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Lunedì, 10 Marzo 2008 14:58

ULTIMA CHIAMATA PER LA RICONCILIAZIONE

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«La pubblicazione della Lettera è
arrivata giusto in tempo per salvare la Chiesa cinese». Parole pesanti, quelle
che mons. Luca Li Jingfeng, vescovo di Fengxiang (Shaanxi, nella Cina centrale)
ha affidato ad AsiaNews il primo luglio scorso. Parole di un presule anziano
(87 anni) e autorevolissimo, uno dei quattro vescovi invitati da Benedetto XVI
(invano, perché il governo cinese lo proibì) al Sinodo sull’Eucaristia
nell’ottobre 2005. Nel 2004 mons. Li venne riconosciuto dal governo come
vescovo, senza dover sottoscrivere l’adesione all’Associazione patriottica. La
sua diocesi non è una qualunque: fino al 2003 Fengxiang era forse l’unica, in
Cina continentale, dove esistesse soltanto la Chiesa «non ufficiale».
Ebbene, mons. Li parla della Lettera come
di un documento arrivato al momento giusto. Le indicazioni del Santo Padre -
aggiunge Li - «vanno verso una giusta direzione: quelli che seguono la
tradizione cattolica si sentono rassicurati, mentre quelli che non la seguono
molto hanno sentito la grande chiamata del successore di Pietro a tutto il
gregge di Dio». L’appello del Papa alla riconciliazione, sottolinea Li, è
quanto mai opportuno, ma le difficoltà non mancano: «La Chiesa “più
clandestina” forse farà fatica a fare marcia indietro sulla complessa questione
della comunione con il Papa».
Dalla Chiesa underground, perlomeno in
alcune zone, sono venute - accanto a un generale plauso e viva riconoscenza per
le parole di Benedetto XVI - anche velate critiche.
Un prete della Chiesa non ufficiale
(formato nei seminari clandestini cinesi, ma che ha proseguito gli studi
all’estero), in una testimonianza anonima diffusa dall’agenzia Uca News, scrive
che «la Lettera non dice una parola su vescovi e preti ancora in prigione» e
definisce questa - a suo dire - dimenticanza come «frustrante e scioccante».
Un positivo «effetto collaterale» della
Lettera è che essa ha incoraggiato quanti credono nella riconciliazione. Mons.
Giuseppe Wei Jingyi, vescovo clandestino di Qiqihar (diocesi nell’estremo Nord
del Paese) - ad esempio - ha fatto leggere in tutte le Messe un suo messaggio
nel quale spiega di volersi riconciliare con alcuni sacerdoti della diocesi,
che sin qui gli avevano negato obbedienza giudicandolo troppo morbido nei
confronti del regime comunista. Mons. Wei Jingyi ha poi invitato tutti a
partecipare ai sacramenti amministrati dai vescovi e dai sacerdoti ufficiali,
purché in comunione con Roma.
 A parlare di un testo provvidenziale, arrivato al momento
opportuno «prima che si creassero i presupposti per uno scisma», è anche il
cardinale Joseph Zen, vescovo di Hong Kong. Interpellato da Mondo e Missione,
il presule salesiano elogia l’equilibrio di Papa Benedetto XVI nell’affrontare
la delicatezza della situazione cinese, esprimendo gratitudine per la premura e
la sensibilità manifestate dal Papa e, soprattutto, plaude al tono complessivo
del documento che contempera la tensione alla verità con un atteggiamento improntato
alla carità. Zen, però, puntualizza: «Adesso non c’è tempo da perdere. Occorre
attivare la Commissione vaticana per la Cina in modo da attuare al meglio, nel
concreto, le indicazioni della Lettera». Fin qui, fa capire il cardinale,
originario di Shanghai, Roma ha dato l’impressione di muoversi in risposta alle
iniziative di Pechino, mentre il combattivo porporato auspica che la Santa Sede
assuma una policy chiara e lungimirante in grado di anticipare le mosse dei
politici cinesi.
 I vertici di Pechino non hanno emesso commenti ufficiali.
Interpellato dall’agenzia Sir, il 16 luglio scorso, il cardinale Tarcisio
Bertone, segretario di Stato vaticano, dichiarava: «Dalle istituzioni cinesi
non abbiamo ancora avuto dei segnali precisi e siamo in attesa. Siamo in un
momento di riflessione e ripensamento». Quel che si sa è che il 28 e 29 giugno,
alla vigilia della pubblicazione della Lettera papale, un certo numero di
vescovi ufficialmente riconosciuti dal regime erano stati radunati nei pressi
di Pechino dal Fronte unito, organismo-chiave nell’attuazione della politica
religiosa. Obiettivo: un «indottrinamento preventivo».
Alle parole del Papa non fanno certo
difetto chiarezza e lucidità. Tuttavia, data la materia incandescente e la
pluralità di visioni che pure albergano all’interno della stessa Chiesa
cattolica, non sono mancati distinguo, precisazioni e persino polemiche
sull’interpretazione della Lettera di Benedetto XVI.
 Emblematico, sotto questo profilo, il dibattito fra uno dei
più noti e apprezzati sinologi cattolici - padre Jeroom Heyndrickx, fondatore
del Verbiest Institute dell’Università Cattolica di Lovanio (Belgio) - e lo
stesso cardinale Zen.
In una nota apparsa su Uca News, padre
Heyndrickx  aveva affermato che la Lettera del Papa invita gli appartenenti
alla Chiesa clandestina a uscire allo scoperto, e li incoraggia a ottenere il
riconoscimento delle autorità civili e a condividere i sacramenti con i vescovi
e i preti della Chiesa ufficiale.  La replica di Zen è netta: l’appello
non c’è nella Lettera di Bene-detto XVI; i sacramenti possono essere condivisi
solo con i vescovi e i preti della Chiesa ufficiale in comunione col Papa, non
con quelli in rotta con Roma. Infine Zen sottolinea che la condizione dei
vescovi che hanno scelto la clandestinità continua ad avere una ragion
d’essere. Almeno fino a quando le autorità comuniste pretendono di controllare
e soggiogare la Chiesa; purtroppo, in molti casi (anzi, «quasi sempre», dice
Zen citando il testo della Lettera) la richiesta di riconoscimento ufficiale
comporta obblighi «contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici».
Padre Heyndrickx non ha tardato a
rispondere, a sua volta, alle parole del cardinale Zen, in qualche passaggio
forse troppo dure, ribadendo che la finalità principale della Lettera di
Benedetto XVI è di incoraggiare le due comunità cattoliche cinesi, l’ufficiale
e la clandestina, a pregare e a celebrare l’Eucaristia insieme.
 Non si tratta di sfumature di poco conto o di mere diatribe
tra studiosi, come qualcuno potrebbe pensare. Data l’importanza del documento
pontificio, è logico che la sua interpretazione - corretta o meno - dia luogo a
precise conseguenze. Giacché l’una o l’altra delle componenti ecclesiali si
appellerà fatalmente ad essa per giustificare scelte e azioni. Tutto questo
aiuta a capire un piccolo «giallo» verificatosi nei giorni successivi
all’uscita della Lettera.
Ancora una volta, tra i protagonisti
della vicenda c’è il cardinale Zen. Che a Mondo e Missione spiega: «Da tempo
avevo fatto presente a chi di dovere la delicatezza della
questione-traduzione». Ma la versione cinese della Lettera, a detta di Zen, era
stilisticamente poco fluida. E dimenticava un inciso importante. Alla fine del
capitolo 7 della Lettera, il Papa scrive che «nella procedura di riconoscimento
[da parte delle autorità politiche] intervengono organismi che obbligano le
persone coinvolte ad assumere atteggiamenti, a porre gesti e a prendere impegni
che sono contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici». Ciò avviene -
recita il testo originale - «in non pochi casi concreti», «se non quasi
sempre». Ebbene: la versione cinese omette di tradurre queste ultime
significative parole.
 Per favorire una maggior diffusione del documento e una
comprensione più efficace del testo, il cardinale e i suoi collaboratori hanno
effettuato una nuova versione integrale del documento e lo hanno fatto stampare
in Hong Kong in trentamila copie.
La speranza è che la diffusione della Lettera apra un sereno
dialogo interno alle due comunità, in vista di un cammino di riconciliazione e
unità.

di Gerolamo Fazzini
Mondo e Missione / Ottobre 2007
Letto 1719 volte Ultima modifica il Venerdì, 04 Aprile 2008 17:36

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