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Le esistenze che si perdono nel "mare asciutto" della Libia

di Francesco Spagnolo
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008

Per l'Italia, la Libia è generalmente intesa come l'altra sponda di uno stesso mare, il "casello d'ingresso" di un flusso immigratorio costante e incontrollabile, che ha nelle nostre coste il punto di arrivo. Nelle parole di monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, la Libia torna invece ad essere descritta con una luce diversa. Forse perché il vescovo in quella terra c'è pure nato...

Monsignor Martinelli descrive una Libia che è molto di più di quello che normalmente si conosce. A partire dal suo ruolo di importante partner commerciale per l'Italia, tramite la presenza della compagnia petrolifera Eni. Ma apre uno squarcio anche sui fenomeni di oggi: immigrazione incontrollata da altri paesi e droga tra i giovani, problemi simili a quelli che deve affrontare un paese sviluppato.

La Chiesa cattolica libica, anche tramite la sua Caritas, è impegnata in questi due ambiti con altrettanti progetti. Lavora sul problema della tossicodipendenza tra i giovani, in crescita negli ultimi armi per via di una certa agiatezza delle ultime generazioni, che spesso sconfina nella noia. L’obiettivo, in questo caso, è far prendere coscienza alla società libica di questa realtà, per poterla prevenire.

L’altro progetto riguarda la questione dell'accoglienza dei tanti immigrati che, provenienti dall'Africa subsahariana, passano le frontiere libiche. Frontiere, a dire il vero, invisibili, ben marcate solo sulle carte geografiche, ma che nella realtà del deserto del Sahara hanno la definitezza che possono avere le dune di sabbia. Un "mare asciutto", in cui non si sa bene quanti congolesi, eritrei o nigeriani sono morti, nel tentativo di arrivare nelle città o sulle coste libiche, per cercare un lavoro o una sistemazione, oppure (ma non necessariamente) per proseguire il viaggio verso l'Europa.

Statistiche precise purtroppo non esistono, anche a causa dell' atteggiamento del governo libico, che su questo argomento tende a essere elusivo. Si sa comunque che in Libia molti immigrati (principalmente pakistani e filippini) arrivano come regolari per lavorare. Altri invece rimangono clandestini, più o meno tollerati dalle autorità locali, che chiudono un occhio se la presenza rimane discreta e non pone problemi di ordine pubblico.

Convertirsi a un amore

È con questi, soprattutto, che la Chiesa cattolica lavora, insieme agli operatori di altre confessioni religiose, soprattutto delle chiese protestanti, nell'offrire accoglienza e uno sbocco regolare. Si opera innanzitutto cercando di insegnare un lavoro ai clandestini, che in alcuni casi tendono o a stabilirsi in tibia o a tornare nei paesi d'origine, se le condizioni lo permettono. «L’immigrazione è una preoccupazione che sta nel mio cuore e desidero che anche la Chiesa Italiana sia attenta a questa realtà, per la quale comunque fa già tanto - dichiara monsignore Martinelli -. Mi auguro che dall'Italia si guardi alla Libia in positivo, perché quello che già c'è di buono possa crescere, attraverso le cooperazioni economiche, ma anche tramite piccoli segni di amicizia e solidarietà».

Ma tutto questo come si intreccia con il tema del dialogo tra le religioni, che in un paese arabo e musulmano come la tibia è all' ordine del giorno? Monsignor Martinelli spiega di una presenza cristiana, e cattolica in particolare, assolutamente minoritaria nel paese nordafricano, il quale tuttavia è anche esente da forme religiose integraIiste. Anzi, a livello di istituzioni pubbliche e spirituali il dialogo con le piccole chiese cristiane è cercato e incentivato, soprattutto per quanto riguarda un certo confronto dottrinale e la collaborazione concreta su alcuni problemi comuni. «Guardo con una certa positività - conclude il vescovo - il popolo libico. Nello spiegare la mia presenza in quel territorio a maggioranza musulmana, richiamo sempre l'immagine dell'incontro di San Francesco con il sultano. Vorrei sempre vivere questa dimensione di apertura, di amicizia, di convivialità con il mondo arabo, perché più che il convertirci a una fede, conta il convertirci tutti a un amore. Ecco, dovremmo essere capaci di aiutare anche la Libia a crescere in questa testimonianza dell'amore».

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

L’Africa che non arriva al miraggio d’oltremare

di Umberto Fabris
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008

     Tamanrasset è una città di recente costruzione, dominata dal massiccio dell'Hoggar, che incombe su di essa con i suoi fiabeschi paesaggi lunari di deserto di pietra. Nel 1966 contava meno di tremila abitanti, oggi ne ha quasi centomila. È città commerciale e meta irresistibile per i turisti. È soprattutto un punto di incontro, nel sud dell'Algeria, delle piste che arrivano da Mali e Niger: qui si dà appuntamento l'Africa del Sahel, nell'attesa e nella speranza che si apra una porta verso il nord. Poco visibili, migliaia di camerunesi e malesi, congolesi e ivoriani, sopravvivono trovando rifugio nelle rocce vicino alla città algerina. Il deserto è attraversato e vinto, l'Europa sembra più vicina e a portata di mano.

Molti dei migranti sperano in un lavoro che permetta poi di proseguire il viaggio verso la frontiera marocchina seguendo l'asse sud-nord (cioè passando per Algeri, via In Salah e Ghardaia) o il meno frequentato sud-nord-ovest (attraverso Orano, passando per Adrar e Béchar). Poi, una volta in Marocco, non resta che attraversare lo stretto di Gibilterra.

     Questi sventurati cominciano a esistere per i governi e l'opinione pubblica europei quando sbarcano sulle coste italiane o spagnole, o quando i loro "barconi della morte" spariscono nel mare; prima, però, uomini e donne e bambini affrontano autentici itinerari della disperazione, percorsi irti di ostacoli e di difficoltà inenarrabili, in cui il sogno si trasforma spesso in fallimento, in incubo, in tragedia.

Una trentina di nazionalità

     Quando giungono in Algeria, hanno già percorso migliaia e migliaia di chilometri e attraversato fino a otto paesi diversi via terra, utilizzando vari mezzi di trasporto: barca o piroga, autobus, taxi, camion. Gli itinerari variano a seconda del paese di provenienza, ma tutte le strade, prima di entrare nel grande paese del Maghreb, convergono verso due città: Gao in Mali e Arlit in Niger. Da qui il passaggio verso Tamanrasset.

I viaggi durano da un minimo di quindici giorni a più anni, e non è solo la distanza a determinarne la durata: l'elemento decisivo è quello economico. Sono rari i casi di chi parte con i mezzi sufficienti per coprire la distanza in una sola volta, e quando si viaggia in famiglia le cose si complicano ancora di più. Il popolo dei migranti subsahariani convoglia in Algeria una trentina di nazionalità: i più numerosi sono nigerini, maliani, camerunesi, nigeriani. Ma quanti sono? Difficile dirlo: le stime ufficiali sono approssimative e di accesso pressoché impossibile, anche se il fenomeno è sempre più oggetto di studio. Secondo il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli), ong che lavora in Algeria dal 1996 a un progetto in questo settore, sarebbero più di centomila all'anno le persone che arrivano nel Maghreb dai paesi a sud del Sahara. Il vecchio continente rimane l'eldorado, ma le frontiere europee sono sempre più invalicabili e tanti emigrati finiscono per scegliere di rimanere in Algeria, che non è più soltanto uno scalo (così come a est Libia e Tunisia e a ovest le Isole Canarie) in direzione Marocco e poi Spagna. Sono i giovani sotto i 30 anni che non rinunciano alla traversata del Mediterraneo, mentre le incognite e i rischi del viaggio dissuadono i più adulti, che spesso hanno con sé moglie e figli.

Nei confronti dei migranti, poco a poco si è operato un cambiamento di attitudine da parte delle autorità algerine, passate da una sorta di passività poco amica a una repressione poliziesca più o meno dura a seconda del periodo. Il cambiamento non è estraneo alle ferme sollecitazioni dell'Unione europea, che sembra decisa a fare dei paesi del Maghreb il terreno di repressione di ogni tentativo di passaggio dall'altra parte del Mediterraneo. Così il flusso migratorio risulta ulteriormente rallentato, a causa dei controlli più severi, e ciò spinge a cercare sempre nuove piste clandestine, meno esposte, ma più pericolose e costose. Anche rastrellamenti e rimpatri forzati sono sempre più frequenti: per i migranti che raggiungono Algeri, spesso dopo diversi mesi dal loro arrivo nel paese, è aumentato sensibilmente il rischio di essere rimandati al punto di partenza.

Il rallentamento del flusso migratorio, inoltre, lo rende più visibile e concorre a dare l'impressione di un aumento del numero dei migranti clandestini subsahariani in transito. Tale quadro può essere applicato, con qualche distinzione, anche agli altri paesi del Maghreb, che si sono poco a poco trasformati in paesi di immigrazione. Tutto ciò aggrava le difficoltà della popolazione migrante: sfruttamento dei pochi uomini che trovano un lavoro per sopravvivere; precario stato di salute fisico e molte volte psichico; ricorso a espedienti e illeciti per garantirsi la sopravvivenza (traffici e falsificazioni di documenti e biglietti, prostituzione, spaccio e consumo di droghe, ecc); gravi difficoltà di integrazione con la popolazione locale a causa di relazioni spesso conflittuali e atteggiamenti razzisti.

Il desiderio di rientrare

    Tra coloro che si occupano dei migranti, ci sono anche la chiesa protestante e la chiesa cattolica (in essa la Caritas) algerine, che hanno dato vita all'associazione ecumenica Rencontre et Developpement ("Incontro e sviluppo"), presieduta da un Padre bianco olandese, Jan Heuft, con presidenti onorari monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, e il reverendo Hugh Johnson, pastore delle Chiese protestanti d'Algeria. L’obiettivo dell'associazione è aiutare i molti clandestini che arrivano con mille bisogni, talvolta in condizioni fisiche o con situazioni familiari compromesse, che richiedono interventi tempestivi. Un giovane padre bianco italiano, Paolo Maccario, per conto dell'associazione ha realizzato nel 2003 un rapporto-inchiesta sulle migrazioni clandestine subsahariane attraverso l'Algeria. Si è trattato di una prima base di studio di un fenomeno la cui evoluzione va verso l'aggravamento. “All'origine - vi si legge - ci sono fattori di ordine economico, legati alla povertà, e di ordine politico, legati ai conflitti armati interetnici, alle persecuzioni etniche e religiose. (..) Il sistema dei visti per accedere in Europa e la creazione dello spazio Schengen hanno contribuito allo sviluppo di organizzazioni migratorie clandestine, soprattutto in Algeria e Marocco. Esse rappresentano ormai, per i candidati all' emigrazione, la sola possibilità di realizzare il loro progetto”.

    A Tamanrasset molti migranti incrociano i Piccoli Fratelli di Gesù, minuscola presenza cristiana stabile, composta da una comunità di religiose e una manciata di laici, che vegliano sui luoghi dove visse e morì Charles de Foucauld. Martine, Piccola Sorella del Sacro Cuore, racconta di incontri quotidiani, in un clima che sembra di permanente emergenza: «Continuiamo a incontrare persone che arrivano dal sud: alcuni prendono coscienza di essere stati truffati da reti di "passatori" nei loro paesi di origine, arrivano da noi perché non sanno più come andare avanti. Soprattutto, continuiamo a incrociare quelli che sono rispediti indietro. Magari dopo essere stati in prigione per anni in Marocco o in Algeria, o essere stati abbandonati al confine con il Mali, alla frontiera di Tinzaouaten, che ha reputazione di inferno: alcuni, che non sanno dove andare e non hanno i soldi per tornare a Tamanrasset, disperati saltano sui camion, a volte a prezzo della vita. Quelli che hanno i soldi viaggiano in 25 in media su una jeep, sfidando le piste clandestine e gli imbrogli dell'autista. A volte cadono dalle macchine e devono farsi a piedi fino a trenta chilometri, prima di arrivare qui.. .».

     A Tamanrasset, l'incubo dei migranti continua. Le condizioni di vita sono di estrema insicurezza. La prima, grande paura è farsi prendere dalla polizia: così ci si rende sempre più invisibili. «Basta che nei rifugi sul limitare del deserto uno di loro gridi nella notte, per paura di un animale - prosegue Sorella Martine -, che tutti fuggono allarmati, credendo che arrivi la polizia, e molti si feriscono sulle pietre. A piccoli gruppi alcuni vengono a pregare con noi, se la messa è celebrata in pieno giorno, ma la sera non rischiano. Oppure li vediamo vicino a un muretto, dove si radunano sperando che qualcuno li ingaggi per un nuovo lavoro, ma di colpo si sparpagliano, quando passa la macchina della polizia.. .». Da affrontare, poi, c'è una realtà quotidiana ai limiti della sopravvivenza. Per mesi, talvolta per anni: «Una volta in pieno inverno, nel corso di un'uscita nel deserto, ho scoperto una dozzina di senegalesi. Ero sconvolta: uomini persi come su un'isola, che da un anno si trovavano in quel posto, senza potere né proseguire né tornare indietro. Qualche tempo dopo la polizia è passata a distruggere e a bruciare il loro accampamento di miseria».

     Di fronte a tante immani difficoltà, alcuni migranti manifestano il desiderio di rientrare in patria. Rencontre e Développement favorisce questi ritorni (176 nel 2006). Tamanrasset è l'ultima tappa in terra d'Algeria. Nel dicembre 2006 l'associazione vi ha organizzato un incontro, invitando diversi gruppi che operano a favore dei migranti. È stata un' occasione di dialogo, in vista di una migliore collaborazione, con realtà associative e missionarie operanti anche nei paesi di provenienza dei migranti. Così Rencontre et Développement ha cominciato a progettare l'erogazione di piccoli finanziamenti, a cui possono accedere i rimpatriati in Congo, Ciad, Togo e Camerun, per realizzare microprogetti di sviluppo. La strada che conduceva verso il miraggio Europa può concludersi dove era partita. E non è detto, dopo tanto soffrire, che sia una sconfitta.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Giovedì, 06 Marzo 2008 19:48

Creare cultura e reti per vincere il lamento

Creare cultura e reti per vincere il lamento

di Liberato Canadà
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008

Sviluppo locale? Per parlame, a proposito della Basilicata, così come del mezzogiorno d'Italia, cuore del Mediterraneo, bisogna partire da un semplice ma radicale rovesciamento. E cioè smettere di chiedere cosa l'Italia e l'Europa possono fare per il sud e la Basilicata, per chiedersi invece cosa la Basilicata e il mezzogiorno possono fare per l'Italia e per l'Europa.

Sul mezzogiorno d'Italia (compresa la Basilicata) esercitano ancora una forte influenza alcune dinamiche storiche, in primo luogo quel processo di emarginazione del Mediterraneo, iniziato con lo spostamento del cuore della storia moderna prima verso il nord Europa, poi verso l'ovest lungo le grandi rotte oceaniche. Bisogna pertanto partire dal presupposto che se non si investe sul Mediterraneo non ci potrà essere sviluppo nel mezzogiorno, e neanche in Basilicata. Senza una politica estera coraggiosa, senza colpire al cuore quell'antica marginalità, sarà molto difficile rimuovere le barriere tra il sud dell'Italia e la normalità del paese, per poi moltiplicare tutte le buone esperienze esistenti nel mezzogiorno e in Basilicata, che sono tante, numerose e significative.

Il settentrione d'Italia è composto da regioni che si sentono nel cuore dell'Europa. Si può pensare davvero di affrontare con successo quella che una volta veniva definita "questione meridionale", se non si costruisce una grande area di sviluppo euromediterranea, in territori segnati da una distanza ben superiore dal centro del continente?

Il "sudditoso" vive e vegeta

La Basilicata e i mezzogiorni d'Italia erano meno lontani dal resto d'Europa con i Borboni, nel Settecento e nel primo Ottocento. Eppure non si tratta di dipingere un quadro a tinte fosche della Basilicata; piuttosto, occorre esaltarne l'irrimediabile diversità, pur confrontandosi con le patologie e la durezza dei problemi, ma evitando di alimentare una brutta malattia che perdura nel mezzogiorno d'Italia, quindi anche in Basilicata. Occorre, in altri termini, cancellare la parola "sud", perché evoca sudditanza e subalternità. E il subalterno non fa, ma aspetta che si faccia; non è causa del suo bene e del suo male, ma solo effetto dell'azione e del pensiero altrui; non decide, ma è deciso. Il "suddito so", sia in maniera individuale che in forma collettiva, vive e vegeta nella comunità dei sudditi: sconta su di sé il peso antico di dominazioni, di un colonialismo politico e religioso, economico e tecnologico.

Di alibi giustificativi ce ne sarebbero a bizzeffe: l'emigrazione degli anni Sessanta e quella più recente del 2006, la povertà, le dinamiche del processo unitario dell'Italia (e poi di quello europeo), l'assenza di infrastrutture sociali e materiali... Ma l'atteggiamento di sudditanza è un sonnifero, produce paralisi, quantomeno lentezza. In Basilicata alcune iniziative, amministrative ed economiche, sono state rese possibili dalle emergenze (sisma, alluvioni, frane), che spesso diventano condizione strutturata, modalità sociale di comportamento, incapace di progettare e programmare azioni di sviluppo. La lentezza, stancante e asfissiante, produce depressione e accidia, generando il lamento. Una delle principali manifestazioni della sudditanza; un atteggiamento che ha contaminato parti sociali, economiche, religiose e politiche, persino educative; una posa che contraddistingue i professionisti del meridionalismo, il quale arruola quanti giustificano l'inerzia dolente e fatalista, attribuendola a fattori esterni.

Arginare l'inclinazione alla lagna, stimolando e promuovendo iniziativa, creatività, scelte educative e culturali capaci di far emergere un pensiero aperto al Mediterraneo, all'Italia, all'Europa: è questa la leva strategica per poter parlare di sviluppo, non nelle intenzioni ma in azioni prive di ambiguità e di demagogia.

Paninoteche, non librerie

Gli ostacoli allo sviluppo sono insomma anzitutto culturali. Ma la Basilicata è culturalmente arretrata? Guardando alla fioritura delle idee e al fervore delle intelligenze, alle forme di espressione vitale costituite dalla cultura locale e dalla tradizione popolare e folcloristica, si può dire che la regione non è spenta. C'è vivacità, magari meno cultura civica, ma certo un vivo reticolo di solidarietà familiare e comunitaria, che deriva anche da valori e radici cristiane. Si può dire che esista un familismo virtuoso, che consente di ammortizzare disoccupazione, miseria e squilibri sociali dove esistono. Permane inoltre una memoria condivisa, fatta di linguaggi, retaggi e paesaggi comuni.

Se per cultura invece si intende l'elaborazione intellettuale dei dotti e l'azione di una classe dirigente, allora si notano le arretratezze. Invece di teatri, librerie, circoli culturali e sociali, quasi ovunque sono nate negli ultimi anni banche, gioiellerie, paninoteche. A riprova del fatto che i soldi (in Basilicata nelle banche sono depositate ingenti somme di denaro) dove ci sono non portano automaticamente cultura. Inoltre nel mezzogiorno d'Italia, e soprattutto in Basilicata, non esistono media (tv e giornali) di dimensione nazionale che parlino all'Italia; la Basilicata non è vista, non è letta. Come l'intero mezzogiorno d'Italia, è sottorappresentata; il baricentro della politica, dell'economia e dei media è spostato nel settentrione d'Italia, cuore d'Europa.

Con altre parole, si può dire che in Basilicata si è seccato l'albero delle élite, la pianta che produce classe dirigente. In passato erano i notabili, il clero, gli agrari; poi è arrivata la borghesia statale, decorosa e rispettabile: la maestra, il maresciallo, il segretario comunale, l'impiegato alle poste o alle ferrovie. Oggi, declinate le precedenti classi dirigenti e tramontato il ceto cresciuto all'ombra dei partiti, chi emerge lo fa per proprio conto, indipendentemente e individualmente. Il tessuto delle relazioni sociali è sfilacciato, quello civico è debole, e all'orizzonte non si vede una classe dirigente in formazione, impiantata in un terreno culturale originale e meridionale.

Parlare di sviluppo, in Basilicata oggi, significa dunque promuovere e favorire le connessioni (che mancano) tra soggetti (della cultura, della società, dell'imprenditoria) attivi e creativi; ovvero favorire e promuovere connessioni per dare vita a reti fatte non di rapporti subalterni, ma virtuosi. Fatte anche da una buona politica, oltre che da una libera mediazione culturale, da una sana e competente imprenditoria.

In Basilicata, come nel resto del mezzogiorno, chi riuscirà a riconnettere questi rapporti virtuosi potrà guidare processi di sviluppo locale autentici, duraturi e rispettosi delle persone e delle comunità locali. Non c'è altra strada, per voltare la pagina della sudditanza e del lamento.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 05 Marzo 2008 10:16

L'incontro con l'altro: ferita e benedizione

Il tema del rapporto fra ricchezza e felicità vive oggi una stagione di grande interesse all’interno del mondo accademico e non solo. La nostra rivista se ne è già occupata in passato e continuerà a seguirlo, convinti come siamo che su questa pista si possano offrire utili provocazioni alla società civile e alla Chiesa. In Italia uno degli studiosi di riferimento è il professor Luigino Bruni, autore di numerosi e apprezzati contributi in proposito. Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione a La ferita dell’altro, l’ultimo volume di Bruni, in uscita presso Il Margine di Trento.

Immaginate….. una città senza condomini rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro; dove i pochi grattacieli rimasti sono costruiti in modo da evitare ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli; dove, negli uffici e nei posti di lavoro si comunica solo via mail o, per le decisioni più delicate, via Skype; dove tutti gli spazi una volta comuni sono stati lottizzati e privatizzati, dalle piazze ai quartieri, e ciascuno difende e controlla il suo pezzettino di città; dove con una semplice mail possiamo ordinare la spesa che ci viene recapitata a casa senza bisogno di uscire e perdere del prezioso tempo; dove i media sono diventati così sofisticati e interattivi da farci sentire tutto il giorno in compagnia di tanti, pur trascorrendo sempre più ore da soli davanti a pc e tivù; anche le lezioni universitarie ci vengono recapitate a casa via Internet, con docenti virtuali preparatissimi che ci seguono personalmente da qualunque parte del mondo, senza alcun bisogno di incontri faccia a faccia.

Una città «ideale»: i conflitti sono stati infatti eliminati perché è venuta meno la pre-condizione stessa del conflitto, insistere cioè su una terra comune, su di una communitas. Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì, poiché questa scena stilizzata è molto vicina a quella reale che si sta profilando nelle città che oggi stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato. Mercato, sì: perché il mercato e la sua logica è proprio ciò che più sta determinando questo scenario. Questo libro vorrebbe offrire qualche spiegazione del perché si sta profilando un quadro simile, e magari offrire qualche spunto di riflessione a chi (come me) è molto preoccupato da una tale prospettiva. Ci sono un’ immagine e un’intuizione all‘origine di questo testo: il «combattimento di Giacobbe con l’angelo» narrato dalla Genesi (l’immagine), e l’indissolubile legame presente in ogni autentico rapporto umano tra «ferita» e «benedizione» (l’intuizione).

Prima o poi ogni persona fa una esperienza, che segna l’inizio della sua piena maturità: capisce nella propria carne e intelligenza che se vuole sperimentare la benedizione legata al rapporto con l’altro/a, deve accettarne la ferita. Comprende, cioè, che non c’è vita buona senza passare attraverso il territorio buio e pericoloso dell’altro, e che qualunque via di fuga da questo combattimento e da questa agonia conduce inevitabilmente verso una condizione umana senza gioia. In un certo senso è tutta qui l’idea che ha originato il percorso di questo libro, il quale racchiude un tentativo di far dialogare l’economia con questo «combattimento»,con la ferita e con la benedizione dell’altro. Perché tentare questo dialogo?

La scienza economica, con la sua promessa di una «vita in comune senza sacrificio», rappresenta nella tarda modernità una grande via di fuga dal contagio della relazione personale con l’altro, e proprio per questa ragione l’umanesimo dell’economia di mercato, che pure ha prodotto grandi frutti di civiltà, è oggi tra i grandi responsabili (sebbene non l’unico: un altro grande protagonista è la tecnologia) della deriva triste e solitaria delle moderne società di mercato, una condizione umana senza gioia anche per aver creduto alla grande illusione che il mercato, o l’impresa burocratica e gerarchica, ci potesse regalare una buona convivenza senza dolore, ci facesse incontrare un'altra che non ci ferisse, che non combattesse ma semplicemente scambiasse innocuamente con noi. E in effetti ci stiamo sempre più «incontrando» in questo modo negli anonimi mercati post-moderni. Ma forse stiamo uscendo dal territorio dell’umano, se è vero che l’umano inizia con la gratuità, che è sempre un’esperienza di relazione interumana rischiosa e quindi potenzialmente dolorosa. (...)

Questo innocuo incontro con l’altro senza ferita è anche un incontro senza gioia, che non porta ad una vita pienamente umana, per la persona e per la società, come i contemporanei studi sui «paradossi della felicità» ci dicono con sempre maggiore forza, come avremo modo di vedere nell’ultima parte di questo saggio. Questa grande illusione della modernità oggi la stiamo pagando infatti con la moneta della felicità, ed è ora che qualcuno chiami il bluff. (..)

Questo libro, però,non è scritto da un pessimista o da un nemico dei mercati e della società contemporanea, o da un nostalgico di antiche comunità pre-moderne. Lo sguardo con il quale guardo il mondo che cerco di descrivere vuole essere in realtà largo, positivo, uno sguardo di chi è solidale compagno di viaggio dei protagonisti (economisti compresi) delle storie che racconta. Le pagine che seguono sono solo un tentativo per comprendere qualche dinamica meno visibile delle cause della crisi epocale che stiamo attraversando (che è una crisi essenzialmente relazionale), e imbastire un ragionamento che renda ragione della speranza, che vorrei fosse la vera nota dominante di tutto il saggio.

Una riflessione a tutto tondo sulle relazioni umane, soprattutto su quelle orizzontali faccia a faccia (...), è dunque il filo conduttore del saggio. Sulla vasta gamma della relazionalità umana, come vedremo, l’economia si è concentrata essenzialmente su una sola forma, quella assimilabile all’eros,
trascurando la philia (amicizia), emarginando totalmente l’‘agape, la relazionalità improntata a gratuità, per la carica che l’agape ha di potenziale sofferenza dovuta alla mancanza di controllo pieno su di essa. La classica tripartizione dell’amore umano in eros, philia e agape sarà, non a caso, un altro tema dominante, e chiave di lettura, presente nelle pagine che seguono. Voglio poi specificare subito che questo libro non contiene nessun appello a combattere i mercati o a costruire una società libera dai mercati. Il tentativo che invece si nasconde in questo libricino è tentare di addurre alcune buone ragioni a sostegno dell’importanza e dell’urgenza di incontrare il mistero drammatico dell’altro e della communitas, senza però tornare in un mondo pre-moderno e senza mercati o uscire in una delle tante forme di comunitarismo di oggi. La storia umana ci mostra, infatti, che dove non arriva il mercato non è normalmente l’amore scambievole a prendere il suo posto; soprattutto nelle grandi comunità, il vuoto del contratto è spesso riempito da rapporti di potere, dove il più forte sfrutta il più debole. Anche nel mercato ritroviamo forti e deboli, ma spesso sappiamo riconoscerli e vogliamo superare le asimmetrie. Sono convinto che un mondo senza mercati e contratti non è una società decente; ma una società che ricorre solo a mercati e contratti per regolare i rapporti umani lo è ancor meno. Molta parte del discorso che svolgeremo in questo saggio si muove sul terreno compreso tra «solo» e «senza».

Il mercato, questa «zona franca» dove possiamo incontrarci senza sacrificio, in modo mediato e mutuamente vantaggioso, è una conquista della civiltà e uno strumento di civiltà che, qualche volta, può anche allearsi con la gratuità, e diventare mezzo per una convivenza umana più libera e addirittura più fraterna. Le tante esperienze di economia sociale, civile, di comunione, di ieri e di oggi, ci dicono esattamente questo: il mercato può diventare luogo di vero incontro con l’altro e di benedizione, purché si apra alla gratuità, purché non fugga dalla ferita dell’altro.

Infine (…)non occorre dimenticare il ruolo potenzialmente civile delle mediazioni: anche la protezione dalla ferita dell’altro, assicurata dal sistema mediato e decentrato dei prezzi e dalla mediazione della legge, può svolgere una funzione positiva e civilizzante, soprattutto in quelle società dove il mercato è sottosviluppato, e le esperienze dell’uguaglianza e della libertà sono sempre minacciate. Esiste però un punto critico, una soglia, oltrepassata la quale la relazione anonima dei mercati produce anomia, solitudine e smarrimento dei legami identitari: è mia impressione che le opulente società occidentali abbiano già oltrepassato questa soglia, che delimita anche il territorio dell’umano.

di Luigino Bruni
Docente di Economia politica Università Bicocca - Milano
MM/10/07


Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Giovedì, 28 Febbraio 2008 00:22

Etiopia: il risveglio

Lo straniero che si affaccia per la prima volta sulla scena etiopica coglie immediatamente il senso di sicurezza e di normalità che si respira nelle grandi città. È l’eredità di uno stato con una tradizione bi-millenaria. Ma i controlli sistematici negli aeroporti, nei ristoranti e nei principali alberghi della capitale, Addis Abeba, testimoniano di una certa tensione. Le autorità non scartano l’eventualità di un attentato terroristico, visto che l’esercito è impegnato in Somalia a rintuzzare le iniziative armate di gruppi del radicalismo islamico.

Altro sentimento dominante: una certa rassegnazione della popolazione che, dopo la morte del Negus, Hailé Selassié (regnò ininterrottamente dal 1930 al 1974), subì il terrore rosso di Menghistu Hailé Mariam. Oggi, a diciassette anni dalla caduta del regime marxista del derg, che aveva racchiuso il paese in una cappa di piombo, la vita culturale e notturna di Addis Abeba sta timidamente riprendendo.

Tuttavia, rimane il trauma causato dalle elezioni politiche del maggio 2005, che si chiusero con la netta sconfitta dei candidati della coalizione al governo, il Fronte democratico e rivoluzionario del popolo etiopico (Fdrpe). Dopo aver modificato a proprio favore l’esito delle urne, la Coalizione ha fatto largo uso della repressione per mantenersi al potere. Per la commissione d’inchiesta del parlamento, il bilancio delle manifestazioni del novembre 2005, che contestavano gli “aggiustamenti” del voto, fu di 193 morti. Arrestati anche i principali esponenti dell’opposizione, tra cui il presidente della Coalizione per l’unità e la democrazia (Cud), Hailu Shawel.

A luglio, il regime s’è inventato un colpo di teatro: il giorno 16, ha condannato all’ergastolo i 37 oppositori arrestati; il giorno 20, li ha liberati, dopo un’umiliante confessione, nella quale hanno «riconosciuto» la propria responsabilità negli incidenti del 2005. In questo modo, si è tentato di abbassare la temperatura politica prima dell’inizio delle celebrazioni del passaggio al terzo millennio.

D’altra parte, le divisioni in seno all’opposizione hanno tranquillizzato l’Fdrpe, tutto concentrato a realizzare opere infrastrutturali e convinto, in questo modo, di vincere le elezioni amministrative, la cui data non è ancora stata fissata. Va detto che l’atteggiamento dei principali partner dell’Etiopia, a cominciare dagli Usa, spinge una parte dell’opposizione a cercare una strada di compromesso con la maggioranza di governo.

E il fatto che gli stati europei abbiano ignorato la risoluzione del parlamento Ue, che chiedeva sanzioni mirate contro il primo ministro Meles Zenawi, rafforza la convinzione generale che il governo goda del sostegno dell’Occidente.

Zenawi, comunque, non può ignorare del tutto le preoccupazioni della popolazione. La più immediata è l’inflazione: l’indice generale viaggia attorno al 20%, ma per grano, mais e sesamo i tassi sono rispettivamente del 30, 150 e 100%. Inoltre, presto o tardi, bisognerà rispondere alla frustrazione degli amhara (da sempre il gruppo dirigente del paese), che abitano la capitale e i dintorni, e che sono indignati del fatto che il potere sia in mano ai tigrini (il 7% della popolazione). L’animosità è tale che, negli ultimi anni, alcuni fedeli hanno più volte tentato di lapidare il patriarca della chiesa ortodossa etiopica, Abuna Paulos, originario del Tigray (la regione più settentrionale) come Meles.

Le autorità negano ogni favoritismo etnico o regionale, invocando la costituzione federale e sottolineando che quest’anno più di due terzi del budget va agli stati della federazione.

Focolai di conflitto
Se nelle principali città si respira un’atmosfera tranquilla (i turisti sono passati da 139mila a 227mila tra il 1997 e il 2005), nella periferia dell’immenso paese (quasi quattro volte l’Italia) covano numerosi focolai di guerriglia. Il gruppo guerrigliero più attivo è il Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden (Fnlo), di etnia somala, sorto nel 1984 a Mogadiscio e i cui effettivi sono stimati in qualche centinaio di combattenti. Il governo attribuisce all’Fnlo l’attacco al sito dell’impresa cinese Zhongyuan Petroleum Exploration, che lo scorso aprile ha causato 75 morti. A questo aggiunge l’attentato nello stadio della città di Jijiga, in maggio: una bomba ha ucciso 11 persone.

Governo e osservatori stranieri evocano spesso i legami dell’Fnlo con l’Unione delle corti islamiche della Somalia, e anche con i jihadisti somali di Al-Ittihad Al-Islamiya, sospettata di essere legata ad Al-Qaida. Ma il metodo scelto per combattere i secessionisti dell’Ogaden rischia di spingere le popolazioni locali, musulmane, tra le braccia dei ribelli.

In ogni caso, né l’Fnlo, né i ribelli afar, né il Fronte di liberazione oromo (Flo), poco attivo, né il Fronte patriottico Arbanyotsh, presente nell’area di Gondar, né il Fronte di liberazione del Tigray (Tlf), rivale del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) di Meles, sono in grado di rovesciare il governo. La situazione, però, potrebbe aggravarsi, se persistesse la tensione con l’Eritrea (Asmara sostiene le guerriglie etiopiche e gli islamisti somali; non si esclude una ripresa della guerra) e se si prolungasse la presenza armata etiopica in Somalia.

All’inizio di giugno, osservatori militari dell’Onu hanno rilevato l’installazione di batterie lanciamissili etiopiche lungo la frontiera eritrea e il concentrarsi verso Badme di contingenti di fanteria, scortati da mezzi blindati. Le relazioni tra Asmara e Washington traballano, tanto che gli Usa stanno pensando d’inserire l’Eritrea nella lista dei paesi “terroristi”. E questo è un fattore favorevole a un eventuale nuovo scontro Asmara-Addis Abeba, tanto più che Usa ed Etiopia sono alleati in Somalia, dove alcuni marines addestrano un’unità d’élite etiopica.

Il pericolo è che si crei un nuovo bubbone di tipo iracheno e che si offra ad Al-Qaida l’occasione di sfruttare le frustrazioni somale contro i “crociati” etiopici per fare proseliti in seno all’organizzazione Al-Sahabab. L’avventura somala è molto criticata ad Addis Abeba: viene chiamata “la guerra di Meles”. L’esercito etiopico, forte di non meno di 150mila uomini e rodato da anni di combattimenti ininterrotti su vari fronti, è il più potente del Corno d’Africa.

Un peggioramento delle cose non è, comunque, ineluttabile.

Anzi, la situazione potrebbe migliorare, se Washington riconoscesse che la presenza etiopica in Somalia è controproducente. Il politologo francese Gérard Prunier osa addirittura sperare in un possibile mercato comune del Corno d’Africa, «se prevarrà una certa logica».

Crescita del Pil verso il 10%
In attesa di sviluppi, la sicurezza alimentare – ogni anno crescono di 2 milioni le nuove bocche da sfamare – costituisce una sfida permanente, in un paese che ha conosciuto grandi carestie e non è al riparo da nuove catastrofi. In settembre, Medici senza Frontiere ha lanciato l’allarme sulla situazione nell’Ogaden. Non bisogna dimenticare che l’Etiopia soffre di un deficit cerealicolo cronico di 600mila tonnellate l’anno, anche se la produzione negli ultimi cinque anni è passata da 8,7 a 11,6 milioni di tonnellate.

Tra le cause dell’insicurezza alimentare vanno annoverati i bassi rendimenti agricoli, l’arretratezza delle tecniche di produzione e l’eccessivo frazionamento delle terre coltivate. La demografia galoppante sortisce l’effetto di diminuire la superficie della terra disponibile per ogni nucleo familiare. Anche nelle zone più produttive, come al sud, si trovano sacche di malnutrizione. Un altro handicap è costituito dal regime fondiario: la terra appartiene allo stato e i contadini non ne hanno che l’usufrutto; ciò riduce la possibilità per agricoltori e allevatori di accedere a finanziamenti per sviluppare la propria attività.

Eppure, il potenziale agricolo, grazie all’abbondanza delle precipitazioni, è considerevole. L’accordo dello scorso maggio con la Starbucks, la catena del caffè regina in America e nel mondo, ha aperto all’Etiopia – primo produttore africano di caffè, con una raccolta media annua di 300mila tonnellate – una strada per accrescere le entrate in valuta pregiata. L’accordo, infatti, riconosce la proprietà intellettuale dei piantatori e l’etichettatura delle qualità arabiche sidamo o harar. Anche i semi oleosi e l’orticoltura conoscono uno sviluppo spettacolare. Lo stesso si può dire della floricoltura intorno ad Addis Abeba e nella Rift Valley.

L’Etiopia è anche ricca di paradossi. Nonostante le tensioni interne e alle frontiere, il paese non ha mai conosciuto un boom economico paragonabile a quello del 2007. Nell’ultimo anno la crescita del prodotto interno lordo (Pil) è stata del 9,6% e, secondo le previsioni, nel 2007-2008 manterrà lo stesso ritmo. Il Fondo monetario internazionale, lo scorso giugno, ha rilevato che le performance economiche degli ultimi anni hanno contribuito a «ridurre significativamente la povertà». Ma il boom non deve far dimenticare la fragilità di un’economia con un deficit commerciale strutturale, che dilata il baratro del debito.

Puntare alla crescita
Pur con tutti i suoi limiti, l’Etiopia attira sempre più capitali stranieri. Gli investimenti diretti dall’estero sono passati da 149 milioni di dollari nel 2001 a 365 milioni oggi. La Cina, che già ha costruito molto nella periferia della capitale, ha investito 150 milioni di dollari nella realizzazione di una dependance dell’Unione africana (Addis Abeba è la sede dell’Ua): il progetto prevede 225mila nuovi alloggi entro il 2010.

La crescita crea anche inconvenienti. In luglio, Ethiopian Telecoms non è riuscita a soddisfare la domanda di carte Sim. Gli ingorghi del traffico sono all’ordine del giorno nella capitale e sulla strada che porta al porto di Gibuti. La linea ferroviaria, che è in fase di ristrutturazione grazie ai fondi Ue, potrà diventare un’alternativa al trasporto merci su gomma solo tra qualche anno. Gli industriali si lamentano per la frequente penuria di materie prime e per l’approvvigionamento intermittente di acqua ed elettricità.

Intanto, presso il mercato di Addis Abeba si allungano le file davanti ai cinema che presentano film etiopici. Opere non sempre di buona qualità, ma che testimoniano il dinamismo di un’industria in pieno sviluppo, anche attraverso la produzione di Dvd e videocassette. In espansione il turismo e in crescita le rimesse degli emigrati: 1,1 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2007.

Grazie alle abbondanti piogge che si abbattono sugli altopiani, il paese dispone del secondo potenziale idroelettrico in Africa, dopo quello del bacino del Congo. Il governo è deciso a sfruttare questa opportunità, sia per soddisfare i bisogni interni, sia per vendere elettricità a Sudan, Kenya, Gibuti e Yemen. Le centrali elettriche di Gilgel Gibe II, Amerti-Neshe, Takeze e Anabeles saranno ultimate entro tre anni e potranno esprimere un potenziale di 880 megawatt (Mw), cioè il doppio della capacità attuale. In settembre, l’italiana Salini ha iniziato la costruzione di Gilgel Gibe III (1.870 Mw), con un investimento di 1,6 miliardi di dollari.

Venendo al settore minerario, sono in vigore 50 permessi di esplorazione che riguardano oro, platino, minerali di ferro, carbone, pietre preziose e metalli di base. Ma l’Etiopia, che ha una struttura geologica simile al Sudan e allo Yemen, aspira a diventare anche produttrice di petrolio e gas. La britannica White Nile sta sondando il territorio lungo il fiume Omo, nel sud; presto anche il centro del paese sarà oggetto di specifiche esplorazioni.

Il governo sta investendo massicciamente nelle risorse umane. L’obiettivo è di arrivare al 100% di scolarizzazione primaria (oggi 79%) entro il 2015, ma anche di sostenere la formazione professionale e l’insegnamento universitario. Nel 1991 c’era una sola università: oggi ve ne sono 8 e altre 13 sono in costruzione. Nello stesso tempo, c’è un problema di “fuga dei cervelli”, che ha assunto proporzioni spettacolari. Un recente studio evidenzia che un terzo dei medici ha lasciato il paese negli ultimi dieci anni.

In un’Africa dalle strutture statuali deboli, l’Etiopia, disponendo da secoli di un’amministrazione pubblica disciplinata, ha dimostrato di essere capace di generare una forte crescita economica. Occorre far sì che questa crescita sia duratura. Ma per dare continuità alla crescita è necessario che chi è al potere eserciti l’arte del compromesso, presupposto della pace. Uno storico etiopico emigrato ci spiega che «nella lingua amharica non c’è un termine che corrisponda alla parola “compromesso”». Vorrà dire che saranno i bisogni a imporre un cambio di mentalità.


François Misser
Nigrizia / Novembre 2007


Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Martedì, 26 Febbraio 2008 16:06

DUE ANIME IN TENSIONE

Sono stati tanti gli appuntamenti che hanno
caratterizzato il viaggio apostolico di Benedetto XVI in Brasile (9-14 maggio)
in occasione della 5a Conferenza generale dell’episcopato
latino-americano e dei Caraibi (Celam): cerimonia di benvenuto all’aeroporto di
São Paulo/Guarulhos; saluto e benedizione della folla dal balcone del Monastero
di São Bento; incontro con il presidente Lula; pranzo con i rappresentanti
della Conferenza dei vescovi del Brasile; incontro con i giovani nello stadio
di Pacaembu; santa messa e canonizzazione del Beato Frei Galvão, nel Campo de
Marte; incontro con la comunità della Fazenda da Esperança, un centro di
recupero per tossicodipendenti, a Guaratinguetà; santa messa di inaugurazione
della 5a Conferenza, nel piazzale di fronte al santuario di Nossa
Senhora da Conceição Aparecida, patrona del Brasile, situato ad Aparecida do Norte;
lunga relazione introduttiva della conferenza, che molti hanno avvertito come
un discorso programmatico...
E, tuttavia, va segnalato un episodio il cui
significato - che l’animo latino-americano coglie con immediatezza - è sfuggito
a buona parte dei 1.500 giornalisti stranieri al seguito del Papa. Il giorno
10, mentre si sta recando all’incontro con i giovani, Benedetto XVI si ferma
davanti ai Memorial dell’America
Latina, il monumento dedicato al dramma della “Conquista”: una mano alzata (di
Cristo?),dal cui centro sgorga del sangue, che cola creando una forma che
richiama quella del sub-continente americano, memoria della sofferenza che
grida al mondo di non dimenticare. Il Papa sosta in silenzio: sembra
identificarsi con questa sofferenza. Non riesco a distogliere gli occhi dal suo
volto: sono certo che sta pensando a ciò che i popoli latino-americani
subiscono tuttora. Prega. Poi solleva la mano destra e benedice il monumento.
L’avranno informato che quella scultura è stata
realizzata nel 1987 da Oscar Niemeyer, il più noto architetto brasiliano (sua è
anche la stupenda cattedrale di Brasilia), che, dall’alto dei suoi 100 anni,
continua a considerarsi «uno dei pochi comunisti veri viventi». Ironia della
storia: da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’allora Card.
Ratzinger fu ritenuto responsabile del clima di sospetto, di incomprensione -
se non di persecuzione - nei confronti della teologia della liberazione, cioè
di una esperienza e di una dottrina che sono espressione della cultura degli
oppressi; oggi, da Papa, viene profondamente colpito e ferito dalla realtà
dolorosa del continente latino-americano, che ora vede con i suoi stessi occhi
e tocca con la sua mano….., che si alza a benedire. Un amico mi domanda: «Cosa
vedi?». Rispondo: «La solidarietà e la preoccupazione di un Papa».
 
QUALE EVANGELIZZAZIONE 

Solidarietà e preoccupazione sono stati anche i due
sentimenti che più hanno segnato i lavori della Conferenza di Aparecida (13-31
maggio), quinta di una serie: Rio de Janiero (Brasile), 1955; Medellin
(Colombia), 1968; Puebla (Messico), 1979; Santo Domingo (Repubblica
Dominicana), 1992.
Come nei simposi precedenti, anche in questo è stato
difficile trovare un consenso su quali debbano essere le vie maestre da seguire
per la “Nuova evangelizzazione” del sub- continente, dove vive il 43% dei
cattolici del mondo. Per venti giorni, 166 vescovi (il numero è diminuito con
il trascorrere dei giorni) e un centinaio di inviati speciali di altre chiese
si sono confrontati e hanno riflettuto per definire le linee di azione per la
pastorale dei prossimi anni. Con coraggio, i delegati della Conferenza si sono
guardati allo specchio e in faccia: hanno analizzato la realtà ecclesiale
dell’America Latina dai più svariati punti di vista - religioso,
socio-politico, economico, culturale -, hanno formulato indicazioni e proposte
concrete, e, infine, hanno raccolto il tutto in un ricco documento finale, già
conosciuto come Documento di Aparecida. Il Card. Francisco Javier Erràzuriz Ossa, arcivescovo di Santiago del
Cile e presidente del Celam, ha commentato: «È parso una follia voler elaborare
un testo che soddisfacesse oltre 200 teste, ma ci siamo riusciti».
Il documento - 128 pagine, suddivise in 10 capitoli e
una conclusione - è stato votato alla quasi unanimità (127 favorevoli, 2
contrari, un’astensione). Come titolo porta il tema della Conferenza: “Discepoli
e missionari di Gesù Cristo, affinché i nostri popoli abbiano vita in Lui”:
Parla della testimonianza cristiana, della comunione
nella chiesa, delle sfide presentate dalla situazione socio-economica
dell’America Latina, della formazione dei sacerdoti e dei laici, dei popoli
amerindi e afroamericani, dell’ecologia e della questione dello sviluppo
sostenibile dell’Amazzonia.
Un tema nevralgico, entrato all’ultimo momento nel
documento finale, è quello delle comunità di base. Due argomenti tralasciati
(perché ritenuti da Roma ancora troppo polemici) sono stati la teologia india e
la cosiddetta “questione del genere”, cioè il ruolo e la responsabilità delle
donne all’interno della chiesa. Prima di essere pubblicato, il documento dovrà
ricevere l’approvazione del Pontefice.
 
MISSIONE E COMUNITÀ DI BASE 
Il sociologo Pedro Ribeiro de Oliveira,
dell’Università cattolica di Brasilia e consigliere della Commissione
episcopale per i laici, ritiene che, anche se il termine non è stato usato
pubblicamente, «è emerso, ancora una volta, lo scontro» tra le due principali tendenze della chiesa
latino-americana: la prima, più curiale, più attenta alla dottrina e legata a Roma;
la seconda, più pastorale, che fa riferimento alla teologia della liberazione e
alla tradizione delle conferenze di Medellìn e Puebla. «Questa tensione è di
vecchia data. Oggi però può essere interpretata come una ripresa da parte di
Roma della volontà di controllare la chiesa sia in America Latina e nei Caraibi
sia nel resto del mondo». Ribeiro ha partecipato ai lavori del Gruppo
Amerindia: una trentina di teologi e teologhe della liberazione; una presenza
non ufficiale, ma accettata dal Celam. Attraverso i vescovi a loro più vicini,
il gruppo è riuscito a far giungere il suo apporto alle varie commissioni di
studio, tanto che alcuni punti da esso sottolineati sono finiti nel documento
finale.
Alcuni si sono chiesti se quanto è avvenuto ad
Aparecida rappresenti un passo indietro o avanti rispetto alla “chiesa dei
poveri”. Dom Demétrio Valentini, vescovo di Jales e presidente della Caritas
brasiliana: «E’ innegabile che tra i partecipanti alla conferenza c’è stata una
ricca esperienza, che va valorizzata. Anche perché è poi confluita nel
documento finale. Anche se steso con il genere letterario tipico dei documenti
della chiesa, con numerose contraddizioni interne e con un palese squilibrio
tra le parti, esso offre buoni contributi destinati a segnare il futuro della
chiesa latino-americana. Forse non sarà un “grande” documento, ma contiene
chiari appelli e forti opzioni pastorali. Il messaggio emerge senza ombre:
ritorno al Vangelo e incontro con Cristo in una vera dinamica missionaria».
Dom Valentini non nasconde che, soprattutto
all’inizio dei lavori, s’è avvertito un certo disagio, forse vera e propria
paura, nei confronti delle comunità di base. «C’erano solo cinque vescovi alla
celebrazione promossa da queste comunità. Alla fine, comunque, siamo riusciti a
inserire nel documento finale l’affermazione che esse “fanno parte della stessa
struttura della chiesa”».
Anche Pablo Richard, insegnante di teologia biblica e
di sociologia della religione, direttore del Dipartimento ecumenico per le
ricerche di San Tomé (Cile) e membro del Gruppo Amerindia, ha parlato di paura:
«Ad Aparecida s’è incontrata una chiesa che ancora nutre numerosi timori,
soprattutto quello che possa esserci un magistero alternativo all’unico vero. È
vero che, rispetto a quello di Santo Domingo, il clima di questa conferenza è
stato più disteso e amichevole, e il dialogo più fraterno e aperto. Ma la paura
reciproca è rimasta: i laici hanno paura dei preti, che hanno paura dei
vescovi, che hanno paura di Roma, che ha paura della teologia della
liberazione. Un circolo vizioso».
Richard critica il documento finale: «Un testo per
vescovi, preti e religiosi. Più dottrinale che pastorale, a differenza di
quello di Puebla, che era interamente interessato alla vita ecclesiale pratica.
Il nuovo documento è più preoccupato di difendere la dottrina ufficiale e
riflette una chiesa rivolta a sé stessa, preoccupata più della sua identità che
del mondo in cui vive. Ad esempio, non c’è stato un vero riconoscimento della forza
dei movimenti sociali. Questo ha sorpreso molti, anche perché la conferenza si
è svolta in un paese che è la patria del Movimento dei senza terra, una delle
più importanti iniziative sociali al mondo».
Alla vigilia della conferenza, alcuni vescovi e media
brasiliani si erano preoccupati di dire che la teologia della liberazione è
ormai morta e sepolta. Richard, di rimando: «Aparecida li ha smentiti. Esistono
anche oggi teologi della liberazione, autori di ottimi testi sulla possibilità
di avere un mondo diverso, più giusto e solidale. Il Gruppo Amerindia ha
lavorato dietro le quinte, preparando numerosi testi sulla linea
teologico-ecclesiale uscita da Medellin e Puebla. Testi che alcuni vescovi
hanno fatto propri e sottoposto alla riflessione della conferenza. Non siamo
stati una lobby di pressione, ma un semplice “gruppo di appoggio”. In un
dialogo franco e aperto con il Celam, avevamo chiesto di essere presenti ad
Aparecida non come degli “invisibili” (com’era capitato a San Domingo), ma
legittimamente liberi di parlare con i nostri vescovi, visitarli negli alberghi
e passare loro le nostre riflessioni su quanto sarebbe capitato nel corso della
conferenza. E tutto ciò è avvenuto nella più grande libertà».
 
INDIOS
E AFRO 
Mons. Vittorino Girardi, comboniano, vescovo di Tiralàn
(Costa Rica), è soddisfatto: «Oltre al fatto che il documento finale sottolinea
la missionarietà come carattere essenziale di ogni chiesa, c’è stato anche un
chiaro appello dei vescovi, riassumibile nello slogan spesso ripetuto: “Per una
grande missione continentale”. Non si tratta di proselitismo o di una crociata
per il recupero dei milioni di fedeli che si sono allontanati dalla chiesa
cattolica per riversarsi nelle nuove chiese pentecostali. I vescovi chiedono
alle comunità cristiane di tornare a porsi domande fondamentali: a chi spetta
annunciare? chi dobbiamo annunciare? a chi è rivolto il nostro annuncio? con
quali mezzi possiamo diffondere il messaggio?» Ma il teologo Paulo Suess storce
il naso davanti allo slogan e mette in guardia sui possibili fraintendimenti
che la parola “missione” potrebbe causare: «Secoli di conquista e dominazione
europea hanno conferito al termine “missione” connotati colonialisti. Oggi si
dovrebbe “de-missionarizzare” la chiesa, per renderla sempre più una comunità
che sa convivere con l’altro, con il diverso, ed è capace di dialogo
interreligioso».
Mons. Girardi è contento anche del fatto che nel
documento finale i popoli amerindi e afro-americani occupino un posto di
rilievo. Esprime, però, una lamentela: «La teologia india continua a rimanere un tema tabù per la maggioranza
dei vescovi. Si è fatto troppo poco. Ma almeno si è affermata la speranza che
si possa avere presto un vescovo indio, che il numero dei prelati
afro-americani aumenti e che ci sia una liturgia veramente inculturata».
La teologa Silvia Regina mi ha espresso il suo
rammarico per i pochi vescovi neri presenti alla conferenza. Gilio Felicio,
l’unico vescovo afro-brasiliano, era in veste di “supplente” della delegazione
brasiliana. «Visto che in questa nazione il 45% della popolazione è afro e che
ad Aparecida c’è il santuario della Vergine Nera, mi aspettavo di vedere più
facce nere. Ovvio che anche vescovi bianchi possono essere efficaci portavoce
dei gruppi afro. Ma una persona che non vive anche “corporalmente” le
difficoltà che i neri sperimentano nelle nostre nazioni, difficilmente chiederà
che una risposta a tali difficoltà figuri tra le priorità della chiesa. Del
resto, lo scarso numero di vescovi neri ha come diretta conseguenza il fatto
che la riflessione sulla “negritudine” all’interno della chiesa
latino-americana è ancora alquanto superficiale. Spesso tutto si riduce alla
celebrazione di una messa “all’africana”, dove simboli, colori e musiche altro
non sono che cosmesi e folclore».
Volendo concludere con una sintesi estrema, si può
affermare che sia il Messaggio al popolo dell’America Latina e dei Caraibi sia il Documento di Aparecida risentono di un compromesso per accontentare le due
tendenze della chiesa del sub-continente: quella dottrinale e quella pastorale.
Toccherà ai rappresentanti dell’una e dell’altra impegnarsi nell’aspetto che è
loro più consono.

di Paulo Lima
da Aparecida do Norte (Brasile)
Nigrizia/ Luglio-agosto 2007





















































Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Venerdì, 22 Febbraio 2008 19:03

VINCE IL PROFITTO, PERDE LA SALUTE

VINCE IL PROFITTO, PERDE LA SALUTE

di Roberto Topino e Rosanna Novara
da Missioni Consolata - dicembre 2007

Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.

L'inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d'inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell'ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell'ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l'eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l'uomo. L'uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un'agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell'agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell'iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch'essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici», cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall'India e da alcuni paesi dell'America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.

L'avvelenamento del Sud del mondo

In linea di massima, l'80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l'agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l'80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l'uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l'analfabetismo, la mancanza totale d'informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.

Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l'uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall'Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smista mento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l'Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l'84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l'88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell'ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al mi­lione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.

Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon

Emblematico è il caso dell'intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l'esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (California) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l'immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in California e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell'ambiente e capace di provocare inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l'uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all'Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni '70 e '80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell'Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). ln un'intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni '60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni '70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d'irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell'impacchetta mento delle banane. Inoltre venne contaminata l'acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l'acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d'intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell'ambiente.

La strage di Bophal (ma non furono i terroristi)

Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l'isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell'aria, a seguito di un'esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l'incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l'esplosione l'ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che forniscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pago 25).

C'è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest'ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d'invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all'inquinamento di aria, acqua e suolo.

Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi

E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 daIl' Apat (Agenzia per la protezione dell'ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all'anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l'area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell'atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un'intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell'Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.

Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali

Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli OGM, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l'uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all'erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell'erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell'agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.

L'eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. lnfatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l'agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all'impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetabili coltivabili a qualche centinaio.

La biodiversità uccisa dall' agricoltura industriale

Purtroppo, l'agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l'agricoltura industriale porta all'estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell'industria chimica, anziché a quelle dell'ecosistema. lnoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell'insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l'intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l'utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l'infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?

Più pesticidi, più resistenza, più danni

La risposta sta nel fatto che l'insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d'individui, ma si tratta purtroppo d'individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d'insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l'agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d'insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.

Consideriamo poi che l'adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. lnoltre i predatori, divorando grandi quantità d'insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, manmano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un doroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l'uomo è al vertice della catena alimentare.

La sperimentazione e la «dose letale 50»

Oltre a tutto ciò, l'agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d'acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L'impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l'acqua del suolo. L'irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un'agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo.

C'è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L'EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull'uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l' ora. I partecipanti all'esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l'esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall'amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005,denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso.

Tra le aziende, che commissionarono questi studi c'è la Bayer. ln Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org),che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.

Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.

Senza pesticidi si può: la lotta biologica

Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l'uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all'uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitoidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitoidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell'artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l'ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all'allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B.impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T.harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.

Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio

E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un'indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L'impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d'intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all'effetto dei pesticidi si assomma quello dell'inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.

GLOSSARIO ESSENZIALE

ARTROPODl:sono gli animali più largamente diffusi sia nelle acque, che nelle terre emerse. Derivano per evoluzione dagli Anellidi (vermi), da cui si distinguono per la presenza di zampe per la deambulazione e/o di ali per il volo. In entrambi i casi si tratta di modificazioni dei parapodi, cioè delle prominenze laterali dei segmenti degli Anellidi.

BOMBUS IMPATIENS: eccellente insetto impollinatore, soprattutto per i mirtilli. Viene allevato e commercializzato per l'agricoltura.

BOTRITE: principale avversità delle coltivazioni in serra, in particolare di pomodori, fragole, peperoni, melanzane. Si presenta sotto forma di muffa grigia.

ENTOMOFAGO: che si ciba di insetti.

FEROMONI: sostanze ad azione ormonale, che permettono una comunicazione chimica tra individui diversi, appartenenti ad una stessa società (ad es. le api). Mediante queste molecole, che spesso svolgono una funzione di richiamo sessuale, si può ottenere la coordinazione di alcuni caratteri fisiologici tra individui diversi.

IMENOTTERl: ordine d'insetti (almeno 100.000 specie) con apparato boccale masticatore e/o lambente particolarmente sviluppato e con 4 ali membranose, che in qualche caso mancano. Può essere presente un aculeo (modificazione dell'ovopositore), annesso ad una ghiandola velenifera.

IPRITE: solfuro β-β'-dicloroetilico. È un liquido ad elevato punto di ebollizione, irritante e vescicante, che rimane a lungo nel terreno. Fu usato per la prima volta, sotto forma di gas vescicante a Ypres, da cui il nome, durante la prima guerra mondiale (luglio 1917).

LINFOMI NON-HODGKIN: tumori maligni degli organi linfoidi, tra i quali è compresa la leucemia linfatica cronica, caratterizzata, come altre varianti, dall'invasione del sangue periferico da parte di cellule proliferanti. Si distinguono dai linfomi di Hodgkin (linfogranuloma maligno), che nascono nei linfonodi, per poi assumere un carattere sistemico e la capacità di estendersi a tutto il sistema linfatico.

OOPARASSITOIDE: che parassita le uova.

PPM: parti per milione.

PRONUBO: insetto impollinatore, che favorisce la riproduzione delle piante.

TRICHODERMA HARZIANUM:agente eziologico di patologie dei funghi coltivati, in particolare di una muffa verde dell'ordine dei Deuteomiceti o funghi imperfetti, chiamati così perché presentano solo la forma di riproduzione asessuata.

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Potenziare la scuola pubblica, compito per tutti i cristiani

di Maria Cristina Bartolomeidocente di filosofia e teologada Jesus – dicembre 2007

Il diritto-dovere di frequentare la scuola esteso a tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, e in particolare a tutti i bambini, è, nella storia dell'umanità, un fatto relativamente recente e ben lungi dall'essere realizzato ovunque nel mondo. Per molti secoli l'educazione è stata un privilegio dei ricchi e, anche tra essi, l'istruzione un privilegio dei maschi, mentre solo in rari casi le donne vi avevano accesso.

La catechesi, divenuta da un certo punto in poi insegnamento catechistico, è stata a lungo per moltissimi analfabeti l'unica possibilità di apprendimento ed educazione. Cambiata la struttura sociale e accresciutasi la sensibilità per l'iniquità e le conseguenze nefaste della miseria culturale, alle famiglie religiose già dedite alla formazione dei giovani delle classi alte, si sono aggiunte molte congregazioni votate all'istruzione degli appartenenti agli strati sociali svantaggiati ed emarginati.

Oggi, nei Paesi avanzati, la situazione è cambiata e gli Stati si riconoscono il diritto-dovere di provvedere a offrire a tutti i cittadini adeguati percorsi scolastici. La scuola per tutti e di tutti è occasione non solo di apprendimento, ma di socializzazione, di incontro con l'altro, col diverso. Ed è palestra di democrazia, tolleranza, libertà, quando docenti e discenti portatori di orientamenti ideali legittimamente diversi (purché non imposti né confliggenti coi valori costituzionali) si "riconoscano" a vicenda.

In tale nuova situazione, la sollecitudine cristiana per l'educazione dei giovani può attuarsi più liberamente in altri modi, giacché non vi sono più carenze strutturali cui supplire. Le scuole confessionali non debbono perciò sparire e così le scuole con peculiari orientamenti pedagogici (montessoriane, steineriane, straniere ecc.). Ma dovrebbe essere chiaro che l'esistenza della scuola promossa dallo Stato è anche il presupposto che consente ad alcuni di fare libere opzioni diverse, senza l'onere di garantire il servizio a tutti. Anche e proprio chi propone una diversa offerta formativa dovrebbe avere a cuore che la scuola di tutti sia potenziata e di qualità, invece di pensarsi in concorrenza con essa.

«Per la popolazione non tedesca dell'Est non ci può essere una scuola superiore alla scuola elementare di quattro classi. L'obiettivo di questa scuola dev'essere soltanto: saper contare al massimo fino a cinquecento; saper scrivere il nome; l'assimilazione di una dottrina secondo cui è un comandamento divino obbedire, essere onesti, diligenti e buoni. La lettura non la ritengo una cosa necessaria. All'infuori di questa scuola non ci dev'essere all'Est nessun'altra scuola. [...] Dopo una coerente applicazione di queste misure nel corso dei prossimi dieci anni, ciò che rimarrà della popolazione del governatorato generale sarà inevitabilmente una popolazione scadente. Questa popolazione sarà a disposizione come popolo di lavoratori senza capi, e offrirà ogni anno lavoratori fluttuanti e fissi per particolari esigenze di lavoro (strade, cave di pietra, costruzioni)». Si tratta di un brano di un promemoria di Himmler del 1940 (cfr. Sebastian Haffner, Hitler. Appunti per una spiegazione, tr. it., Garzanti, Milano 2002, p. 140): un testo che, al negativo, ben illustra che cosa sia in gioco nelle scelte scolastiche.

In anni recenti in Italia venne lanciato per la scuola lo slogan delle tre "i": inglese, informatica, impresa. Un programma da brivido: una scuola ridotta ad addestramento tecnico per il lavoro; un luogo dove imparare ad adeguarsi e non, invece, prima di tutto, a pensare, criticamente, a essere creativi, capaci di novità. Stranamente, il mondo cattolico, che pure riconosce nell'educazione dei giovani un tema decisivo, non ha reagito in modo vibrato. Invece che le tre "i", la scuola dovrebbe proporre "attenzione, creatività, iniziativa". La psicologia attuale differenzia l'apprendere per imitazione, passivamente accettando modelli - il che non forma la mente e la libertà interiore - dall'apprendere per esperienza, il muovere dalle emozioni verso il pensiero: qualunque scuola lo promuova, serve l'uomo e il suo essere immagine di Dio. Le migliori scuole del mondo per l'infanzia sono a Reggio Emilia, ispirate dal "metodo Malaguzzi", che punta all'ascolto e alla libera espressione del bambino, con l'effetto anche di ridurre le tendenze violente. Già sant'Agostino nel De magistro (un dialogo col figlio Adeodato) mette in luce che le parole altrui possono spingere a imparare, ma decisivo è il maestro interiore: il proprio intelletto e la propria coscienza, in cui i credenti vedono trasparire la luce divina.

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Australia: la spiritualità ecclettica della Generation Y preoccupa la Chiesa

di Stefano Girola
da Jesus – dicembre 2007

Meno della metà dei membri della "generazione Y" (nati fra il 1976 e il 1990) si identificano in una religione tradizionale e sono convinti della propria fede in Dio. È questo uno dei dati principali contenuti in un importante studio presentato a Melboume nel mese di ottobre. Il libro The Spirit of Generation Y: Young people's Spirituality in a changing Australia è il risultato di un progetto durato tre anni e condotto da un team di studiosi dell'Australian Catholic University, la Monash University e la Christian Research Association. Circa 1.300 membri della generazione Y sono stati intervistati e i dati così ottenuti sono stati confrontati con quelli fomiti da un campione di giovani della generazione X ( 1961-1975) e della generazione del "baby boom" (1946-1960). Si tratta indubbiamente dello studio più sistematico mai condotto sulla visione del mondo, i valori, la fede e l'appartenenza religiosa degli adolescenti e dei ventenni australiani. Una ricerca che ha suscitato ampio interesse, anche in vista della prossima Giornata mondiale della gioventù, che si terrà a Sidney nel luglio del 2008.

Per quanto riguarda la fede, il 48% degli intervistati crede in Dio, contro il 20% di non credenti e il 32% di insicuri. Fra i cristiani, solo il 19% frequenta la parrocchia almeno una volta al mese. Fra i giovani che non credono in Dio, circa il 17% segue una spiritualità «eclettica», aderendo a più culti New Age, esoterici o orientali (incluse credenze nella reincarnazione, negli spiriti, nell'astrologia e nei tarocchi). Più del 30% degli intervistati sono stati invece classificati come «umanisti»: sostituiscono la fede in Dio con la fiducia nell'esperienza umana, nella ragione e nelle spiegazioni scientifiche.

Se alcuni dei dati raccolti hanno confermato tendenze ormai evidenti nella vita delle chiese australiane, come il costante calo dei credenti e dei praticanti, altri risultati sono più sorprendenti. È stata smentita per esempio l'opinione comune che il declino nell'adesione al cristianesimo sia legato a una crescente popolarità delle spiritualità alternative. Lo studio non ha evidenziato una particolare "sete di spiritualità" nei teenagers australiani. Secondo Andrew Singleton, della Monash University, «forze sociali come la secolarizzazione, il consumismo capitalista e l'individualismo hanno un notevole impatto nel modellare la religiosità e la spiritualità della generazione Y. Per questi giovani le credenze religiose e spirituali riflettono delle scelte di vita del tutto personali e non sono affatto necessarie».

Ha sorpreso anche la scoperta che non vi sono differenze significative fra le ragazze e i ragazzi. Un dato che preoccupa il cardinale di Sidney George Pell, che ha ricordato come «generazioni di bambini in Australia hanno ricevuto la fede grazie all'esempio delle proprie madri. È difficile immaginare che molte ragazze della generazione Y svolgeranno ancora quel ruolo cruciale quando diventeranno madri a loro volta».

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Il presidente dell'Ecuador: il mio socialismo deriva dal Vangelo

da Jesus – dicembre 2007

Chiude il suo intervento all'incontro di Sant'Egidio "Uomini e religioni" citando monsignor Leonidas Proaño, il vescovo degli indios ecuadoregni: “La verità si dice a parole, si realizza con l'azione. Nessuna doppiezza, nessun inganno, perché se aspiriamo a essere liberi, dobbiamo diventare schiavi della verità”. Rafael Correa Delgado, presidente della Repubblica dell'Ecuador, interviene il 21 ottobre al Teatro San Carlo di Napoli. Economista, master a Lovanio e dottorato negli Stati Uniti, 44 anni, rivendica il suo essere socialista e cattolico. Eletto nel novembre del 2006, la sua linea politica ha avuto una conferma plebiscitaria il 30 settembre, quando 9 milioni di ecuadoriani hanno eletto i I30 membri dell'Assemblea costituente. Un impegno - la riscrittura della Costituzio­ne - che Correa ha assunto all'inizio del suo mandato per “andare oltre il dogma neoliberale e le democrazie di plastilina che sottomettono le società alle illusioni del mercato”.

I ripetuti interventi in materia di rapporti con le compagnie petrolifere (costrette oggi a pagare tributi molto più alti allo Stato e tutti gli arretrati accumulati, pena la cessazione dei contratti per lo sfruttamento del greggio) fanno di Correa uno degli astri nascenti della politica latinoamericana. Proprio in riferimento alla futura Costituzione, in un paio di messaggi la Conferenza episcopale ecuadoriana ha espresso l'auspicio che “metta fine alle irregolarità verificatesi negli ultimi anni e possa fornire il binario per le riforme di cui il Paese ha bisogno”. E, il 27 ottobre, ricevendo il nuovo ambasciatore dell'Ecuador presso la Santa Sede, il Papa gli ha chiesto che la nuova carta “contempli le più ampie garanzie per la libertà religiosa”.

In occasione dell'incontro di Napoli abbiamo chiesto al presidente Rafael Correa Delgado quali sono le sue attese rispetto all'azione della Chiesa in America latina e in Ecuador.

“La Chiesa in America latina”, ci ha risposto, “deve ritornare alla questione sociale. Mi piacerebbe moltissimo che risorgesse la Teologia della liberazione, che nasce dalla dottrina sociale della Chiesa. Una teologia completamente legata al Vangelo ma "coinvolta" con la realtà. Non possiamo dimenticare grandi preti, vescovi della Teologia della liberazione che erano esempio di santità, come monsignor Proano o dom Helder Câmara. L'America latina vive questo paradosso: è considerata la regione più cristiana del mondo, ma allo stesso tempo quella con maggior disuguaglianze, con le più profonde differenze e le più dolorose forme di povertà Per questo la Chiesa deve tornare con forza, alla denuncia delle ingiustizie. O siamo cristlanl e denunciamo queste iniquità, o scegliamo di stare dalla parte dell'iniquità ma non ci diciamo cristiani”.

Lei si dichiara cattolico, e di fatto esiste una collaborazione tra la Chiesa e la sua amministrazione. Che cosa manca?

“Dom Helder Câmara diceva: “Quando do da mangiare ai poveri mi chiamano santo, quando parlo delle cause della povertà mi chiamano comunista”. Negli ultimi anni la Chiesa ha assunto una prassi assistenzialista – carità verso i poveri, verso le vittime del sistema – ma è come se avesse smesso di chiedere perché ci sono i poveri e si preoccupasse solo di dare loro da mangiare. Invece ritengo che la Chiesa debba essere più capace di mettere in discussione, di denunciare con forza l'ideologia individualista, che ha rotto la coesione sociale e ha trasformato in merci anche i diritti fondamentali”.

C'è compatibilità tra vangelo e socialismo del XXI secolo?

“Assolutamente si. Non c'è un socialismo, ma ce ne sono de. Uno è quello cristiano, nato nel XX secolo, un socialismo che nega il materialismo dialettico e la lotta violenta, ma si basa sul Vangelo, afferma la supremazia del lavoro sul capitale, persegue la giustizia sociale, sottolinea l'importanza dell'azione collettiva. Il socialismo del XXI secolo è plurale, e uno dei suoi principi è che non esiste un modello, non esistono manuali, e ogni Paese deve rispondere alle proprie specificità. Il socialismo del Venezuela è diverso da quello del Cile e da quello dell'Ecuador. L'azione del nostro governo è anche ispirata a fonti cristiane ed il mio pensiero economico e sociale si fonda in buona parte sulla dottrina sociale della Chiesa. Direi che è un socialismo che si fonda sul Vangelo”.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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