LE “TRAVOLGENTI” OLIMPIADI CINESI
di Alessandra Cappelletti – MC marzo 2008
(abstract)
Pechino. Il cuore pulsante di Pechino, gli spazi urbani più vivaci e intimi della megalopoli si chiamano hutong, termine che ci riporta indietro nel tempo: da hottog, che in mongolo significa “pozzo d’acqua”, ricordano la “città del khan”, Khonbaliq, e le prime aggregazioni urbane in prossimità dei pozzi. La traduzione “vicoli” ne riduce l’importanza: gli hutong sonoluogo di incontro, comunicazione e socialità. Costituiscono una rete labirintica di stradine su cui si affacciano gli siheyuan, tradizionali complessi residenziali costituiti da quattro edifici disposti intorno a un cortile, di cui dal vicolo si vede solo l’alto muro grigio che li racchiude e i portali lignei d’ingresso finemente intagliati, decorati con scritte augurali e lanterne di un colore rosso acceso. l chioschi e le bancarelle fanno da sfondo agli anziani che mangiano jiaozi, iravioli ripieni, e giocano a mahjong, seduti su bassi sgabelli, mentre i bambini giocano e uomini in pigiama e vestaglia discutono sulle novità del quartiere. Il chiacchiericcio delle donne, le grida dei bambini e il parlottare degli anziani, il fruscio delle foglie degli alberi che abbelliscono e proteggono le corti, vengono interrotti solo dallo sferragliare dei risciò a pedali, gli unici a turbare la quiete di luoghi in cui la vita familiare, sociale, amministrativa e religiosa si svolge prevalentemente nello spazio comune che è la strada o il cortile. Oggi negli hutong il nemico temuto non è più lo sfrecciante risciò a pedali guidato da un affaticato ciclista, ma la ruspa. Le Olimpiadi del 2008 rappresentano la fine di questi antichi distretti e infliggono alla città ferite permanenti.
Dazhalan, morte di un distretto
Sono proprio queste ferite che preoccupano Ma Lian: «I bulldozer stanno cancellando centinaia di anni di storia. Tutta la mia famiglia ha sempre abitato nello stesso hutong, qui a Dazhalan. Anche io sto aspettando che la mia casa venga demolita». Circondato da cumuli di macerie e case sventrate, ogni mattina il 60enne Lian continua ad alzare la saracinesca del chiosco dove vende sigarette, bevande fresche e semi di zucca. Gli occhi vispi, in bocca solo due denti, dalla sua voce trapela rabbia: «Il turista dovrebbe rimanere colpito dalla ricchezza artistica di Pechino, ma ciò che vi troverà per le Olimpiadi sarà solo una città rifatta e priva di carattere».
Nessuno sa cosa sorgerà al posto di Dazhalan, un distretto popolare a cinque minuti da piazza Tiananmen, intreccio di hutong a sud della Città Proibita. La sua storia testimonia la peculiarità dell’area: il suo nome, in pechinese Dashilar, “grandi cancelli”, risale al 1670, quando per editto dell’imperatore fu ordinata la chiusura notturna dei vicoli. Mentre l’intero complesso della “Città Proibita” era circondato da alte e spesse mura e sottoposto al ferreo controllo del potere, a Dazhalan si garantiva la libertà di commerciare e divertirsi. Inoltre, in epoca Qing, quando l’imperatore vietò l’apertura di attività artistiche e commerciali all’interno delle mura della sua residenza, Dazhalan divenne il luogo che meglio di tutti gli altri accolse il fermento culturale e imprenditoriale degli abitanti di Pechino. Teatri, case da tè, antiche farmacie, cappellerie, templi, negozi di giada e seta, e “case dei fiori”, i tradizionali luoghi di divertimento notturno, resero Dazhalan un’attrattiva per mercanti, pellegrini e viaggiatori. Ancora oggi vi si trovano antiche librerie e antiquari, ristoranti dove si degustano le specialità di Pechino come l’anatra alla pechinese, attività artigianali di ogni tipo e teatri tradizionali. Ancora per poco.
Lo sguardo dell’anziano Feng si perde tra alti cornicioni di legno finemente intagliati, ormai scoloriti e rovinati dal tempo e dall’incuria. Barba bianca e canottiera nell’afa dei vicoli, così ricorda il passato del quartiere: «Questi erano tutti palazzi di artigiani della giada. Dopo le riforme di Deng Xiaoping, negli anni ‘80, sono cominciate ad apparire piccole attività commerciali, ristorantini e negozietti. Ho più di 70 anni e questo è sempre stato il mio mondo». La giada arriva nella capitale dal lontano Xinjiang, la provincia nord occidentale a maggioranza musulmana. Minerale considerato quasi sacro per le sue presunte proprietà medicamentose e taumaturgiche, era il preferito alla corte dell’imperatore.
«Non so quando me ne dovrò andare» - continua Feng - «le ruspe arriveranno sicuramente nei prossimi mesi, prima delle Olimpiadi: tutto deve essere rinnovato. C’è altra soluzione? Noi laobaixing (gente comune)possiamo solo obbedire». A Dazhalan ci sono edifici che risalgono al XVI secolo, palazzi che portano con sé la storia di due dinastie imperiali, quella dei Ming e quella dei Qing.
Per le ruspe il lavoro non finisce mai
L’agenda politica della “Commissione per la pianificazione e lo sviluppo” della Municipalità di Pechino dedica un capitolo a parte alla tutela della città storica: le aree coinvolte sono 25, il 17% della Pechino antica, ma, dietro la retorica, sono in agguato speculazione edilizia e perdita di identità culturali.
Zhao Lianmiao è un artista che vive nel suo studio-abitazione di meno di 10 metri quadrati, ancora per poco di sua proprietà. Alle pareti sono appesi i suoi dipinti, davanti a una tazza di tè al gelsomino racconta la sua vita a Dazhalan, le persecuzioni subite durante la “rivoluzione culturale”, e quanto gli piacerebbe comprare una nuova casa in quella zona: «Stanno distruggendo tutto, è un vero peccato, io vivo qui da sempre e sono molto affezionato a questo quartiere. A un certo punto appare un foglio appeso a un muro nei vicoli che ci intima di sgomberare nel giro di un mese». Anche Fu Zheqing, giovane donna che conduce un’attività commerciale per i cui locali paga l’affitto, non sa quale sarà il suo destino: «Io e la mia famiglia viviamo nel retro del negozio, ma non essendo proprietari le cose sono un po’ diverse. Dovrò semplicemente cercare un altro locale ma di certo non a Dazhalan: dopo il rinnovamento del quartiere i prezzi saliranno alle stelle, sicuramente non riuscirò più a trovare nulla per i 150 yuan che pago qui!».
Secondo Hu Xinyu, responsabile del gruppo "Friends of Old Beijing" (Amici della vecchia Pechino), già nel 2003 la metà dei 3.000 hutong della città storica era stata demolita, e migliaia di persone trasferite in sobborghi anonimi, mentre un alto rappresentante del governo - citato in forma anonima dal Financial Times - ha paragonato i danni causati dalle odierne politiche urbanistiche alle distruzioni della “rivoluzione culturale”.
Nel 2005 più di 800 edifici giudicati vecchi e pericolosi sono stati demoliti nella caratteristica via del Carbone, e centinaia di siheyuan risalenti al XIV secolo hanno lasciato il posto a nuovi palazzi. Ma le ruspe non hanno ancora finito il loro lavoro. Il piano del governo prevede un dislocamento di 5 milioni di residenti dal centro di Pechino alle periferie nell’arco di 5 anni. Motivazione ufficiale: traffico urbano e alta densità di popolazione.
Dietro al progetto di ristrutturazione e modernizzazione delle aree storiche e fatiscenti fanno capolino dinamiche di discriminazione sociale. «Ci stanno rubando i nostri soldi!», grida Li Wu. «Per andarmene mi daranno 10.000 yuan al metro quadro, ma i nuovi edifici saranno rivenduti a 50.000! Il governo ci sta ingannando: ha potuto attuare le sue politiche senza incontrare resistenze, qui la gente è povera, quel poco che ci danno per andarcene è sufficiente per ottenere il silenzio. Ci trasferiamo in quartieri dormitorio in nuovi appartamenti al ventesimo piano e ci illudiamo che la nostra vita migliorerà». Wu vive e lavora in uno hutong tra i più vivaci e trafficati, dove in un piccolo spazio ripara di tutto, dai vestiti agli orologi. Il rumore delle ruspe che demoliscono la casa vicina è assordante. Di fronte alla sua officina i resti di un ristorante musulmano, una vecchia targhetta in caratteri arabi a ricordare la presenza nel quartiere della minoranza islamica degli hui.
Il coraggio della protesta
Ou Ning, che ha dedicato particolare attenzione e impegno al caso di Dazhalan, è un affermato regista e videomaker originario di Canton, ma che da anni vive e lavora a Pechino. Il giovane artista non giudica direttamente l’operato del governo, ma preferisce porre l’accento sul concetto di scelta: tutti dovrebbero avere il diritto di decidere dove e come vivere, non è giusto imporre dall’alto modelli di vita, né di città.
Dazhalan Project, organizzato assieme a “Kulturstiftung des Bundes”, fondazione tedesca che si occupa dei processi di allargamento e sviluppo dei centri urbani. Zhang Jinli è una figura chiave di questo esperimento che monitorerà l’esito delle Olimpiadi e si chiuderà nel 2008: «Abbiamo conosciuto Zhang mentre stavamo filmando la situazione a Dazhalan» - ricorda Ou Ning seduto sul divano al ventesimo piano di un edificio moderno e colorato che fa parte del complesso residenziale Xiandai Soho, vicino alla city pechinese. «Stava affiggendo cartelli di protesta. Un mese dopo aveva in mano una telecamera, per riprendere la sua vita nel quartiere alla vigilia dello sgombero». Jinli conduceva una osteria frequentatissima in uno hutong chiamato Meishi jie: la sua forza è stata quella di mettere in atto forme di resistenza pubblica per difendere i suoi diritti in quanto residente in attesa di essere rimosso. «Il governo gli aveva imposto di lasciare la casa e l’attività, ma lui riteneva che la compensazione offerta fosse inadeguata» - racconta ancora Ou Ning - «e che sarebbe stato giusto ottenere l’assegnazione di un altro ristorante nel nuovo quartiere». La telecamera è stata usata come arma per criticare le politiche governative: l’esperimento di Zhang Jinli ha dato vita a un video (Meishi street) e a una pubblicazione (The Story of Zhang Jinli). Il prezzo pagato per aver attuato queste forme di protesta è alto: Jinli è stato sottoposto a una fortissima pressione psicologica. Inoltre, nonostante le numerose richieste, le autorità non hanno mai concesso un incontro ai responsabili di Dazhalan Project.
«Jinli ha avuto il coraggio di denunciare l’ingiustizia delle compensazioni e ha contribuito a far nascere una certa consapevolezza nel vicinato». Uno degli obiettivi principali di Dazhalan Project (www.dazhalanproject.org) è analizzare l’influenza delle politiche governative sulle diverse realtà urbane, fino ad arrivare a quelle più piccole, all’individuo. «Nel marzo 2006, dopo mesi di protesta e sensibilizzazione della comunità, le ruspe hanno distrutto la casa e il ristorante di Jinli». Ou Ning non è contrario alla modernizzazione: «Le città devono migliorare, ma noi ci preoccupiamo di quale influenza abbia questo sviluppo sulle persone, di quali siano gli spazi per la gente nel contesto di una città nuova. La storia di Zhang JinIi rappresenta la rottura dell’equilibrio tra tradizione e sviluppo», prosegue l’artista. Secondo Ou Ning, «a Dazhalan ogni proprietario avrebbe ristrutturato le case gradualmente, lasciando invariata la zona. Invece il cittadino non ha possibilità di scelta, né sa come si trasformerà il quartiere, davanti agli occhi ha solo quelle fotografie sulle transenne che lasciano immaginare un ricco distretto commerciale». Politiche urbanistiche che distruggono il senso di comunità, cancellando la vita di strada e la vivacità delle città cinesi. «Per la Costituzione cinese la terra appartiene al popolo, ma in realtà è del governo, che si muove solo in base a valutazioni di tipo politico-economico», conclude il videomaker. «Studenti, ricercatori, studiosi e gente comune in Europa e in America si sono interessati al nostro progetto, ma le autorità non ascoltano, a meno che non ci siano scontri e dei morti. Il nostro obiettivo è far conoscere questa situazione sensibilizzando e coinvolgendo il maggior numero di persone, solo così il futuro potrà essere diverso».
Il traffico e lo smog di Pechino ricoprono di suoni e polvere una città in continuo mutamento, come mutevoli e incerte sono le vite degli abitanti di queste aree. Un tempo ricche e fiorenti, si sono impoverite con l’ingresso del Paese nel mercato globale: le manifatture artigianali sono state soppiantate da quelle delle fabbriche della Cina sud orientale, teatri e “case dei fiori” sono stati sostituiti da night club e da centri per massaggi.
ROMA, SPONSOR POCO ETICI
Nigrizia Dossier
Il comune di Roma è l’esempio più eclatante. Copiato, poi, anche dall’amministrazione di Lecce. Il regolamento, votato all’ombra del Campidoglio nel novembre del 2004 dopo una forte mobilitazione della società civile, impegna il comune a scegliere gli sponsor non solo in base alla convenienza economica, ma anche tenendo conto del rispetto dei diritti umani, di quelli dei lavoratori e dei danni all’ambiente. Si prevede l’esclusione, ad esempio, delle sponsorizzazioni delle imprese «coinvolte a qualunque titolo nella produzione, commercializzazione, finanziamento e intermediazione di armi di qualunque tipo». Squilli di tromba mediatica il giorno della sua approvazione. Sembrava si fosse riusciti a trovare un percorso serio ed efficace per sperimentare un modello collettivo di consumo critico. Sembrava. Perché, come è noto, pecunia non olet. E quel regolamento oggi appare come pura carta straccia, violata e maltrattata in più occasioni. Gli ultimi due casi clamorosi sono scoppiati qualche mese fa.
Settembre: il Comitato etico, dotato dal regolamento comunale di un semplice potere consultivo, ha bocciato quattro big dell’imprenditoria che finanziano importanti eventi culturali nella capitale, compresa
la Notte bianca. Le aziende cassate erano: l’Eni («esistono circostanziate denunce per gravi violazioni in materia ambientale in Nigeria»); Bnl e Banca di Roma (già banche tesoriere del comune, sono «istituti di credito che supporterebbero il mercato delle armi»); Telecom («sussistono violazioni accertate in materia di pubblicità ingannevole»).
Ovviamente, Veltroni &Co., dopo aver letto il parere del Comitato e aver ringraziato il suo presidente (Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale), hanno cestinato il consiglio. Del resto, come rifiutare oltre un milione di euro di finanziamento, in questo periodo di vacche magre per i bilanci pubblici? «Le banche ci hanno assicurato che non finanziano il commercio delle armi. Gli altri rilievi mossi si basano su responsabilità da accertare», la risposta tranquillizzante del Campidoglio.
Ottobre, stesso copione. Stavolta, nel mirino, il Festival del Cinema, il “Romacinemafest”. Dei 15 milioni di budget, il 60% è stato coperto da sponsor privati (136, per la precisione). Almeno 9 di questi, tuttavia, violavano il regolamento comunale. Tra le aziende contestate, Finmeccanica e la solita Bnl.
Veltroni si è posto il problema di non accettare quel denaro? Nemmeno per idea. L’ipocrisia impera. Ma, allora, perché non mandare al macero un regolamento, tanto strombazzato nei giorni della sua approvazione, che risulta inutile e continuamente calpestato?TESSITRICI DI SPERANZA
di Emanuela Baio
MC – Ottobre/Novembre 2007
Sfruttate, oppresse, denigrate, a volte invisibili, eppure incarnano la frontiera della speranza e del bene comune. Donne in trincea, donne dai mille colori, donne del Terzo e, ormai, Quarto mondo, diventano oggi la grande sfida dell’umanità. Il loro grido di aiuto è arrivato al cuore di chi può decidere. Qualcosa sta cambiando, erano in pochi a credere, solo alcuni anni fa, che donne come Angela Merkel e Michelle Bachelet potessero guidare una potenza come
la Germania e una nazione come il Cile. Non è un processo semplice e neppure scontato, ma può essere un segno di speranza anche per l’universo femminile del Sud del mondo che chiede dignità, attenzione, rispetto e promozione. Queste donne rappresentano l’emblema, ma anche il simbolo di un cambiamento in corso.
I dati statistici non sono confortanti: analfabetismo, fame, carenze sanitarie, acqua potabile e condizioni igienico-sanitarie adeguate. Eppure nel puzzle del mondo non mancano tasselli diversi e sono le donne a viverli, a promuoverli, a farli crescere.
Africa, Asia, America Latina e Oceania, milioni di persone con diverse culture, religioni e lingue presentano problematiche e peculiarità differenti. Tutti sono travolti dal fenomeno dell’economia globale che permea il nostro mondo. A dispetto delle sue grandiose promesse, questo processo si è tradotto in un crescente divario tra ricchi e poveri e, paradossalmente, ha intensificato le interferenze comunicative, proprio in un pianeta “a portata di mano”, milioni di persone, soprattutto donne, sono ancora costrette a emigrare.
Siamo tormentati dall’impoverimento, dall’assenza di buon governo, dal diffondersi di malattie e dal terrorismo. A dispetto di questo quadro, però, il popolo del Terzo mondo non si è rassegnato al suo destino. In Ecuador, in Perù, in Africa si incontrano donne e uomini che soffrono, ma lottano. Le loro lacrime e le loro speranze per un domani migliore ci arrivano attraverso l’insostituibile opera dei missionari. La loro profonda spiritualità, l’impegno per la sopravvivenza e per la difesa della dignità umana rappresentano un primo grande apporto per questi popoli e un forte segnale di civiltà per tutti noi.
Una tessitrice paziente
Popoli di tutti i continenti sono alle prese con l’analisi dei processi storici di sfruttamento che li hanno privati dei loro diritti, della lingua, delle religioni. Le popolazioni indigene hanno ancora di fronte i problemi di culture e terre messe in pericolo. Il diffondersi di questa consapevolezza, la maggiore mobilità delle donne, ci porta in contatto con realtà raccapriccianti, con storie di diritti violati (come l’infibulazione), ma allo stesso tempo, ci consegna una speranza: in quei paesi il processo di evoluzione passa attraverso le donne, legate alla capacità di procreare e, forse per questo, più disponibili al dialogo, alla trattativa e in ultima istanza alla pace. Non è retorico ricordare che sono proprio le donne indigene brasiliane a essere state accanto ai loro uomini, ad averli supportati e amati, anche quando l’alcool li aveva privati della dignità, ad averli sostenuti per la riconquista della loro terra.
Quando tutto sembra franare, le donne rappresentano l’ancora di stabilità. Diventano il sostegno e l’unica chiave di volta, hanno la tenacia di mandare i loro figli a scuola, perché sanno credere in un futuro migliore.
La globalizzazione, in questo senso, è un’esperienza positiva, aiuta donne e movimenti fioriti nel mondo occidentale, a condividere un processo di «emancipazione» umana, che proprio attraverso le donne sta crescendo in tutti gli angoli della terra. Si moltiplicano i progetti di sviluppo che hanno per protagonista l’economia femminile, si registrano importanti esempi di questo modello in Africa con le produttrici di tappeti o in sud America dove la lavorazione del giunco serve da un lato per la sussistenza e dall’altro ad acquisire autonomia e a sviluppare lo stesso concetto di «diritto».
Anche nei paesi occidentali qual cosa si muove, l’esempio più positivo di questa rinascita al femminile è rappresentato da Angela Merkel: le sue doti di paziente tessitrice ha dato i suoi risultati sul fronte ambientale, all’ultimo G8 è riuscita, seguendo la via del dialogo e del negoziato, a strappare un impegno all’America di Bush, prima «sorda» a questi problemi. Si tratta di un esempio chiaro del valore aggiunto di cui è portatrice la componente femminile.
Le donne, grandi migranti, sono l’elemento costitutivo della casa e di ogni stato, ma anche di economie virtuose, simbolo dei compiti di cura di anziani e bambini, che nessuna struttura può sostituire. É evidente che siano più portate al bene comune, proprio per il forte legame che mette le donne in contatto diretto con la creazione.
«Non violenza creativa»
Molti sono i paesi del Terzo mondo che, quotidianamente, affrontano le conseguenze di continui e cruenti conflitti religiosi, etnici e di classe. In questo clima, riuscire ad aprire un varco per dare spazio alla cultura del dialogo diventa sempre più difficile. Difficile l’interazione e l’intermediazione, difficile intravedere tra le distese in fiamme e le tante vite spezzate, un piccolo segno di speranza. Eppure la speranza c’è, anche negli angoli più lontani e misteriosi del mondo.
Con questa consapevolezza e con la perseveranza che le contraddistingue, le chiese dei paesi dimenticati insistono a cercare una via comune di dialogo tra i popoli, anche di fede diversa, che consenta il superamento dell’intolleranza a favore della giustizia, dell’uguaglianza e della pace. Sono proprio questi i tasselli mancanti che, in questo contesto, evidenziano come e quanto le donne di tutto il mondo, risentano, più di ogni altro essere umano, dei crudeli meccanismi di discriminazione, emarginazione e violenza. Sono spesso le più povere tra i poveri, ma lottano contro le strutture gerarchiche e patriarcali in tutte le istituzioni, che siano famiglie, governi, o intere società. La loro forza e la loro tenacia non ha eguali, supera ogni confine geografico, culturale e politico, possiamo sentirla come un’eco lontana che non perde mai la sua intensità.
In Asia, per esempio, continente ad alto potenziale,che presenta la più grande diversità di culture, storia e religioni del mondo, si registra anche una grande quantità di poveri, oppressi, ridotti in condizioni igienico-sanitarie precarie, senza contare che l’impatto con la globalizzazione aumenta le differenze e conduce a un conflitto interno. Eppure, la solidarietà che viene espressa tra i popoli di tutte le fedi e culture nella lotta per un’umanità piena, è prepotentemente fiorita. Questa forza silenziosa, che la donna è in grado di sprigionare e che alimenta la lotta per il bene comune, è legata alla categoria non patriarcale che Gandhi ha definito «potere creativo in forma pacifica».
Violenza e non violenza sono una costruzione sociale e non devono essere legate al sesso. L’input femminista serve a dire che i problemi che le donne del Terzo mondo sollevano sono i problemi del mondo. La riscoperta del principio femminile costituisce la sfida intellettuale e politica al «malsviluppo», inteso come progetto patriarcale. Mentre la distruzione è aggressiva, dunque visibile, l’equilibrio e l’armonia non sono visibili, si sperimentano. Il mantenimento della vita a opera delle donne nel Terzo mondo si basa su questa attività celata. Una visione femminile nella donna come nell’uomo, dunque, permette di vivere in una logica di sopravvivenza, in cui alla pianificazione a breve termine, si sostituisce una visione di lungo periodo. Ma è altrettanto chiaro che solo attraverso l’interazione tra i generi, il dialogo può svilupparsi. Questo consente una spiritualità autentica, perché il primo passo verso i diritti, è proprio la consapevolezza. Un processo nel quale le donne sono maestre.
Microcredito in rosa
La millenaria esperienza di duro lavoro nei campi, ha permesso alle donne del Terzo mondo di creare una tipicità di conoscenze agricole, nelle quali tuttora si distinguono rispetto agli uomini e, da sempre, ha rappresentato una fonte di guadagno e sostentamento. La maggior parte del pianeta ha soddisfatto i propri bisogni alimentari grazie a una agricoltura praticata dalle donne. In questo modo le conoscenze vengono condivise, specie e piante non vengono considerate «proprietà», ma parenti, e la sostenibilità si basa sul rinnovo della fertilità della terra, sulla rigenerazione della biodiversità e delle specie.
Questa diversità di sistemi di conoscenze è la strada da seguire per far sì che le donne del Terzo mondo continuino ad avere un ruolo centrale come conoscitrici, produttrici e approvvigionatrici di alimenti. Ma non basta. Oggi questo equilibrio apparente, sembra minacciato dall’attuale modello agricolo-industriale. Lasciare che le donne si occupino esclusivamente dei campi, contribuisce a costruire un corollario di conoscenze ma, nella pratica, continua a lasciarle in disparte, lontane dalla vita e dagli interessi dell’uomo e viceversa.
Come può esistere integrazione se non si percorre una via comune al dialogo? Proprio attraverso lo sviluppo di una economia settoriale si può sperare in una rinascita economica e nel benessere sociale. L’istituzione di piccole aziende manifatturiere potrebbe dare la possibilità alle donne di emergere anche in altri settori, estendendo le conoscenze, la cultura ma anche i campi di azione. Il settore tessile, per esempio, può vedere l’utilizzo di manodopera sia maschile che femminile e allo stesso tempo può rappresentare un terreno di confronto culturale. La miseria, la fame la prostituzione spesso prendono il posto del buon senso e della civiltà che deve credere alla diffusione di buone pratiche come il microcredito. Sono sufficienti pochi euro consegnati a una donna che, impegnata in un progetto di sviluppo locale, sappia trasformarli in una risorsa a vantaggio dell’intera comunità.
Le altre donne combattono ogni giorno sul posto di lavoro per cercare di dimostrare al mondo che esistono, che valgono, che sono in grado. Se pensiamo al Terzo mondo l’immagine di ritorno che proviene dai nostri ricordi stereotipati ci mostra un quadro assai triste: donne sole in disparte, coperte dall’ombra dell’ignoranza e della discriminazione; donne sfruttate, minacciate, usate come merce di scambio; donne spaventate dagli occhi spenti, rifiuti di una civiltà che le considera inutili, eppure,dietro quell’apparente debolezza si nasconde una determinazione che non ha eguali. I loro passi sono piccoli ma importanti perché spesso «quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe» (MadreTeresa di Calcutta). Donne forgiate dal sacrificio e dalle privazioni che sanno cosa vuol dire essere dimenticate, oggi più che mai dimostrano a tutti noi la loro forza.
Situazione socio-economica
Dal rapporto dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) emerge che dei 2,8 miliardi di esseri umani al lavoro,la metà guadagna meno di due dollari al giorno. Degli occupati, le donne sono le più sfruttate e sono la maggioranza tra i disoccupati.
Il rapporto della Fao (Organizzazione per l’alimentazione e agricoltura) mette in luce lo stretto legame tra sottoalimentazione, analfabetismo e frequenza scolastica. Fame e impossibilità di accedere a un livello minimo di istruzione si coniugano in una miscela letale che colpisce soprattutto loro: due terzi delle donne nel Terzo mondo è analfabeta, con la conseguente riduzione della possibilità di procurarsi un reddito decente, sono, quindi, le più colpite dalla fame, che miete 852 milioni di vittime.
Il rapporto di Amnesty lnternational ci dice che nel XXI secolo le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto alla violenza endemica della guerra, non solo come profughe costrette a lasciare tutto per salvarsi dalle distruzioni dei conflitti bellici, ma come oggetto specifico di violenza che le svilisce in quanto donne.
Il rapporto di Amnesty colpisce perché evidenzia come coloro che si macchiano di crimini e violenze contro le donne, godono dell’impunità che si basa sul trinomio donna-oggetto-proprietà privata. In un mondo in cui continuamente si parla di diritto, giustizia, libertà e democrazia, c’è uno spazio vuoto in cui sprofonda la maggior parte dell’umanità, le donne, appunto, nei confronti delle quali, tutto è lecito.
Oltre allo strapotere violento degli uomini, contribuisce all’impunità anche l’autocensura, che, sia per paura, sia per consuetudine, da sempre le condanna: in quanto oggetti non possono ribellarsi, rispondere, replicare. È chiaro che parlare di sviluppo economico in un clima simile risulta improbabile, ma la sfida sta proprio qui.
Un’opera complessa che deve garantire la salvaguardia delle singole culture e il rispetto delle differenti religioni e tradizioni. Un esempio concreto ci viene dalla Scandinavia che ha dato il premio Nobel per la pace a una signora africana che da 30 anni si batte cercando di coniugare diritti delle donne, democrazia, economia sostenibile e tutela ambientale: la kenyana Wangari Maathai che lavora con la sua associazione, il Green Belt Movement, piantando alberi in zone affamate. Con tutto quel che può voler dire in termini di coinvolgimento delle popolazioni locali e di creazione di un circolo economico virtuoso.
Dobbiamo partire da due occhi che non chiedono, ma che ci raccontano dei colori,e dalle tinte forti dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina: un arcobaleno che aspetta, pazientemente, la fine del temporale per poter essere visibile.
La luce è vita, quindi speranza. Una battaglia che fortunatamente ha contagiato il Dna dei singoli stati, dell’Unione europea e che oggi esige di entrare a pieno titolo nell’agenda politica in tutti i consessi internazionali in grado di cambiare le sorti del mondo, Così come sempre più e con maggiore efficacia l’impegno per i diritti umani deve entrare nelle politiche estere perseguite anche dai singoli governi, all’insegna di una globalizzazione dal volto veramente umano.
Le famiglie italiane si trovano ogni giorno di fronte a complesse emergenze sociali ed economiche, che creano un clima di insicurezza. Le istituzioni, non solo finanziarie, non riescono a monitorare queste emergenze se non dopo la loro insorgenza e non approntano gli ammortizzatori sociali, né adottano le misure strutturali che sarebbero di vero e concreto aiuto alle famiglie.
SPESE MILITARI IN AFRICA
Giba
Nigrizia/Gennaio 2008
I numeri si prestano a qualsiasi servigio. Possono diventare anche dei tiranni. Soprattutto quando si parla di Pil, mito e ossessione della nostra economia. Ma si dovrebbero ricordare quelli pubblicati in questa tabella, tratta dal Rapporto sullo sviluppo umano 2007-8 delle Nazioni Unite. Si tratta delle percentuali delle spese militari, di ogni paese africano, in rapporto al Prodotto interno lordo, ovvero al valore di mercato di tutti i beni e i servizi finali prodotti in un paese in un anno. Dati non facili da raccogliere nel continente. Tuttavia, ci fidiamo.
Balza all’occhio il dato 2005 dell’Eritrea: circa un quarto del Pil va in armamenti e in tutte le spese legate alla difesa. Un dato esorbitante. La percentuale più alta al mondo. Il secondo paese, tanto per capirci, è il sultanato dell’Oman, con l’11,9%.
Il Sipri, l’Istituzione internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, stima che la spesa per armamenti in Africa, nel 2006, si sia aggirata sui 15,5 miliardi di dollari, la più alta dalla fine della guerra fredda. Una piccola fetta, comunque, se paragonata a quella mondiale: 1.158 miliardi di dollari, circa 15 volte l’annuale spesa per l’aiuto internazionale. Trascurando il capitolo, assai corposo, del commercio illegale.
Armi e materiale bellico sono diventati, ormai, merci ordinarie nel mercato mondiale.
Le ong Oxfam, Safeworld e lansa hanno pubblicato Io scorso ottobre i risultati di uno studio sul danno economico, in termini di mancato Pil, che i conflitti hanno causato a 23 paesi africani, nel periodo 1990-2005. Comparando le economie di questi paesi nei periodi di conflitto con quelle di paesi con lo stesso livello di sviluppo in assenza di guerre, i ricercatori hanno ricostruito, tramite una proiezione, il Prodotto interno lordo che tali paesi avrebbero dovuto avere, se fossero stati in pace, e, calcolando la differenza, quale è stata la perdita economica. Cifra sottostimata, visto che sono stati esclusi dal calcolo i costi di aiuti internazionali e operazioni di peacekeeping, l’impatto che una guerra può avere sui paesi confinanti e quello sull’economia anche dopo la fine delle ostilità.
Tuttavia, la cifra emersa è clamorosa: 284 miliardi di dollari (circa 18 miliardi l’anno), che equivalgono alla somma degli aiuti che i maggiori paesi donatori hanno erogato ai governi africani nello stesso periodo di tempo.
Paese | 1990 | 2000 | 2005 |
Eritrea | 22,9 | 24,1 | |
Burundi | 3,4 | 5,4 | 6,2 |
Angola | 5,8 | 21,2 | 5,7 |
Marocco | 5,0 | 4,2 | 4,5 |
Gibuti | 6,3 | 4,4 | 4,2 |
Guinea-Bissau | 1,3 | 4,0 | |
Mauritania | 3,8 | 3,6 | |
Namibia | 5,7 | 3,3 | 3,2 |
Botwana | 4,1 | 3,7 | 3,0 |
Algeria | 1,5 | 3,5 | 2,9 |
Rwanda | 3,7 | 3,0 | 2,9 |
Egitto | 4,7 | 2,3 | 2,8 |
Etiopia | 8,5 | 9,4 | 2,6 |
Rd Congo | 2,4 | ||
Zimbabwe | 4,5 | 4,8 | 2,3 |
Lesotho | 4,5 | 3,1 | 2,3 |
Sudan | 3,6 | 3,0 | 2,3 |
Uganda | 3,1 | 1,8 | 2,3 |
Zambia | 3,7 | 0,6 | 2,3 |
Mali | 2,1 | 2,5 | 2,3 |
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Giovedì, 05 Giugno 2008 00:26
Curarsi è impoverirsi, la salute ci costa cara
Le
spese sanitarie? Salvano la vita. Ma possono impoverire. Il quinto Rapporto Ceis Sanità 2007, realizzato dal Centro di ricerca della facoltà di economia dell’università di Roma Tor Vergata, mette in evidenza alcuni dati relativi agli effetti negativi che le spese sanitarie possono avere sui bilanci delle famiglie italiane. Dal rapporto emerge che è in crescita il rischio di impoverimento di chi deve sostenere spese sanitarie non coperte dal Servizio sanitario nazionale, in particolare per le cure odontoiatriche e l’assistenza alle persone non autosufficienti. Sono sempre di più, ben 948.253(il 4,1%del totale), le famiglie gravate da spese, definite “catastrofiche” sostenute per la salute. Notevoli le differenze regionali: rischio massimo in Calabria, dove il fenomeno colpisce l’11,2% delle famiglie, minimo in Emilia Romagna (1,2%).
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Mercoledì, 04 Giugno 2008 22:39
La questione del nucleare in ItaliaLa questione del nucleare in Italia di Henry SOKOLSKI Henry Sokolski evidenzia innanzitutto che il debito pubblico italiano, il terzo al mondo, è di 1.624 miliardi di euro, con un reale rischio di cresce ancora. Per affrontare l’ascesa dei prezzi di petrolio e gas e la crescente importazione di energia elettrica dalla Francia sembra che la strada giusta sia quella di reintrodurre il nucleare, ma c’è che: “le centrali nucleari promesse da Berlusconi sono improbabili dall’essere costruite”. Le ragioni sono tre: “elevatissimi costi di costruzione; tempi di costruzione da uno a due decenni, e non identificabile comunità italiana disposta a vedere un reattore nucleare realizzato nel loro territorio”. Non si tratta di posizioni antinucleari di verdi. Stime effettuate da E.On, gigante tedesco dell’energia che sta realizzando una grande centrale nucleare in Finlandia, e dalla Florida Power and Light, grande società elettrica statunitense, indicano “il costo di costruzione in 6 miliardi di euro per impianto”. Detto importo è di 10 volte superiore il costo di costruzione di un moderno impianto a gas che produce la stessa quantità di energia. Questo costo, inoltre, si riferisce esclusivamente alla costruzione dell’impianto, non sono contemplate infatti le spese gestione dei rifiuti nucleari o le spese di funzionamento. Come primo ministro Italiano del governo dal 2001 al 2006, “Berlusconi ha speso molto in progetti pubblici e ripetutamente non ha raggiunto gli obiettivi di bilancio fissati dalla Unione Europea. Egli ora afferma che mostrerà moderazione finanziaria”. Ancora, l'amministratore delegato di Enel, che con ogni probabilità potrebbe costruire e gestire l’eventuale reattore nucleare, la scorsa settimana sibillinamente ha avvertito che al fine di procedere, avrebbe bisogno di nuova regolamentazione e forte accordo sul piano all'interno del paese -- Vale a dire garanzie, crediti e sovvenzioni dal governo. Si potrebbe sostenere che l’attuale impegno di spesa per il nucleare potrebbe in futuro consentire di risparmiare. Nel caso italiano, tuttavia, queste probabilità sono basse. L'Italia non ha gestito o costruito una centrale nucleare sin dalla loro chiusura avvenuta in seguito all'incidente di Cernobyl del 1987. Difficilmente quindi si potrà attuare qualsiasi programma nucleare rapidamente o gestirlo senza incidenti. La scorsa settimana, il Ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola, all’assemblea di Confindustria, ha dichiarato che “il governo italiano poserà la prima pietra per la costruzione di una nuova generazione di reattori entro cinque anni”. Dirigenti dell’Enel, tuttavia, sono stati un pò più cauti. Hanno infatti rilevato che potrebbero occorrere “dai sette ai 10 anni” prima di poter effettivamente portare un reattore in linea. I loro concorrenti italiani, Edison SpA, sono stati ancora più cauti: "potrebbero esserci difficoltà a rendere la prima stazione operativa entro il 2020." Da evidenziare poi che la quarta generazione di reattori che il governo italiano si è impegnato a costruire, addirittura non è stata ancora interamente progettata e, quindi, potrebbero passare dai 20 ai 25 anni per renderla operativa. Eventuali reattori nucleari italiani non rappresenterebbero una risposta ai problemi energetici per almeno il prossimo decennio o più. Quali fonti di approvvigionamento energetico e quale sarà la domanda nei prossimi 10, 20 anni, così come quello che sarà il costo dell’energia, nessuno è in grado di stabilirlo. Certamente il governo Berlusconi avrà terminato la legislatura prima di allora. D'altro parte, gli alti costi e l’opposizione politica a qualsiasi specifica costruzione nucleare sarà politicamente significativa e immediata. Perché allora Berlusconi ha annunciato il nucleare ora? Come la riduzione delle tasse sulla benzina e sul diesel, fa apparire il governo impegnato sul fronte dell'aumento dei prezzi del petrolio e del gas. Esperti in materia energetica, però, sospettano qualcosa di più sinistro. L'annuncio potrebbe essere parte di uno sforzo a lungo termine da parte della più grande utility europea per spingere i concorrenti più piccoli ad organizzare un massiccio sostegno governativo per i grandi, costosi programmi di centrali nucleari. Italiani ed europei possono solo sperare che questa speculazione sia semplicemente sbagliata. Si suppone che l'UE incoraggi la concorrenza e l'eliminazione delle sovvenzioni pubbliche nel settore energetico, ma ciò non è mai stato facilmente attuato. La Francia sovvenziona indirettamente il suo programma nucleare. E’ altrettanto noto che la Germania sostiene il carbone. Le sovvenzioni di Germania e Francia al progetto di reattore che AREVA e Siemens stanno costruendo, nel frattempo, sono state recentemente confermate dalla Commissione europea a seguito di vari reclami. La preoccupazione è che l'Unione europea possa finire per reprimere la concorrenza di mercato nel settore energetico. L'Unione europea, dopo tutto, afferma che è impegnata a ridurre le emissioni di carbonio. La soluzione sta nell’aumentare l'efficienza per ridurre la domanda di energia e rendere più vantaggiose le tecnologie energetiche. Nessuna pianificazione può determinare in anticipo come effettuare questa operazione, riducendo le emissioni di carbonio in modo economico e veloce. Invece, l'effettiva applicazione dei meccanismi di mercato è la migliore speranza per guidare attraverso il bosco delle decisioni - come ad esempio la scelta tra impianti centralizzati e distribuiti, le nuove tecnologie contro le vecchie, diverse fonti di gas naturale, ecc E’ concepibile che detta concorrenza potrebbe favorire l'energia nucleare in futuro. Tuttavia, tenuto conto delle previsioni della UE di arresto di 145 reattori nei prossimi 17 anni, la probabilità di una qualche crescita netta nella capacità nucleare, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere tra molti decenni di distanza. Nel frattempo, Italia e Europa farebbero bene a stare lontane da investimenti energetici che nessuna banca privata farebbe senza aiuti statali.
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Lunedì, 02 Giugno 2008 19:27
Il ritorno al nucleare? Costerebbe 50 miliardi di euro
Il ritorno al nucleare?
Costerebbe 50 miliardi di euro di Luca Zanfei da www.vita.it
Proprio nel giorno in cui il premier Berisha mette a disposizione il territorio albanese per la costruzione delle centrali nucleari italiane, Legambiente, WWf e Greenpeacebocciano senza appello la nuova deriva nuclearista del ministro Scajola. Il problema non è solo ideologico. Il ritorno all'atomo costa troppo e non riduce la bolletta Secondo il dossier (scaricabile qui) presentato a Roma dalle tre associazioni ambientaliste, riaccendere i reattori costerebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro, tra istallazioni di centrali e Secondo le stime dell'Agenzia Ma allora
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Lunedì, 02 Giugno 2008 13:24
GUAI A DARE PIETRE AL POSTO DEL PANE
In concomitanza con l’ottantesimo compleanno di Benedetto XVI, è uscito nelle librerie, il 16 aprile 2007, “Gesù di Nazaret”, prima parte di un’opera teologica in due volumi, redatta dal Papa che sarà tradotta in venti lingue. Com’era prevedibile, il saggio conserva la veste rigorosamente scientifica che ha sempre contraddistinto gli scritti ratzingeriani anche se il racconto ha una forte valenza pastorale, attraverso un’avvincente commento ai quattro Vangeli.
Da una parte il libro rappresenta un’illuminata introduzione ai principi del Cristianesimo, consentendo peraltro all’accorto lettore di lasciarsi permeare dalla novità del messaggio evangelico; dall’altra vi è lo sguardo del pastore indirizzato verso il “presente” in cui vive immersa l’umanità di questo primo segmento del Terzo Millennio. Per una rivista missionaria come la nostra (Popoli e Missione, ndr), rivolta prevalentemente ad un pubblico di lettori attento all’impegno della Chiesa nell’annunciare le testimoniare il Verbo, è importante tentare di cogliere alcune sollecitazioni dal punto di vista dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Lo scopo principale dell’opera - che rispecchia la ricerca personale del “Volto del Signore” da parte di Joseph Ratzinger - è proprio quello di «favorire nel lettore la crescita di un vivo rapporto» con Gesù Cristo (cfr. p. 20). Per Benedetto XVI, nel testo biblico si trovano condensati tutti gli elementi per affermare che il personaggio storico Gesù Cristo è anche effettivamente il Figlio di Dio venuto sulla terra per salvare l’umanità di ieri, di oggi e di sempre. Pertanto, pagina dopo pagina, esamina minuziosamente uno per uno, ogni aspetto cristologico, guidando il lettore in un’avventura da duplice significato: spirituale ed intellettuale. Il tema del “Regno di Dio” ad esempio (cap. 3) che è costantemente presente nell’annuncio di Gesù viene successivamente approfondito nella riflessione sul “Discorso della montagna” (cap. 4) in cui le Beatitudini costituiscono i punti cardine della Nuova Legge, uno straordinario autoritratto di Gesù, Figlio di Dio. A questo riguardo, nel libro vi è anche la costante preoccupazione dell’autore di attualizzare il messaggio evangelico. Per esempio nella meditazione sulle tentazioni di Gesù si evince l’insegnamento che mette in guardia gli uomini e le donne del nostro tempo nel cedere alla lusinga di risolvere i problemi del mondo badando solo agli aspetti materiali: questa, è bene rammentarlo, era la promessa del marxismo - «trasformare il deserto in pane» che poi, alla prova dei fatti, s’è rivelata fallimentare. Per non parlare degli «aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su principi puramente tecnico-materiali che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria. . » (cap. 2). Tali aiuti, rammenta il Papa, «hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti... Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane» (ibidem, cap. 2). E la domanda «Ma chi è veramente il prossimo?», posta dalla parabola del Buon Samaritano, diventa lo spunto per riflettere sulle responsabilità del colonialismo e sugli errori commessi dal cosiddetto Primo Mondo nei confronti del terzo Mondo, o sull’alienazione dell’uomo che pure vive nell’abbondanza dei beni materiali (cfr. cap. 7). Il Pontefice denuncia, in particolare, le responsabilità dell’Occidente per le condizioni di povertà in cui versa buona parte del continente africano e sprona le nazioni ricche a non fare come il sacerdote e il levita che passano senza fermarsi davanti al viandante derubato e abbandonato mezzo morto su ciglio della strada. Da parte del Papa vi è dunque la consapevolezza che «il dramma delle popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguarda da vicino», nel senso che «il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli». Insomma un libro, questo di Papa Ratzinger che, partendo dalla riflessione sul significato della missione di Cristo, mette il lettore - credente e non credente - di fronte alle proprie responsabilità, invocando un impegno contro le contaminazioni mondane che costituiscono una minaccia per l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. di Giulio Albanese Popoli e Missione – Giugno 2007
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