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Domenica, 23 Novembre 2008 17:17

SETE DI VERITÀ

Una notte di 15 anni fa, Hugo Assmann mi chiamò per telefono e, nel bel mezzo della conversazione, disse una frase che riassumeva lo sfogo che sapeva di fare ad un amico e discepolo: “Jung, non possiamo perdere la parresia!”. “Il coraggio di dire la verità”, è stata una delle caratteristiche di Hugo Assmann. Ha parlato apertamente contro le dittature militari e il capitalismo, pagando per questo con diversi esili. Ha fatto della critica teologica all’economia capitalista la sua arma in favore delle lotte dei poveri. Ma ha anche avuto il coraggio di criticare problemi ed errori della Chiesa, delle teologie (inclusa la Teologia della Liberazione) e delle teorie educative che intendevano essere al servizio delle lotte popolari.

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Domenica, 23 Novembre 2008 17:14

PRIMAVERA LATINO-AMERICANA

Nel 1989, John Williamson, dell’Istituto di economia internazionale di Washington, dopo aver partecipato a una riunione di rappresentanti di paesi dell’America Latina per disegnare le riforme necessarie per far uscire il sub-continente dalla crisi del debito estero e recuperare la crescita che la regione non aveva avuto nella década perdida degli anni ’80, scrisse un articolo in cui espose ciò che, a suo giudizio, era un «accordo unanime» sulle politiche che i paesi poveri avrebbero dovuto varare per diventare più ricchi. Quell’accordo — noto come “Consenso di Washington” — altro non era che una trama cospiratoria dell’imperialismo, deciso a garantirsi uno spazio egemonico in America Latina, sostituendo le dittature militari con governi neoliberisti.

Molti presidenti — assistiti dai Chicago Boys (giovani economisti formati all’università di Chicago sotto l’egida di Milton Friedman e Arnold Harberger) — si affrettarono a “rottamare” il patrimonio nazionale con privatizzazioni irresponsabili e processi di “deregolamentazione” delle leggi sul lavoro, riducendo le rispettive nazioni in casas de mãe-joana (luoghi di gozzoviglie) del capitale transnazionale. Esempi di questa accondiscendenza agli interessi della Casa Bianca e di solenne disprezzo dei diritti fondamentali dei poveri sono stati i presidenti Collor de Mello (Brasile), Menem (Argentina), Fujimori (Perù), Arias (Costa Rica), Pérez (Venezuela) e Salinas (Messico).

Il “Consenso di Washington” servì ad accelerare le privatizzazioni e a promuovere la corruzione, lasciando come eredità debiti esteri spaventosi, inflazione accelerata, disoccupazione, dilapidazione delle industrie nazionali, concentrazione delle terre nelle mani di pochi e spostamento dei capitali dalla produzione alla speculazione.
Come reazione a ciò, assistiamo oggi al sorgere di un nuovo consenso, che definirei “Consenso-Sud”: quello dei paesi latino-americani guidati da partiti e presidenti impegnati a ridurre le disuguaglianze sociali. Dopo le dittature militari e i governi liberisti, sta sbocciando una primavera democratica, consolidata dall’elezione di leader politici che dicono no a quella politica che aveva applaudito all’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), appoggiato l’invasione dell’Irak da parte di George Bush padre, e coltivato il sogno dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), proposto da Clinton come fine del Mercosul (Mercato comune del Sud America).

Le vittorie di Chávez in Venezuela, Kirchner in Argentina, Lula in Brasile, Morales in Bolivia, Vázquez in Uruguay, Correa in Ecuador, Ortega in Nicaragua e il vescovo Lugo in Paraguay, sommate alla “rettifica” cubana di Raoul Castro, disegnano una nuova geopolitica continentale, capace di neutralizzare l’ingerenza degli Usa in America Latina.
È vero che alcuni governi non sono stati del tutto coerenti con le promesse elettorali (in Brasile e Argentina la riforma agraria è ancora un tabù; altrove si minaccia di rompere il “Consenso-Sud” per firmare unilateralmente l’accordo di libero commercio con gli Usa). È vero che non siamo ancora a quella democrazia partecipativa che coniuga suffragio universale con garanzia di accesso per tutti ai diritti economici e sociali basilari (tutti votano, ma molti hanno fame; tutti hanno il diritto all’educazione, ma molti bambini non sono a scuola; tutti hanno il diritto alla salute, ma pochi riescono a goderla, grazie a schemi assicurativi di medicina privata). Ma è anche vero che l’America Latina non ha mai conosciuto un periodo tanto democratico quanto quello presente.

La vera novità è che i paesi del “Consenso-Sud” s’impegnano a combattere la misera e l’inflazione, non criminalizzano i movimenti sociali, moltiplicano meccanismi di consultazione popolare e riscattano la funzione dello stato come agente di sviluppo sociale ed economico. In politica estera, rafforzano i progetti di cooperazione socio-economica tra i paesi (come il Mercosul e l’Alternativa bolivariana per le Americhe — Alba), si aprono all’asse Sud-Sud (Cina, India e Sudafrica) e riallacciano relazioni con l’Africa e il mondo arabo, diminuendo il peso dell’egemonia anglo-sassone.
Oggi la sfida è dare continuità a questo processo. È necessario che i governanti non cadano nella tentazione di un “neo-caudillismo” (caudillo: parola spagnola per indicare un leader politico-militare a capo di un potere autoritario): forti del proprio carisma personale, potrebbero cercare di stabilire canali diretti con i poveri, scavalcando la mediazione dei partiti e dei movimenti sociali. Sta qui il pericolo. Senza partiti rappresentativi, dotati di un progetto storico e di rigore etico, e senza un’accresciuta capacità di singoli e gruppi di controllare la propria vita attraverso il protagonismo dei movimenti sociali, il “Consenso-Sud” rischia di passare alla storia come un’altra speranza fallita.

Bisogna, quindi, annaffiare i fiori di questa primavera e svellere quanto prima ogni erba cattiva, perché la nuova stagione produca davvero frutti di giustizia e di libertà.

di Frei Betto
Nigrizia giugno 2008
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Domenica, 23 Novembre 2008 12:59

LADRI DI CERTEZZE

LADRI DI CERTEZZE

da Nigrizia giugno 2008

La distanza geografica è notevole. Vicinissimi, invece, gli atteggiamenti e il clima sociale. In Italia come in Sudafrica, è sempre l’“altro” a essere percepito come un problema; peggio, come una minaccia. La chiamano xenofobia, che per Adriano Sofri (la Repubblica del 20 maggio) «è anche l’invenzione del diverso e il disprezzo, l’avversione e la persecuzione del diverso».

Le cronache italiche degli ultimi mesi ci dicono di un crescente fastidio nei confronti degli immigrati – colpevoli di venire da fuori e di portare unità culturali “altre” – e di caccia al rom, l’etnia che vive l’ambivalente (e per molti italiani, spiazzante) condizione di essere nomade ed europea. I media raccontano anche di bande giovanili che esprimono violenza (fino all’omicidio) verso chi non è considerato sufficientemente “nella norma”, perché nero o punk, portatore di capelli lunghi d codino.

A Johannesburg, capoluogo del distretto industriale per eccellenza del Sudafrica, sono finiti nel mirino gli immigrati dello Zimbabwe, un paese in preda a una profonda crisi politica ed economica. Ma chi ha ucciso e ferito decine di zimbabweani (l’ondata ha investito anche altri immigrati di origine somala, nigeriana, congolese e pachistana) non si è chiesto per quale ragione questa gente è capitata lì: è gente straniera che può consumare risorse e competere per un lavoro, e tanto basta!

È possibile rintracciare – a Napoli (e a Verona) come a Johannesburg (e a Città del Capo) – uno sfondo comune che consenta una lettura di questi accadimenti in cui l’“altro” diventa bersaglio? C’è una pista che può aiutare a comprendere e che passa attraverso due parole, che spesso intrecciano il proprio territorio: la roba e l’identità.

Il culto della roba, cioè dei beni che si possiedono, con tutto il corollario di status sociale e di consumismo, ha un peso sempre più preponderante e richiede un tale investimento di attenzioni e di energie che tutto il resto – compreso il coltivare criteri di cittadinanza che comprendano condivisione e solidarietà – passa in subordine. E ciò è vero anche in Sudafrica: sono stati, sì, i poveri a far fuori altri poveri, ma, appunto, per non condividere le briciole.

E il possesso della roba fa il paio con lo sbandieramento di identità (nazionali, regionali, etniche, religiose) che si presumono sedimentate e definitive. E che promettono stabilità per omnia secula seculorum. Tutti impegnati «a reimpacchettare il passato» (Rossana Rossanda). È il tipico sogno di un mondo che si vorrebbe immobile, mentre tutt’intorno governa la globalizzazione, con il suo turbinio di uomini e di merci, con le frontiere labili, con visioni del mondo che capitolano, con culture costrette ad annusarsi sempre più da vicino...

In questo contesto, l’“altro” diventa il ladro di certezze. Diventa quello che mette in crisi scenari consolidati. Diventa un sasso che agita la calma apparente del nostro mare di tranquillità e di civiltà.

Eppure, i cristiani non devono fare tanta strada per trovare vie d’uscita. Il Nuovo Testamento ci ammonisce sul ruolo del ladro. «Ecco, io vengo come un ladro» (Ap. 16,15). Il Cristo, una volta venuto “presso i suoi”, provoca una crisi e una divisione: rapisce ai “suoi” le loro sicurezze e i loro privilegi, ma per svelare il dono promesso e accordato a tutti.

Anche l’insegnamento sociale della chiesa – parte essenziale di ogni annuncio evangelico oggi – fornisce indicazioni nitide in tema di attenzione all’altro, di solidarietà, di coesione sociale. Ma, guardando all’Italia, dobbiamo dedurre che il Vangelo non è oggetto di sufficiente riflessione e che le parrocchie e le miriadi di associazioni cattoliche non danno adeguata eco all’insegnamento sociale della chiesa?

«Mai senza l’altro», ci ammonisce il teologo gesuita francese Michel de Certeau (1925-1986): «L’Altro è colui senza il quale vivere non è più vivere… Tragedia non è il conflitto, l’alterità, la differenza, bensì la confusione e la separazione. In questa stagione, dobbiamo imparare ad accettare il mistero e l’enigma di chi non conosciamo, di chi appare come l’estraneo, e non solo lo straniero. La sofferenza e la fatica della ricerca dell’unione nella differenza permangono, ma la tragedia incombe sull’uomo soltanto quando rinuncia all’altro e se ne separa. Gli altri non sono l’inferno: sono la nostra beatitudine su questa terra».

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Martedì, 23 Settembre 2008 22:31

UN PASSO AVANTI

UN PASSO AVANTI

di Camillo Ballin
Nigrizia – maggio 2008

Non nascondo di essere rimasto quasi scioccato quando ho letto nei titoli di Rai News 24: “Benedetto XVI battezza il giornalista Magdi Allam”. Non mi sarei mai aspettato che un Papa battezzasse un musulmano il Sabato Santo e davanti alle televisioni di tutto il mondo! Dire che Benedetto XVI ha fatto un passo gigantesco è dire troppo poco. Dobbiamo ammettere che ha avuto un coraggio che non viene da nessuna natura umana: può venire solo dall’Alto.

Vorrei fare qui alcune osservazioni personali. Non intendo presentare l’argomento in tutti i suoi aspetti, ma solo enucleare qualche punto. Magdi Allam non era un musulmano praticante, almeno da vari anni. Tuttavia era un musulmano, ma non accettava il fondamentalismo e lo rifiutava a voce alta. Troppi musulmani, cosiddetti “moderati”, sono “maestri di doppiezza”, come li definisce un noto musulmano arabo che sta pagando per le sue interpretazioni liberali dell’islam. Magdi Allam mise la sua moderatezza in pubblica piazza, anche se questo gli costa il dover essere continuamente protetto dalla polizia. Dobbiamo riconoscergli questo coraggio e questa sofferenza di essere sempre sorvegliato.

Alcuni lo hanno fortemente criticato per essere troppo filo-Israele. Non intendo discutere le sue scelte politiche. Ognuno deve avere la libertà di pensiero e saper rispettare la libertà degli altri. Idee politiche che non sono contrarie alla dottrina cattolica non impediscono una conversione al cristianesimo e, in particolare, alla chiesa cattolica. Dalla sua lettera di Pasqua al direttore del Corriere della sera si capisce chiaramente che la sua conversione è frutto di un lungo cammino personale e di un serio confronto con persone che per lui significavano una luce nel suo percorso verso Cristo. Non è stata una conversione immediata, né richiesta e nemmeno proposta da alcuno.

Ho partecipato a parecchi colloqui internazionali sul dialogo interreligioso. Si è sempre affermato che l’islam è tollerante. Anzi, al Cairo nel 2006 si gridò che la tolleranza era entrata nel mondo con l’islam. Papa Benedetto XVI ha voluto superare questo linguaggio statico, che tradisce molta falsità, e dare un segnale fortissimo a tutti, cristiani e musulmani. Ha voluto dire che dobbiamo mettere in pratica la libertà religiosa, che è uno dei principi fondamentali dei diritti dell’uomo.

Voglio far notare che non si tratta di libertà di culto (il poter pregare in una chiesa costruita con il permesso del governo), ma di libertà religiosa, cioè di poter scegliere tra una religione e un’altra. Il Pontefice ha voluto mettere alla luce del sole quello che avviene, nell’ombra, nella chiesa cattolica. In Francia, per esempio, si contano ogni anno tra le 150 e le 200 conversioni di musulmani al cristianesimo, ma moltissimi di questi convertiti rimangono nascosti. Mentre non fa problema che, sempre in Francia, oltre 3.000 persone passino ogni anno dal cristianesimo all’islam.

Il Papa ha voluto dire ai musulmani che la libertà religiosa, che molti governi islamici affermano, a parole, di rispettare nel loro paese, non consiste nella limitata e controllata libertà di culto ma nella libertà di scegliere tra islam e cristianesimo. E l’ha fatto nel momento più solenne dell’anno cristiano – durante la celebrazione della Pasqua – e davanti al mondo intero!

Mi torna alla mente la lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI nell’aula magna dell’università di Ratisbona, il 12 settembre 2006, in un “incontro con i rappresentanti della scienza”, durante il viaggio apostolico in Germania. In seguito a quella lezione, il mondo islamico s’infiammò e tutti esigevano le sue scuse. Ma il Papa sa dove vuole arrivare, e con il battesimo pubblico di Magdi Allam ha messo un altro paletto sulla via del vero dialogo interreligioso. Subito dopo la lezione a Ratisbona, un professore musulmano egiziano mi disse: «Benedetto XVI ha messo fine all’ipocrisia nel dialogo tra le religioni e ha iniziato il vero dialogo». E la storia gli sta dando ragione. Del resto, un mese dopo le tanto contestate parole del Papa all’università tedesca, ci furono una prima lettera, firmata da 38 personalità musulmane di differenti paesi e orientamenti che accoglievano e apprezzavano i chiarimenti fatti dal Papa, quindi una seconda, intitolata “Una parola comune tra noi e voi”, con 138 firme di leader islamici. Cose mai successe prima!

È mia opinione che il battesimo di Magdi Allam è un altro passo in avanti – e che passo! Si ha quasi l’impressione che il Papa stia guidando non solo la chiesa cattolica verso il vero dialogo, ma anche l’islam.

È normale che parecchi musulmani abbiano condannato sia Allam che il Papa. Ma molti non hanno voluto commentare niente, forse anche per non confermare negli europei l’idea che l’islam è violento e non rispetta la libertà di religione. Sempre dopo la lezione di Ratisbona, in Kuwait ci fu una dimostrazione contro la chiesa cattolica: un corteo di protestatari marciò dalla Grande Moschea alla cattedrale, dove tennero discorsi il cui contenuto si può facilmente indovinare. Ma bisogna dire che i manifestanti non erano più di cento: meno dei poliziotti che li scortavano. Seguì la distribuzione nelle strade di due opuscoli velenosi contro i cristiani e, soprattutto, contro vari Papi. Dopo la diffusione del secondo opuscolo, scrissi una lettera alquanto ferma al ministro degli interni.

Dopo il battesimo di Magdi Cristiano Allam, in Kuwait non c’è stata – almeno finora – nessuna reazione particolare, né sui giornali né per le strade. D’altra parte, mi sarei meravigliato che un paese che vuole essere aperto al dialogo come il Kuwait prendesse posizioni violente contro chi vuole mettere in pratica la libertà di religione. Mi auguro che il paese continui su questa via dell’apertura verso gli altri e dell’accettazione di idee e fedi diverse. Una prova che il Kuwait intende percorrere tale strada è data dal fatto che, dopo la lezione di Ratisbona, l’Università del Kuwait organizzò un Colloquio su “Il futuro del dialogo tra le culture, dopo la Lezione di Benedetto XVI”. Io stesso fui invitato a parlare. L’iniziativa ha fatto onore all’Università e al Kuwait stesso.

Dobbiamo essere riconoscenti al Papa per il coraggio e la coerenza. Non escludo che in qualche terra islamica questo battesimo possa creare gravi problemi. Ma sono convinto che si deve rispettare la libertà di ciascuno e che la chiesa deve essere fedele a Dio. Questo vuol dire che, quando una persona è convinta che Gesù Cristo è il suo Signore e il suo Dio, la chiesa deve accoglierla.

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Martedì, 23 Settembre 2008 22:29

PAESE DA RICOSTRUIRE - RD Congo

PAESE DA RICOSTRUIRE - RD Congo

di François Misser
Nigrizia aprile 2008

Una delle difficoltà è fotografare esattamente la situazione. La Banca centrale dell’Rd Congo ha stimato per il 2008 una crescita del Pii del 6,5%. Ma cosa significa questo dato? Nel corso di un convegno, organizzato a Bruxelles dal Centro belga di riferimento per le specializzazioni in Africa centrale (Cre-Ac), il professore Eric Tollens, dell’Università cattolica di Lovanio, ha sottolineato come non esistano statistiche affidabili. Per dimostrare ciò, ha preso in esame il caso dell’agricoltura, un settore trascurato dal governo: il bilancio statale destina ad esso solo l’1,8% del totale e, secondo quanto afferma lo stesso titolare del dicastero, Nzanga Mobutu, il denaro serve solo per pagare i Funzionari del ministero. Ma è un settore abbandonato anche dai paesi donatori, che assegnano non più del 10% dei loro aiuti al Congo a quel comparto. Fino a poco tempo fa, nessuno di loro era interessato a finanziare una banca dati affidabile sulle produzioni agricole. La motivazione: «Non si mangia con le statistiche».

Il risultato è che le stime sono distanti dalla realtà e le conclusioni che si tirano possono rivelarsi false. Tollens ritiene che la situazione sia migliore di quella che esce dalle statistiche ufficiali congolesi o da quelle dei finanziatori, secondo cui il 72% della popolazione vive con una razione giornaliera di 1.610 calorie a persona. «Non è realistico: con tale assunzione calorica nessuno sarebbe in grado di lavorare», commenta il professore belga. Tollens, partendo dagli 1,8 milioni di tonnellate di manioca commercializzate in quattro città, arriva a stimare per l’intero paese una cifra pari a 21 milioni di tonnellate, di molto superiore ai dati ufficiali. E spiega: l’RD Congo, settima potenza agricola mondiale in termini di potenzialità, potrebbe facilmente nutrire due miliardi di persone l’anno. Infine aggiunge: le produzioni attuali di olio di palma o di caffé non rappresentano che una parte di quanto erano prima dell’indipendenza. Il ministero britannico per lo sviluppo internazionale (Dfid), in un rapporto intitolato Il commercio per la pace, ha messo in evidenza divari considerevoli tra le esportazioni registrate dalle dogane congolesi e quelle reali: nel 2005, l’export reale di rame rappresentava circa il doppio dell’ammontare dichiarato alle dogane (117.315 tonnellate); l’anno successivo, la cifra ufficiale per l’oro era di 609 kg, contro le 10 tonnellate reali; nel caso della cassiterite (minerale di stagno), lo scarto è di uno a dieci in favore delle esportazioni reali nel 2006 (16.870 tonnellate); lo stesso fenomeno si registra anche per le esportazioni del legno; meno confusa è la situazione per quanto riguarda i diamanti, grazie al meccanismo di controllo messo in piedi dal Processo di Kimberley.

Le potenzialità, dunque, ci sono. Il problema è sfruttarle. Per fare ciò, il presidente della Federazione delle imprese del Congo (Fec), Albert Yuma, avanza diverse proposte. Secondo lui, bisogna assolutamente dare la priorità all’agricoltura. Avvisa: «Se non saremo in grado di raggiungere la sicurezza. alimentare, non potremo calmare le tensioni sociali». Poi aggiunge: «Non ci sarà il decollo del settore minerario, se le compagnie non avranno accesso a elettricità a buon mercato e disponibile». Yuma pensa che il megaprogetto per la riabilitazione della diga di Inga, sul fiume Congo (saranno necessari 20 miliardi di dollari!), non deve rappresentare la sola priorità del ministero dell’energia.

È necessario, inoltre, garantire la sicurezza giuridica dei contratti, in particolare dei patti minerari “leonini” (quelli che avvantaggiano una sola parte, firmati durante le due guerre del 1996-97 e 1998-2003), oggi in corso di revisione. Il viceministro delle miniere, Victor Kasongo, aveva rivelato che nessuno dei contratti in corso di revisione era ritenuto vitale dal governo. Il ministro della pianificazione, Olivier Kamitatu, invece, desideroso di tranquillizzare gli investitori irrequieti, ha precisato: «Non ne pretendiamo una revisione brutale. Valuteremo caso per caso, contratto per contratto, Il Congo non è uno stato pirata che non mantiene i suoi impegni. Vogliamo che gli investitori continuino a lavorare, ma con un obbligo preciso: la trasparenza. Chiediamo di sapere esattamente quanto queste aziende contribuiscono al bilancio dello stato. Non c’interessa urtare la sensibilità del mondo degli affari. Ci preme solo ristabilire certi equilibri». Per Alberi Yuma, la ricostruzione comincia, innanzitutto, dalla rifondazione dello stato. La Fec esige che sia garantita, prima di tutto, la sicurezza giuridica e giudiziaria: «Esigiamo un’amministrazione imparziale, non una realtà che tormenta le imprese dal mattino alla sera». Deve essere garantita la sicurezza fisica dell’investimento. A questo scopo, Yuma chiede la rapida creazione di tribunali commerciali, la stesura di un codice di condotta per i funzionari e l’appoggio della comunità internazionale per programmi di buon governo e corsi di formazione per gli amministratori. Yuma si lamenta pure della mancata applicazione del codice forestale e di quello del lavoro. E, infine, parla di un altro flagello: un «settore informale mafioso», che lavora mano nella mano con una «amministrazione decrepita».

Yuma e molti partecipanti al convegno del Cre-Ac hanno applaudito all’idea d’investire massicciamente nelle infrastrutture. A questo proposito, il responsabile degli industriali ha giudicato positivamente i contratti (per un totale di oltre 8 miliardi di dollari) firmati di recente dai cinesi. Perché, se si realizzano le infrastrutture, l’insieme del settore privato ne dovrebbe beneficiare, comprese le società minerarie che stanno affrontando gravi problemi per mancanza di strade e ferrovie. Tuttavia, Yuma ricorda che, nel memorandum consegnato al governo, le imprese affiliate alla Fec hanno espresso la volontà di venire coinvolte nei lavori di subappalto, nei trasferimenti di tecnologie e nelle attività generate da questi contratti.

Bisogna, infine, sciogliere il nodo della dipendenza dell’Rd Congo dall’aiuto straniero. Se il bilancio del 2008 prevede di essere coperto per un terzo da questo tipo di finanziamento, non va dimenticato che nel 2007 i finanziatori non hanno onorato tutti i loro impegni. Il perché va trovato nel fatto che il paese è in una fase di transizione tra l’aiuto umanitario e quello allo sviluppo, e ciò rende più difficile la ricerca di finanziamenti esterni. L’attendismo dei finanziatori allarma il settore privato: teme che la frustrazione dei cittadini, che tardano a raccogliere i benefici della pace e della democrazia, sfoci in atti di disperazione, come i saccheggi del 1991 e del 1993, che infersero un durissimo colpo all’economia nazionale.

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Venerdì, 12 Settembre 2008 23:05

NO A GESTI PLATEALI

NO A GESTI PLATEALI

di Giuseppe Scattolin
Nigrizia – maggio 2008

Il battesimo conferito da Papa Benedetto XVI a Madgi Allam, giornalista di origine egiziana, ufficialmente di fede musulmana (e che oggi, per sua scelta, si chiama Madgi Cristiano Allam), ha suscitato e continua a suscitare numerose e diverse reazioni. Alcuni ritengono che si sia trattato di un atto legittimo di una giusta scelta di libertà religiosa. Altri, pur sostenendo la legittimità della scelta, hanno messo in dubbio l’opportunità della sua amplificazione mediatica, che può essere fraintesa in molti ambienti islamici. Altri ancora vi hanno visto aspetti meno chiari, date le idee controverse del giornalista, non da tutti condivise.

Come si poteva prevedere, da molti ambienti islamici si sono avute reazioni negative (richiamando lo spettro dello scontro di civiltà e di religioni), anche se, finora, non hanno raggiunto l’intensità registrata dopo la lectio magistralis del Papa all’università di Ratisbona. Credo che per valutare un simile evento, senza cadere in giudizi parziali, sia necessario tener presenti molti aspetti. Accenno a due fondamentali.

C’è, innanzitutto, il tema della libertà di religione, uno dei diritti umani fondamentali, sanciti da molti testi di tutte le religioni e anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite. Diritto indiscutibile, anche se non ancora del tutto recepito dalla stragrande maggioranza dei musulmani.

Alcuni versetti del Corano affermano chiaramente questo principio. Tra questi, il supercitato testo: «Nessuna costrizione nelle cose di religione» (2, 256). Però, una lunghissima prassi islamica, di natura politico-giuridica, ha sempre dichiarato che chi abbandona l’islam è un “apostata” (murtadd) e, quindi, passibile di morte: prassi che vige tuttora in quasi tutti i paesi islamici, soprattutto in quelli che applicano la legge islamica (shari‘a) in modo scrupoloso. Purtroppo, molti tra gli intellettuali musulmani non hanno fatto una seria riflessione critica su questa prassi: pochi ne hanno chiesto con vigore una revisione; pochissimi hanno alzato la propria voce per contestarla quando è stata attuata. Risultato: il musulmano che si converte deve o emigrare dal proprio paese o vivere una vita da “clandestino”. E questo accade non solo nei paesi islamici, ma anche in quelli di emigrazione (in Europa, ad esempio). Va ricordato, inoltre, che anche i “laicissimi” sostenitori della libertà di pensiero di casa nostra, che pure sono pronti a scagliarsi contro la chiesa a ogni minimo sospetto in materia, non si sono molto preoccupati di studiare il fenomeno e di chiedere un intervento della giustizia per proteggere i convertiti dall’islam.

La libertà di religione costituisce uno dei punti più importanti di ogni serio dialogo interreligioso. Non mancano sforzi per portare il pensiero islamico e i suoi rappresentanti ad accettare senza riserve questo principio. Peccato che questo faticoso lavorio non sia pubblicizzato come meriterebbe.

In secondo luogo, è necessario valutare l’impatto che un evento come il battesimo di Madgi Allam può avere – e di fatto ha avuto (come mi è stato comunicato da numerose fonti) – sulle società islamiche e le comunità cristiane presenti in esse. C’è chi pensa che il sacramento avrebbe potuto essere celebrato in un contesto più ristretto (una comunità cristiana locale), per attribuirgli un’approvazione più ufficiale in un secondo momento.

Tensioni e dialogo

Il mondo islamico si trova in una situazione esplosiva. Non era difficile prevedere che la solennità data al battesimo del giornalista avrebbe potuto essere interpretata come un “gesto aggressivo”, suscettibile di reazioni anche violente. Chi può controllare un miliardo e mezzo di persone agitate da intensa propaganda fanatica, anti-occidentale e anti-cristiana? Quando queste reazioni avvengono, termini quali “crociate”, “missioni”, “colonialismo”, “proselitismo”, “Bush and Co.” sono uniti in una sola idea di base: quella di un complotto occidentale-cristiano contro l’islam, portato avanti con tutti i mezzi (anche bellicosi e distruttivi). La recente politica occidentale in materia non ha fatto che accreditare tale idea. Questo è il pensiero che domina oggi il mondo islamico, risvegliando i demoni del fanatismo e dell’estremismo religioso.

Personalmente, credo che un cambio di questa mentalità potrà avvenire soltanto attraverso un dialogo interreligioso serio, responsabile e impegnato. Come sono convinto che la questione del diritto alla libertà religiosa va trattata in modo più convincente a livello d’incontro fra i responsabili delle comunità religiose, sulla base di studi seri e documentati, tali da spingere a dichiarazioni che impegnino tutti.

Insomma: prima di indulgere in gesti plateali, è sempre bene fare un serio lavoro di base. In caso contrario, i pregiudizi possono scatenare reazioni irrazionali e devastanti. Penso a cosa potrebbe succedere, se tutta l’“opera di presenza” e il grande sforzo compiuto a livello di opere sociali dai vari istituti religiosi nel mondo islamico fossero interpretati dal punto di vista di un’ideologia del sospetto, cioè come “subdoli mezzi di proselitismo”, e quindi squalificati, se non addirittura ostacolati e proibiti.

E che dire della pressione quotidiana che pesa sui cristiani in situazione di diaspora nei paesi musulmani, oggi resa forse ancora più pesante da questo gesto, letto come “aggressione all’islam”? Che senso ha, poi, lamentarci del fatto che sempre più cristiani lasciano i paesi islamici, e che il Medio Oriente, culla del cristianesimo, è ormai vuoto di cristiani?

Nonostante tutto, spero che il gesto non provochi reazioni estremiste che mettano in difficoltà i cristiani che vivono in ambiente islamico, ma possa, alla fine, contribuire ad accelerare l’impegno per un dialogo positivo e costruttivo tra il mondo cristiano e quello islamico.

Occorre fare passi positivi in tal senso. In Egitto, dove lavoro, si svolgono molti incontri di dialogo e si trovano risposte positive anche da parte musulmana. Nel dicembre scorso ho diretto una tesi di magistero sulla mistica islamica fatta da uno studente musulmano in una università egiziana al 99% islamica, riscontrando stima e accoglienza da parte di professori e studenti. So di altre persone che stanno portando avanti simili esperienze in contesti di vera e fruttuosa collaborazione culturale.

Solo attraverso un dialogo serio e impegnato, il mondo islamico si potrà aprire ai valori della libertà religiosa, e non solo a livello di nobili dichiarazioni, ma anche in termini di cambiamento di mentalità pratica e di leggi di stato. Solo allora, nel rispetto dei diritti umani da parte di tutti, una convivenza pacifica fra l’islam e il resto del mondo sarà possibile.

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Mercoledì, 10 Settembre 2008 23:11

GUERRAFONDAI PURCHÉ CASTI

GUERRAFONDAI PURCHÉ CASTI

di Frei Bettoscrittore
Nigrizia – Maggio 2008

Il governatore della stato di New York, Eliot Spitzer, coinvolto in uno scandalo a luci rosse, ha prontamente dato le dimissioni. Come se non bastasse la delusione dei suoi elettori, ha sottoposto la moglie all’umiliazione di posare al suo fianco davanti alle tv, in silenzio, mentre lui esprimeva il suo «profondo rimorso».

Gli è succeduto il vice-governatore, David Patersan. Il quale s’è affrettato a confessare «di non essere un santo». Parlando alla tv Paterson e la moglie Michelle hanno ammesso di avere avuto ambedue una relazione sentimentale mentre erano già sposati, ma di essersi poi riconciliati e perdonati. A parità di colpa, il perdono reciproco sembra più facile.

La morale statunitense è profondamente contrassegnata dall’ideologia analitica: vede l’albero, ma non discerne la foresta. Il presidente Richard Nixon cadde in seguita allo scandalo “Watergate” una serie di attività illegali della sua amministrazione contro il Partito democratico. BilI Clinton si scusò davanti alle televisioni nazionali per l’adulterio commesso con una stagista alla Casa Bianca. Spitzer ha abbandonato la sua carica per aver speso una fortuna con prostitute, si parla di 80mila dollari.

E la foresta? Cosa dice la morale made in Usa sugli abusi dei diritti umani praticati su ampia scala da Nixon e Clinton? Perché è considerato etica invadere l’Iraq, provocando un genocidio (89mila civili iracheni e 4mila militari statunitensi morti dal 2003), a praticare la tortura nella prigione di Abu Ghraid, a Baghdad, o sequestrare supposti terroristi in Europa e confinarli nell’inferno carcerario della base navale di Guantànamo, un luogo del tutto alieno ai principi del diritto? E’ forse morale tenere per 110 anni una nazione come Porto Rico priva delle proprie sovranità e indipendenza? È morale punire Cuba con un embargo che dura ormai da 48 anni?

Forse le radici di questa morale fondamentalista - che colpevolizza una debolezza sessuale e accondiscende a un genocidio - affondano in una lettura sbagliata della Bibbia. La storia del re Davide, uno dei personaggi biblici di cui si hanno più informazioni, è emblematica: fu punito per aver commesso adulterio con Betsabea e per aver fatto uccidere il di lei marito, così da aver libera la strada al letto della donna desiderata (2 Sam 11).

Si sa, tuttavia, che re Davide, noto per aver composto il Miserere, fu un guerriero prima e dopo essere salito al trono: “uccise numerosi re nemici”, “mise In fuga eserciti avversari”, “massacrò 18mila idumei”, “sterminò 40mila aramei”… e via uccidendo, sempre “in nome di Dio”. Non consta che si sia pentito di tutte queste morti, né che fu punito per il sangue versato. Si pentì - e fu punito – solo per il caso di Betsabea. Ed ecco l’eredità che un certo tipo di esegesi biblica ci ha lasciato: se uccidi una persona, sei un assassino; se ne uccidi migliaia, sei un eroe, Il presidente Bush ne sembra convinto: butta ogni giorno bombe su popolazioni civili, ma ogni sera riposa il suo capo sulla spalla di Dio .Viene in mente il titolo di un film di Akira Kurosawa, nel 1960: Warui yatsu.hodo yoku nemuru (I malvagi dormono in pace).

Finché la nostra idea di Dio ci consentirà di evocarlo come complice dei nostri interessi egoistici e meschini - come il controllo delle risorse petrolifere in Medio Oriente -, continueremo a soffrire della “sindrome abramitica del sacrificio”, secondo la quale Dio avrebbe richiesto ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio, Isacco; più tardi, non ancora del tutto soddisfatto, avrebbe sacrificato sulla croce il proprio unigenito, Gesù. Quindi, in vista di un presupposto bene maggiore - la democrazia insegnata, e regolata dai signori del denaro - un’intera nazione può essere sacrificata!

Una lettura più contestualizzata della Bibbia (il testo deve sempre fare i conti con il contesto spaziale e temporale) ci consente di capire che Jahvé non accettò che, in nome di una nuova fede (quella monoteistica), Abramo uccidesse Isacco, come prescrivevano i culti politeistici e i loro riti arcaici dell’oblazione delle primizie. Al contrario, Jahvé rivelò al grande patriarca di essere un Dio della vita, non della morte. Per questa salvò Isacco dalla miopia religiosa di Abramo (Gen, 22).

Nella stesso modo, è blasfemo pensare che Gesù sia morto per placare la sete di “sangue espiatorio”, di un Dio che, offeso e risentito, si trasforma in un omicida più crudele del re Erode. La verità è che Gesù fu ucciso da poteri politici. La “volontà” di Dio fu che il Figlio continuasse ad amare anche in quella situazione di peccato.

Al contrario della morale made in USA, Gesù perdonò la donna adultera e ogni possibile “figlio prodigo”, come pure il rinnegamento di Pietro, mentre fu rigorosamente esigente con coloro che avevano fatto del tempio di Dio (oggi diremmo l’universo, il pianeta terra, la vita umana) «una spelonca di ladri» (Mc 11,17). Se volessimo inquadrare la scena della cacciata dei mercanti dal tempio nel contesta odierno, potremmo dire che Dio è implacabile quando la sacralità della vita viene sacrificata sull’altare degli interessi pecuniari del mercato.

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Mercoledì, 10 Settembre 2008 23:09

BATTESIMO E SPADA

 BATTESIMO E SPADA

di Mostafa El Ayoubi
giornalista
Nigrizia – Maggio 2008

La vicenda del battesimo del noto giornalista da parte dì Papa Benedetto XVI, trasmesso da televisioni di mezzo mondo, è stata per diversi giorni oggetto di un dibattito acceso tra musulmani e cattolici, l’evento ha sollevato in sostanza, due questioni complesse: la libertà religiosa e il dialogo tra le due più grandi comunità religiose del mondo.

Grazie all’illuminismo, la libertà religiosa è stata una grande conquista per i paesi cristiani occidentali. La chiesa cattolica, dopo un lungo travaglio interno, ha fatto suo questa importante conquista: nel 1965, con la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano Il, il principio della libertà religiosa è stato introdotto nel sua insegnamento. Nel mondo islamico, il nodo della libertà religiosa rimane tutt’oggi irrisolto. In alcuni paesi il diritto di professare una fede diversa da quella islamica o di abbandonare l’islam non è garantita: sono previste pene severe (perfino la pena di morte) per chi, ad esempio, è accusato di apostasia.

Benché il Corano affermi che «non vi è costrizione nella fede» (2, 256), in diverse realtà islamiche prevale il codice della shar’ia, che nega tale diritto. Da questo grave limite consegue una forte restrizione della libertà di opinione. Chi critica l’islam mette spesso in pericolo lo sua incolumità fisica. Magdi Allam, che ha spesso scritto articoli duri nei confronti dei musulmani, da cinque anni vive sotto scorta per le minacce di morte da parte dei fondamentalisti islamici. Ora che è convertito al cattolicesimo, la sua situazione si è ulteriormente aggravata.

Ma è mai possibile che, ancora oggi, una persona rischi la morte per le sue opinioni? E’ possibile che non ci siano argomenti per rispondere a quelli di Allam - spesso offensivi e poco costruttivi - e che l’unica mezzo per contrastarla sia la “spada”? Nessuno opinione - anche la più infamante - può recare al sua autore la privazione della sua libertà di movimento, di espressione e di fede o mettere la sua vita in pericolo. Per i musulmani che si sentono offesi, l’unico mezzo per difendersi è l’uso della ragione.

L’altra questione sollevata dalla vicenda è il difficile dialogo - spesso formale - tra il vertice della chiesa cattolica e i rappresentanti del mondo islamico. A complicare questa dialogo precario è intervenuto il discorso del Papa a Ratisbona nel settembre 2006. nel quale citò un imperatore bizantino del Trecento che accusava l’islam di essere una religione della spada. Nell’ottobre scorso, un appello al dialogo con i cristiani, firmato da 138 musulmani, è stato accolto positivamente dal Vaticano, che, assieme ai promotori dell’iniziativa, sta preparando un incontro di dialogo interreligioso per il prossimo novembre.

Tuttavia, la decisione della Santa Sede d’impartire per mano del Papa il battesimo a Allam è stata una nuova battuta d’arresto sulla via del dialogo. Aref Ali Nayed, uno dei promotori dell’appello dei 138, in un duro comunicato, ha definito l’evento «una provocazione» simile a quella di Ratisbona e ha accusata la chiesa di fare proselitismo nelle scuole cattoliche dei paesi musulmani. Ha poi aggiunto che, con questa operazione, la chiesa ha voluto dimostrare di aver segnato un punto a suo favore nella corsa alle conversioni. Questo giudizio - affrettato e offensivo, da parte chi solo pochi mesi prima invitava il Papa a dialogare con i musulmani - pone degli interrogativi sull’utilità di questa tipo di appelli calati dall’alto e che, al primo ostacolo, si rivelano superficiali.

Altrettanto fragili e prive di prospettive le risposte da parte cattolica. C’è chi, come il vaticanista Sandro Magister, considera che, per dialogare con l’islam, il re saudita Abdollah, “custode dei luoghi sacri dell’islam” (che nel novembre scorso si è recato per la prima volta nella storia in visita al Vaticano) è meglio dei 138 “saggi”. In quell’occasione, il sovrano regalò al Papa una spada (in oro e pietre preziose): un imbarazzante dono, tanto per rafforzare i pregiudizi! Non sarebbe stato meglio, ad esempio, regalare al Papa una Bibbia scritta in arabo, in memoria dell’antica comunità cristiana di Najran, vissuta a Medina all’epoca del profeta Mohammed?

Per rispondere alle critiche circa il battesimo di Allam, alti responsabili della chiesa hanno affermato che si è trattato di un contributo verso l’affermazione del principio della libertà religiosa. Benissimo! Ma allora perché lo stesso principio non è stato ricordato in modo esplicito al re saudita - guida di un paese dove vive circa un milione di cristiani in totale mancanza di libertà religioso - quando si è presentato in Vaticano con la sua spada d’oro?

Il caso dello conversione di Cristiano Allam resterà a lungo come una velenosa spina nel fianco del tortuoso processo di dialogo islamo-cattolica. Allam, all’indomani del suo battesimo, ha scritto di nuovo dure critiche nei confronti dell’islam, definendola «un’ideologia che legittima la menzogna e la dissimulazione. La morte violenta…». Probabilmente continuerà la sua battaglia anti-islamica. E’ libero di farla, Il problema è che tutto quello che scriverà evocherà nella mente dei molti lettori musulmani un’immagine negativa del Papa e dei cattolici. Questa, oltre a vanificare il dialogo, rischia di rendere difficile la vita quotidiana di milioni di cristiani che vivono nei paesi a maggioranza islamica.

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MARX NON È MORTO E LE SUE DENUNCE SONO ANCORA ATTUALI

di Giannino Pianadocente di teologia moraleJesus – Maggio 2008

Con la caduta del muro di Berlino e il fallimento delle esperienze del socialismo reale, perciò di tutti i sistemi a economia pianificata, molti hanno ritenuto che Marx fosse definitivamente morto (ricordate il famoso slogan di Woody Allen?) e che i suoi scritti andassero definitivamente traslocati in soffitta. Le considerazioni che avevano, con maggiore frequenza, il sopravvento erano improntate alla denigrazione: all’ideologia marxista venivano infatti attribuiti i crimini consumati nell’Urss, specialmente durante il periodo staliniano e, più in generale, le varie forme di repressione, spesso cruenta, che hanno caratterizzato la conduzione di molti Paesi dell’Est nell’epoca del predominio del comunismo. Chi si dimostrava più benevolo non mancava di riconoscere al marxismo alcuni meriti storici, legati per lo più all’analisi della realtà sociale del tempo, ma tendeva in ogni caso a demolirne la dottrina, qualificandola come una utopia del tutto disincantata e astratta.

Oggi le cose sono cambiate. Al momento di grande enfasi del capitalismo, che si era preso radicalmente la rivincita, è subentrata negli ultimi anni una stagione caratterizzata da un atteggiamento più critico verso di esso; atteggiamento motivato sia dall’incremento delle sperequazioni, soprattutto a livello mondiale, e perciò dall’accentuarsi della conflittualità sociale, sia dall’affiorare, in modo sempre più drammatico, della questione ecologica che mina alle radici le possibilità stesse dello sviluppo.

Ciò che ai nostri giorni avviene sembra dunque confermare la plausibilità di alcune analisi di Marx; mette, in altri termini, in luce il realismo di alcune sue posizioni critiche e soprattutto la lungimiranza di quelle pagine in cui egli smaschera le illusioni del capitalismo e ne svela le contraddizioni.

Alla rinata consapevolezza dell’attualità della sua dottrina (o almeno di alcune parti di essa: altre sono infatti decisamente cadute perché divenute anacronistiche o perché rivelatesi in partenza sbagliate) per la politica dì oggi si deve (forse) il successo editoriale di una recente antologia dei suoi scritti, curata da Enrico Donaggio e Peter Kammerer (K. Marx, Capitalismo. Istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007), dove, oltre a emergere con chiarezza l’importanza assegnata da Marx all’economia quale struttura portante della vita collettiva - importanza oggi confermata dalla centralità assunta dal mercato in tutti gli ambiti della vita - sembra ricevere grande plausibilità la dottrina (per molto tempo contestata, perché ritenuta illusoria) del plusvalore, che acquista nuova credibilità a partire dallo stravolgimento avvenuto all’interno del capitalismo che ha condotto a confondere il valore d’uso con il valore di scambio: nell’attuale sistema economico infatti a determinare il prezzo di mercato non è più la qualità, ma il marchio, il quale trasfigura il prodotto, dando luogo a una forma di concorrenza sempre più sleale, dove il guadagno ha sempre meno a che fare con il valore oggettivo della merce.

A confermare l’attualità dell’analisi marxiana concorre inoltre una serie convergente di recenti studi sociologici - è sufficiente ricordare qui il volume di Luciano Gallino (Il lavoro non è una merce. Contro Io flessibilità, Laterza 2007) - nei quali il concetto del lavoro come “merce” - concetto centrale nel pensiero di Marx - viene largamente ripreso per mettere sotto processo una situazione di profondo disagio, in cui identità soggettiva, autostima, conoscenze e crescita professionale contano sempre meno o sono prerogativa di una ridotta minoranza.

Lo stato di sempre maggiore insicurezza provocato da una esasperata flessibilità dell’attività lavorativa finisce per dare vita a una società precaria e dove sussistono sempre meno diritti. La centralità che Marx attribuisce al lavoro e al suo stretto rapporto con il sistema economico, in quanto fattori dominanti attorno ai quali ruota la vita personale e collettiva, sembra comprovata oggi dai fatti, con l’aggiunta di nuove motivazioni.

Nella società globalizzata il mercato del lavoro è sempre meno controllabile, e le esperienze che avanzano non sono certo rassicuranti; si assiste infatti all’aumento delle forme di alienazione, con l’esito di una deriva sempre più estesa, anche a causa dei processi di omologazione in atto.

La denuncia di Marx suona perciò ancor oggi come un monito che deve essere assolutamente ascoltato, se è vero che dalla qualità dell’attività lavorativa dipende, in larga misura, la qualità della vita umana, e dunque il livello di umanizzazione proprio di una società.

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Sabato, 06 Settembre 2008 18:09

CONFLITTI DI INTERESSI

CONFLITTI DI INTERESSI

da Adista

Questo articolo di Pierre Hassner, professore di relazioni internazionali all’Institut d’études politiques a Parigi, è apparso sul quotidiano francese “Le Monde” (4/4/2008). titolo originale: “les dilemmes de l’occident”

I governi occidentali sono sempre più spesso chiamati a prendere posizione su crisi e conflitti fra una nazione, imperiale o postimperiale , dominante e un popolo dominato. C’è accordo unanime su tre punti che sono altrettanti dilemmi. Innanzitutto, essi si proclamano legati alla difesa dei diritti dell’uomo e, insieme, alla sovranità degli Stati e alla stabilità delle frontiere. Poi, devono, a livello d’azione, gestire una tensione tra i principi universali - morali o giuridici - che professano e gli interessi, le alleanze e gli impegni dei loro rispettivi Stati. Infine, è più facile per loro arbitrare in favore dei principi quando l’oppressore non è una grande potenza economica o militare.

Sono tre i casi che qui ci interesano, tanto per le loro similitudini quanto per le loro differenze: quelli della Cecenia, del Kossovo e del Tibet. In tutti e tre i casi si tratta di nazioni a statuto giuridico incerto e fluttuante, ma dall’identità culturale e storica e dalla volontà politica affermate, vittime della conquista e dell’oppressione di regimi nazionalisti, comunisti o postcomunisti. Nei tre casi, la nazione dominante dichiara che “La Cecenia è la Russia”, “Il Kossovo è la Serbia”, “Il Tibet è la Cina”, né più né meno dello slogan “L’Algeria è la Francia”.

La Cecenia è stata conquistata a duro prezzo dalla Russia nel XIX secolo, e la sua popolazione deportata da Stalin dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Il Kossovo, dopo aver conosciuto, in successione, la dominazione dei bulgari, degli imperatori bizantini, dei serbi, degli ottomani, fu conquistato dai serbi, con una brutalità estrema, nel 1912, staccato dall’Albania - divenuta indipendente - con un negoziato fra le grandi potenze e infine incorporato prima nel regno jugoslavo, poi nella Jugoslavia di Tito, con un doppio statuto di autonomia all’interno della Serbia e a livello federale.

Il Tibet, erede di un impero considerevole, ha avuto legami religiosi e talvolta di antichi protettorati con la Cina e ha conosciuto nel corso dei secoli varie invasioni, punteggiate da fughe e ritorni del dalai-lama di turno, ma non è stato mai conquistato ed incorporato alla Cina se non da Mao Zedong nel 1950. Ha conosciuto una grande rivolta popolare nel 1959, repressa nel sangue.

In tutti e tre i casi, i popoli dominanti, russi, serbi, cinesi, nutrono un grande disprezzo, ai limiti del razzismo, per la cultura dei popoli dominati. In tutti e tre i casi, la resistenza di questi ultimi assume di volta in volta il carattere di protesta contro gli abusi di cui sono oggetto e, da un certo punto in poi, di rivolta o di insurrezione anticoloniale, nazionale e identitaria. Ma in tutti e tre i casi questa rivolta è stata inizialmente guidata da leader moderati, alla ricerca di un negoziato, come Aslan Maskhadov in Cecenia, o pacifisti e nonviolenti come lbrahim Rugova e il dalai-lama. I quali, davanti all’intransigenza che si son visti opporre, hanno finito per essere contestati o superati da partigiani della lotta armata (i fondamentalisti islamici in Cecenia, l’Armata di liberazione del Kossovo - Uck -, una nuova generazione di immigrati tibetani).

Le tre storie cominciano a divergere nel loro esito provvisorio. In Cecenia, i russi hanno probabilmente vinto, una volta ancora, per una generazione, distruggendo il Paese, provocando un numero considerevole di morti e di rifugiati, e consegnando il potere ad un transfuga della resistenza, corrotto, assassino e torturatore, Ramzan Kadyrov, che, tuttavia, ha ricostruito la capitale in modo spettacolare, e sempre più sembra essere, in piena obbedienza a Vladimir Putin, il padrone del suo Paese. Nel Kossovo. contrariamente alle previsioni pessimiste e malevole, non è stato l’Uck a prendere il potere dopo la liberazione (che non avrebbe avuto luogo se non ci fosse stata, a fianco di quella dell’Uck, l’azione congiunta della Nato), ma Ibrahim Rugova e il suo partito, risultati vittoriosi in elezioni libere. Se, dieci anni dopo, è Hashim Thaci, ex leader dell’Uck, a diventare primo ministro, è per via parlamentare, come risultato di altre elezioni libere. Come i governi precedenti, egli resta inquadrato e sorvegliato dalla presenza prima dell’Onu. poi dell’Unione Europea.

Per quanto riguarda il Tibet, sarebbe interesse della Cina riprendere i negoziati con il dalai lama, sola autorità riconosciuta dai tibetani, le cui rivendicazioni si limitano all’autonomia in seno alla Cina e alla tutela della popolazione e della religione tibetana. Ma tutto porta a credere che Pechino sceglierà la via della repressione centralizzata e dell’assimilazione forzata, che comporterà altre rivolte e altre repressioni, fino a quando la religione e la cultura tibetane saranno sopraffatte e i tibetani stessi diventeranno una minoranza silenziosa all’interno del loro stesso Paese.

Cosa ha consentito ai kossovari di sfuggire a questa sorte? Innanzitutto, evidentemente, il ruolo della Nato, dell’Onu e dell’Unione Europea. Ma questo è stato possibile solo grazie a due considerazioni decisive, una sul piano della diagnostica e dei principi, l’altra sul piano del rapporto di forze. Il matrimonio fra serbi e albanesi è sempre stato un matrimonio forzato. Due serie di avvenimenti hanno reso inevitabile il divorzio: da un lato, la soppressione dell’autonomia da parte di Milosevic, i dieci anni di repressione e di esclusione che sono seguiti, infine l’espulsione della maggioranza della popolazione e i massacri che hanno accompagnato la guerra; e, dall’altro lato, la disintegrazione della Jugoslavia, con l’emancipazione di tutte le repubbliche non serbe, dalla Slovenia al Montenegro.

Era inconcepibile e immorale progettare che i kossovari, il popolo più disprezzato e il più perseguitato dai serbi, restassero soli in un testa a testa con questi ultimi e sotto la loro autorità. Ma era altrettanto inconcepibile e immorale permettere che questa separazione si effettuasse senza assicurare la protezione del Kossovo in rapporto alla Serbia e quella della minoranza serba del Kossovo in rapporto alla maggioranza albanese, e senza offrire agli uni e agli altri un quadro e una prospettiva di cooperazione organizzata. Da qui l’idea di questa indipendenza condizionale, sorvegliata e inquadrata dalla presenza prima dell’Onu e poi dell’unione Europea. Questa decisione, presa dopo anni di negoziato, finalizzata innanzitutto ad assicurare l’autonomia della minoranza serba e dei suoi legami con Belgrado, ma accolta con diffidenza e pregiudizi un po’ ovunque, per le più contraddittorie ragioni, era, malgrado tutti i suoi limiti e i suoi rischi, la sola realistica e onorevole.

Perché, allora, quello che vale per il Kossovo non vale per la Cecenia e per il Tibet? Prima di tutto, certo, perché il Kossovo e la Serbia sono in Europa e perché l’Unione Europea, coinvolta nel loro conflitto, può anche permettere loro di ritrovarsi un giorno nel quadro di una integrazione comune in un insieme più ampio. Ma soprattutto perché la Serbia, Paese indubbiamente centrale e cruciale dei Balcani che nessuno, in Europa, ha interesse ad isolare, non è affatto la Russia o la Cina.

Queste sono potenze in ascesa, almeno provvisoriamente, che giocano un ruolo centrale nel nuovo mondo multipolare. L’una e l’altra sono la dimostrazione di questo tratto paradossale ma fondamentale del mondo attuale: in rapporto all’Occidente, sono ad un tempo partner insostituibili, concorrenti temibili ed avversari inevitabili - in particolare per quel che riguarda i diritti umani. Anche un Occidente più fermo, più unito, più disposto a sacrificare i suoi interessi immediati non potrebbe imporre loro niente col ricatto o con la forza.

Resta tuttavia da giocare una carta per influenzare il loro comportamento. Forse più della Serbia, Russia e Cina sanno che perderebbero economicamente ad isolarsi o a rinchiudersi. Proclamano, a ragione, che noi abbiamo più bisogno di loro che loro di noi, ma sanno che hanno interesse a lasciare che le loro élite viaggino, che le loro imprese investano all’estero e che le aziende estere investano da loro. Desiderano partecipare alle organizzazioni multilaterali quali l’Omc, il Consiglio d’Europa o il G8, o ai diversi gruppi di contatto e a manifestazioni spettacolari e simboliche come i giochi olimpici, da cui sperano di trarre gloria e profitto.

L’Occidente non può né deve escluderli. ma ha il diritto e il dovere di ricordar loro direttamente e di far loro sentire indirettamente che questa apertura multilaterale non è possibile se non in ossequio a regole che al primo posto vedono trasparenza e reciprocità. Le opinioni pubbliche dei Paesi democratici e sicuri delle loro forze economiche e politiche sono troppo diffidenti verso le condotte e i prodotti dei russi e dei cinesi. La rivoluzione delle comunicazioni non permette più a nessuno di mantenere il segreto né sulle azioni contrarie ai diritti dell’uomo, né sulle reazioni che queste suscitano e sui danni che comportano in termini di fiducia e di prestigio, e anche, di conseguenza, in termini di progresso economico, tecnico e culturale.

Nel momento dei Giochi olimpici, è importante far loro misurare la portata del vecchio proverbio bretone: “Non ci si arrampica sull’albero della cuccagna quando non si è completamente vestiti”.

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