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Venerdì, 16 Maggio 2008 12:29

VINCERE SENZA PARTECIPARE

VINCERE SENZA PARTECIPARE

Emanuel Richter*, “Die Zeit”, Germania

da Internazionale 743, 9 maggio 2008

(abstract)

L’Italia ha votato e i buoni democratici di tutta Europa si disperano. Il nuovo Berlusconi stile 2008 sembra più moderato di quello del passato, ma la situazione di fondo è la stessa. Il popolo è stanco e si sveglia per votare e per mandare al potere un leader populista che governerà in modo autocratico un paese in profonda crisi. Così i cittadini evitano di doversi impegnare in prima persona: mandare Berlusconi al potere è come rinunciare plebiscitariamente ai diritti e ai doveri della partecipazione.
In nome della postdemocrazia alcuni politici ed esperti salutano in Berlusconi una svolta epocale della politica, cioè la fine della democrazia occidentale, un modello ormai logoro e non più al passo con i tempi. Altri invece temono il declino o quanto meno lo svuotamento del sistema democratico.
Effettivamente l’Italia di Berlusconi sembra rappresentare queste tendenze in modo esemplare. Già nella precedente campagna elettorale, Romano Prodi aveva esplicitamente evidenziato il nesso tra Berlusconi e la postdemocrazia. E il comico Beppe Grillo aveva ammesso che davanti a Berlusconi preferiva andare a pesca che andare a votare. In questo modo aveva segnalato che perfino gli intellettuali critici, scontenti della democrazia, si stanno ritirando in una sorda apatia.
Ma sarebbe un errore liquidare come “rottura postdemocratica” i sintomi di crisi in senso autocratico emersi con la rielezione di Berlusconi. A un’analisi più attenta, infatti, non si vedono istituzioni logore e una democrazia stanca, ma al contrario un uso insufficiente delle possibilità offerte dalla democrazia.
In Italia ci si incaglia di continuo in un costituzionalismo che soffoca qualsiasi dibattito giuridico o politico sulla costituzione. Anziché una divisione stabile dei poteri con un parlamento forte, governare in Italia si esaurisce nelle pretese di poteri “presidenziali” del primo ministro. Neanche gli elementi di federalismo, pur presenti nelle istituzioni statali italiane, sono stati ancora formalizzati in misura sufficiente, e questo provoca una polarizzazione indecente tra regioni povere e regioni ricche.
Inoltre bisogna aggiungere il dominio premoderno della mafia e della camorra, che ostacola la creazione di strutture amministrative trasparenti e stabili a livello locale e regionale. Per giunta, la corruzione politica determina rapporti di dipendenza di tipo feudale. In mancanza di un sistema di partiti con programmi chiari, attraverso i quali costruire ed esprimere la propria volontà politica in modo strutturato, la sola possibilità che rimane agli italiani è acclamare figure di leader che si presentano con alleanze elettorali puramente tattiche e di mera convenienza.
L’indipendenza dell’informazione, infine, soffre per la presenza di un autocrate – Silvio Berlusconi, appunto – che gestisce le tv e i governi ispirandosi allo stesso modello: l’imprenditore-patriarca dell’ottocento.

Arretratezza e senso di inferiorità
Solo quando tanta arretratezza si coniuga con un senso di inferiorità politica da parte dei cittadini, e genera disperate nostalgie di leadership, la volontà di potere di Berlusconi può apparire come il superamento di una democrazia ormai eccessivamente indebolita. Ma in realtà gli attacchi da tarda pubertà del Cavaliere contro tutto ciò che è moderato, equilibrato, ordinato e sistematico, i suoi atteggiamenti eccentrici e maschilisti sono solo un cattivo sostituto della scarsa fiducia in sé dei cittadini italiani, e al tempo stesso il segno del loro timore di fronte all’idea di un autogoverno radicalmente democratico.
Insomma Berlusconi, furfante machiavellico al potere, compensa l’impotenza di cui soffrono i cittadini. Paradossalmente, rappresenta la rinuncia alla cittadinanza a proporsi come attore collettivo e la proiezione di ogni voglia di partecipazione in un patriarca giovanile e colmo di energia, ma al tempo stesso rozzo e collerico. (...) Berlusconi incarna solo un vincitore triste, perché con la sua ascesa porta a compimento il ritorno regressivo a una condizione predemocratica. Solo un’offensiva capace di ricordare a tutti il senso della politica può aiutare a evitare queste derive.
La partecipazione alla vita pubblica rimane un punto di riferimento indispensabile della nostra esistenza politica. La democrazia è un progetto a cui si aspira incessantemente e che non si raggiunge mai del tutto.
Ironia della sorte: nelle recenti elezioni questo messaggio sembra sia stato recepito soprattutto dagli italiani residenti in Svizzera, che hanno fatto proprio il progetto democratico votando in maggioranza per Veltroni. Questo significa che dove la democrazia, coltivata da secoli, ha prodotto forme raffinate di partecipazione, cresce anche una sensibilità critica verso il populismo e aumenta la fiducia dei cittadini in se stessi.
Le probabilità di regressione predemocratica, quindi, sono minori quando si rafforzano i presupposti di una democrazia viva e vitale.

*
Emanuel Richter insegna scienze politiche al politecnico della Renania-Westfalia ad Aquisgrana, in Germania. Sta per pubblicare un saggio intitolato “Die Wurzein der Demokratie” (“Le radici della democrazia”).

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 07 Maggio 2008 11:35

Sicurezza Alimentare: basta Fame!

Nell'autunno scorso qualcuno aveva iniziato a lanciare l'allarme: le
scorte di cerali erano scese ai minimi storici, il prezzo si era
impennato.

Saranno guai, scrisse ad esempio Lester Brown, puntando il dito contro
gli agro-carburanti, accusati di concorrere all'aggrarsi della
situazione di crisi alimentare.

Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Dissipatosi lo stupore di
questa estate, si è potuto pensare che la crisi dei mutui ad
alto rischio sarebbe stata passeggera, che si sarebbe limitata a
rivelare le perdite di banche irresponsabili, e che si sarebbe potuto
passare ad altro. Non è stato così. Quando la
situazione sembrava raddrizzata alla fine di ottobre 2007, i tassi
interbancari hanno in seguito ricominciato ad esser tesi, rivelando
che la fiducia non era ancora ripristinata. Durante tutto il mese di
dicembre, le banche centrali hanno dovuto immettere massicciamente
nuova liquidità.

Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Domenica, 27 Aprile 2008 18:12

L'unione fa la forza

Fino a qualche anno fa le attività internazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Cernobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di internazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace
Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e coordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa
È un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni...), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

di Edoardo Daneo
MC Maggio 2007
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Domenica, 27 Aprile 2008 18:10

Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato, anche nell’ambito della cooperazione internazionale. Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario. La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere sulla politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni pubblici e governativi.

A cura di Ma.NB.
MC Maggio 2007
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Domenica, 27 Aprile 2008 18:09

Sistema Italia cercasi

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

 A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio
In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. È espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment. Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto
Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1.    L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni internazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
2.    La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord - Sud.

Risorse in aumento
Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Interna¬zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or¬ga¬nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio¬ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’internazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni internazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»
Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e coordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e coordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

di Andrea Stocchiero
MC Maggio 2007
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Domenica, 27 Aprile 2008 18:08

Creare «reti complesse»

Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
 è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «interna» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre - quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800 enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione interna.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?

In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?

Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il coordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni internazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

A cura di Ma.B
MC maggio 2007
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Domenica, 27 Aprile 2008 18:05

Analisi zoppa

Verso il Sinodo / I Lineamenta e la società africana

Nel documento mancano un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiese e un serio esame della situazione presente. Il pericolo è che da valutazioni generiche scaturiscano visioni e proposte altrettanto generiche e inefficaci

Il primo capitolo dei Lineamenta del 2° Sinodo africano – “L’Africa all’alba del 21° secolo” – è forse il più debole dell’intero documento. L’analisi della situazione dell’Africa odierna elenca “alcune evoluzioni positive” (6-7) e “alcuni sviluppi negativi” (8) avvenuti dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995), identifica “alcune priorità a livello socio-politico, socio-economico e socio-culturale” (10-23), esamina il ruolo che le religioni tradizionali africane, l’islam e le altre denominazioni cristiane possono dare “al servizio della riconciliazione, della pace e della giustizia in Africa” (24-29), e conclude con alcune impegnative domande e un primo abbozzo di risposta.
Nel capitolo ci sono 20 note di riferimento: 6 a discorsi e documenti papali, 11 ai Lineamenta, all’Instrumentum laboris e al documento finale del primo sinodo, 1 al sito Internet del Symposium delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar, 1 all’annuario statistico della chiesa e 1 alla beata Elisabetta della Trinità, mistica francese morta all’inizio del secolo scorso.
Tutto il capitolo è una enumerazione ragionata di fatti e di grandi tendenze, senza, però, un vero tentativo d’interpretazione. Un mero elenco – neppure esaustivo – che potrebbe essere fatto senza difficoltà da un giornalista mediamente competente sui fatti africani. Sorprende la totale assenza di voci che non siano strettamente ecclesiastiche. Ed è su questo elenco di fatti e autocitazioni che sono sviluppate le prospettive teologiche dei capitoli successivi.
Se si vuole fare teologia e suggerire proposte di programmi pastorali che incidano, è necessaria un’attenta analisi della società africana odierna. Un sinodo, del resto, intende essere un momento di autocomprensione e di presa di coscienza delle situazioni di un dato momento in vista di un maggiore impegno nel futuro. In caso contrario, si rischia – come è successo con il primo sinodo – di produrre un documento finale che non sa provocare veri cambiamenti.
Un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e una seria analisi della situazione presente non sembrano essere state fra le priorità degli estensori dei nuovi Lineamenta. Forse questi hanno voluto lasciare il compito al sinodo stesso. Ma l’esperienza di simili precedenti assisi induce a dubitare che un lavoro del genere possa essere fatto in aula. Sta di fatto che da analisi generiche non potranno che scaturire visioni e proposte generiche e inefficaci.
Il successo della teologia della liberazione in America Latina è dovuto al fatto che essa è nata e fiorita da un’analisi della società ampiamente condivisa da comunità cristiane, congregazioni religiose e vescovi. Insomma, una riflessione con profonde radici nel popolo cristiano.
In Africa, invece, un’analisi della società e dei problemi odierni non è stata ancora proposta, tanto meno condivisa. Se si parla con i cristiani del Sud Sudan – da poco usciti da una guerra civile, ma tuttora a rischio di ricaderci – sorprende notare come la loro analisi socio-politica si rifà esclusivamente alle posizioni dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese o di altri partiti. Non sono ancora capaci di formulare una propria visione della società che sia influenzata dalla fede cristiana: il messaggio evangelico viene “tirato in ballo” come cappello finale, senza alcuna efficacia storica.
 
La stessa cosa è balzata agli occhi durante la recente crisi del Kenya. In interviste alla radio si sono udite allucinanti dichiarazioni di cristiani: ammettevano di aver preso parte all’uccisione di persone o di aver bruciato le case di vicini per costringerli ad andarsene, affermavano di essere pentiti, ma s’affrettavano ad aggiungere che avrebbero rifatto le stesse cose se i vicini fossero tornati. La maggioranza dei cristiani kenyani è stata vittima di una esasperata interpretazione tribalistica dei fatti: non ha capito che tale interpretazione nascondeva una sporca guerra per il potere economico delle due parti in causa, né la presenza di forze esterne, guidate da interessi particolaristici. Un tragico scollamento fra vita e fede, questa seconda intesa solo come guida per opzioni morali personali.
Il nodo sta proprio nella mancanza di un’analisi sociale e di un “giudizio” cristiano condiviso sulla storia presente. Gli stessi leader religiosi spesso sembrano incapaci di vedere al di là del proprio angolino di mondo, troppo coinvolti nella loro piccola realtà tribale: avere una nipote che ha sposato un certo uomo politico può significare la possibilità di scorciatoie nelle pratiche burocratiche, non ricusando forme di corruzione (magari non a livello di mazzette, ma di scambi di favori e di silenzi colpevoli).
Se riteniamo indispensabile una presenza cristiana nel campo sociale, è necessario far crescere la consapevolezza dei problemi, delle ingiustizie, delle forze che sfruttano l’Africa solo come campo di battaglia.
In un recentissimo saggio, che ha il pregio di tentare di capire le ragioni delle guerre africane (L’Africa in guerra – I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2008), Alberto Sciortino scrive: «Le guerre africane, se non ci si vuole fermare agli aspetti apparenti e superficiali, sono interpretabili a tre livelli. Un primo livello è quello della lotta per la conquista del potere all’interno del ceto politico continentale: in questo senso la grande diffusione della conflittualità e la corruzione tra le classi dirigenti sono due aspetti degli stessi processi. Un secondo livello è quello del controllo dello sfruttamento delle risorse, spesso illegale anche se praticato dai governi: questo sistema economico implica la guerra come suo elemento costitutivo (...), modifica a proprio vantaggio l’intera struttura produttiva delle aree interessate e crea nuovi equilibri sociali che tendono a perpetuare i conflitti. Il terzo livello è quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata, a cominciare dalla contesa per le risorse energetiche».
È un esempio – più o meno condivisibile – di un tentativo di capire. Sarebbe importante che il prossimo sinodo, dedicato non solo alla riconciliazione, ma anche alla giustizia e alla pace, ci regalasse una visione condivisa di quello che avviene in Africa e di come potremmo reagire come cristiani. Se è troppo chiedere questo, si potrebbe almeno cominciare a muoversi in quella direzione, avviando un processo che renda i cristiani africani attori più informati e consapevoli della storia odierna

di Renato Kizito Sesana
Nigrizia – Aprile 2008
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La crisi finanziaria dei crediti immobiliari a rischio, partita dagli Stati Uniti questa estate, raggiunge le banche francesi. Quest’ultime avevano finora dichiarato che esse erano risparmiate, non avendo finanziato affatto o molto poco le famiglia statunitensi e investito poco nei profitti finanziari rischiosi, spalleggiate dalle famose “subprimes”. Pensavano anche di rimanere indenni. Non è così, evidentemente, anche se la degradazione dei loro conti sembra non essere paragonabile a quella di creti istituti americani, britannici o tedeschi.

Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Domenica, 20 Aprile 2008 20:52

FEDELI AGLI OPPRESSI

Teologia della liberazione: ancora anima e cuore della chiesa latino-americana

L’opzione della chiesa per i poveri non perde la sua attualità in un subcontinente con oltre 200 milioni di diseredati. Il Vaticano “corregge” il documento finale dei vescovi riuniti nella conferenza di aparecida lo scorso maggio. Ma il destino delle cose non dipende dal destino delle parole. Molto prima che esistesse la teologia della liberazione, esisteva un Dio dell’esodo, che ascolta il grido degli oppressi e scende a liberarli.

José Comblin continua ostinatamente a inseguire il sogno di una chiesa povera fra i poveri. Il popolo di Dio nasce e cammina negli anfratti polverosi della storia, nelle aree metropolitane più sudice, caotiche e violente, dove vivono, lottano e sperano i dannati della terra. E qui che la Parola si è rivestita di un compito fondamentale: aiutare il povero a liberarsi dal giogo del potere che l’ha condannato a essere schiavo e non pienamente uomo. È qui che ha preso corpo la teologia della liberazione quarant’anni fa, quando il Concilio Vaticano II parlò di una chiesa che fosse talmente coraggiosa da fare la scelta preferenziale per i poveri, ossia mettesse davanti a tutto il “discorso della montagna” (Matteo 5-7) o il “sermone della pianura” (Luca 6, 17-49) di Gesù.
Non è un caso che la traduzione italiana dell’ultimo libro di Comblin, Il popolo di Dio (Servitium/Città aperta), sia uscita nei giorni in cui ad Aparecida do Norte, in Brasile, si riunivano i vescovi dell’America Latina per la 5a Assemblea dell’episcopato latino-americano e dei Caraibi (Celam) dal 13 al 31 maggio (2007, ndr). Il libro, pubblicato in Brasile nel 2002, è un manifesto corposo di una chiesa della speranza in America Latina. Il teologo si rivolgeva al Papa che sarebbe succeduto a Giovanni Paolo II (ancora non si poteva immaginare che sarebbe stato Joseph Ratzinger), perché tornasse ai principi che avevano reso importante il Concilio Vaticano II: «Non ci può essere un Vaticano III senza prima tornare al Vaticano II», scrive in avvio il teologo. Di qui, una lunga e corposa analisi sulla chiesa dei poveri, sulla fatica che molti teologi, vescovi, sacerdoti latino-americani hanno fatto per dare impulso a una teologia che potesse dare speranza agli sventurati, e sulle resistenze a questo cammino che, nel corso degli anni, sono venute dalle gerarchie, dagli ambienti più conservatori, dalle élite aristocratiche e dai poteri che hanno segnato la storia del continente.
Nonostante tutto, comunque, annotava Comblin, «la chiesa dei poveri sopravvive. È minoritaria, ma resiste. Non ha più posto tra le preoccupazioni della maggioranza del clero e dei movimenti. Ma essa è presente. La storia dimostra che la chiesa non può essere popolo di Dio, se non è chiesa dei poveri. I due termini sono assolutamente uniti»

LUCI E OMBRE
La stessa cosa vale per la teologia della liberazione, anima e cuore della chiesa dei poveri. Anche se ci sono sempre voci allarmanti che parlano di una sua lenta agonia, i sacerdoti che lavorano nelle comunità di base in Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia e Guatemala parlano di una situazione propizia per il “cristianesimo di liberazione” (come preferiscono dire), che s’inserisce in un clima culturale e politico che segna uno dei momenti di massimo splendore per l’America Latina. In un recente viaggio in Italia, il filosofo argentino Enrique Dussel ha affermato: «La teologia della liberazione è la trasposizione più fedele del Vangelo che sia stata mai pensata, perché la più vicina al popolo, non elaborata dall’alto, ma scaturita dal basso, perfettamente in linea con l’insegnamento di Gesù. La teologia della liberazione sarà sempre più il cuore del cristianesimo e il futuro della chiesa».
Pochi giorni prima della visita di Benedetto XVI in Brasile, mons. Pedro Casaldaliga, vescovo emerito di Sào Félix, Mato Grosso, Brasile, aveva dichiarato: «Credo fermamente che la teologia della liberazione continui a essere viva in molte menti, in molti testi e in molte comunità. Sono convinto che si stia rinnovando con nuovi apporti. Adesso, oltre ai poveri, la chiesa ha fatto propria anche la causa del nero, dell’indio, della donna».
Dall’assemblea del Celam i contenuti della teologia della liberazione sono stati espressi in maniera abbastanza chiara. Alcuni teologi hanno perfino esultato, perché il documento di Aparecida è molto più solido di quello dell’assemblea precedente di Santo Domingo (Repubblica Dominicana) del 1992. Clodovis Boff ha commentato: «Il documento di Aparecida è uno dei punti più alti del magistero della chiesa latino-americana e caraibica. Il testo ricupera quello che di meglio è stato elaborato dal Celam nelle assemblee precedenti. Il testo tocca il suo vertice quando parla di una fede viva in Cristo, affermando che l’amore di Dio si sperimenta, si annuncia e si progetta nella vita».
Più misurato il commento del biblista Marcelo Barros, che vi scorge luci e ombre. Secondo lui, il documento rispecchia una visione ecclesiocentrica e fortemente condizionata dalla gerarchia. Pur tuttavia, il testo sorprende positivamente. «Si torna al metodo di Medellfn (1968) - la prima assemblea che lanciò la teologia della liberazione in America Latina -, cioè al metodo del “vedere, giudicare, agire”; si parla espressamente di “scelta preferenziale per i poveri”; si hanno parole amiche per le comunità indie e nere. Il documento apre a questioni sociali, critica gli effetti perversi della globalizzazione, e fa chiare allusioni al debito estero, alla riforma agraria, alle migrazioni. Insiste, infine, sulla necessità di proteggere la biodiversità e si preoccupa del problema dell’acqua». Secondo Barros, le intenzioni positive del testo - che vanno comunque alimentate - sono succubi di una concezione ancora poco ecumenica e poco aperta al dialogo interreligioso.
João Batista Libânio, gesuita brasiliano, accoglie con entusiasmo il forte riferimento che il documento fa all’«incontro personale con Cristo all’interno della comunità e della chiesa», ma è stupito del fatto che, nonostante i temi teologici siano stati affrontati, il testo evita di parlare espressamente della teologia della liberazione, «come se essa non fosse esistita e non avesse portato un contributo originale all’interno del consesso teologico mondiale».
La teologa brasiliana Maria Clara Bingemer, invece, solleva il problema del laicato a cui non si darebbero prospettive concrete: «Il testo riproduce ancora un vecchio schema che vede la contrapposizione fra il clero e il laicato. Dunque, è chiaro in questo punto la distanza dalla teologia della liberazione che basava la sua visione sul concetto di popolo di Dio dove laicato e clero fossero uniti per cooperare alla realizzazione del Regno di Dio qui sulla terra».

NUOVI STILI DI VITA
Ermanno Allegri, missionario altoatesino, impegnato in Brasile e direttore dell’agenzia di stampa Adital, riassume così l’iter del documento finale di Aparecida: «Il testo è stato approvato con 134 voti a favore, due contrari e un’astensione. Si potrebbe parlare di grande consenso. Ma, rispetto all’originale, il testo presentato al Papa contiene ben duecento correzioni. La parte più manomessa e impoverita è proprio la parte che riguarda il lavoro delle comunità di base. È lecito chiedersi come mai la versione originale sia stata così ristrutturata, soprattutto nel capitolo che riguarda maggiormente la teologia della liberazione. Per fortuna, non di documenti vive l’uomo. E se è vero che il documento finale di Aparecida sarà per noi tutti la base e l’orientamento per il prossimo decennio, credo che il senso del nostro impegno, così come si è profilato in questi anni e come l’hanno contraddistinto molti sacerdoti e anche qualche vescovo, non verrà certamente inquinato. Anzi, sono convinto che prenderà ancora più vigore e forza, perché in America Latina o la teologia parte dalla base - ossia dalla condivisione delle miserie e aspettative della povera gente - o non parte affatto».
Tornando a Comblin, il commento che fa della conferenza è sostanzialmente positivo: «Essa rinnova l’opzione per i poveri. Non si tratta di una formula convenzionale. Il testo è preciso. Afferma, senza ombra di dubbio, che “si assume con nuova forza l’opzione per i poveri” (399), e usa per ben due volte la parola “liberazione”, che pareva ormai un termine proibito. Il documento conclusivo parla esplicitamente delle comunità ecclesiali di base (178-179). È vero che questa parte del documento è quella che ha subito maggiori correzioni da parte di Roma: il testo sottoposto dai vescovi era molto più incisivo. Ciononostante, il documento enuncia i frutti positivi delle comunità di base, riconoscendole come segno dell’opzione per i poveri. I vescovi avevano scritto: “Vogliamo decisamente riaffermare e dare nuovo impulso alla vita e alla missione profetica e santificatrice delle comunità di base, nella sequela missionaria di Gesù”. E ancora: “Sono state una delle grandi manifestazioni dello Spirito nella chiesa dell’America Latina dopo il Vaticano II” (194). Queste frasi sono state censurate e ora il testo risulta più debole. Anche altre correzioni vanno nello stesso senso. Ma il testo preparato dai vescovi esiste e può essere consultato. Dalla coscienza latino-americana esso è avvertito come più significativo di quello censurato».
Fortemente segnata dal dubbio, tuttavia, è la domanda che Comblin si pone circa il difficile passaggio dalla elaborazione teorica del documento di Aparecida alla vita pratica della chiesa nel suo diretto rapporto con il mondo: «Il progetto di Aparecida è talmente radicale che sorge un dubbio: chi realizzerà questo programma nella pratica? La storia mostra che tutti i cambiamenti profondi all’interno della chiesa sono stati realizzati da persone nuove, capaci di animare gruppi nuovi e di inventare nuovi stili di vita, sempre a partire da una scelta di vita caratterizzata dalla povertà. Nessun cambio significativo è mai stato attuato da coloro che occupano posti di comando e dalle strutture già instaurate, perché difficilmente riescono a uscire dai propri ruoli tradizionali». Pertanto, «chi sarà il traghettatore verso uno stile nuovo, sobrio, totalmente compromesso con le sorti del povero? Dove trovare i nuovi san Francesco? E dove sono i nuovi Domenico di Guzman?».

di Francesco Comina
Nigrizia/Novembre2007
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