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Lunedì, 02 Giugno 2008 13:23

Claverie e i suoi compagni martiri

Riuniti nella cappella della Maison diocesane di Algeri, dove a più riprese abbiamo celebrato l’Eucaristia dopo l’assassinio di numerosi nostri fratelli e sorelle, religiosi e religiose, lo scorso ottobre abbiamo aperto ufficialmente il processo diocesano di beatificazione delle nostre 19 vittime del terrorismo, uccise tra il 1994 e il 1996. Alcuni hanno esitato a prender parte a questo processo perché non volevano che i nostri fratelli e sorelle venissero separati dalle altre persone che sono state vittime della violenza negli stessi anni e nello stesso contesto della società algerina. Ma per noi è assolutamente evidente che, nel raccogliere le testimonianze e nella presentazione del «martirio» dei nostri fratelli e sorelle, non possiamo dimenticare di collocare il nostro sacrificio dentro la durissima prova sopportata da tutta la società algerina. E tuttavia, abbiamo pensato che era nostra responsabilità presentare alla Chiesa universale il sacrificio dei nostri fratelli e sorelle, nel contesto particolare di riconoscimento del loro martirio nel senso specifico che la Chiesa dà a questa parola. Ci è sembrato importante offrire alla fede di tutti i cristiani questa testimonianza: cristiani che hanno donato la loro vita per fratelli e sorelle musulmani, perché Dio ama tutti gli uomini e ci invia a comunicare questo amore a tutti.

Nel caso dei nostri 19 nostri fratelli e sorelle, si tratta certamente di una testimonianza di fede, dal momento che hanno scelto di restare in Algeria in risposta a una chiamata della Chiesa locale e delle loro congregazioni che li avevano mandati a incontrare, servire e amare altre persone che erano di confessione musulmana. Ma è soprattutto una testimonianza di carità dal momento che la ragione della loro fedeltà alla missione ricevuta in Algeria è stata innanzitutto la volontà di restare vicini al popolo algerino nell’ora del pericolo e di provare così un amore evangelico che supera ogni barriera tra gli uomini. Raccontando la parabola del buon samaritano, Gesù ci invita a «farci prossimo» di ogni uomo, quale che che sia la sua religione.

In un'epoca in cui molti cercano di contrapporre gli uomini gli uni contro gli altri, a motivo delle loro origini etniche, culturali o religiose, questa testimonianza di amore che oltrepassa tutte le barriere umane continua ad essere particolarmente attuale. È una testimonianza che vorremmo far riconoscere dalla Chiesa universale, per mostrare che un cristiano può offrire la sua vita anche per fratelli e sorelle non cristiani e, nello specifico, musulmani.

Ci è stato detto che decine di migliaia di algerini sono stati uccisi nello stesso periodo, spesso per azioni rimarchevoli di solidarietà con il loro popolo. Ciò è assolutamente vero ed è, del resto, la ragione per la quale la Caritas algerina ha trovato fondi per realizzare un film che mette in evidenza una quindicina di personalità musulmane che, nella città di Algeri, sono state vittime di quella stessa feroce violenza. Certamente noi desideriamo far conoscere la loro testimonianza, ma non possiamo presentarli come martiri in nome di Gesù e del suo Vangelo.

Nel gruppo dei nostri martiri, alcuni hanno avuto il dono di esprimere in maniera particolarmente efficace le loro motivazioni. L'hanno fatto a nome di tutti i loro fratelli e sorelle. Papa Giovanni Paolo II è stato impressionato dalla testimonianza di vita di Christian de Chergé e dal suo testamento al punto da avere fatto dipingere il suo volto in un affresco sul muro della sua cappella Mater Misericordiae. Secondo la tradizione della Chiesa cattolica, il nostro gruppo di fratelli e sorelle martiri verrà designato con il nome di mons. Pierre Claverie (dal momento che era vescovo) e dei suoi 18 compagni. Ma è chiaro che ciò che noi vogliamo presentare alla Chiesa è la fedeltà, nella loro vita e nella loro morte, di tutti i nostri fratelli e sorelle nella diversità delle loro vocazioni: religiose, religiosi preti e fratelli, missionari, monaci e un vescovo. È uno dei segni del loro martirio. Illustrano nella diversità delle loro vocazioni la missione della nostra Chiesa a «farsi prossimo» di coloro da cui avrebbe potuto restare lontana. «Se salutate solo i vostri fratelli che cosa farete di straordinario, visto che anche i pagani fanno lo stesso?».

di Henri Teissier
arcivescovo di Algeri
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITA’ CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero - medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni - oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
 Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia.
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del XII secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del XIV secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non tornò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha IV a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.


LIBERI... A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio III Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso...
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi - continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.
Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso.

di Bianca Maria Balestra
MC  febbraio 2008
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Lunedì, 02 Giugno 2008 13:19

DEBOLEZZA DELLA TRADIZIONE

Non mi piace l’Angelus domenicale del Papa proiettato sui maxi-schermi di piazza Duomo, a Milano, oltretutto su iniziativa unilaterale del sindaco Letizia Moratti, che non ha ritenuto neppure opportuno interpellare l’arcivescovo di quella cattedrale. Perché la sua è una manifestazione politica, che ha ben poco a che fare con la devozione.
Parto da un dettaglio marginale — l’esempio milanese — per dirvi il senso di falsità che avverto in tutta la disfida dell’Università La Sapienza, e il male che sta facendo alla chiesa stessa per prima. Non mi piace il clima di lesa maestà costruito intorno a Benedetto XVI. Colui del quale i credenti cattolici lo riconoscono vicario in terra, Gesù di Nazareth, affrontò rischi maggiori di qualche sberleffo goliardico o di una contestazione anticlericale.
Né l’Italia né il mondo hanno bisogno oggi di una chiesa trionfatrice attraverso l’esibizione di forza numerica, come l’ha convocata in Piazza San Pietro il cardinale Ruini, quasi occorresse lavare un’onta subita. Posso dire, anche se non sono battezzato, che ci vedo assai poco di evangelico in questo abusare del ruolo ecclesiale in chiave ossequiosa e gerarchica?
L’Avvenire, che ha letteralmente nascosto in pagina interna, tra mille eufemismi, la giornata mondiale di penitenza saggiamente promossa dal Papa per chiedere scusa dello scandalo dei preti pedofili, esulta quotidianamente della frattura inferta allo schieramento laico. È vero. La novità è che una parte dell’intellighenzia laica converge in materia di difesa della vita e di morale familiare sul punto di vista della dottrina cattolica. Non solo. Un sistema politico frantumato guarda con appetito a quel 5% di voti che la Conferenza episcopale italiana (Cei) può ancora spostare di qua o di là: scatenandosi in un inseguimento della porpora, a prescindere da alcuna coerenza nella fede o tanto meno nella condotta di vita.
Temo che la componente oggi egemone nella Cei abbia accolto quella frattura tra l’intellighenzia laica e l’ossequio politico neoclericale come un dono della provvidenza. Poco importandole l’autenticità del senso religioso, e relegando in secondo piano la fede come testimonianza.
Per questo, credo che il ritorno alla tradizione, fino a questa specie di nostalgia per il Papa-re, manifesti una debolezza e non certamente una forza rinnovata della chiesa.
Non mi turba affatto lo spazio recuperato in tutto il mondo dalla religione nel discorso pubblico, e anche nell’argomentare politico. Ma allora dico ai miei amici cattolici impegnati nel sociale e in politica: cosa aspettate a protestare contro questo modo strumentale di intendere la religione? Non è forse il contrario della carità cristiana? Di che cosa avete paura? Perché lo dite solo sottovoce?


di Gad Lerner
Nigrizia – febbraio 2008
Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Lunedì, 02 Giugno 2008 13:17

NEWS dal Mondo

INDIA - «La persecuzione ci rende più saldi nella fede»

Nell’Andhra Pradesh i cristiani subiscono frequenti violenze con l’accusa di volere convertire gli indù. L’11 aprile scorso, circa 70 estremisti indù hanno assalito alcuni cristiani evangelici nel distretto di Chittor, hanno strappato loro di mano i testi cristiani e li hanno bruciati. Il 5 aprile a Hyderabad la polizia ha interrogato 27 turisti americani appartenenti al gruppo Youth Wing Mission. Sono stati accusati di aver «cercato di attirare i bambini» e di avere invitato a pregare per il bene degli abitanti, dice B. Sumathi, vice Commissario della polizia locale; ma non ci sono state conseguenze perché «non si è potuto provare che abbiano svolto attività di evangelizzazione». Mons. Marampudi Joji, Arcivescovo di Hyderabad, racconta che «nell’Andhra Pradesh i cristiani sono considerati con sospetto, gli estremisti [indù] li intimidiscono e chiedono loro ragione di qualsiasi cosa fanno, con il pretesto che vogliano convertire gli altri».
(ASIA NEWS)


QATAR - La prima chiesa cattolica a Doha dopo 14 secoli

Sono iniziati i lavori di costruzione della prima chiesa cattolica del Qatar, che dopo 14 secoli ha ottenuto il permesso di riaprire il suo primo luogo di culto nel Paese. L’edificio  - nella parte meridionale della capitale - non sarà aperto al pubblico, ma servirà a far pregare insieme la comunità cattolica del Qatar, composta per la maggior parte da stranieri. Il futuro parroco, P. Tom Veneration, racconta: «Dopo oltre 20 anni di richieste formali, il Governo ha concesso alle confessioni cristiane i terreni per costruire i propri edifici di culto. Ai cattolici è stato assegnato il lotto più grande, perché abbiamo un’antica presenza nel Paese e perché la nostra comunità, oltre 100mila fedeli, è la più grande». Il terreno «è stato concesso alla Chiesa dall’emiro Amir Hamad bin Khalifa Al Thani, che nel corso degli ultimi anni ha portato avanti una politica di dialogo interreligioso pur mantenendo la legge che vieta alla popolazione, per la maggior parte di fede musulmana, di convertirsi ad altre fedi. Questo è l’unico grande limite alla nostra opera pastorale, ma dobbiamo adeguarci». La chiesa sarà dedicata a Nostra Signora del Rosario.
La Chiesa è stata inaugurata dal Cardinale Yvan Dias il 5.5.2008.
(ASIANEWS)


PAKISTAN – Minacce di morte a un Vescovo e a due musulmani, impegnati nel dialogo

Il Vescovo cattolico di Faisalahad e due musulmani - un giornalista e uno studioso - hanno ricevuto minacce di morte per aver partecipato a un incontro interreligioso in una madrassah della zona alcuni mesi fa. Mons. Joseph Coutts, a guida della diocesi, ha assicurato: «Non ci faremo spaventare da queste intimidazioni, continueremo con le nostre attività interreligiose a favore dell’armonia sociale e della pace del Paese». Negli ultimi anni Faisalabad, la terza città del Pakistan, ha vissuto un positivo sviluppo delle relazioni tra cristiani e musulmani, anche grazie all’impegno in prima persona di Mons. Coutts. Ma vi sono anche numerose Ong, che lavorano insieme per promuovere il dialogo e il rispetto reciproco.
(ASIANEWS)


KENYA - Nonostante la ripresa economica, persiste la miseria

Quattro kenyoti su 10 ancora vivono nella più disperata miseria nonostante la recente ripresa economica che lo scorso anno ha registrato un tasso di crescita del 5,8% nel Paese. Secondo un’indagine del Governo, il 46% (16,5 dei 35,5 milioni di abitanti del Kenya) vive sotto la soglia della povertà, anche se molti sono in condizioni migliori rispetto a sei anni fa. Il rapporto rivela che circa 19 milioni di kenyoti vivono con più di un dollaro al giorno, abbastanza per la loro sopravvivenza quotidiana nelle città e nelle aree rurali. La ricerca si riferisce alle Otto province del Paese: la meno povera risulta essere Nairobi, con il 21,3 % nel 2006 rispetto al 52,6% del 2000. Seguono le province centrali, dove il livello di povertà è passato dal 35,3% al 30,4%. Tuttavia, nei grandi slums della città, come Kibera e Mathare, la situazione non è cambiata molto.
(AGENZIA FIDES)


CONGO - Si lavora per avere giovani impegnati

Aiutare la popolazione congolese a essere più vigile sull’amministrazione del Paese e sul rispetto dello stato di diritto: è l’obiettivo che si sono prefissate 47 commissioni diocesane di “Giustizia e Pace” al termine di un incontro nella capitale Kinshasa.
Sotto la guida dei Vescovi delle rispettive diocesi, gli organismi religiosi hanno concordato di lavorare «per coinvolgere i congolesi con azioni destinate a promuovere la riconciliazione e il buon governo, in particolare nella sensibilizzazione dei più giovani», ha detto Suor Marie-Bernard Alima, Segretaria della Commissione nazionale di Giustizia e Pace.
«Creeremo una commissione ad hoc per i giovani, destinata soprattutto ai ragazzi che lavorano nelle miniere della regione del Kasai», ha annunciato Padre Henri Tshipamba della commissione del Kananga (Kasai Occidentale). Padre Jean-PauL Lokutu, responsabile dell’organismo a Inongo (Kinshasa), ha espresso la sua soddisfazione per la determinazione dei Vescovi congolesi a «lavorare sul terreno per una mistica dell’impegno, passando dalle parole ai fatti».
(AGENZIA MISNA)


RUSSIA - In russo il Compendio del Catechismo cattolico

La versione russa del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica - richiesto da Papa Giovanni Paolo II - è stata presentata nella Cattedrale dell’immacolata Concezione di Mosca. Questa nuova pubblicazione rappresenta «una fonte che trasmette in modo chiaro e preciso l’essenza della dottrina cattolica, dalla quale partire per crearsi un’idea coerente e autentica della fede e della moralità. Potrà servire come strumento di evangelizzazione e fortificazione della fede cristiana e contribuire alla cooperazione tra Chiesa cattolica e ortodossa nel divulgare e proteggere i valori cristiani» . Il Catechismo della Chiesa cattolica è stato pubblicato nel 1992 .
(ASIA NEWS)


BURKINA FASO – Sostenere l’avvio di progetti imprenditoriali

Con il dono di un impianto pilota per la produzione di elettricità da fotovoltaico al villaggio di Tìedin nel Burkina Faso - destinato a sostenere l’approvvigionamento energetico di microimprese - è cominciato un programma internazionale di interventi per la cooperazione allo sviluppo che vede tra i protagonisti la Chiesa cattolica, il Ministero degli Esteri, imprese private, fondazioni no-profit e istituti di credito. L’iniziativa è stata presentata durante il Convegno “Energia per le microimprese e microcredito: nuova frontiera dello sviluppo in aree povere del mondo”, svoltosi lo scorso 9 marzo alla Rocca Albornoz di Narni (TR) L’idea dell’iniziativa è quella di sostenere l’avvio di progetti imprenditoriali nei Paesi del Sud del mondo, attraverso il microcredito (l’inventore del sistema, il bengalese Muhammad Yunus, noto come “il banchiere dei poveri”, è stato insignito del Nobel per la pace) e con interventi di cooperazione allo sviluppo, che abbiano come fulcro le Missioni cattoliche. Si comincerà con il Sahel, un‘area a forte tasso di desertificazione, e con il villaggio di Tiedin, a 100 km da Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Obiettivo del progetto “microimprese”, elaborato dal Comitato di Cattolici per una Civiltà dell’Amore, è ridurre la forbice tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri, realizzando nei territori del Sud del mondo opportunità di crescita e di sviluppo delle popolazioni locali.
(AGENZIA MISNA)


CITTÀ DEL VATICANO - «Nuove minacce alla dignità della donna»

«E’ inaccettabile che in un’epoca di accresciuta considerazione per tutte le questioni attinenti alla donna si affermino nuove forme di violenza e di schiavitù»: Lo ha detto l’osservatore permanente del Vaticano presso l’Onu, Mons. Celestino Migliore, intervenuto alla 51a sessione della Commissione sulla condizione della donna. Malgrado il principio dell’uguaglianza sia «quasi universalmente riconosciuto», per Mons. Migliore è necessario affrontare «nuove sfide, nuove forme di povertà e nuove forme di svantaggio sociale, ma soprattutto si sono presentate nuove minacce alla vita e alla dignità della donna». Il delegato vaticano ha detto che «occorre andare alle radici del fenomeno e capire il perché di questa violenza». «Persistono pregiudizi culturali verso la donna, ancora considerata in qualche modo inferiore all’uomo, una visione dei rapporti umani improntata prevalentemente alla produttività, un clima diffuso che favorisce il ricorso alla forza nella soluzione dei piccoli e grandi problemi dell’esistenza». Per questo il fenomeno deve essere considerato «nel contesto dei diritti umani, diritti da riconoscere senza ambiguità e da far rispettare con rigore legale. Tuttavia se il problema è anzitutto culturale e relazionale, come crediamo, i meccanismi propri dei diritti umani sono efficaci solo nella misura in cui si inseriscono in un’opera di sensibilizzazione e di educazione ai valori della femminilità».
(AGENZIA MISNA)


INDIA - APPROFONDIRE LA SPIRITUALITÀ LAICALE

Occorre approfondire nella Chiesa indiana la spiritualità laicale: lo afferma un messaggio della Commissione per il laicato della Conferenza Episcopale dell’India, diffuso al termine di un incontro in cui si è esaminato il ruolo e le sfide del laicato cattolico nella comunità indiana. La Commissione, formata da 30 membri, ha notato che, nonostante le indicazioni del Concilio Vaticano II in India la maggioranza dei fedeli laici resta ancora spettatrice, piuttosto che attiva partecipante delle quotidiane attività ecclesiali. «I laici devono essere agenti di trasformazione sociale, per creare una società più umana e fraterna», scrive la Commissione. Per questo si segnala l’urgenza di una spiritualità, che aiuti a formare il laicato cattolico per il servizio pastorale e per una testimonianza più incisiva nella società.

(AGENZIA-FIDES)


CINA - Rinasce il buddhismo, con oltre 100 milioni di credenti

Rinasce il buddhismo in Cina, con oltre 100 milioni di credenti. L’antica fede è riscoperta come sostegno dai giovani che per anni hanno rincorso il successo personale, mentre sempre più persone entrano nei templi per «migliorare la propria anima». La Cina attraversa un vero risveglio religioso: una recente indagine dell’Università Normale della Cina orientale stima che il 31,4% di chi ha più di 16 anni pratica una fede, per totali 300 milioni, 3 volte di più dei dati ufficiali. Tra questi, secondo Zhang Fenglei, Direttore del Centro di studi religiosi dell’università Renmin di Pechino, ci sono almeno 100 milioni di buddhisti. Esperti notano che, comunque la gran parte dei neobuddisti non fa scelte radicali, ma vi trova un sostegno nella vita quotidiana. In una generazione sottoposta a grandi tensioni sul lavoro e nella famiglia, il buddismo insegna la calma interiore tramite la meditazione e dà equilibrio e autostima grazie al rispetto di principi etici. Anche per questo attrae le persone di successo e di buona condizione economica.
(ASIANEWS)


IRAQ - I Vescovi: «Salvate i cristiani Irakeni»

In Iraq i cristiani stanno morendo, la Chiesa sta «scomparendo sotto i colpi di persecuzione, minacce e violenze da parte di estremisti che non danno scelta: o la conversione o la fuga». È l’appello di Mons. Louis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, mentre giungono notizie di autobomba e uccisioni di cristiani anche  nelle zone curde, finora risparmiate. Il presule, che è Presidente del Comitato per il dialogo interreligioso del Consiglio delle Chiese cattoliche in Iraq, ha firmato una dichiarazione sulla situazione dei cristiani a Baghdad, denunciando gruppi che sotto la minaccia delle armi chiedono ai cristiani l’immediata conversione all’Islam o la fuga e la confisca dei beni. A Mosul succede lo stesso, ma con un’altra scelta: pagare un tributo in denaro al jihad se non si vuole essere uccisi.
(ASIANEWS)


FILIPPINE. - Il primo sacerdote della tribù Mangyan

Il 17 aprile scorso è stato ordinato sacerdote il primo tribaIe Mang’yan, una delle etnie più antiche e misteriose. P. Oybad è stato accolto da migliaia di fedeli nella Cattedrale di Bulacao, nella provincia orientale di Mindoro. P. Ewald Dinter, direttore della Missione locale, ha detto: «E’ un momento molto importante per l’inculturazione del messaggio di Cristo. Come diceva Giovanni Paolo Il, una fede che non diviene cultura è una fede che non viene pienamente vissuta o recepita».
La Messa è stata celebrata dal Vescovo di Calapan, Mons, Warlito Cajandig, assistito da oltre cento sacerdoti
(ASIANEWS)
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Sahara Occidentale, la sfida dei territori liberati - LA CARTA RASD

Luciano Ardesi

Nigrizia maggio 2008

 

      

Nella calma apparente del conflitto del Sahara
Occidentale, pochi si sono accorti del sottile gioco delle parti tra il Fronte
Polisario e il Marocco. La posta in gioca sono i territori liberati, la parte
della Repubblica araba sahrawi democratica (Rasd) dove i sahrawi esercitano la
piena sovranità. Si tratta di un terzo del paese, situato a est del muro di
sabbia che lo spacca in due.

Il Polisario ha capito da tempo che, per contrastare
la politica “del fatto compiuto” – l’occupazione militare marocchina –, bisogna
opporre l’altra verità: il suo pieno controllo su una parte della Rasd. Per
questo motivo, moltiplica i gesti simbolici nei territori liberati:
celebrazione di anniversari e riunioni del parlamento. Da quando, nell’agosto
scorso, sono iniziati i colloqui diretti tra Rabat e il governo sahrawi in
esilio, il Fronte ha messo la Rasd liberata tra le sue priorità.

La scelta è stata ratificata dall’ultimo Congresso
del Polisario, celebrato nel dicembre scorso a Tifariti, nella zona liberata.
La reazione marocchina ha dato ai sahrawi la certezza di aver fatto centro.
Rabat, infatti, ha tentato di organizzare un “contro-congresso”, finito nel
nulla.

Il 27 febbraio, l’anniversario della proclamazione
della Rasd (1976) è stato festeggiato nuovamente nelle zone liberate. Una
fantomatica associazione marocchina ha minacciato di “marciare contro”. La
minaccia si è ripetuta a fine marzo, quando il Polisario ha annunciato le celebrazioni
per il 35° anniversario della propria creazione (maggio 1973), che si terranno,
sempre a Tifariti, il 20 maggio.

Il 22 marzo si è tenuta la più importante
manifestazione di protesta davanti al “muro della vergogna”. Nella Rasd
liberata, ma a poche decine di chilometri dal confine con il Marocco, oltre
2mila persone (per metà provenienti da Spagna, Italia e altri paesi europei)
hanno formato una lunghissima catena umana, che ha fronteggiato il muro sotto
gli occhi impotenti dei militari marocchini e la sorveglianza dei caschi blu
della missione Onu nel Sahara Occidentale (Minurso).

Nel frattempo, stanno partendo i primi progetti per
lo sviluppo della Rasd liberata. È stato istituito un ministero apposito. La
priorità è stata data all’acqua, agli ospedali e alle scuole, servizi
essenziali per la popolazione nomade che vi risiede e che, peraltro, riceve da
sempre aiuto dal Polisario. Oggi, però, si parla di veri e propri investimenti,
che, almeno simbolicamente, facciano da contrappunto a quelli marocchini nei
territori occupati (un miliardo di dollari l’anno solo per mantenere la
presenza militare).

Nell’ultratrentennale crisi del Sahara Occidentale c’è una sorta di tic nervoso che Rabat manifesta
ogniqualvolta è in difficoltà: tirare in ballo Algeri. È puntualmente accaduto
anche di recente. A corto ormai di argomenti, il governo marocchino
s’intestardisce nell’affermare che è necessario negoziare con… l’Algeria. A
metà marzo, nel quarto incontro diretto con il Polisario, non è riuscito a
imporre né ai sahrawi né all’Onu il suo progetto di “autonomia”. Risulta sempre
più evidente che a quel progetto manca qualcosa di essenziale: un pezzo di quel
Sahara di cui il Marocco vuol far credere di avere il controllo totale.

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Mercoledì, 28 Maggio 2008 11:03

Protestano i

DOC-1961. CITTÀ DEL MESSICO-ADISTA
“Sin maiz no hay pais”, senza mais non c’è Paese, hanno gridato i 200mila contadini provenienti da tutto il Messico che il 31 gennaio hanno sfilato per il centro della capitale contro il Trattato di Libero Commercio del Nordamerica (Tlcan, più noto in Italia nella sua sigla in inglese, Nafta). Obiettivo della “Marcia del Grano” - promossa da più di 300 organizzazioni contadine,
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Martedì, 27 Maggio 2008 23:40

IL“LIBRO BIANCO” COSE FATTE, COSE DA FARE

IL“LIBRO BIANCO” COSE FATTE, COSE DA FARE

Francesco
Belletti

(direttore
del Cisf)

 

Nel febbraio 2003 il Ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali pubblicava il Libro bianco sul welfare - Proposte
per una società dinamica e solidale
(cfr. la presentazione su Famiglia Oggi
n. 4/2003, pp. 84-87), inteso come «ilnaturale proseguimento del Libro bianco sul Mercato del Lavoro» del 2001. In questo
documento veniva fissata anche Un’Agenda Sociale”, articolata su sei punti, con
una serie di obiettivi operativi specifici, da realizzare nei e negli anni
successivi: come ribadito nello stesso documento, «La proposta di varare
un’agenda sociale costituisce non solo il riconoscimento della dinamica
continua della materia e degli interventi proposti, ma anche della volontà del
Governo di procedere secondo scadenze prestabilite, facendo in modo che i
risultati siano trasparenti e facilmente verificabili da tutti».

A
tre anni di distanza dalla sua diffusione, e al termine del mandato di Governo,
appare quindi opportuna una verifica di quanto è stato fatto e di quanto rimane ancora da fare. Sulla base di
questa “ricognizione” (necessariamente sintetica, basata prevalentemente sui
dati pubblicati on-line da Governo e Ministeri, e senza poter analizzare
puntualmente dati quantitativi), si potrà quindi valutare quanto il Libro
bianco
sia rimasto sulla carta, e quanto si sia invece trasformato in
operatività concreta.

In
analogia con quella approvata dall’Unione europea nel vertice di Nizza del 7-9
dicembre 2000, l’agenda sociale del Libro bianco è stata organizzata su sei macroaree
di intervento; per ognuna di esse venivano indicati gli obiettivi, i soggetti e
gli attori coinvolti, le priorità degli interventi, i riferimenti
internazionali e le altre politiche interessate. All’interno di ciascuna area
sono state evidenziate le azioni da realizzare nel breve-medio periodo, con
l’indicazione dell’arco temporale entro cui svilupparle e delle risorse
individuate per la loro realizzazione. In questo articolo ci si concentrerà,
area per area, soprattutto sulle “azioni da realizzare”, riportando l’obiettivo
così come esplicitato nel testo.

 

INGRESSO NELLA VITA E NEL MONDO DEL
LAVORO

Obiettivo: Favorire un armonico inserimento nella vita e
nel mondo del lavoro promuovendo la qualità della vita dell’infanzia e
dell’adolescenza e l’integrità della famiglia.

 

Gli interventi per alleggerire la pressione fiscale,
essenziali in questo primo punto, sono stati prevalentemente orientati al
“contribuente individuo”, e solo pochi interventi sono stati selettivi a base
familiare (da segnalare, in positivo, il raddoppio delle detrazioni per i figli
a carico, a partire dalle Finanziarie 2002 e 2003). Su questo aspetto ancora
molto rimane da fare, per una riforma fiscale realmente a misura di famiglia
(vedi richieste di “quoziente familiare” e simili). Trova spazio invece qui il
“bonus bebé”, 1.000 euro alla nascita di un figlio dal secondo in poi,
provvedimento avviato per i nati nel 2004 e riproposto per il 2006 (segnale
apprezzabile di attenzione alla natalità e ai carichi familiari connessi, ma
criticato perché una tantum e - da alcuni - perché insensibile al
reddito) Niente da fare invece per l’approvazione della legge sui servizi
socio-educativi (ancora in discussione in Commissione al Senato a settembre
2005), mentre particolarmente importante è stata l’azione sulla cura per la
prima infanzia, e in particolare sugli asili nido, sia aziendali che promossi e
gestiti dagli enti locali; su questo punto la valutazione è certamente
positiva, dal punto di vista quantitativo (numero di posti) e qualitativo
(promozione di iniziative da parte di associazioni, enti non profit,
famiglie...).

Rispetto al superamento degli istituti per minori,
l’azione del Ministero è stata abbastanza puntuale, e anche a livello locale
molte Regioni ed enti locali si sono attivati; resta ancora un forte
interrogativo sui dati relativi ai “minori non in famiglia” (vedi anche
l’ultima area dell’Agenda sociale), nonché sulla reale promozione dell’affido,
su cui il Ministero ha promosso a partire da fine 2004 una campagna specifica
di sensibilizzazione della pubblica opinione. Su questo punto peraltro le
responsabilità operative sono ormai pressoché totalmente demandate a livello
regionale e locale.

Non c’è traccia, infine, di “Consiglio nazionale della gioventù” o organismi similari,
all’interno delle policies di welfare (a meno di non considerare tali
gli organismi associativi di rappresentanza studentesca che fanno capo al
Ministero dell’Istruzione).

 

DIRITTO AI SERVIZI UNIVERSALI MEDIANTE
UNA NUOVA SOLIDARIETÀ

Obiettivo: Garantire il
diritto di tutti al “servizio universale” (servizi di base sociali e servizi di
base in senso allargato) mediante anche lo sviluppo di reti di solidarietà
formali e informali.

 

La promozione di una prospettiva sussidiaria ha
sicuramente caratterizzato l’azione di Governo, sia rispetto alla dimensione
verticale (responsabilizzazione delle Regioni e degli enti locali), sia
rispetto a quella orizzontale (valorizzazione di famiglie, reti informali,
associazionismo). Da segnalare a questo riguardo gli interventi della legge. n.
383 di promozione dell’associazionismo sociale, così come la “Più dai meno
versi” (legge 80 del 14 maggio 2005), che consente notevoli vantaggi fiscali
per le donazioni a enti no profit, e la recente disposizione “cinque per
mille”, in occasione della presentazione della denuncia dei redditi 2005, che
consente di destinare all’associazionismo una quota di tasse pari al cinque per
mille del proprio reddito (senza oneri per il contribuente).

Grave
invece appare la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni
(Lep), che costringono Regioni e enti locali a organizzare i servizi senza una
definizione condivisa e univoca a livello nazionale di quali siano i diritti
essenziali alle prestazioni in ambito socio-assistenziale.

Significativo è stato infine il sostegno economico a
favore delle giovani coppie sposate o in procinto di matrimonio per
l’acquisizione in proprietà della casa (nella Finanziaria 2003 almeno il 10%
delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali per le famiglie di
nuova costruzione e per il sostegno della natalità); anche questa iniziativa ha
visto azioni congiunte tra livello nazionale e regionale.

 

INCLUSIONE SOCIALE

Obiettivo: Attuare
percorsi di inclusione sociale rivolti alle diverse fragilità sociali e alle
fasce in condizione di marginalità o a maggior rischio di esclusione,
promuovendo azioni per il loro reinserimento e l’attivazione di reti di ultima
istanza.

 

In questo ambito la politica complessiva dei redditi
adottata dal presente Governo è stata al centro di forti attenzioni e
polemiche; certo gli interventi attuati non hanno avuto come obiettivo primario
la promozione della “inclusione sociale”, ma piuttosto la complessiva “rimessa
in moto dei consumi”, come conferma anche la mancata attuazione del “reddito di
ultima istanza”, pur esplicitamente previsto nell’Agenda. L’assenza di uno
schema nazionale di sostegno economico di contrasto alla povertà si è poi
“scaricata” sui servizi sociali locali, che intervengono in modo molto
eterogeneo sulle “famiglie povere”, fenomeno peraltro ancora fortemente
presente nel Paese.

Rispetto all’immigrazione, il Libro bianco esplicitava
solo un’azione puntuale sui corsi di lingua italiana per minori e adulti
stranieri, che ha peraltro trovato adeguato spazio anche nel documento
programmatico sull’immigrazione 2004-2006 (maggio-luglio 2005), tra le
“politiche per l’integrazione”, soprattutto attraverso protocolli di intesa con
le Regioni (che hanno la responsabilità operativa degli interventi, con
co-finanziamenti).

Per quel che riguarda infine l’integrazione dei
soggetti deboli attraverso l’inserimento lavorativo, non si può parlare di
rilevanti responsabilità a livello nazionale, data la forte prevalenza di
titolarità operative del livello regionale, che generano peraltro diverse
capacità di sfruttamento delle opportunità presenti (cfr. la capacità di uso e
valorizzazione del Fondo sociale europeo nelle varie Regioni).

 

AUTONOMIA PSICOFISICA

Obiettivo: Garantire l’accesso al lavoro e all’assistenza
per tutti quei soggetti che presentano gravi limitazioni alla loro autonomia
fisica e psichica.

 

Non è stato varato il Piano azionale per la non
autosufficienza, mentre i livelli regionali hanno necessariamente agito su tale
settore con vari strumenti di programmazione e finanziamento. Rispetto alla
disabilità, manca sia la formalizzazione di un programma straordinario di
intervento, riferibile peraltro al fatto che il Libro bianco è stato
pubblicato nel 2003, Anno europeo per le persone disabili, sia la realizzazione
del “testo unico” sulla disabilità (punti entrambi previsti nel testo); sarebbe
d’altra parte ingeneroso sostenere che la disabilità non sia stata oggetto di
attenzione da parte del Governo (cfr. la legge sull’amministratore di sostegno,
approvata a fine 2004 dopo un lungo iter, e la legge n. 67/2006, “Misure
per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di
discriminazioni”). Tuttavia non è stato conseguito l’obiettivo di fornire
“strumenti quadro” nazionali di sistema, entro cui Regioni, enti locali e altri
attori profit e no profit potessero agire più efficacemente.

 

LA COESIONE SOCIALE DELLE
COMUNITÀ

Obiettivo: Promuovere la coesione sodale degli individui e
delle famiglie mediante la costituzione di reti capaci, da un lato, di attivare
la solidarietà intergenerazionale, e, dall’altro, di favorire l’inclusione di
soggetti e gruppi a rischio di esclusione.

 

Molto rilevante e positiva è stata l’azione
dell’Osservatorio nazionale delle famiglie (cfr. anche il sito internet www.osservatorionazionalefamiglie.org),
con la realizzazione di percorsi di ricerca, pubblicazioni ed eventi realizzati
in varie parti del Paese.

Appare
invece ancora lontana la prevista rivisitazione delle norme sul volontariato
con un nuovo impianto normativo, anche se non va sottovalutata l’importanza
dell’ampio dibattito preparatorio promosso a livello nazionale e locale proprio
dal Ministero con tutte le componenti del volontariato e del terzo settore.

Risultato certamente importante è invece
l’approvazione della legge sull’impresa sociale (legge 13 giugno 2005, n. 118),
anch’essa a valle di un lungo e complesso dibattito parlamentare e con la
società civile.

Significativo
- e sicuramente innovativo - infine l’impegno del Ministero sul tema della
Responsabilità sociale d’impresa (Csr), come è facile riscontrare anche sul
sito del Ministero (www.welfare.gov.it), che ha coinvolto imprese e
organizzazioni di categoria del mondo profit in una riflessione di
grande portata per il futuro del sistema di welfare italiano.

 

MISURE DI CARATTERE ORIZZONTALE

Obiettivo: Garantire la messa a punto di una serie di
strumenti atti a favorire l’esecuzione delle misure di cui ai punti precedenti
e la loro verifica.

 

L’obiettivo si presenta come trasversale alle altre
aree di azione, ed è quello che meno riguarda direttamente i cittadini; esso è
però essenziale per il funzionamento dei servizi, nonché per la capacità stessa
di verificare l’efficacia e l’efficienza dei servizi rispetto agli obiettivi (e
dello stesso Libro bianco).

In questo ambito i risultati sono molto
insoddisfacenti: si riscontrano infatti numerose applicazioni a livello
regionale e locale (cfr. anche gli osservatori provinciali sulle politiche
sociali, ai sensi della legge n. 328/2000), ma manca ancora un framework unitario a
livello nazionale, che consenta una descrizione omogenea di servizi e bisogni
tra i diversi contesti territoriali (cfr. anche il nodo dell’anagrafe nazionale
dei minori, in riferimento alla prima area dell’Agenda sociale). Anche il grado
di attuazione della prevista interfaccia con sistemi statistici sovranazionali
(Eurostat, altri sistemi nazionali) è assolutamente insufficiente.

 

Molto è ancora da realizzare

 

Pur nella approssimazione di questa breve analisi, ci
sembra possibile sviluppare una breve valutazione complessiva sul grado di
attuazione del Libro bianco, dopo un triennio di attività; il quadro è
inevitabilmente non univocamente definito, ma sembra di poter concludere che il
confronto fra obiettivi operativi conseguiti e azioni non realizzate penda in
modo significativo su queste ultime; in altre parole, l’attuale Governo
consegna al prossimo molte azioni ancora da realizzare, tra quelle definite «da
realizzare a breve e a medio termine».

Difficile pesare, in termini qualitativi, il valore
delle azioni realizzate rispetto a quelle da realizzare; è certo per esempio
che l’approvazione della legge sull’impresa sociale, oppure l’intervento sul
“cinque per mille” siano risultati rilevanti, capaci di innescare processi
virtuosi di cittadinanza attiva e di reale sussidiarietà, migliorando quindi
l’assetto complessivo del welfare nazionale; d’altra parte, la mancata
fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, così come il mancato avvio
di qualsiasi schema (anche sperimentale) di reddito di ultima istanza (per
limitarci solo a due aspetti) o la non definizione di un quadro normativo e
progettuale unitario sulla disabilità costituiscono “carene di sistema”
difficilmente giustificabili in una valutazione finale.

Certo occorrerebbe anche tenere conto di alcune
costrizioni, che hanno sicuramente reso molto difficile l’azione di Governo: in
primo luogo la indiscutibile pressione per una diminuzione delle risorse
disponibili, imputabile a vincoli complessivi di Governo, più che a volontà
specifiche del Ministero titolare delle azioni di welfare; in secondo
luogo la crescente tensione tra livello nazionale e regionale, nel periodo di
prima applicazione sia della legge. n. 328/2000, di riforma complessiva dei
servizi sociali, sia del processo di decentramento di responsabilità connesso
alla riforma del capitolo V della Costituzione, che ha spesso bloccato, per
iniziativa regionale, progetti sperimentali innovativi del Ministero (per
esempio, quelli sulla disabilità adulta, cioè i progetti sul “dopo di noi”,
promossi dal Ministero e mai realizzati per il veto delle Regioni, così come
sui nidi aziendali).

Un
quadro, quindi, con qualche luce, a volte anche molto brillante, e molte ombre,
qualcuna veramente scura, su questi anni di attività, che lascia anche al
prossimo Governo un complesso compito di riprogettazione del sistema di welfare;
ci sembra peraltro che su due aspetti generali occorrerà particolare
vigilanza, qualunque sia il prossimo ministro in carica: da un lato occorrerà
spendersi perché il peso specifico delle politiche di welfare aumenti,
perché la spesa sociale sia considerata sempre meno come costo assistenziale e
sempre più come investimento preventivo sul capitale sociale; dall’altro, in
sintonia con la prima parte del Libro bianco qui analizzato, di fatto
dimenticata, occorrerà attuare una reale riconversione “a misura di famiglia”
delle politiche sociali nel loro complesso, nonché l’attivazione di politiche e
misure specificamente familiari (in primis quelle fiscali), capaci di
“fare la differenza”, in termini anche quantitativamente significativi, a
favore delle famiglie.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Martedì, 27 Maggio 2008 23:38

«ASSEMBLEA PERMANENTE PER LA PACE»


«ASSEMBLEA PERMANENTE PER LA PACE»

 

di Maria Longhi Vicenza

 

 

Il progetto di costruzione di una nuova base militare
americana a Vicenza era stato visionato dall’amministrazione comunale berica
nel 2004, ma solo nel 2006 la cittadinanza ne è stata informata dal Giornale
di Vicenza,
il quotidiano locale.

Attualmente l’esercito americano ha, nella città di
Vicenza e nei comuni circostanti, una caserma, un villaggio residenziale, due
basi sotterranee, sulle quali vige il più rigoroso segreto militare, e due centri
logistici.

Il progetto che aggiunge una nuova caserma e un nuovo
villaggio residenziale, ha scatenato una forte reazione in gran parte della
cittadinanza, sia per l’impropria collocazione della caserma, al centro di un
territorio densamente abitato, sia perché l’amministrazione comunale in carica
e i due governi nazionali che si sono susseguiti hanno dimostrato una totale
indifferenza al dovere di informazione e una ancora più grave intolleranza
verso percorsi di trasparenza democratica.

La cittadinanza si è mobilitata e sono sorti numerosi
comitati, orientati prioritariamente alla raccolta e divulgazione di
informazioni, ma anche alla ricerca di possibili alternative al progetto, che
alcuni presentano come un volano economico per la provincia vicentina. Anche il
mondo cattolico si è inserito in questo dibattito, a partire dall’interrogativo
se sia eticamente accettabile affidarsi, in questo particolare contesto
storico, a un’economia fondata sulle armi. Gruppi spontanei, commissioni
«Giustizia e pace», singoli credenti, dopo un iniziale smarrimento di fronte al
silenzio dei vertici della chiesa locale, hanno iniziato un percorso di
discernimento che si va progressivamente approfondendo e radicando nelle
comunità.

Una di queste è la comunità cristiana di Quinto e
Valproto, sul cui territorio comunale dovrebbe sorgere il nuovo villaggio
militare americano. Per conoscere il loro percorso abbiamo incontrato il
parroco, don Fabrizio Cappellari, che ci ha raccontato quanto segue.

«Tutto è cominciato il primo di novembre 2006, al
cimitero. Si parlava di “testimoni”; cioè di persone che hanno segnato la vita
del nostro paese, della nostra storia. Come loro, anche noi ci troviamo di
fronte a eventi che ci interrogano. Oggi per noi sono la base e il villaggio
militare. Ho chiesto alla comunità di fermarsi e riflettere.

Abbiamo poi organizzato una serata pubblica, alla
quale è intervenuta anche l’amministrazione comunale, che in quell’occasione si
è impegnata a promuovere nuovi incontri informativi e una consultazione
popolare per verificare il consenso sull’operazione.

Il consiglio pastorale ha prodotto un documento dove
si esprime la contrarietà della parrocchia al villaggio in quanto collegato
alla base militare. Lo abbiamo inviato all’amministrazione comunale di Quinto,
a tutte le famiglie, ai consigli pastorali e amministrativi dei paesi confinanti
e per conoscenza al vescovo.

Dopo di questo, si è costituito un gruppo spontaneo
che ora sta prendendo la forma di una «Assemblea permanente per la pace». Vuole
essere un segno di incontro e di dialogo, che ogni domenica si apre per
iniziative sui temi della pace, della giustizia, della legalità. Stiamo
cominciando a parlare anche di mafia; vogliamo fare esperienze di incontro con
la realtà del Sud che non conosciamo, per capire, per dare una mano se serve.

Vogliamo stare calati nella realtà quotidiana
mantenendo un orizzonte ampio per non rischiare di venire fagocitati da
monopolizzazioni politiche, da prese di parte. Per non diventare solo il
«comitato no» alla tal cosa.

Sullo specifico del villaggio abbiamo fatto degli
incontri in preparazione della consultazione popolare tenuta il 15 aprile.
Abbiamo voluto invitare degli esperti di urbanistica, diritto e d’impatto
successivo, cioè su quello che resterà, quando gli americani se ne andranno.
Faremo ancora incontri sulla guerra, su cosa lascia dietro di sé. Vogliamo
tenere viva l’attenzione, perché non si tratta solo di costruire case, bisogna
avere chiaro il disegno complessivo.

Per i credenti, la militarizzazione del territorio e
la corsa agli armamenti in atto è contraria al vangelo. E anche tacere non è
evangelico. E’ così chiaro che l’esperienza cristiana evangelica è una
esperienza di non violenza.

E noi che
possiamo farlo abbiamo il dovere di interrogarci e operare, perché si cambi
direzione, anche nella gestione dei conflitti internazionali. Sono stato un po’
di tempo in Camerun, come missionario. Lì la gente non ha modo di pensare alle
caserme, allo sfruttamento di cui sono oggetto. Noi che abbiamo cibo e lavoro
garantiti, abbiamo il dovere anche nei loro confronti di capire e operare.
Stare fuori da questo interrogarsi è peccato. Uno può anche essere favorevole a
questo sistema, se proprio vogliamo. Quello che non si può accettare è
l’indifferenza, il sentirsi fuori, perché questo è un venir meno al nostro
dovere di cristiani».

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

L’eurodeputata Viktoria Mohacsi
evidenzia che da un paio di mesi la polizia entra negli accampamenti e fa dei
controlli indiscriminati nel cuore della notte. Alcuni vengono prelevati e
tenuti in custodia per 48 ore, subendo maltrattamenti.

Non è con questa modalità che un
Paese democratico ricerca la sicurezza, sottolinea. Se si sospetta che in un
accampamento si possano nascondere dei delinquenti, si procede con le indagini,
il fermo, l’accusa ed il rinvio a giudizio. Ma non è quello che sta succedendo.
La campagna xenofoba lanciata dalla coalizione del governo Berlusconi, sta
alimentando la persecuzione verso tutta la comunità romena.

Ricorda che in febbraio era stata
inviata una lettera aperta a Berlusconi, rimasta inascoltata, per evitare l’insorgenza
della violenza.

Ritiene poi incomprensibile la
norma per ottenere la cittadinanza italiana, che distingue tra sangue e terra.
Si verifica perciò che la terza o quarta generazione di rom nata in Italia da
padri provenienti da Paesi non comunitari, in fuga dalla guerra dei Balcani,
non ha né diritti di cittadinanza né di asilo politico.

 

La questione è all’esame dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali, però, conclude, se
il governo non cessa di alimentare l’odio non si intravede una soluzione.
da www.elpais.com
Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 21 Maggio 2008 19:55

Che fine ha fatto il Doha Round?

Nonostante il fallimento di Potsdam (18-21 giugno 2007), i negoziati
sono proseguiti fra alti e bassi e negli ultimi mesi si è verificata
una accelerazione, tanto da far prospettare al direttore WTO, Pascal
Lamy, di riunire d'urgenza un incontro ministeriale in questo mese di
maggio.
Ma facciamo un passo indietro.
Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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