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Martedì, 26 Febbraio 2008 16:06

DUE ANIME IN TENSIONE

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Sono stati tanti gli appuntamenti che hanno
caratterizzato il viaggio apostolico di Benedetto XVI in Brasile (9-14 maggio)
in occasione della 5a Conferenza generale dell’episcopato
latino-americano e dei Caraibi (Celam): cerimonia di benvenuto all’aeroporto di
São Paulo/Guarulhos; saluto e benedizione della folla dal balcone del Monastero
di São Bento; incontro con il presidente Lula; pranzo con i rappresentanti
della Conferenza dei vescovi del Brasile; incontro con i giovani nello stadio
di Pacaembu; santa messa e canonizzazione del Beato Frei Galvão, nel Campo de
Marte; incontro con la comunità della Fazenda da Esperança, un centro di
recupero per tossicodipendenti, a Guaratinguetà; santa messa di inaugurazione
della 5a Conferenza, nel piazzale di fronte al santuario di Nossa
Senhora da Conceição Aparecida, patrona del Brasile, situato ad Aparecida do Norte;
lunga relazione introduttiva della conferenza, che molti hanno avvertito come
un discorso programmatico...
E, tuttavia, va segnalato un episodio il cui
significato - che l’animo latino-americano coglie con immediatezza - è sfuggito
a buona parte dei 1.500 giornalisti stranieri al seguito del Papa. Il giorno
10, mentre si sta recando all’incontro con i giovani, Benedetto XVI si ferma
davanti ai Memorial dell’America
Latina, il monumento dedicato al dramma della “Conquista”: una mano alzata (di
Cristo?),dal cui centro sgorga del sangue, che cola creando una forma che
richiama quella del sub-continente americano, memoria della sofferenza che
grida al mondo di non dimenticare. Il Papa sosta in silenzio: sembra
identificarsi con questa sofferenza. Non riesco a distogliere gli occhi dal suo
volto: sono certo che sta pensando a ciò che i popoli latino-americani
subiscono tuttora. Prega. Poi solleva la mano destra e benedice il monumento.
L’avranno informato che quella scultura è stata
realizzata nel 1987 da Oscar Niemeyer, il più noto architetto brasiliano (sua è
anche la stupenda cattedrale di Brasilia), che, dall’alto dei suoi 100 anni,
continua a considerarsi «uno dei pochi comunisti veri viventi». Ironia della
storia: da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’allora Card.
Ratzinger fu ritenuto responsabile del clima di sospetto, di incomprensione -
se non di persecuzione - nei confronti della teologia della liberazione, cioè
di una esperienza e di una dottrina che sono espressione della cultura degli
oppressi; oggi, da Papa, viene profondamente colpito e ferito dalla realtà
dolorosa del continente latino-americano, che ora vede con i suoi stessi occhi
e tocca con la sua mano….., che si alza a benedire. Un amico mi domanda: «Cosa
vedi?». Rispondo: «La solidarietà e la preoccupazione di un Papa».
 
QUALE EVANGELIZZAZIONE 

Solidarietà e preoccupazione sono stati anche i due
sentimenti che più hanno segnato i lavori della Conferenza di Aparecida (13-31
maggio), quinta di una serie: Rio de Janiero (Brasile), 1955; Medellin
(Colombia), 1968; Puebla (Messico), 1979; Santo Domingo (Repubblica
Dominicana), 1992.
Come nei simposi precedenti, anche in questo è stato
difficile trovare un consenso su quali debbano essere le vie maestre da seguire
per la “Nuova evangelizzazione” del sub- continente, dove vive il 43% dei
cattolici del mondo. Per venti giorni, 166 vescovi (il numero è diminuito con
il trascorrere dei giorni) e un centinaio di inviati speciali di altre chiese
si sono confrontati e hanno riflettuto per definire le linee di azione per la
pastorale dei prossimi anni. Con coraggio, i delegati della Conferenza si sono
guardati allo specchio e in faccia: hanno analizzato la realtà ecclesiale
dell’America Latina dai più svariati punti di vista - religioso,
socio-politico, economico, culturale -, hanno formulato indicazioni e proposte
concrete, e, infine, hanno raccolto il tutto in un ricco documento finale, già
conosciuto come Documento di Aparecida. Il Card. Francisco Javier Erràzuriz Ossa, arcivescovo di Santiago del
Cile e presidente del Celam, ha commentato: «È parso una follia voler elaborare
un testo che soddisfacesse oltre 200 teste, ma ci siamo riusciti».
Il documento - 128 pagine, suddivise in 10 capitoli e
una conclusione - è stato votato alla quasi unanimità (127 favorevoli, 2
contrari, un’astensione). Come titolo porta il tema della Conferenza: “Discepoli
e missionari di Gesù Cristo, affinché i nostri popoli abbiano vita in Lui”:
Parla della testimonianza cristiana, della comunione
nella chiesa, delle sfide presentate dalla situazione socio-economica
dell’America Latina, della formazione dei sacerdoti e dei laici, dei popoli
amerindi e afroamericani, dell’ecologia e della questione dello sviluppo
sostenibile dell’Amazzonia.
Un tema nevralgico, entrato all’ultimo momento nel
documento finale, è quello delle comunità di base. Due argomenti tralasciati
(perché ritenuti da Roma ancora troppo polemici) sono stati la teologia india e
la cosiddetta “questione del genere”, cioè il ruolo e la responsabilità delle
donne all’interno della chiesa. Prima di essere pubblicato, il documento dovrà
ricevere l’approvazione del Pontefice.
 
MISSIONE E COMUNITÀ DI BASE 
Il sociologo Pedro Ribeiro de Oliveira,
dell’Università cattolica di Brasilia e consigliere della Commissione
episcopale per i laici, ritiene che, anche se il termine non è stato usato
pubblicamente, «è emerso, ancora una volta, lo scontro» tra le due principali tendenze della chiesa
latino-americana: la prima, più curiale, più attenta alla dottrina e legata a Roma;
la seconda, più pastorale, che fa riferimento alla teologia della liberazione e
alla tradizione delle conferenze di Medellìn e Puebla. «Questa tensione è di
vecchia data. Oggi però può essere interpretata come una ripresa da parte di
Roma della volontà di controllare la chiesa sia in America Latina e nei Caraibi
sia nel resto del mondo». Ribeiro ha partecipato ai lavori del Gruppo
Amerindia: una trentina di teologi e teologhe della liberazione; una presenza
non ufficiale, ma accettata dal Celam. Attraverso i vescovi a loro più vicini,
il gruppo è riuscito a far giungere il suo apporto alle varie commissioni di
studio, tanto che alcuni punti da esso sottolineati sono finiti nel documento
finale.
Alcuni si sono chiesti se quanto è avvenuto ad
Aparecida rappresenti un passo indietro o avanti rispetto alla “chiesa dei
poveri”. Dom Demétrio Valentini, vescovo di Jales e presidente della Caritas
brasiliana: «E’ innegabile che tra i partecipanti alla conferenza c’è stata una
ricca esperienza, che va valorizzata. Anche perché è poi confluita nel
documento finale. Anche se steso con il genere letterario tipico dei documenti
della chiesa, con numerose contraddizioni interne e con un palese squilibrio
tra le parti, esso offre buoni contributi destinati a segnare il futuro della
chiesa latino-americana. Forse non sarà un “grande” documento, ma contiene
chiari appelli e forti opzioni pastorali. Il messaggio emerge senza ombre:
ritorno al Vangelo e incontro con Cristo in una vera dinamica missionaria».
Dom Valentini non nasconde che, soprattutto
all’inizio dei lavori, s’è avvertito un certo disagio, forse vera e propria
paura, nei confronti delle comunità di base. «C’erano solo cinque vescovi alla
celebrazione promossa da queste comunità. Alla fine, comunque, siamo riusciti a
inserire nel documento finale l’affermazione che esse “fanno parte della stessa
struttura della chiesa”».
Anche Pablo Richard, insegnante di teologia biblica e
di sociologia della religione, direttore del Dipartimento ecumenico per le
ricerche di San Tomé (Cile) e membro del Gruppo Amerindia, ha parlato di paura:
«Ad Aparecida s’è incontrata una chiesa che ancora nutre numerosi timori,
soprattutto quello che possa esserci un magistero alternativo all’unico vero. È
vero che, rispetto a quello di Santo Domingo, il clima di questa conferenza è
stato più disteso e amichevole, e il dialogo più fraterno e aperto. Ma la paura
reciproca è rimasta: i laici hanno paura dei preti, che hanno paura dei
vescovi, che hanno paura di Roma, che ha paura della teologia della
liberazione. Un circolo vizioso».
Richard critica il documento finale: «Un testo per
vescovi, preti e religiosi. Più dottrinale che pastorale, a differenza di
quello di Puebla, che era interamente interessato alla vita ecclesiale pratica.
Il nuovo documento è più preoccupato di difendere la dottrina ufficiale e
riflette una chiesa rivolta a sé stessa, preoccupata più della sua identità che
del mondo in cui vive. Ad esempio, non c’è stato un vero riconoscimento della forza
dei movimenti sociali. Questo ha sorpreso molti, anche perché la conferenza si
è svolta in un paese che è la patria del Movimento dei senza terra, una delle
più importanti iniziative sociali al mondo».
Alla vigilia della conferenza, alcuni vescovi e media
brasiliani si erano preoccupati di dire che la teologia della liberazione è
ormai morta e sepolta. Richard, di rimando: «Aparecida li ha smentiti. Esistono
anche oggi teologi della liberazione, autori di ottimi testi sulla possibilità
di avere un mondo diverso, più giusto e solidale. Il Gruppo Amerindia ha
lavorato dietro le quinte, preparando numerosi testi sulla linea
teologico-ecclesiale uscita da Medellin e Puebla. Testi che alcuni vescovi
hanno fatto propri e sottoposto alla riflessione della conferenza. Non siamo
stati una lobby di pressione, ma un semplice “gruppo di appoggio”. In un
dialogo franco e aperto con il Celam, avevamo chiesto di essere presenti ad
Aparecida non come degli “invisibili” (com’era capitato a San Domingo), ma
legittimamente liberi di parlare con i nostri vescovi, visitarli negli alberghi
e passare loro le nostre riflessioni su quanto sarebbe capitato nel corso della
conferenza. E tutto ciò è avvenuto nella più grande libertà».
 
INDIOS
E AFRO 
Mons. Vittorino Girardi, comboniano, vescovo di Tiralàn
(Costa Rica), è soddisfatto: «Oltre al fatto che il documento finale sottolinea
la missionarietà come carattere essenziale di ogni chiesa, c’è stato anche un
chiaro appello dei vescovi, riassumibile nello slogan spesso ripetuto: “Per una
grande missione continentale”. Non si tratta di proselitismo o di una crociata
per il recupero dei milioni di fedeli che si sono allontanati dalla chiesa
cattolica per riversarsi nelle nuove chiese pentecostali. I vescovi chiedono
alle comunità cristiane di tornare a porsi domande fondamentali: a chi spetta
annunciare? chi dobbiamo annunciare? a chi è rivolto il nostro annuncio? con
quali mezzi possiamo diffondere il messaggio?» Ma il teologo Paulo Suess storce
il naso davanti allo slogan e mette in guardia sui possibili fraintendimenti
che la parola “missione” potrebbe causare: «Secoli di conquista e dominazione
europea hanno conferito al termine “missione” connotati colonialisti. Oggi si
dovrebbe “de-missionarizzare” la chiesa, per renderla sempre più una comunità
che sa convivere con l’altro, con il diverso, ed è capace di dialogo
interreligioso».
Mons. Girardi è contento anche del fatto che nel
documento finale i popoli amerindi e afro-americani occupino un posto di
rilievo. Esprime, però, una lamentela: «La teologia india continua a rimanere un tema tabù per la maggioranza
dei vescovi. Si è fatto troppo poco. Ma almeno si è affermata la speranza che
si possa avere presto un vescovo indio, che il numero dei prelati
afro-americani aumenti e che ci sia una liturgia veramente inculturata».
La teologa Silvia Regina mi ha espresso il suo
rammarico per i pochi vescovi neri presenti alla conferenza. Gilio Felicio,
l’unico vescovo afro-brasiliano, era in veste di “supplente” della delegazione
brasiliana. «Visto che in questa nazione il 45% della popolazione è afro e che
ad Aparecida c’è il santuario della Vergine Nera, mi aspettavo di vedere più
facce nere. Ovvio che anche vescovi bianchi possono essere efficaci portavoce
dei gruppi afro. Ma una persona che non vive anche “corporalmente” le
difficoltà che i neri sperimentano nelle nostre nazioni, difficilmente chiederà
che una risposta a tali difficoltà figuri tra le priorità della chiesa. Del
resto, lo scarso numero di vescovi neri ha come diretta conseguenza il fatto
che la riflessione sulla “negritudine” all’interno della chiesa
latino-americana è ancora alquanto superficiale. Spesso tutto si riduce alla
celebrazione di una messa “all’africana”, dove simboli, colori e musiche altro
non sono che cosmesi e folclore».
Volendo concludere con una sintesi estrema, si può
affermare che sia il Messaggio al popolo dell’America Latina e dei Caraibi sia il Documento di Aparecida risentono di un compromesso per accontentare le due
tendenze della chiesa del sub-continente: quella dottrinale e quella pastorale.
Toccherà ai rappresentanti dell’una e dell’altra impegnarsi nell’aspetto che è
loro più consono.

di Paulo Lima
da Aparecida do Norte (Brasile)
Nigrizia/ Luglio-agosto 2007





















































Letto 1868 volte Ultima modifica il Martedì, 01 Aprile 2008 14:29

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