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Mercoledì, 21 Maggio 2008 19:55

Che fine ha fatto il Doha Round?

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Nonostante il fallimento di Potsdam (18-21 giugno 2007), i negoziati
sono proseguiti fra alti e bassi e negli ultimi mesi si è verificata
una accelerazione, tanto da far prospettare al direttore WTO, Pascal
Lamy, di riunire d'urgenza un incontro ministeriale in questo mese di
maggio.
Ma facciamo un passo indietro.


Potsdam era stata considerata come l'ultima spiaggia per sortire un
accordo sul delicato tema dell'agricoltura. Qualcuno aveva sperato in
un bis dell'accordo di Blair House nel '92, accordo che aveva
sbloccato il negoziato Uruguay Round. Così non accadde e il fatto che
nei mesi successivi il presidente statunitense Bush, non fosse più in
condizione di negoziare accordi relativi al commercio internazionale
(era scaduta la "Fast track authority"che glielo concedeva), aveva
fatto cadere il round in un limbo di incertezze.

Cosa è mutato negli ultimi mesi?

Semplificatamene la novità consiste in un accordo sullo spinoso
argomento dei "prodotti sensibili". Nell'ambito del negoziato agricolo
si è stabilito che una piccola percentuale di prodotti a cui ciascun
paese tiene in maniera particolare, possano essere salvati dal
drastico taglio dei dazi che si prevede di concordare. L'accordo delle
scorse settimane prevede che per questi prodotti siano garantite
maggiori quote di importazione, ovvero che ogni paese si impegni
comunque ad aumentare le importazioni dall'estero, questo nella linea
filosofica WTO per cui l'obiettivo è sempre quello che gli scambi
aumentino.

Questo compromesso dovrebbe facilitare la definizione delle liste dei
prodotti sensibili, ma il risultato non appare scontato perché il
perverso algoritmo per la determinazione dei livelli di consumo
domestico, necessari per stabilire quali prodotti possano essere
considerati, è stato concordato dal club composto da USA, Ue, Brasile,
Canada, Giappone ed Australia ma ancora non è stato digerito da tutti
gli altri. Oggi, diversamente che ai tempi dell'Uruguay Round,
nessuno si fida più di promesse di benefici effetti e tutti i paesi
vogliono verificare a livello statistico gli effetti delle nuove
formule prima di accettarle. Il che sta ritardando la diffusione di
una nuova bozza di accordo agricolo.
Il 6 maggio, il commissario europeo Peter Mandelson, in una conferenza
stampa ha detto di aspettarsi un nuovo testo agricolo entro la metà di
questo mese, "se mi chiedete ora o più tardi, vi rispondo che potrebbe
non esserci un più tardi per questo accordo".
(http://ec.europa.eu/trade/issues/newround/doha_da/pr060508_en.htm)
Lamy da un po di tempo promuove il Doha round come una risposta
positiva alla crisi agricola e alla turbolenza dei mercati finanziati.
Nel corso del General Council del 7 maggio ha ribadito che "le ragioni
per cui dobbiamo concludere il Round entro quest'anno sono sotto gli
occhi di tutti noi e stanno diventando sempre più critiche, […] il WTO
può fornire parte della soluzione dell'attuale crisi alimentare".
(http://www.wto.org/english/news_e/news08_e/gc_chair_tnc_7may08_e.htm)

Dobbiamo dunque attenderci un recupero a breve del Round?


Sinceramente appare molto difficile. Se non altro perché gli Stati
Uniti stanno negoziando senza avere alle spalle il mandato del
Congresso: è praticamente impossibile che Bush ottenga da qui a
settembre l'autorizzazione a firmare il Doha Round, impossibile per i
tempi ristretti ma anche per il fatto che il Congresso non vede con
simpatia i negoziati attuali, poco appetibili in questo periodo di
campagna elettorale.
Questo significa che se venisse concluso un accordo a Ginevra, il
Congresso americano potrebbe rifiutarsi di approvarlo o quantomeno
potrebbe emendarlo (come ha fatto recentemente con accordi siglati fra
USA e Perù, Panama e Korea) costringendo i 153 paesi aderenti al WTO a
rinegoziare il tutto.

Perché l'Europa finge di non considerare questo problema?
Forse perché in fondo concorda con le varie posizioni che l'esecutivo
degli Stati Uniti e il Congresso potrebbero prendere, perché
l'interesse euro-americano si limita oggi alla difesa dei "diritti
acquisiti".


L'UNCTAD si ridimensiona


Nel frattempo si è chiusa la dodicesima conferenza ONU sul Commercio e
lo Sviluppo (UNCTAD XII, http://www.unctadxii.org). L'esito è
estremamente deludente poiché il mantra della conferenza è stato "il
settore privato è il motore dello sviluppo" e con questo "must" i
governi hanno deciso che l'UNCTAD si focalizzi su quello che sa fare,
il che tradotto in pratica significa che nei prossimi quattro anni la
creatura ONU che doveva mettere in relazione il commercio e lo
sviluppo, si ritirerà ulteriormente dalla scena lasciando alle altre
istituzioni maggiormente competenti, (FMI, WTO, OCSE eccetera) l'onere
e l'onore di darsi da fare per risolvere l'attuale crisi mondiale.
E' un grave errore quello che i paesi ONU hanno deciso ad Accra,
perché l'ONU rimane, pur tra mille debolezze, la struttura
multilaterale più inclusiva e democratica, potenzialmente in grado di
produrre decisioni con la maggior partecipazione di popoli, il
problema sta nel crederci e nell'investirci energie e risorse.
Ad Accra la crisi alimentare è sembrata semplicemente l'occasione per
una nuova "rivoluzione verde", le organizzazioni non governative sono
state relegate a un ruolo marginale mentre le imprese hanno goduto del
centro dell'attenzione attraverso il World Investiment Forum
appositamente organizzato per loro con sessioni dal titolo: Prospects
for Global FDI and new business opportunities., alla faccia dei
problemi globali che ci toccano tutti.


Sessant'anni di GATT


Sono passati sessant'anni dalla creazione del GATT e delle istituzioni
di Bretton Woods.
Tutte appaiono impantanate in una crisi d'identità, alla ricerca di un
nuovo ruolo che ne giustifichi l'esistenza.

Sino ad oggi il WTO ha vissuto ignorando l'esistenza del capitolo
"diritti", siano quelli dei lavoratori, siano quelli dell'ambiente,
siano quelli della salute, siano più semplicemente quelli che
chiamiamo diritti umani.

La ricchezza è cresciuta ma senza distribuzione, generando
ingiustizie, generando danni collaterali ambientali gravissimi e
instabilità. Le risorse sono limitate e sempre più sono coloro che
concordano che "la coperta è corta". Ma il sistema è rigido, queste
istituzioni non si mostrano flessibili quanto sarebbe necessario,
continuano a pensare con lo stesso paradigma di sessant'anni fa.
Bassa disoccupazione e buone condizioni di vita non sono il risultato
naturale delle forze di mercato. La crescita economica da risultati
che per non rimanere nelle tasche di pochi necessitano di un
appropriato framework di politiche distributive, sia all'interno che
all'esterno di una nazione. Gestire la globalizzazione significa
definire e far rispettare un minimo set di regole che abbiano come
obiettivo la creazione di posti di lavoro, la riduzione della povertà
elevando le condizioni di vita per il maggior numero di persone
possibili alfine di creare coesione e fiducia.
Chiudersi nella paura oggi non serve a nulla, serve al contrario
coraggio e capacità di dimenticare l'ortodossia delle regole.

Il Doha Round non serve a nulla così com'è; Pascal Lamy ha ragione
quando dice che il mondo ha bisogno di segnali di fiducia, ma non è il
suo round a poterne dare. In attesa del nuovo presidente statunitense,
il direttore generale del WTO dovrebbe piuttosto lavorare per una
nuova agenda che decida di servire i 153 paesi aderenti e non il
solito ghota delle imprese ormai senza patria.

Ammettere gli errori e correggere la rotta potrebbe ridare un senso di
utilità all'Organizzazione Mondiale del Commercio.
Altrimenti il futuro sarà inevitabilmente un futuro di guerra: per gli
investimenti, per l'acqua, per il cibo, per l'energia… per ogni bene –
non più comune.

Roberto Meregalli


Beati i costruttori di pace - Tradewatch


Letto 2234 volte Ultima modifica il Mercoledì, 25 Novembre 2009 09:24

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