettative. Ma saremo capaci di portare avanti questo impegno, o rimarranno parole sulla carta? E’ una sfida, credo ci sia la volontà di essere coerenti con gli impegni presi.

Di cosa ha bisogno oggi il cristianesimo in America Latina?
Bisogna tornare a ciò che è essenziale nella vita cristiana: essere discepolo e missionario. In molte occasioni siamo molto più attenti all’elemento istituzionale della Chiesa, ossia a non perdere fedeli e ad aumentare il numero dei battezzati, e dimentichiamo l’essenziale del cristianesimo. In America Latina e America del nord non è in crisi solo l’aspetto istituzionale della Chiesa, ma il cristianesimo stesso. Bisogna chiedersi quale pratica del cristianesimo conduciamo e proponiamo. Anche perché, se non ci fosse questa crisi, avremmo un continente con più pace, più giustizia, maggiore rispetto verso i migranti, e non contrasti e disuguaglianze tanto gravi.


di Patrizia Caiffa
Italia Caritas /Settembre 2007


Problemi sociali gravissimi dopo 36 anni di guerra civile
Il Guatemala, piccolo paese dell’America centrale, ha vissuto per 36 anni una guerra civile, finita con gli Accordi di pace del 1996, che ha lasciato dietro di sé 200 mila morti, soprattutto Indigeni discendenti dai maya, e un milione.e mezzo tra profughi, vedove, orfani e desaparecidos. Il  90% dei massacri sono stati compiuti dall’esercito, il resto dalla guerriglia. Rimane oggi un’eredità pesante di ingiustizie economiche e sociali a tutti i livelli, aggravata da una totale mancanza di giustizia nei confronti del responsabili dei crimini contro l’umanità, primo fra tutti l’ex generale dell’esercito Rios Montt, ancora coinvolto nella vita politica e in cariche istituzionali che gli assicurano l’impunità.
Anche la Chiesa ha avuto i suoi martiri, tra cui i 77 catechisti del Quiché, per i quali è in corso a livello diocesano la causa di canonizzazione. Il più famoso è stato però il vescovo monsignor Juan Gerardi Conedera, ausiliare di Città del Guatemala, ucciso il 26 aprile 1998, due giorni dopo aver presentato un rapporto della Chiesa sulle responsabilità e i crimini commessi durante il conflitto.
Il paese centramericano, che sarà chiamato alle urne a settembre per eleggere il nuovo presidente della repubblica, è un concentrato di gravi problemi sociali. Su 13 milioni di abitanti, l’80% vive al di sotto della soglia della povertà, il 13,5% con meno di 1 dollaro al giorno, mentre una ristretta oligarchia bianca detiene il potere economico e politico, il 22% della popolazione è malnutrito (il Guatemala è settimo tra i paesi con il più alto indice di denutrizione), la mortalità infantile è una delle più alte al mondo (43 ogni 1000 nati prima dei 5 anni), la sanità è troppo onerosa per i poveri, il tasso di analfabetismo è alto, migliaia sono i bambini di strada vittime di soprusi a Città del Guatemala, Violenza e criminalità continuano a fare registrare tassi elevatissimi: dal 2004 al 2006 sono stati commessi 2.400 omicidi.

L’impegno Caritas
La Chiesa in Guatemala ha svolto un ruolo significativo nel processo di pace. Oggi è molto impegnata nel settore sociale, negli ambiti dell’educazione, dello sviluppo e dei diritti umani appoggiando le comunità indigene e lavorando con i movimenti sociali .
Caritas Italiana sostiene alcuni progetti di Caritas Guatemala e di altri soggetti. La rete Caritas è anzitutto ancora impegnata nel programma di ricostruzione e riabilitazione, elaborato dopo le rovinose alluvioni causate, nell’ottobre 2005, dall’uragano Stan. Sostiene inoltre due progetti di recupero della memoria storica relativi a quanto accaduto durante la guerra civile, nella diocesi di San Marcos (progetto Remhi, in 29 municipi) e nella regione del Peten (progetto “Nuestra historia ldentidad futuro”, teso a ricostruire il tessuto comunitario dei popoli che convivono nella regione).
Insieme alla Pastorale sociale Caritas della diocesi di Verapaz, si lavora per il rafforzamento dell’azione sociale a favore delle comunità indigene, mentre a Cobàn viene sostenuto un centro di orientamento per donne.
Caritas Italiana infine, è presente in Guatemala con alcuni caschi bianchi e finanzia alcuni microprogetti.
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Dopo gli attentati
dell’11 settembre, non si era più visto un tale scenario. Le
banche centrali dei più grandi paesi industrializzati hanno
lanciato, mercoledì 12 dicembre, una vasta operazione
concertata sui mercati di creditoper tentare di placare le tensioni
crescenti causate dalla crisi dei mutui ad alto rischio. La FED, la
BCE, la Banca Nazionale Svizzera, la BOE e la Banca del Canada hanno
annunciato una serie di misure tecniche destinate ad offrire
liquidità – denaro disponibile – a un sistema bancario al
limite del soffocamento.

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Mercoledì, 02 Aprile 2008 11:56

Avanti tutta

Viene
spontaneo domandarsi quali siano state le carte vincenti che hanno
permesso alla Cina di emergere dallo status di paese in via di
sviluppo, diventando così una nazione «pericolosa»
per gli altri stati del mondo. Per quale motivo Cina e Africa, un
tempo entrambe considerate paesi del terzo mondo, adesso sembrano non
condividere più gli stessi problemi che una volta le
accomunavano?

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NOI, GLI OPPRESSORI DEI POPOLI DI TUTTO IL MONDO. PARLA UN DISERTORE USA

da Adista
di Luca Kocci

Obiettori di ieri, che hanno avuto il coraggio di dire no a Hitler e a Mussolini, spesso finendo i loro giorni nei lager nazisti o sui vagoni piombati che li conducevano nei vari campi della morte. Come Josef Mayr-Nusser, alto atesino che rifiutò l'arruolamento nelle SS e morì sul treno che lo stava portando da Buchenwald, dove era recluso, a Dachau (la sua storia è raccontata nel libro di uno degli organizzatori del convegno Francesco Comina, Non giuro a Hitler, San Paolo edizioni). O come l'austriaco Franz Jägerstätter che, dopo essersi opposto al nazismo, fece obiezione di coscienza al servizio militare nella Wehrmacht e per questo motivo venne condannato a morte e decapitato il 9 agosto del 1943 (su Jägerstätter è appena uscito il volumetto curato da uno dei relatori del convegno Giampiero Girardi, Il contadino contro Hitler. Una testimonizanza per l'oggi, Editrice Berti, con contributi, fra gli altri, di Enrico Peyretti e Sergio Tanzarella). Per Mayr-Nusser è stata avviata la causa di beatificazione, mentre Jägerstätter è da pochi mesi salito agli onori degli altari (v. Adista n. 69/07). Si tratta di beatificazioni importanti - dice Albert Mayr-Nusser, figlio di Josef - ma la Chiesa non compie un'operazione del tutto corretta: li celebra come "martiri della fede" e li "depoliticizza, depotenziandone la carica di opposizione politica al sistema totalitario nazista. Sicuramente sono stati martiri della fede - prosegue - ma è riduttivo esaurire la loro testimonianza a questo aspetto". Obiettore al nazismo è stato anche Franz Thaler, presente al convegno - un contadino altoatesino tuttora vivente che rifiutò la chiamata alle armi -, sopravvissuto a Dachau e poi, una volta tornato nella sua valle, emarginato dai concittadini perché la sua testimonianza li obbligava a confrontarsi con la loro connivenza con il nazismo che aveva incantato molti altoatesini con la promessa della "Grande Germania".

Ci sono poi gli obiettori di oggi: giovani statunitensi arruolati si per tentare di risolvere i loro problemi economici oppure perché convinti dell'importanza della "guerra al terrorismo" di George Bush ma presto accortisi che la loro guerra più che contro i terroristi veniva combattuta contro le popolazioni inermi di Afghanistan e Iraq. Come Russel Hoitt, il primo dei cinque disertori della caserma statunitense Ederle di Vicenza, dove è tutto pronto per l'inizio dei lavori per la costruzione della nuova base militare Usa presso l'aeroporto civile Dal Molin.

"'A scuola mi era stato insegnato che tutte le guerre degli Stati Uniti sono state combattute in nome della democrazia e della libertà e che le nostre Forze armate si battono per il bene del Paese e per portare i diritti nel mondo", racconta Hoitt. "E così in un momento di difficoltà economiche, mi sono arruolato". Nel 2006 Russel finisce a Vicenza, nella caserma Ederle, e scopre un'altra realtà: obbedienza assoluta nei confronti dei superiori, disprezzo per la vita degli altri popoli, esaltazione della guerra e della morte ("marciavamo e ci facevano cantare degli inni che proclamavano quanto era bello uccidere"). "Ho parlato con molti miei commilitoni che mi raccontavano delle uccisioni di donne e bambini afghani e iracheni - prosegue -, ho visto le manifestazioni dei movimenti pacifisti che venivano a Vicenza per protestare contro la nuova base e miei dubbi sono diventati certezza: il nostro compito non era quello di liberare i popoli oppressi, ma eravamo noi stessi fonte di quell'oppressione". E così, nell'aprile del 2007, Russel abbandona la caserma Ederle e diserta. Ora, al termine di un complesso iter, ha evitato il carcere ma risulta congedato con disonore. Come anche James Circello, pure lui disertore della Ederle: "Sembravo un ingenuo di 23 anni quando mi sono arruolato - scrive Circello in una lettera aperta ai cittadini di Vicenza -, ma mi sono ben presto reso conto che qualcosa non andava negli Usa e nella costante necessità di costringere altri popoli a piegarsi al nostro volere e alle nostre esigenze". Il petrolio "è il motivo per cui gli americani continuano ad occupare le terre dei poveri del Medio Oriente, instaurando governi fantoccio e emanando Costituzioni prefabbricate. Gli Usa non sono il Paese per cui voglio dare la mia vita. I pochi al potere si arricchiscono sulle spalle di tanti. E quei tanti sono i poveri". Altri tre disertori, invece, che hanno gestito male le procedure post-diserzione, sono attualmente sotto processo, come Criss Capps, che racconta la sua storia in una intervista video realizzata e distribuita dal mensile "Mosaico di Pace". Ma sono migliaia, dice Circello, "i soldati statunitensi che si stanno rifiutando di combattere" o che "si allontanano senza permesso" fuggendo all'estero, in Canada e in Europa, sostenuti dalle associazioni Usa (Veterani per la pace, Military Familiary Speak Qut e i neonati Veterani contro la guerra in Iraq) o europee, come la tedesca Mcn (Military Counseling Network) che ha messo in piedi un servizio di assistenza per i disertori. E ci si sta iniziando ad organizzare anche in Italia: il Comitato Vicenza est - aderente al movimento No Dal Molin - settimanalmente promuove volantinaggi di fronte alla caserma Ederle e sta cercando di far par partire un vero e proprio centro di consulenza per informare e aiutare coloro che vogliono disertare.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

OPPOSIZIONE ALLA GUERRA E NONVIOLENZA: "DOPO LA DELUSIONE DI PRODI SERVE UN RILANCIO"

da Adista
di Luca Kocci

"L'esperienza di governo ha prodotto magri risultati - ammette il ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero -: l'aumento dei fondi per il servizio civile volontario da 200 a 300 milioni di euro, significativo ma sempre inferiore alle reali esigenze; la costituzione, sebbene piuttosto farraginosa, del Comitato per la difesa civile nonviolenta presso il ministero della Solidarietà, che dovrebbe resistere alla caduta del governo Prodi; la creazione di un tavolo permanente presso il ministero degli Esteri per il servizio civile internazionale, che però molto probabilmente decadrà insieme al governo". Fra i risultati particolarmente negativi, Ferrero annovera il forte aumento delle spese militari (v. Adista nn. 83/06,2 e 77 /07), spiegato con la stretta interconnessione fra produzione militare e civile: la presenza e la produzione militare serve purtroppo - dice il ministro - a rilanciare anche la produzione civile, soprattutto nelle relazioni commerciali con alcuni Paesi. "Usciamo quindi sconfitti dall'esperienza di governo - aggiunge Ferrero -. Pensavamo di poter incidere in maniera significativa sul governo, ma questo non è stato possibile. Temo quindi, anche per il futuro, che non ci siano più le condizioni per governare insieme alla sinistra moderata, pesantemente condizionata da un blocco di potere che orienta molte scelte, comprese quelle del complesso militare-industriale".

Un argomento ripreso da p. Alex Zanotelli, secondo il quale "oggi la politica è incapace di governare perché deve obbedire ai potentati economico-finanziari. Non bisogna quindi illuderci che quando andiamo a votare eleggiamo dei rappresentanti in grado di prendere delle decisioni", conclude Zanotelli, che vede l'unica soluzione nei movimenti della società civile che si autorganizzano dal basso e fanno pressioni per ottenere qualcosa dall'alto e che rilancia l'appello "La politica che vogliamo", sottoscritto da numerose personalità dell'associazionismo (v. Adista n. 18/08). Una proposta che però non convince Raniero La Valle, secondo cui quello che è mancato a sinistra e che ha determinato la crisi di governo non è stato tanto Mastella quanto "una proposta politica che potesse assumere e superare le ragioni e le posizioni degli avversari". Non è sufficiente dire "obiettiamo al sistema" - come fa Zanotelli - ma è necessario "porre la questione in termini politici e di progettazione politica". Altrimenti, prosegue La Valle, il rischio è quello che paventa Ferrero o che suggerisce il comboniano: rimanere sempre all'opposizione. "Forse risolveremo il nostro problema, tranquillizzeremo la nostra coscienza, ma non affronteremo mai i problemi del mondo. E il nostro obiettivo - conclude - deve invece essere il mondo".

Proprio in un'ottica di progettualità politica, sono emerse dalla tre giorni di Bolzano una serie di proposte per rilanciare l'obiezione al sistema militare e la difesa popolare nonviolenta. A partire dalla riproposizione dell'obiezione di coscienza all'interno delle Forze Armate professioniste, che al momento non è prevista dalla normativa vigente, nemmeno in forme sfumate, come precisa Diego Cipriani, per anni responsabile degli obiettori della Caritas Italiana e da poco - nominato da Ferrero - direttore dell'Ufficio nazionale per il servizio civile. A tal proposito Lidia Menapace, senatrice di Rifondazione comunista, segnala la proposta presentata al Senato da Silvana Pisa (Sd) e Fosco Giannini (Rc) e ora ripresa dalla Cgil che sta raccogliendo le firme per trasformarla in legge di iniziativa popolare - di portare il sindacato nelle Forze armate. "Un sindacato vero - spiega - non come i Cocer, guidati dagli ufficiali, che si configurano quindi come un vero e proprio 'sindacato giallo' stile Fiat anni '50 e '60". La sindacalizzazione delle Forze armate, aggiunge, potrebbe essere "un grimaldello per inserire elementi di antimilitarismo nella struttura militare" e "rompere il meccanismo assoluto del signorsì". Puntare invece sui "corpi civili di pace" (cioè l'interposizione nonviolenta in zone di conflitto praticata dai civili con i "caschi bianchi") "perché abbiano un riconoscimento politico-istituzionale" è l'obiettivo suggerito da Mao Valpiana, direttore del mensile Azione Nonviolenta. "I caschi bianchi - spiega - fanno emergere l'idea del superamento dello strumento militare dal momento che contengono in sé le istanze di difesa e di sicurezza - parole di cui dovremmo riappropriarci per non lasciarle del tutto in mano alla destra - ma anche dell'antimilitarismo", che rimane sempre e comunque "la radice ideale di tutto il movimento per l'obiezione di coscienza".

Una proposta di riforma viene lanciata anche alla Chiesa cattolica, che ha avuto - dice La Valle - grandi responsabilità "nell'affermazione del principio di autorità e dell'obbedienza dovuta alla stessa autorità" sia civile che religiosa, mentre - ricorda Zanotelli - "fra i cristiani dei primi secoli il battesimo era addirittura inconciliabile con il militare": la rinuncia ai cappellani militari graduati e pagati dallo Stato. "Non si vuole negare l'assistenza spirituale ai soldati - dice don Luigi Ciotti - ma va detto con chiarezza che quelle stellette sono antievangeliche, e quindi non devono appartenere alla Chiesa".

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 26 Marzo 2008 11:09

L'invasione

Nel
giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno
visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini,
mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a
Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli
indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono
stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di
fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China».
A un terzo del costo.
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Mercoledì, 26 Marzo 2008 09:36

DIO E CESARE

DIO E CESARE

di Manuel Castells – da Internazionale 734, 7 marzo 2008

(abstract)

Gesù, oltre a essere Dio, era anche molto intelligente. E sapeva che il suo regno era nei cieli, cioè nella mente delle persone, dove ognuno fa vivere i suoi dèi. Per questo disse di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. E decise così di stabilire, senza ambiguità, la separazione tra la chiesa e lo stato. Ma, proprio come è accaduto ad altri rivoluzionari, i suoi insegnamenti, ancora vivi per chi legge i Vangeli nel loro contesto e senza atteggiamenti settari, sono stati traditi nel corso della storia da chi si è eretto a rappresentante del potere divino sui corpi attraverso l’imposizione di un monopolio sulle anime. Perché la chiesa, secondo il cristianesimo doc, non sono loro (i vescovi), ma siamo noi (i credenti, ognuno a modo suo). Ecco perché ci sono miliardi di cattolici e altre centinaia di milioni di cristiani nel mondo per cui la spiritualità e la ricerca del senso della vita non dipendono dai proclami della gerarchia ecclesiastica ma dal dialogo intimo che la loro mente intesse con il dolore dell’esistenza e il mistero della speranza. È per questo che il cristianesimo è sopravvissuto duemila anni, superando anche la più grave minaccia dei suoi peggiori nemici (...).

Ma anche le radici più profonde si piegano quando l’esperienza interiore delle pecorelle contrasta con le grida dei suoi pastori. Per questo la struttura della chiesa cattolica sta perdendo la sua influenza sulla vita della gente, mentre in tutto il mondo Dio è più vivo che mai e la religiosità nelle sue diverse espressioni è in ripresa.

Studi come quelli di Inglehart e Norris, condotti sui dati del World values survey dell’università del Michigan, mostrano la forza della religione nel mondo, con una grande eccezione: l’Europa occidentale, la culla del cattolicesimo. Altre analisi indicano che in America Latina, il paese con il maggior numero di cattolici al mondo, le diverse confessioni evangeliche cristiane stanno sostituendo l’influenza della chiesa nei settori più popolari della società. Il fatto è che, nonostante la testimonianza e l’eroismo di tanti sacerdoti che aiutano il loro prossimo, l’eterna collusione della gerarchia con i poteri costituiti e l’ipocrisia di chi difende la famiglia e copre i prelati pedofili stanno minacciando poco a poco l’influenza di quelli che interpretano Dio secondo i loro interessi economici, politici e personali, rendendo la chiesa una struttura di potere.

Questo non significa che la chiesa debba smettere di difendere dei principi morali e religiosi fondamentali, come la famiglia o la vita del feto o la condanna della manipolazione genetica, anche se questi principi devono essere adattati a ogni situazione. I leader religiosi hanno tutto il diritto (un diritto che in Spagna è protetto dalla costituzione) di prendere posizione su argomenti etici della massima rilevanza e diventare un punto di riferimento per i fedeli.

Potrà sembrare un paradosso, ma quando il cardinale conservatore Joseph Ratzinger è diventato Benedetto XVI ho scritto un articolo pieno di speranza perché mi sembrava che potesse rappresentare un papato basato sui valori, per quanto discutibili questi valori potessero apparire a molti, soprattutto ai giovani. Perché questo è il terreno proprio di Dio. E per fare in modo che questi valori possano arginare l’individualismo competitivo e il consumismo distruttivo che caratterizzano la nostra cultura è necessario ricorrere all’autorità morale, all’esempio, alla testimonianza.

Ma se questi valori si mescolano con gli slogan politici, l’intervento diretto nella vita politica, la benedizione delle guerre sporche e il silenzio di fronte all’oppressione, tutto finisce in una bolla di sapone, soprattutto per i giovani (...). Entrando senza ritegno nella battaglia politica su argomenti che non spettano all’apostolato, i vescovi spagnoli si allontanano ancora di più dalla società del ventunesimo secolo e allontanano la gente da un Dio di cui c’è ancora un estremo bisogno in un’epoca di incertezza. Per questo alle elezioni spagnole del 9 marzo io voterò per Gesù Cristo, nonostante quello che ci dicono di fare i vanitosi farisei che pronunciano il suo nome invano.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 19 Marzo 2008 10:50

Il PIL

"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani".

Robert Kennedy


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