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Venerdì, 22 Febbraio 2008 18:51

Pietro Scoppola, figlio modello del Vaticano Il

Pietro Scoppola, figlio modello del Vaticano Il

di Paolo Giuntella
scrittore e giornalista
da Jesus – dicembre 2007

Figlio del Concilio Vaticano II, uomo libero che non aveva paura; uomo di profonda fede che ha sempre legato il suo nome con il destino della nazione, che ha coniugato la libertà del pensiero con la fedeltà, serenamente impegnato, docilmente inquieto” Nelle parole del cardinal Silvestrini pronunciate al funerale di Pietro Scoppola c'è un bel ritratto di questa grande anima che ha traversato la vita politica, civile, culturale, ma anche la vita ecclesiale, del nostro Paese. La Grazia e la Libertà sono il suo ultimo messaggio spirituale. Credere nella Grazia coniugata alla libertà. La presenza divina e la condizione umana.

Storico autorevole e conosciuto ben oltre i confini italiani, Pietro Scoppola, giovanissimo, è stato tra i precursori della ricerca storiografica critica del Movimento cattolico in Italia. Celebri i suoi primi studi sul Modernismo. Poi i libri della prima maturità, su Chiesa e Stato in Italia e Chiesa e fascismo. Infine tutti i libri della sua piena maturità che coincidono anche con il suo progressivo impegno civile e politico: La proposta politica di De Gasperi, La "nuova cristianità" perduta, La Repubblica dei partiti, La Costituzione contesa, La democrazia dei cristiani, La coscienza e il potere, che raccoglie tutti i suoi articoli su Repubblica. Ma tutti attendiamo il suo inedito, il suo testamento spirituale, illustrato agli amici in conversazioni indimenticabili, dedicato sopprattutto alla spiritualità.

Scoppola ha realizzato un'invenzione molto importante a metà degli anni '70, 'onda del Concilio e della prima, grave, crisi della Democrazia cristiana: la Lega democratica, intorno a sé il meglio della cultura cattolico-democratica (ma anche molti giovani impegnati nell'associazionismo) e nelle élite sindacali. L'associazione, molto autorevole e ascoltata, fu l'incubatrice dello spirito dell'Ulivo, di cui Pietro fu poi uno dei fondatori, e dello stesso Partito democratico: Scoppola è stato membro della commissione di saggi incaricata di stenderne il Manifesto. È per molti di noi un "maestro" di laicità e un coerente testimone cristiano, dalla fede granitica. Gli chiesi alcuni giorni prima della morte quale defrnizione preferisse: “Cattolico liberale” o “cattolico democratico”. Mi rispose “tutte e due”, ma poi soggiunse: “Preferirei quella di cattolico cluniacense, lo spirito di riforma ma nella Chiesa, e di cattolico cistercense la povertà, l'essenzialità, la profondità, la bellezza della fede che ci comunicano e trasmettono le abbazie”. Amava molto la defrnizione che ne dette Paolo VI, quando, dopo il trauma del divorzio, nel 1975 monsignor Bartoletti andò dal Papa per chiedergli se nel grande convegno ecclesiale di "Evangelizzazione e promozione umana", potesse coinvolgere Pietro Scoppola che era stato il leader dei cattolici per il "no". Paolo di sl, confermando che era una voce sempre da ascoltare: “Scoppola è un cattolico a modo suo, ma bisogna lasciarlo stare”.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Giovedì, 21 Febbraio 2008 20:13

Quanto spende l'Unione? Il budget cambia struttura

Quanti soldi spende l’Ue? E dove indirizza i fondi, provenienti per la gran parte dalle casse degli stati membri (in ragione della ricchezza nazionale) e per il rimanente da risorse proprie? Due anni fa erano state definite le Prospettive finanziarie 2007-2013, che costituiscono, in sostanza, la programmazione finanziaria pluriennale dell’Unione allargata; ogni anno, poi, viene definito un budget d’esercizio, la cui bozza iniziale spetta alla Commissione, che lascia la decisione finale alle “contrattazioni fra le due autorità di bilancio, ossia Parlamento e Consiglio.

Rispetto al passato, il bilancio2008 lascia intravedere una novità significativa «il budget proposto - ha spiegato Daha Grybauskaité, commissaria incaricata della programmazione finanziaria - rappresenta un tornante storico per la Ue le spese legate a sviluppo e occupazione costituiscono la voce principale del bilancio comunitario» e, per la prima volta in cinquant’anni, «supereranno quelle per agricoltura e risorse naturali». Insomma, un bilancio più moderno per un’Europa che guarda avanti (grattacapi politico-istituzionali a parte!).

Il peso delle singole voci
A maggio ha preso avvio l’iter budgetario che nei prossimi mesi coinvolgerà il Consiglio (dove sono rappresentati i governi degli stati membri) e il Parlamento, per concludersi .- salvo sorprese - a dicembre. La commissione lituana ha sottolineato con enfasi alcune novità nella struttura dei conti Ue e, di conseguenza, delle politiche comunitarie, «a conferma del fatto che l’esecutivo intende ricentrare il budget sulle sfide globali che si pongono dinanzi all’Europa». Secondo il documento contabile, gli impegni di spesa per il 2008 sono stabiliti in 129,2 miliardi di euro (1,03% del prodotto interno lordo Ue). Le spese per crescita sostenibile, impiego e coesione fra le regioni, necessarie anche per dar corso alla Strategia di Lisbona, si attestano attorno a 57 miliardi (44,2% del bilancio), contro i 55 miliardi per agricoltura, allevamento e attività per la tutela del patrimonio naturale (43,6%).

Le cifre attestano che, in realtà, le uscite previste per il settore primario rimangono ferme fra quest’anno e il prossimo, mentre crescono in percentuale gli stanziamenti per formazione permanente (+9%), ricerca (+ 11%), reti transfrontaliere ed energia (14%). Lievitano inoltre le spese per la gestione dei flussi migratori (390 milioni euro in più nel 2008, cifra ancora lontana dalle reali necessità) e per rafforzare le “azioni esterne” (+6,9 miliardi); ma le voci “cittadinanza, libertà e sicurezza” e “ruolo mondiale dell’Ue” non vanno oltre (rispettivamente) l’1 e il 5,4% del totale. Le spese amministrative e per il personale sono al 5,7%.

Tra le voci finanziate dal bilancio appaiono (per fare qualche esempio) il fondo sociale europeo (formazione e risorse umane); i fondi per lo sviluppo regionale; le infrastrutture viarie e le reti di collegamento; il programma Erasmus per gli studenti le sperimentazioni scientifiche, la formazione e mobilità dei ricercatori; la promozione della cultura e dei media; la tutela della biodiversità; la protezione dei consumatori e la salute dei cittadini; il sostegno alle piccole e medie imprese; gli aiuti umanitari verso i paesi poveri che, per quanto modesti rispetto al bilancio totale, restano pur sempre i più elevati al mondo.

La Commissione ha ribadito, attraverso la Grybauskaité, l’impegno, assunto nel dicembre 2005 al termine della maratona per le Prospettive finanziarie, verso una «revisione complessiva del bilancio, che ricalibri il peso assegnato alle singole voci». Ora si attendono i fatti.

di Gianni Borsa inviato agenzia Sir a Bruxelles
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Martedì, 19 Febbraio 2008 14:38

Solo la laicità salva le religioni

II 19 maggio, l’Algeria, che una volta si voleva
Paese laico, ha emesso un nuovo decreto contro l’esercizio dei culti non
musulmani, cioè contro il cristianesimo. Il decreto, reso pubblico il 4 giugno,
«fissa le condizioni e modalità dello sviluppo delle manifestazioni religiose
dei culti altri che il musulmano». Un decreto chiaramente contrario alla
libertà di coscienza.

Già nel 2006, il 28 febbraio, il 24 e 25 maggio, alcune
ordinanze o decreti avevano preparato la via a questo documento ufficiale. Una
manifestazione religiosa è un raduno momentaneo di persone organizzato da
associazioni in edifici accessibili al pubblico; deve essere sottomessa al wali
(governatore) almeno cinque giorni prima. Deve includere nomi e domicili degli
organizzatori, essere firmata da tre di loro, indicare lo scopo dell’incontro,
la sede dell’associazione che l’organizza, luogo, giorno, ora e durata, il numero
dei partecipanti, il modo di assicurare il sereno sviluppo del raduno fino alla
dispersione dei partecipanti, ecc. Se c’è «pericolo per la salvaguarda
dell’opinione pubblica», le autorità possono negare il permesso.

In pratica, sarà impossibile organizzare una
manifestazione e ottenerne il permesso. Inoltre, chiunque cerca di convertire
un musulmano a un’altra religione può essere condannato a cinque anni di
prigione e a una multa fino a 10 mila euro. Anzi, chiunque «fabbrica o
distribuisce libri o riviste o video ecc. allo scopo di indebolire la fede
musulmana» subisce le stesse pene. Invece convertire un cristiano all’islam è
un atto lodevole.

Si dice
che questo decreto non sia contro i cattolici (10 mila su 33 milioni in
Algeria), ma contro i nuovi gruppi protestanti che fanno proselitismo. Sarà
probabile. Non di meno è inaccettabile. Ogni persona ha diritto di fare
propaganda per le sue idee. Certo, tutti siamo invitati a rispettare l’altro, a
non aggredirlo, forse ideologicamente. Ma proclamare la propria convinzione è
un diritto fondamentale. Mi domando spesso se non ci sia anche un diritto a
proteggere la propria cultura. E la religione appartiene alla cultura di un
popolo. In questo senso, il decreto algerino mira a proteggere la cultura musulmana
del Paese. Per lo stesso motivo, la Malaysia ritiene che ogni malay è - per
natura sua, si potrebbe dire - musulmano. Perciò un malaysiano non può
convertirsi al cristianesimo. Cito il caso di Lina Joy, malaysiana diventata
cristiana senza che nessuno l’abbia evangelizzata: ha potuto cambiare nome
sulla sua carta d’identità, ma sullo stesso documento non ha potuto mutare
religione (M.M., ottobre 2006, p. 19). E i guardiani della sharia hanno detto
che se vuole essere cristiana può emigrare, ma se vuole rimanere nel Paese non
può cambiare religione.

Il fatto
evidenzia il conflitto tra legge islamica, che proibisce le conversioni, e
Costituzione civile, che garantisce la libertà di religione. Il 7 giugno
scorso, a un dibattito pubblico organizzato dal Democratic Action Party in
presenza di oltre 600 persone, il professor Azmin Sharom ha concluso così il
suo discorso: «Solo la laicità dello Stato può proteggere tutte le religioni».
Gli ha risposto Yusri Mohamad, presidente del Muslim Youth Movement of Malaysia:
«Il rispetto dell’islam viene prima di ogni possibile dialogo». 

Proprio questo è il problema: quale dei due diritti è
superiore? Quello della persona umana, libera di fare le proprie scelte anche
religiose, o quello della comunità di proteggere la propria cultura, vietando
la conversione religiosa?

La risposta del mondo musulmano è argomentata sul
fatto che la comunità ha priorità sull’individuo. Questa era anche la risposta
dei cristiani fino all’epoca moderna, che si appoggiava ad argomenti teologici:
la difesa del gruppo, e dell’identità del gruppo, prevale su quella
dell’individuo.

Oggi
vari studiosi del diritto naturale pongono la domanda se la difesa della
cultura di gruppo non sia un «diritto naturale», alla pari con il diritto alla
libertà religiosa. Se la cultura del gruppo prevale sulla libertà personale, si
dovrebbe dire che l’Europa non ha più una cultura da difendere! Rimango
convinto che la libertà personale sia caratteristica dell’ingresso nella
modernità. E sono d’accordo con il professor Sharom nel dire che solo la
laicità protegge la persona e salva le religioni.

di Samir
Khalil Samir

Gesuita e islamologo

Mondo e Missione / Agosto-Settembre
2007

Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Mercoledì, 13 Febbraio 2008 12:58

Lo show del G8, chi controlla l'economia?

Serve o non serve? Si è trasformato in uno show di burocrati, come sostiene l’ex presidente francese Giscard D’Estaing, oppure il G8, cioè il vertice dei sette paesi più industrializzati del mondo più la Russia, è ancora il salotto buono da dove si governa l’economia mondiale? L’ultima edizione, in Germania a inizio giugno, ha messo in moto una corrente di pensiero sulla sua inutilità, che accomuna economisti radicali, ex premier conservatori e guru ecologisti.

Il gruppo era nato, anni fa, come G7 l’idea era quella di un salotto di una trentina di persone, per discutere senza peli sulla lingua di economia, ammettendo errori e correzioni di prospettiva All’ultimo G8 i leader erano accompagnati da duemila persone in un turbinio di riunioni, vertici nel vertice e incontri bilaterali, ormai la chiave per governare un pianeta sempre più turbolento; anche la scelta del tema (clima e problemi dell’ambiente) ha rasentato la farsa. I problemi di ruolo si erano posti già quando ai sette era stata aggiunta la Russia, l’ottavo convitato che ha sparigliato la carte, spostando la discussione sul piano geopolitico e mettendo in crisi l’approccio economicistico prevalente tra i sette paesi a .più forte crescita. In ogni caso, da quando la crescita economica ha preso la strada della globalizzazione, il G8 rischia di implodere e di lasciare sul campo un sacco di vittime.

L’epoca della disgiunzione
Intanto oggi bisogna. chiedersi chi controlla chi e se si può parlare di un “sistema” che ha sostituito quello uscito dal secondo conflitto mondiale, che mirava a ottenere, e per un certo tempo ci è riuscito, stabilità nei tassi di cambio e nel commercio mondiale. Il G7 è nato proprio quando qualcuno ha alzato il dito per annunciare che il sistema non teneva più e gli squilibri potevano fare grossi guai, naturalmente al ricchi. Il G7, insomma, è stato un tentativo di proteggersi, più che un’azione virtuosa di governare il cambiamento. Per questo oggi l’ex presidente francese, uno degli inventori del G7, è così critico.

In più, dietro le quinte di un palcoscenico che cede da più parti si affacciano ormai attori e problemi nuovi. Centrale, nel gruppo degli Otto, e prima dei Sette, è sempre stata l’attenzione per il cosiddetto “ciclo americano” cioè il ruolo globale dell’economia Usa, dalla cui tenuta dipendeva tutto il resto. Oggi però la realtà è diversa e in giro si colgono una sfida globale alla prima potenza e uno spostamento dell’asse del governo mondiale dell’economia. Qualche economista lo chiama decoupling, disgiunzione tra economia americana ed economia globale. Il dibattito è aperto, ma assomiglia ancora a un rebus, con soluzioni non facili.

Di certo c’è che la crescita americana è in declino, l’eurozona accelera, mentre Cina e India continuano a marciare a ritmi forsennati. Nella spesa globale la quota di mercati emergenti (Cina, India, Brasile, Messico e Corea,. tutti paesi che nel GB non hanno nemmeno uno strapuntino in fondo alla fila) è cresciuta dal 1990 ad oggi dal 20 al 37% Tuttavia il consumatore americano è ancora il più forte in assoluto (la Cina, per esempio, manda negli Usa il 21% del suo export). Allora solo quando lo Zio Sam si stancherà, si vedrà se l’economia mondiale potrà farne a meno. Adesso tutto rimane sospeso, perché debito americano e crescita delle quote dei nuovi mercati finanziari sono strettamente correlati. La disgiunzione può essere una linea di condotta per il futuro, ma non è detto che sia la soluzione per migliorare il sistema economico mondiale nel senso della giustizia e dei diritti. Il rischio è che si cambi solo l’arredamento del salotto.

di Alberto Bobbio
Italia Caritas/Luglio Agosto 2007


Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Giovedì, 07 Febbraio 2008 10:26

Nella prigione del dollaro

A San Salvador, capitale del paese centroamericano, tutte le mattine il centrocittà viene invaso da una marea di ambulanti, che occupano le strade tra povertà, cantilene e commerci, più o meno legali. Mentre il macellaio squarta la carne ai piedi della chiesa in stile coloniale, nella strada di fronte, accanto alla succursale della banca nazionale, s’improvvisa un ristorante all’aperto di piatti tipici, largo quanto il marciapiede. Il centro storico e questo mercato improvvisato sono diventati un tutt’uno, immersi in una moltitudine ondeggiante, che si muove come al ritmo d’un vecchio bolero popolare salvadoregno.

In Salvador, la dollarizzazione dell’economia è arrivata il 10 gennaio 2001, accompagnata da varie promesse, come l’aumento degli investimenti stranieri e delle esportazioni di prodotti nazionali. Da allora invece sono aumentati soltanto il costo della vita e la disoccupazione, con sullo sfondo un paesaggio sociale che si deteriora giorno dopo giorno. La mancanza di lavoro si è tradotta in un aumento del settore informale, che evidenzia la incongruenza tra la dollarizzazione e il Dna di un paese povero come El Salvador. Come risposta ai problemi economici, il governo di Elías Antonio Saca ha approvato il tanto discusso «articolo 15» che penalizza la vendita informale. A metà maggio, i 17.000 ambulanti della capitale hanno realizzato manifestazioni di protesta, chiedendo l’abrogazione della legge e la liberazione di Vicente Ramirez (dirigente dell’«Associazione dei lavoratori, venditori e piccoli commercianti salvadoregni», accusato di atti terroristici) sotto lo slogan «Siamo venditori, non terroristi».

In un paese come questo, la dollarizzazione ha significato non soltanto la moltiplicazione della povertà, ma anche l’impossibilità di svalutare la valuta nazionale. Pertanto, l’unico modo per accrescere la competitività del paese a livello internazionale (cioè per aumentare le esportazioni) è quello della «deflazione» (ridurre i prezzi delle merci). Per diminuire i prezzi delle merci occorre però precarizzare ancora di più le condizioni dei lavoratori, dando sempre più potere alle maquilas del settore tessile e alle multinazionali della frutta, che non pagano neppure il salario minimo. Nella situazione attuale, con le importazioni che superano le esportazioni, il mercato nazionale è letteralmente invaso da prodotti importati, specialmente nordamericani, dalle scarpe fino ai prodotti cerealicoli a basso prezzo (perché sovvenzionati) e geneticamente modificati. Questa invasione ha spazzato via l’autosufficienza alimentare: i contadini salvadoregni non producono più per il mercato interno, perché i cereali importati costano meno; questa situazione spinge i contadini ad abbandonare le campagne (dove ormai si concentra il 97% della povertà). D’altra parte, migliaia di artigiani e di piccoli produttori del settore calzaturiero sono rimasti disoccupati: le scarpe statunitensi costano meno, perché sono prodotte in quantitativi enormi e quasi sempre in Asia, dove i salari sono ancora più bassi che nel Salvador.

Sugli effetti quotidiani prodotti dalla dollarizzazione parliamo con la dottoressa Beatrice Alamanni de Carrillo, procuratore generale per i diritti umani della Repubblica del Salvador. «Come difensore dei diritti umani in Salvador - ci spiega - posso dirle che, per la gente, la dollarizzazione è stato un colpo terribile che si è ripercosso sulla vita quotidiana di ognuno. In pratica, si è passati all’equivalenza tra colon salvadoregno e dollaro Usa, una cosa insostenibile, perché le retribuzioni sono sempre calcolate in colones. Questo significa che i salari hanno perso 8 volte di valore, un fatto insostenibile per la gran maggioranza della popolazione. Con un salario minimo pari a 140 dollari è impossibile sopravvivere. Purtroppo, la tragedia della dollarizzazione pare un fatto irreversibile. Occorre affrontarla con interventi economici adeguati e con molta creatività».

La minoranza ricca del Salvador, assieme alla classe politica attualmente al potere, hanno voluto a tutti i costi la dollarizzazione dell’economia, per tutelarsi da un’eventuale salita al potere del Fmln («Farabundo Martì per la liberazione nazionale», la ex guerriglia ora diventata un partito politico di opposizione). Attraverso la dollarizzazione costoro possono controllare il paese anche dall’esterno, manovrando i flussi e deflussi di capitale. In sintesi, la dollarizzazione dell’economia non ha fatto che accrescere gli squilibri preesistenti, traducendosi a livello di macroeconomia in una camicia di forza, dato che l’economia salvadoregna ormai funziona come un «pilota automatico» alle dipendenze dei poteri economici statunitensi.


Di José Carlos Bonino
MC Luglio-Agosto 2007



IL GLOSSARIO DI «RADIO DI CARTA»

  • Dollarizzazione: è la sostituzione della valuta nazionale con il dollaro statunitense; oltre che a EI Salvador, la dollarizzazione è ufficiale in Ecuador e a Panama.

  • Deflazione: in economia, è la diminuzione del livello generale dei prezzi, l’opposto dell’inflazione; le imprese, non riuscendo a vendere i beni e i servizi prodotti, ne riducono i prezzi, ciò comporta una riduzione dei ricavi che esse cercano di compensare attraverso una riduzione dei costi (del lavoro, dei beni intermedi, eccetera); gli effetti negativi della deflazione tendono quindi a diffondersi, provocando una situazione di depressione economica.



Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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Martedì, 29 Gennaio 2008 22:50

Povertà, una patologia

La povertà, nel nostro paese, è un fenomeno tutt’altro che residuale. Interessa, secondo le statistiche ufficiali, oltre l’11% delle famiglie e il 13% degli individui residenti. Se si aggiunge l’area della vulnerabilità sociale, quella dei cosiddetti “quasi-poveri”, soggetti poco sopra la soglia di povertà relativa, si arriva a sfiorare il 20%: quasi una famiglia italiana su cinque è indigente, o le manca poco per esserlo tecnicamente. Un dato strutturale preoccupante, una patologia sociale conclamata.

La prima ragione di questo allarmante (e protratto) stato di cose è che l’Italia manca di un piano di lotta alla povertà. Sono esistite ed esistono misure di contrasto settoriali, mai una visione d’insieme. Dai governi del dopoguerra il problema è stato preso diverse volte in esame. La storia dell’Italia repubblicana è disseminata di buone intenzioni in materia, mai però tradottesi in un piano esplicito, serio, organico.

Caritas Italiana e Fondazione Zancan presenteranno in autunno Rassegnarsi alla povertà?, settimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale. Hanno anticipato a fine luglio, in una conferenza stampa a Montecitorio, il messaggio centrale del lavoro di quest’anno: la politica e la società italiana devono farsi carico di realizzare un piano di lotta alla povertà, per arginare le ricadute negative che questo vuoto comporta nella vita di tanti individui e famiglie e per circoscrivere il rischio di un progressivo allargamento dell’area dell’esclusione sociale.

Tante risorse per pensioni e sanitàIn Italia la spesa annua per l’assistenza sociale non è irrilevante. Il suo volume complessivo è di 44 miliardi 540milioni di euro (dato 2006), circa 750 euro pro capire. In Italia utilizziamo un quarto del prodotto interno lordo per la protezione sociale, in armonia con quanto accade in altri paesi europei (Grecia, Regno Unito, Finlandia), ma significativamente meno rispetto ad altri stati (Belgio, Austria, Francia, Germania, Danimarca e Svezia).

Il profilo di questa spesa manifesta inoltre evidenti squilibri interni: più della metà (56,1%) è destinata alla voce “pensioni in senso stretto e Tfr”; il resto è ripartito tra le voci “assicurazioni del mercato del lavoro” (6,6%), “assistenza sociale” (11,9%), “sanità” (25,4%). Gran parte delle risorse, insomma, vanno all’ultima fase della vita, molte meno alla prima fase e al sostegno delle responsabilità familiari. Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono aumentati il carico pensionistico (dal 55,7 al 56,1%) e sanitario (dal 20,8 al 25,4%), mentre sono diminuite le risorse per assicurazioni del mercato del lavoro (dal 9 al 6,6%) e assistenzasociale (dal 14,6 all’11,9%).

I due principali centri di spesa sociale sono lo stato e i comuni. Dei 750 euro impegnati per italiano, circa 664 sono gestiti dallo stato o da amministrazioni da esso controllate. Degli 86 spesi dai comuni, 21 se ne vanno per ulteriori trasferimenti monetari e circa 65 sono effettivamente spesi per servizi. Soltanto l’8,6% dei 750 euro di spesa pro capite, in definitiva, viene erogato in servizi, mentre ben il 91,4% si concretizza in trasferimenti monetari al soggetto in difficoltà. È l’enorme problema consegnatoci in eredità dalla non attuazione dell’articolo 24 della legge 328/2000: prevale l’incapacità istituzionale e sociale di operare sulla base dei bisogni effettivi, non solo in relazione ai diritti acquisiti.

All’interno della spesa sociale dei comuni, poco più di 363 milioni di euro (il 6,8% della spesa sociale complessiva) viene destinato all’area della povertà. Eppure, come detto, le famiglie che vivono in condizioni di povertà sono 2 milioni 585 mila (l’11,1% del totale) e raccolgono tantissime persone: 7 milioni 577 mila (il 13,1% del totale, tra essi molti bambini). Troppo spesso, insomma, la responsabilità di crescere i figli si scontra con le difficoltà economiche di famiglie a basso reddito. Il 26,2% dei nuclei con cinque o più componenti vive in condizioni di povertà (nel mezzogiorno il 39,2%); avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8% (nel sud 42,7%).

La povertà delle famiglie è una grande sfida. Le realtà familiari numerose sono le più esposte: brutalmente si può dire che ogni figlio porta con sé una crescita del rischio di impoverimento. L’Italia, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli: nessuno sceglie liberamente di impoverirsi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo agli ultimi posti nel mondo per fecondità familiare. Oggi la tendenza interessa anche i nuclei ricostituiti in seguito alla rottura di altre famiglie. Si rischia di entrare in una condizione di povertà soprattutto quando la famiglia diventa monogenitoriale, quindi molto spesso monoreddito: il fenomeno interessa quasi sempre madri sole con figli.

Dai trasferimenti monetari ai serviziPer dare vita a un piano organico di lotta alla povertà, occorre prima porsi alcune domande (e darsi alcune risposte). Cosa intendere per piano di lotta alla povertà? Quali centri di responsabilità devono essere coinvolti? Per quali povertà varare il piano? Quali infrastrutture organizzative, professionali e di processo impiegare? Con quante risorse?

Oltre a un piano di attività, serve un piano strategico, capace di avviare un percorso di condivisione e integrazione tra responsabilità (oltre che tra risorse). Questo percorso (politico, amministrativo, sociale) deve articolare diversamente il governo “orizzontale” e “verticale” delle responsabilità: su scala orizzontale, i livelli istituzionali (stato, regioni, enti locali) e altri soggetti interessati sono chiamati a condividere priorità e condizioni di fattibilità (risorse comprese) in sede di conferenza unificata; su scala verticale, le parti regionali e locali definiscono altrettanti piani di azione, dimensionando obiettivi e risorse in ragione dei risultati attesi di riduzione del bisogno, tenendo conto di come esso caratterizza il proprio territorio.

Soprattutto, però, occorre delineare due scelte strategiche, di medio e lungo periodo. Anzitutto, va impostato il passaggio da una logica imperniata sui trasferimenti monetari a un sistema che valorizzi i servizi (per un migliore governo della quantità delle risorse); la prevalenza di trasferimenti monetari caratterizza infatti i sistemi di welfare a ispirazione “socio-assistenziale”, cioè tradizionale, nei quali la cosiddetta “assistenza” è intesa come insieme di provvidenze economiche, erogate per “diritti acquisiti” e non necessariamente per “bisogni verificati”. E non basta, dunque, a garantire inclusione sociale e promozione dei diritti, né ad alimentare il necessario rapporto tra diritti e doveri di cittadinanza sociale.

La seconda scelta riguarda il passaggio da una gestione centrale a una decentrata: nodo non sufficientemente presente nel dibattito politico e giuridico, ma di portata storica e strutturale. Occorre studiare modalità per concretizzare il trasferimento di risorse e per definire i gradi di libertà nella finalizzazione delle risorse stesse, non solo riguardo ai trasferimenti connessi a forme di non autosufficienza, ma anche a quelli che interessano la famiglia e che devono essere “sostituibili” con servizi ad essa rivolti.

Il deficit di solidarietà intergenerazionale, infatti, è in Italia un problema sempre più evidente e stridente. La distribuzione e l’orientamento della spesa sociale lo amplifica, visto lo sbilancio di risorse destinato a favore dell’ultima fase della vita. La quasi inesistente capacità di rappresentanza delle nuove generazioni rispetto alla generazione anziana rende questo problema scarsamente presente nel dibattito civile e politico. Ma i segnali di sofferenza e insofferenza sono sempre più forti, anche su scala europea

Una “grande opera” inattuata Dopo il 2000, in base alla legge 328, si è aperta una breve stagione di sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (Rmi). Essa ha evidenziato che per i soggetti svantaggiati, senza occupazione e reddito avrebbe più senso parlare di Piani di inserimento con sostegno al reddito (Pisr), enfatizzando il fine principale (l’inserimento sociale) e non il mezzo temporaneo (il reddito minimo). Altra conferma che è necessario superare l’approccio per “misure” e sostituirlo con l’approccio per “problemi”.

Un piano nazionale di lotta alla povertà dovrebbe inoltre equivalere a una “prenotazione” dei livelli essenziali di assistenza sociale. Tale operazione produrrebbe profonde conseguenze sulle infrastrutture organizzative, professionali e di processo che prendono in carico, nel nostro paese, la condizione di bisogno sociale.
La povertà di individui e famiglie, i servizi da assicurare e i livelli essenziali di assistenza rappresentano, in altre parole, un banco di prova per un sistema di welfare oggi sostanzialmente fermo e incapace di modificare i propri elementi strutturali. Il blocco costituito da una gestione immobile delle risorse e l’assenza di volontà politica di riorientarle (per evitare la crisi di consenso da parte di alcuni gruppi, interessati a mantenere le cose come sono) inducono a lavorare con i “resti”, ovvero i finanziamenti ad hoc, che nascono da una finanziaria e sperano di essere incrementati dalla successiva.

Un piano condiviso di lotta alla povertà può rappresentare una grande occasione per il nostro paese per affrontare i principali nodi, non risolti, dell’intero sistema di welfare. È una “grande opera” inattuata: va quindi considerato non solo per il suo valore in sé (etico, culturale e politico), ma anche come occasione per rimettere in corsa il paese. E per contrastare la crisi di fiducia che nega, soprattutto alle nuove generazioni, la speranza del futuro.

di Tiziano Vecchiato
Italia Caritas / Settembre 2007



Non è un fenomeno “naturale”, non va delegata al privato sociale «Come considerare la presenza di una fascia così consistente di poveri, in un società ricca come la nostra? Considerarla fatalisticamente, come una componente “naturale” dello sviluppo economico che lo stato dovrebbe limitarsi ad arginare, impedendo che divenga esplosiva e pericolosa per l’ordine pubblico, ma senza illudersi di poterla eliminare? Oppure ritenerla un fenomeno da affidare agli interventi volontaristici e umanitari, che lo stato dovrebbe incoraggiare e promuovere, ma senza intromettersi in prima persona? Caritas e Fondazione Zancan ritengono che la teoria della “povertà naturale” è una spiegazione di comodo, che si rifà a una concezione della società vecchia e superata La povertà non esiste in natura ma è conseguenza di situazioni in cui “la politica non frequenta la giustizia”.

Caritas e Zancan escludono inoltre che il problema della povertà possa essere risolto delegandolo al solidarismo privatistico. Gli interventi del privato- sociale e della stessa Chiesa sono indubbiamente utili e necessari, ma sono di loro natura Integrativi dell’intervento pubblico e per lo più settoriali.

Non hanno pertanto né la capacità né. il potere di affrontare globalmente il problema della povertà e delle sue cause, né quello di garantire ai poveri risposte sul piano dei diritti».

(monsignor Giuseppe Pasini, Presidente Fondazione Zancan, presentazione del rapporto “Rassegnarsi alla povertà?” )
Pubblicato in Mondo Oggi - Economico
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ANTIPOLITICA, CRISI DI SISTEMA E RISCOPERTA DEL “BENE COMUNE”

di Giannino Piana
docente di teologia morale

La crisi che la politica attraversa oggi nel nostro Paese va facendosi ogni giorno più allarmante. L’assenteismo che si è manifestato, in termini assai consistenti, nel corso delle ultime elezioni amministrative è un sintomo inequivocabile dello stato di sfiducia dilagante. Il rischio è che tale sfiducia si tramuti in cinismo antipolitico e in qualunquismo, persino in un atteggiamento di netto rifiuto di tutto ciò che ha a che fare con lo Stato e con le sue articolazioni istituzionali. La crescente disaffezione (e diffidenza) che la gente comune nutre, e che è peraltro largamente confermata dalle indagini demoscopiche condotte in questi ultimi mesi, è dovuta a considerazioni di varia natura: si va dalla lievitazione costante dei costi della politica, all’assenza di trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica, fino allo scarso ricambio della classe dirigente. A queste motivazioni si aggiungono poi quelle derivanti dall’introduzione del bipolarismo che, se ha creato, da un lato, in molti serie difficoltà a riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due schieramenti - l’area che ciascuno di essi ricopre è infatti eccessivamente estesa - non ha reso, dall’altro, agevole il compito di governare (e persino di fare compattamente opposizione), essendo quanto mai accentuata la disomogeneità delle forze che fanno capo a entrambe le coalizioni. Per questo vi è chi parla (e non a torto) di crisi strutturale (e non puramente congiunturale) e, più radicalmente, di vera e propria crisi di sistema.

La riprova di quanto tale crisi sia estesa (e del disagio che essa genera) è data dall’enorme successo conseguito dal recente volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dal titolo La casta (Rizzoli, 2007), nel quale la debolezza della politica (e i mali reali che la travagliano) è ricondotta alla persistenza di “caste” intoccabili, piccole e grandi, che si perpetuano da tempo al comando della “cosa pubblica” in successione dinastica, sbarrando la strada a chiunque altro si affacci e impedendo qualsiasi sforzo di rinnovamento. L’accusa riguarda, in primo luogo, i partiti che da luoghi di partecipazione e di coagulo del consenso, nonché di elaborazione dei grandi progetti per la vita della collettività, si sono trasformati in luoghi di mera gestione del potere e talora persino in comitati d’affari.

La scarsa partecipazione dal basso - il numero degli iscritti e delle sezioni si è drasticamente ridotto anche in partiti di grande tradizione popolare -, il prevalere di una classe dirigente fatta di poche persone, una vera e propria oligarchia di potere - a questo si allude quando si parla di “casta” (peraltro rafforzata dall’ultima legge elettorale, che ha sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere per chi votare) - e la quasi totale assenza di dibattito interno hanno finito per ridurli a realtà autoreferenziali, in cui l’interesse di gruppo (o quello di una ristretta élite di persone) ha il sopravvento sull’interesse generale.

Tutto ciò in un momento come l’attuale in cui si assiste a una profonda divaricazione sociale, dovuta al processo di finanziarizzazione dell’economia; processo che - come giustamente osservava qualche tempo fa Lucia Annunziata su La Stampa - favorendo la cumulazione di ricchezze sempre più ampie da parte di pochi e comprimendo la classe media, ha accentuato la distanza tra una cerchia ristretta di “mandarini” e il resto del Paese. La classe politica, che si trova a far parte dell’area dei privilegiati e che è inoltre responsabile di aver favorito, attraverso la dilatazione dei posti di sottogoverno, il numero di coloro che godono di stipendi e pensioni d’oro, non può che perdere, anche per questo, la propria autorevolezza. Come è possibile infatti imporre “sacrifici” in nome del “bene comune”, quando così marcate sono le distanze tra chi naviga nel danaro e chi si è visto decurtato di molto il valore del proprio stipendio o di chi stenta ad arrivare a fine mese senza indebitarsi?

L’aspetto più preoccupante della crisi è pertanto il venir meno della cittadinanza comune come effetto di una percezione diffusa di ingiustizia che genera frustrazione. A essere coinvolta non è soltanto la politica ma, in senso più allargato, l’intero sistema sociale - dai sindacati alle unioni industriali fino alle diverse espressioni della società civile - provocando una preoccupante crisi di consenso. Le riforme di struttura - dalla revisione della legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, dal ridimensionamento degli stipendi e dei privilegi all’abolizione degli enti inutili - sono assolutamente necessarie e urgenti. Ma esse non saranno in grado da sole di operare un vero cambiamento, se non si accompagneranno alla rinascita di un forte rigore morale, che restituisca alla politica il carattere originario del servizio e ridia centralità all’obiettivo che essa deve perseguire, la ricerca del “bene comune”, cioè del bene di ciascuno e di tutti.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 25 Gennaio 2008 19:01

LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA

Conferme, ma anche qualche (grossa) sorpresa
LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA

di Angela Lano
MC Ottobre-Novembre 2007

La situazione femminile nelle società arabe e islamiche non è facilmente analizzabile e decodificabile, ammesso che non si vogliano utilizzare i facili clichè a cui i media ci hanno abituato. Nei decenni passati, in molti paesi (Palestina, Iran, Algeria,ecc.), le donne avevano preso parte alle lotte popolari contro gli eserciti oppressori, abbandonando i ruoli tradizionali per ricoprirne di nuovi e dinamici. Tuttavia l’emergere di gruppi radicali dell’islam politico ha portato all’arretramento della loro posizione e alla perdita di diritti che sembravano ormai conquistati per sempre.

In Egitto, culla del primo femminismo arabo e islamico, da vent’anni a questa parte è in atto una islamizzazione molto forte della società, il cui primo segno visibile è l’abbigliamento femminile: la maggior parte delle donne è avvolta in veli neri che coprono anche il volto, lasciando intravedere solo gli occhi.

In generale, e a livello mondiale, la condizione femminile sta peggiorando anziché migliorare.

Per quanto riguarda il mondo musulmano,ciò non è attribuibile all’islam di per sé, quanto al sopravvivere,all’interno di queste società, di sedimenti,di strutture antiche di tipo tribale, maschiliste e patriarcali.

l profeta Muhammad, uomo illuminato e dalla spiccata sensibilità (da quanto emerge nel Corano, in molti hadith, detti e fatti, e nelle biografie), promosse infatti una sorta di «liberazione femminile» ante-litteram, la cui portata rivoluzionaria venne tuttavia soffocata dal tribalismo misogino ancora molto forte e,ad un certo momento, prevalente. Ma ne parleremo più avanti.

In numerosi paesi musulmani,dunque, sono ancora - o sarebbe meglio dire,di nuovo - molto forti le tendenze maschiliste. Nel 900, infatti, molte società avevano iniziato a «liberarsi» dal peso di tradizioni che consideravano le donne inferiori all’uomo, non dotate di autonomia, da tenere a bada sotto veli e con tutori che vigilavano sulla loro purezza.

Ora,questa tendenza maschilista è tornata alla ribalta. Numerosi eventi,dalla fine degli anni ‘60 in poi, hanno contribuito a far richiudere in se stesse le società islamiche: sconfitta nella «Guerra dei Sei giorni», con Israele; fine del bipolarismo Usa-Urss e creazione della «minaccia islamica»; guerre del Golfo; guerra in Afghanistan; questione palestinese mal risolta; neo-colonialismo e sfruttamento delle risorse energetiche da parte dell’occidente; 11 settembre 2001; «scontro di civiltà» e altro ancora, Il ritorno alla religione, vissuta in modo totalizzante, integralista, è una conseguenza, spesso, del sentirsi «minacciati» dall’esterno, deprivati di una propria identità.

E poiché, nel mondo islamico, la religione rappresenta una modalità identitaria molto forte, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi.

La separazione tra uomo e donna

La separazione dl ruoli e spazi è sempre stata ben presente nella tradizione islamica, ma nella seconda metà del ’900 la vita moderna delle città ha portato a una promiscuità maggiore,come in Marocco, per esempio. Tuttavia, in molte società, spesso arretrate economicamente, socialmente e culturalmente, tira un’aria da «periodo ottomano» (non possiamo, infatti, parlare di “Medioevo”, poiché per la civiltà arabo-islamica quel periodo coincide con il massimo splendore).

Ci sono regioni come la poverissima e soffocata (dagli israeliani e dagli embarghi occidentali) Striscia di Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto,dove uomini e donne non possono entrare insieme negli internet cafè o dal parrucchiere, o dove il semplice conversare tra persone di sesso diverso, a migliaia di chilometri di distanza, e in una chat-line,crea scandalo.

Nella Palestina oppressa da un regime israeliano eguagliabile o peggiore dell’apartheid sudafricano,dalla fine degli anni ’80 in poi sono aumentati notevolmente i cosiddetti «delitti d’onore», un crimine-tragedia che colpisce sia donne ancora bambine sia anziane e che nasconde frustrazioni e squilibri maschili, bigottismo tribale, follia e tanto altro ancora. Un dramma sociale che associazioni per la difesa del diritti umani e organizzazioni femminili non si stancano di denunciare.

A tutto ciò si vanno ad aggiungere, in tanti altri Paesi, le violenze domestiche, l’imposizione di neqab, burqa e chador (diversi tipi di veli che coprono totalmente o parzialmente il corpo femminile).

Le nove mogli del Profeta

Attraverso i suoi tanti e bei libri (Donne del Profeta, Le Sultane dimenticate, La terrazza proibita, e molti altri ancora Fatima Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina di fama internazionale, ci racconta un «altro islam»,quello del profeta Muhammad.

Nelle sue opere,Fatima Mernissi cerca di fornire una nuova interpretazione delle leggi islamiche in un’ottica di «uguaglianza tra uomo e donna», andando alla scoperta del «messaggio profetico» dei testi sacri. Ella definisce Muhammad il primo «femminista arabo», evidenziando come, infine, furono proprio i valori tribali preislamici a prevalere, sino ai nostri giorni, cristallizzati dalla shari’a e dal fiqh che si svilupparono nei secoli successivi.

Muhammad nacque nell’Arabia tribale del 570 d.C. Fu uomo illuminato, profeta e capo politico dalle istanze rivoluzionarie. Cambiò, almeno in parte, le abitudini e i costumi sociali e culturali dei suoi contemporanei. Predicò la «sottomissione a Dio»: islam, infatti, significa proprio questo. Nel suo slancio innovatore cercò di modificare le usanze tribali radicate, che spesso infierivano sulle donne e su altre categorie sociali deboli: vedove,orfani,schiavi.

Diversamente dalle culture che lo precedettero o che lo affiancarono nell’area mediterranea, egli tenne in gran considerazione la condizione femminile e modificò radicalmente alcune regole inique su matrimonio, eredità, diritti, quotidianità.

Le sue mogli - ne ebbe nove - erano donne forti, belle, intelligenti, protagoniste nella formazione della nuova comunità islamica: Khadija, l’amata prima (e finché fu in vita, unica) moglie; Umm Salma, consapevole dell’importanza del ruolo femminile; Zaynab; Aisha, la sua prediletta e sposa-bambina, che grande peso ebbe nella storia dell’islam degli inizi - fu una delle cause che portarono alla guerra interna tra i successori del profeta e i seguaci di Ali (da cui nascerà il movimento sciita, ndr).

Anche la figlia Fatima,moglie del cugino Ali, ebbe con il padre un intenso rapporto affettivo.

La «rivoluzione culturale e sociale» di Muhammad si spinse fino a un certo punto. La Mernissi lo spiega chiaramente: egli non poté e non volle inimicarsi i seguaci, maschi, della nuova fede, enfatizzando e trasformando la condizione e il ruolo della donna araba. Aveva bisogno della fedeltà dei maschi per contrastare gli attacchi dei meccani (gli abitanti della Mecca che osteggiarono la predicazione di Maometto, ndr) e dei nemici dell’islam.

Non voleva dunque minare dalle fondamenta la società tribale basata sulla guerra, sul bottino, di cui le donne erano parte. Dare più importanza ad esse, liberarle completamente dalla schiavitù a cui erano soggette, voleva dire sconvolgere l’economia stessa delle tribù, l’impalcatura sociale e il concetto di guerra e razzia.

Dunque,non gli fu concesso, dalla dura realtà dell’ambiente in cui visse,di portare a termine, di realizzare appieno il suo grande sogno rivoluzionario di parità fra tutti gli individui, donne e uomini, liberi e schiavi.

Non riuscì, infatti,a estirpare il maschilismo e misoginia dalla testa dei maschi del suo tempo. Questo «conflitto» morale, interno, emerge dalle sure coraniche.

Tuttavia,qualche miglioramento, rispetto ai tempi della jahiliyah ,com’è chiamata l’epoca preislamica, ci fu: alla donna fu garantito il controllo e l’amministrazione dei propri beni al di fuori dell’autorità paterna o maritale. Certamente un fatto rivoluzionario.

Le basi del femminismo arabo-islamico

La lotta di liberazione della donna prese l’avvio ai primi del Novecento, in concomitanza con i nazionalismi arabi: certi intellettuali pensavano che la condizione di sudditanza rispetto all’uomo,in cui essa era da secoli e secoli costretta a vivere,fosse una sorta di effetto della «decadenza araba e della sua sottomissione alle potenze straniere».

Un uomo, un egiziano, nel 1899 pose le basi del femminismo arabo-islamico:era Qasim Amin, autore di due libri che divennero celebri: Tahrir al-Marah (La liberazione della donna), e Al-Marah al-Jadidah (La donna nuova). Nel primo invitava le donne a togliersi il velo e prendere parte alla vita attiva; nel secondo sottolineava che la liberazione femminile da lui incoraggiata era fondata sul rispetto dell’islam e non sull’imitazione delle mode occidentali.

Amin diede il via a una discussione ancora pienamente in corso: l’uso del velo non è un obbligo esplicito, ma è frutto dell’imposizione sociale.

Velo sì, velo no: una questione annosa

In concomitanza con la nascita del primo femminismo europeo, anche in Egitto le donne iniziarono a rivendicare libertà di espressione e movimento.

Un gesto clamoroso, nel 1923, diede l’avvio ai movimenti di emancipazione femminile:due intellettuali borghesi, Huda ash-Sharawi e Siza Nabaraawi, si tolsero il velo mentre scendevano dal treno al Cairo, di ritorno da un congresso femminile svoltosi a Roma.

Esse rappresentavano l’alta borghesia occidentalizzata e un po’snob. La loro azione estrema (vennero picchiate dalla polizia egiziana) convinse molte altre a rivendicare diritti negati per secoli.

In un’ottica diversa si poneva invece la connazionale Malak Hifni Nasif (1886-1918), nota come Baithat al-Badiya (Colei che cerca nel deserto), una delle prime femministe arabe: l’emancipazione doveva giungere da una scelta delle donne arabe e musulmane stesse, e non dall’imitazione di modelli occidentali o dal suggerimento dei maschi «femministi».

Ella sosteneva infatti che dovevano essere le donne a decidere se, quando e come «liberarsi».

«La maggior parte di noi donne continua ad essere oppressa dall’ingiustizia dell’uomo, che col suo dispotismo decide quel che dobbiamo fare e non fare, per cui oggi non possiamo avere neppure un’opinione su noi stesse. (...) Se ci ordina di portare il velo, noi obbediamo. Se ci chiede di toglierlo, facciamo altrettanto».

Anche per lei, l’islam non dava regole sull’uso o meno dello hijab: «portare il velo non significa essere più pudiche rispetto a quelle che non lo indossano. Il vero pudore non sta in questo».

Islamiste: «No, aI femminismo occidentale»

La ricerca «La donna nel Mediterraneo», condotta alcuni anni fa dall’università Federico Il di Napoli, spiega: «Le islamiste riconoscono l’uomo come “tutore”della donna e restano molto legate alla realtà della loro condizione che accettano come predestinazione. (...) Le donne che vogliono tornare all’islam originario sono ottimiste perché pensano di avere un ampio margine di movimento nella società e nel campo del diritto, proprio come Khadija e Aisha (due mogli di Muhammad).Quindi respingono il femminismo di stampo occidentale perché lo ritengono uno strumento del colonialismo e non condividono il tipo di libertà offerta alle donne.

Il frutto del femminismo occidentale è, secondo loro, quello di trasformare la donna in un oggetto sessuale e in uno strumento pubblicitario di capitalismo patriarcale. Esso è stato incapace di ritagliare un posto appropriato per il matrimonio e la maternità e non è riuscito a modificare il mercato del lavoro in risposta ai bisogni delle donne. In questo modo il femminismo occidentale ha trasformato le donne in cittadine permanenti di seconda classe, non riuscendo a portarle alla pari degli uomini.

(...) L’islam ai suoi inizi ha fornito alle donne dei modelli esemplari e ha indicato un cammino che può essere dignitosamente seguito ad ogni stadio: Fatima, in quanto figlia del profeta Mohammad e moglie di Ali, rappresenta un modello idealizzato e idolatrato dagli sciiti; Khadija è onorata da tutti i musulmani per la sua intraprendenza e per l’essere stata una moglie che ha sempre sostenuto il marito; Aisha per il suo intelletto e per la sua leadership politica.

Pertanto, le fondamentaliste islamiche non hanno bisogno degli esempi occidentali, perché hanno un proprio percorso di liberazione che vogliono seguire».

Il Corano e l’«hijab»

LA «DISCESA» DEL VELO

Secondo Fatima Mernissi, lo hijab, letteralmente «cortina», «disceso» per «porre una barriera non tra un uomo e una donna, ma tra due uomini».

La sociologa marocchina, nel suo libro Donne del Profeta (1997), sostiene che è impossibile comprendere un versetto del Corano «senza conoscere la storia e le cause che hanno portato alla sua rivelazione».

Ella dunque esamina il contesto storico e i fattori che hanno portato, nell’anno 5 dell’egira (627 d.C.), alla rivelazione del versetto 53 della sura XXXIII del Corano: «O voi che credete. Non entrate negli appartamenti del Profeta a meno che non siate stati autorizzati in occasione di un invito a pranzo. E in questo caso, entrate solo quando il pasto è pronto per essere servito. Se dunque siete stati invitati (a pranzare), entrate, ma ritiratevi non appena avete finito di mangiare, senza abbandonarvi a conversazioni familiari. Una simile negligenza dispiace (yu’di) al Profeta che ha ritegno a dirvelo. Dio, però, non ha ritegno a dire la verità. Quando andate a domandare qualcosa (alle spose del Profeta) fatelo dietro un hijab. Ciò è puro per i vostri cuori e per i loro».

Questo versetto, spiega la Mernissi facendo riferimento all’interpretazione di Tabari (un commentatore di letteratura religiosa morto nel 922),è «disceso» il giorno in cui Muhammad aveva preso una nuova moglie, la cugina Zaynab. Egli, dunque, desiderava appartarsi con lei. Tuttavia, un gruppetto di invitati piuttosto fastidiosi non si decideva a lasciare la sua dimora. «Il velo - scrive la sociologa - sarebbe una risposta di Dio a una comunità dagli usi grossolani che, con la sua indelicatezza, feriva un Profeta così cortese da apparire timido».

Nell’articolo «La donna musulmana tra l’emancipazione del Corano e la limitazione degli studiosi islamici», pubblicato sul quotidiano Al-Ahram il 5 giugno 2002, Gamal al-Banna, intellettuale islamico ricorda che hijab, nel senso cranico, «non vuoi dire niqab (il velo che copre anche il viso) o il velo per i capelli, ma una porta o una tenda che copre e nasconde chi è all’interno rispetto a chi si trova all’esterno, e impone a colui che entra di chiedere il permesso prima di farlo». Va ricordato, infatti, che agli inizi del periodo islamico, la maggioranza della popolazione viveva in tende e non in case.

Dal racconto di ‘Omar lbn al-Khattab (compagno dell’inviato di Dio), spiega al-Banna, «i devoti entravano dal Profeta senza chiedere il permesso, anche quando egli si trovava con le sue spose».

Ai-Banna aggiunge anche che a Medina «si era diffusa la pratica del ta’arrud sulle donne di ogni classe sociale. Questa pratica consisteva nell’appostarsi sul cammino di una donna per incitarla a fornicare. Per questo motivo alcuni uomini, fra cui ’Omar Bin Al-Khattab, capo militare senza pari e compagno dell’inviato di Dio, fecero pressione sul Profeta al fine di ordinare alle donne di indossare lo hijab per essere distinte dalle schiave, ed essere così protette dai ta’arrud».

In sostanza, secondo i due studiosi sopracitati, il Corano ordinerebbe soltanto di coprire con un velo il décolleté e di evitare abbigliamenti volgari o provocanti.

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LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E IL DOVERE DI “CERCARE ANCORA”

di Maria Cristina Bartolomei
docente di filosofia e teologa
Jesus/Novembre 2007


Il 7 novembre 1917 scoppiò in Russia la Rivoluzione d’ottobre (quando l’antico calendario russo venne adeguato a quello gregoriano la data slittò da un mese all’altro); nel febbraio-marzo dello stesso anno vi era stata una prima rivoluzione liberaI-borghese, che mirava a sostituire lo Zar Nicola Il. I movimenti di sinistra si attivarono, chiesero una Costituente, cominciarono a organizzarsi in soviet, che divennero poi il nerbo della rivoluzione bolscevica.

Il regime sovietico è crollato; quasi scomparsi dalla faccia della terra o in via di radicali trasformazioni (e deformazioni; ad esempio, in Cina) sono sia il suo tipo di comunismo sia altri tipi. I cattolici, soprattutto italiani, ricordano la scomunica Iatae sententiae (cioè automatica) comminata nel 1948 da Pio XII a chi avesse sostenuto il partito comunista.

I motivi di condanna dei “modelli” di comunismo realizzato sono gravi e noti: mancanza di libertà individuali; di rispetto dei diritti umani; repressione religiosa e ateismo di stato. L’impianto economico comunista, come tale (al di là delle deviazioni totalitarie dei regimi), è criticato in quanto non “funziona”, non produce benessere e ricchezza (purtroppo, a parte le comunità religiose, solo lo scopo del lucro e interesse privati pare riesca a motivare gli esseri umani!). Il 90° anniversario della rivoluzione non sarà dunque molto celebrato, tanto meno dai cattolici, Perché allora ce ne occupiamo?

Perché il comunismo può essere una risposta sbagliata, ma il drago che ha affrontato è vivo, i problemi che ha denunciato e cercato di risolvere sono veri e, nel quadro del capitalismo, si sono aggravati. Sono i problemi della ingiustizia, orrenda, gravissima che vige nei rapporti tra gli esseri umani; dello sfruttamento di molti a vantaggio di pochi, che vuoi dire miliardi di vite triturate nelle rotelle dell’ingranaggio che produce benessere sufficiente a tacitare le nostre coscienze, e opulenza nonché potere di dominio del mondo (anche con l’uso della guerra) nelle mani di pochissimi. Prima del movimento socialista non si ricordano sollevazioni cristiane contro la trasformazione in merce dell’uomo, contro le condizioni disumane di lavoro, anche di donne e bambini.

Ci furono molte generose iniziative di assistenza (quante congregazioni religiose!), ma non azioni politiche a contrasto di quell’”ordine” costituito. Diritti oggi (o almeno sino ad ieri!) considerati ovvii furono conquistati a prezzo di dure e sofferte lotte: senza l’incitamento del movimento socialista, tutto ciò non sarebbe accaduto. Il comunismo ebbe certo torto a indicare in Dio e nella religione il nemico della promozione umana Ma più grave torto lo ebbero i cristiani a non schierarsi con gli ultimi, a non opporsi ai potenti che li opprimevano. Che Dio ci perdoni per come il suo volto e il messaggio dell’Evangelo sono stati deformati dalla prassi delle Chiese!

C’è chi si è compiaciuto di redigere il “libro nero” delle vittime del comunismo: azione, come minimo, incauta. Altri potrebbe infatti redigere il libro nerissimo delle vittime del capitalismo, che non sono finite e comprendono non solo i miserabili del Sud del mondo sfruttati dalle multinazionali e in mille altri modi, ma anche i bambini cui negli Usa oggi viene negata assistenza sanitaria gratuita. Dall’alba del capitalismo, quanti milioni sono morti di stenti, fame, fatica, guerre fatte per motivi economici, quante vite sono schiacciate dall’unico criterio del profitto? E qualcuno potrebbe addirittura scrivere un libro nero del cristianesimo “reale”: un libro di persecuzioni e violenze; di repressioni; di inadempienze, ritardi, cecità nel cogliere i bisogni del mondo. Ci ribelleremmo, e con ragione; un ideale non si misura solo dai modi devianti in cui viene realizzato, dai tradimenti dei suoi portatori: un criterio che abbiamo il dovere morale di applicare anche nel caso del comunismo.

Il comunismo, accusato di ridurne l’essere umano a solo fatto economico, in realtà fa da specchio al modo in cui va il mondo: non siamo oggi (in democrazia) assuefatti a vedere valutare tutto sul piano del mercato?!

La tragica contraddizione tra mezzo e fine del comunismo fu l’uso della violenza per ottenere la liberazione sociale. Ma la spinta dell’ottobre 1917 fu l’indignazione per l’ingiustizia; la ricerca della giustizia per tutti, della eliminazione dei rapporti di dominio (purtroppo perseguita eliminando fisicamente i dominatori); fu la convinzione che, al di qua delle legittime differenze, gli esseri umani sono uguali e hanno uguali diritti: l’esatto contrario di ciò che ispirò i totalitarismi fascisti, ai quali a torto il comunismo viene assimilato. Il comunismo aprì un orizzonte di speranza e dignità a milioni di oppressi, che si riconobbero “compagni”: uomini che condividono Io stesso pane (quali assonanze per i cristiani!). Non lo rimpiangiamo, ma abbiamo l’onere di rispondere ai problemi che affrontò, di trovare vie più umane di economia e società; il suo fallimento ci interpella “cercate ancora!”.

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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:57

NON C’È FUTURO SENZA DONNE

NON C’È FUTURO SENZA DONNE

di Sabina Siniscalchi
MC Ottobre-Novembre 2007

Sono la maggioranza dei poveri e di coloro che muoiono per malattie curabili, degli analfabeti e dei sottoccupati, delle vittime di guerra e degli abitanti delle baraccopoli. Le donne sono la dimostrazione vivente degli errori e miopia del potere politico. Nonostante tutto, in ogni parte del mondo, sempre più donne lottano per un futuro pacifico, sostenibile, duraturo.

Nell’anno 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli «Obiettivi di sviluppo del Millennio »:otto grandi finalità che dovrebbero consentire al mondo di lasciarsi alle spalle per sempre povertà,ingiustizia e diritti violati. Tali Obiettivi riassumono gli impegni sottoscritti dai capi di stato e di governo in occasione delle conferenze mondiali realizzate dall’Onu, nel corso degli anni Novanta,sui vari aspetti dello sviluppo:ambiente, popolazione, occupazione, salute, infanzia parità di genere.

Eventi importantissimi di cui non bisogna perdere traccia e coscienza, che hanno definito con chiarezza e competenza le coordinate di un futuro pacifico, sostenibile e duraturo per l’umanità.

Purtroppo, i piani di azione con cui si sono concluse queste conferenze, anche se sono stati sottoscritti dai governanti sotto i riflettori del mondo intero, sono rimasti largamente inapplicati. Per questo, sette anni fa l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan,ha individuato un pacchetto minimo di otto obiettivi,chiari e condivisi, che potessero essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2015.

Le donne e i “Millenium Goals”

I Millennium Goals prevedono il dimezzamento del numero dei poveri e degli affamati, la scolarità universale, la parità di genere, l’abbattimento della mortalità infantile, la tutela della salute materna, la lotta all’Aids e alle altre pandemie, la salvaguardia del patrimonio ambientale, l’accesso all’acqua potabile, e, infine la creazione di un partenariato globale per raggiungere insieme il traguardo dello sviluppo.

Tre degli Obiettivi del Millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equi equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti Tuttavia,è evidente che tutti gli otto goals toccano direttamente la sorte e la vita delle donne, proprio nella misura in cui esse rappresentano la stragrande maggioranza dei poveri, la gran parte di coloro che muoiono per malattie curabili, la percentuale maggiore degli analfabeti,dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccopoli...

Le donne sono la prova vivente delle drammatiche condizioni del mondo, il loro stato è la dimostrazione angibile degli errori e della miopia di chi detiene le leve del potere politico ed economico.

Spesso siamo inclini a pensare che le donne vivano male solo in Africa, in Asia o in America Latina, a smentire questa nostra convinzione di comodo arrivano,dai paesi ricchi e industrializzati, i dati sul lavoro precario delle giovani donne, quelli sulle disparità nelle retribuzioni, quelli sulla condizione delle donne immigrate e sulla violenza domestica.

Per quanto riguarda l’Italia,ci ha pensato di recente il Financial Times a sottolineare una condizione apparentemente meno drammatica, ma ugualmente discriminante;il prestigioso quotidiano definisce l’Italia «il paese delle veline»: in parlamento la percentuale di donne non supera il 16 per cento, mentre giovani donne provocanti e mute vengono utilizzate in abbondanza da pubblicità e televisione.

L’Italia si ferma agli ultimi posti tra i paesi europei per quanto attiene il ruolo delle donne in politica e in economia. Le donne italiane fanno fatica a raggiungere posti di responsabilità nelle imprese e nelle istituzioni;basti pensare che solo nel 1995, una donna, Fernanda Contri,è diventata per la prima volta giudice della Corte costituzionale e un’altra, Susanna Agnelli, è stata nominata, sempre per la prima volta, ministro degli Esteri.

Nella discussa Turchia,dove sono stata lo scorso luglio, ho monitorato lo svolgimento delle elezioni politiche per conto del Consiglio d’Europa, le donne in parlamento sono l’11%; una donna è stata fino a pochi mesi fa presidente della Corte costituzionale; un’altra è a capo della confindustria locale.

Dunque, nessun paese ha da insegnare ad altri in materia di pari opportunità, di pieno riconoscimento del ruolo delle donne e di rispetto dei loro diritti fondamentali.

La piattaforma con cui si concluse la Conferenza mondiale sulle donne, che si svolse a Pechino nel 1995,rimane largamente incompiuta. Se si escludono i progressi della scolarizzazione delle bambine, gli altri traguardi sono ancora lontani. A Pechino, ad esempio, i capi di governo avevano concordato l’adozione di politiche per riservare alle donne il 30% dei seggi parlamentari, ma dieci anni dopo,solo il 15% di tutti i parlamentari nel mondo sono donne.

Il lato oscuro della globalizzazione

Esperti di sviluppo delle Nazioni Unite e leader della società civile fanno notare che,se alcune tendenze dell’economia mondiale hanno avuto un impatto positivo sulla vita delle donne, ve ne sono altre che hanno indebolito la loro lotta per l’uguaglianza economica e politica. Ad esempio le donne che, a milioni, vivono nelle aree rurali e lavorano in agricoltura sono diventate più povere e malnutrite a causa del passaggio dalla produzione per il fabbisogno alimentare locale a quella per il commercio e l’esportazione.

Anche i tagli alla spesa sociale,che sono stati al centro delle politiche di aggiustamento economico imposte, negli ultimi 20 anni,ai paesi indebitati da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, hanno comportato una crescita del disagio femminile: in molti paesi in via di sviluppo,le donne hanno perso qualsiasi sostegno pubblico nella cura, nel nutrimento e nel dei figli,con esiti spesso drammatici, mentre nei paesi industrializzati, sempre in nome del risanamento dei bilanci statali, i servizi pubblici invece di aumentare sono spesso diminuiti;secondo un recente studio dell’unicef, la condizione dei bambini e delle loro madri è peggiorata in molti paesi dell’Est Europa, passati dall’economia controllata dallo stato all’economia di mercato,a causa dei minori finanziamenti pubblici a scuole,asili, ospedali.

Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (OiI) lancia l’allarme sulla situazione delle donne lavoratrici, specialmente in realtà dove il sindacato è debole o inesistente come nelle zone franche riservate ad aziende straniere che producono per il mercato estero. L’assenza di norme per la sicurezza e di qualsiasi forma di tutela sanitaria e di maternità espone queste lavoratrici a enormi rischi e al ricatto dei datori di lavoro.

Secondo l’Oil, l’assenza di decent work (lavoro dignitoso), in Cina, India ed altri paesi con un elevato tasso di crescita economica, rappresenta il lato oscuro della globalizzazione.

La discriminazione contro le donne, sicuramente non è più stabilita per legge, ma è connaturata a processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie.

Ancora in troppi paesi, le donne sono escluse dall’accesso a risorse fondamentali per lo sviluppo,come il credito, la proprietà della terra e di altri strumenti di produzione, la formazione e la tecnologia.

Occorre invertire questa tendenza e ripartire dalla consapevolezza che uno sviluppo stabile e duraturo non può prescindere dal protagonismo delle donne. Sotto questo profilo, la cooperazione allo sviluppo può svolgere un ruolo fondamentale.

Lo scorso gennaio ho partecipato al World Social Forum di Nairobi,dove la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, è stata formidabile: donne energiche e intelligenti che,a dispetto dei pochi mezzi a loro disposizione, hanno voluto partecipare per portare la loro testimonianza e le loro richieste. Hanno ribadito la volontà di essere artefici del proprio sviluppo e padrone del proprio destino; hanno mostrato gli ottimi progetti e le straordinarie esperienze che hanno saputo mettere in campo con piccoli aiuti.

Donne coraggiose e dinamiche che non si arrendono di fronte all’impoverimento del loro continente, che non si rassegnano alla perdita dei loro uomini uccisi dalle guerre o emigrati per cercare lavoro; donne consapevoli della propria dignità e orgogliose delle risorse del proprio popolo. Donne che hanno molto da insegnare al resto del mondo.

E’ a queste donne che dovrebbe essere indirizzato l’aiuto internazionale; dovrebbero essere loro a ricevere la maggior parte delle risorse economiche che arrivano dai paesi donatori. Purtroppo non è così: il Dac (Development Aid Committee) calcola che la quota dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) destinata ai progetti promossi, realizzati e guidati dalle donne è ancora minima. Un approccio che va radicalmente rivisto,se si vuole davvero sostenere, attraverso la cooperazione, il cammino di liberazione dal bisogno dei popoli del Sud del mondo.

Spese militari: un insulto alle donne

Attraverso il recupero di dignità e di ruolo delle donne, passa anche la lotta contro la violenza che le brutalizza e le annienta in ogni parte del mondo.

Nonostante la Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne sia stata ratificata da 179 paesi, la loro incolumità e la loro libertà è sempre più minacciata da nuove guerre e conflitti, dal crescente traffico di esseri umani e dal diffondersi dei movimenti fondamentalisti.

Gli studi delle agenzie dell’Onu sulla violenza di genere sono pieni di dati agghiaccianti:si stima che ogni anno quasi un milione di donne sia oggetto di traffico e più della metà sia destinata all’Europa. Oltre a essere sfruttate,queste donne sono in balia della violenza di protettori, clienti e persino delle forze dell’ordine.

Anche la violenza domestica è un’altra grave emergenza,tanto che il problema è costantemente nell’agenda del Consiglio d’Europa: l’organizzazione internazionale, di cui fanno parte 47 paesi,che ha come finalità la promozione dei diritti umani e la diffusione della democrazia.

Un recente studio,commissionato dal governo svizzero, intitolato «Donne in un mondo insicuro», riferisce che una percentuale crescente di donne subisce aggressioni fisiche da parte del partner o di altri componenti maschi della propria famiglia. La violenza domestica imperversa non solo nei paesi in via di sviluppo,che sono spesso carenti in termini di protezione legale, ma anche nelle società industriali sviluppate, secondo la ricerca svizzera; negli Stati Uniti, per esempio, nonostante le rigide leggi contro la violenza di genere, una donna su quattro è vittima di abusi.

A Nairobi mi ha colpita l’affermazione di June Zeitlin,del Wedo (organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo delle donne, una rete internazionale che raggruppa decine di associazioni di ogni regione del mondo): «Si fa molta retorica sui diritti delle donne, ma gli interventi concreti sono del tutto insufficienti. Nonostante le promesse fatte a Pechino 12 anni fa,ancora oggi ben 40 paesi si rifiutano di adottare una legislazione contro la discriminazione delle donne, inoltre anche in paesi in cui questa legislazione è vigente sopravvivono costumi e tradizioni fortemente pericolosi per le donne».

Basti pensare che in India sono oltre 700 le donne uccise nel 2006, ma meno del 2% dei responsabili è stato condannato per omicidio.

La violenza sulle donne è aggravata anche dallo stato crescente di guerra che caratterizza il mondo dall’inizio del Millennio. È come se le donne perdessero terreno di fronte all’escalation militare e alle crescenti spese per la difesa e gli armamenti di molti governi; le risorse per gli interventi sociali e la cooperazione scarseggiano, ma ogni anno si spendono - secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) - mille e duecento miliardi di dollari in armi, una cifra che rappresenta 25 volte la spesa necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio!

«Cittadine di seconda classe», ma...

Purtroppo se n’è parlato poco sui nostri giornali, ma all’inizio di quest’anno 200 tra scrittrici, artiste, parlamentari e attiviste sociali degli Stati Uniti hanno lanciato un appello alle donne di tutto il mondo per dare forma a un’alleanza globale contro la guerra.«Ne abbiamo abbastanza della guerra insensata in Iraq e del crudele attacco ai civili in tutto il mondo - si legge nell’appello -. .Abbiamo seppellito molti dei nostri amati e visto troppe vite mutilate per sempre. Questo non è il mondo che vogliamo per noi e i nostri figli».

Anche nei paesi che non sono colpiti dalla guerra, la condizione delle donne resta dura: cittadine di seconda classe sia nel mondo ricco che nel mondo povero. Nonostante questo, le donne continuano a lottare e alcune, sia pure ancora troppo poche, riescono a farsi strada nel mondo politico e imprenditoriale.

Vorrei citare tre esempi di successo, verificatisi di recente. Lo scorso luglio, in India, Pratibha Patil è stata eletta presidente della repubblica: è la prima donna capo di stato nella storia della potenza asiatica. Una nomina forse determinata più dagli interessi dei partiti in lizza che dal carisma della candidata; tuttavia la presenza di una donna al massimo livello istituzionale ha generato grandi speranze tra le donne indiane, anche perché in passato la Patil ha operato in organizzazioni femminili e si è battuta per i diritti delle donne del suo paese.

Il 2 e 3 agosto si è svolto a Quito in Ecuador un incontro dal titolo «Donne che trasformano l’economia». Vi hanno partecipato un centinaio di rappresentanti di organizzazioni femminili di vari paesi dell’America Latina, che hanno messo in atto iniziative di resistenza all’economia neoliberista e al Cafta (trattato di libero commercio tra Usa e Centroamerica). «Non siamo venute qui solo per dire no al Trattato e allo strapotere delle grandi multinazionali - ha detto Ana FeliciaTorres del Costa Rica - siamo venute anche per dire si: sì alla vita, sì ai diritti, sì all’educazione, alla casa,alla sicurezza alimentare. L’economia deve avere questi come obiettivi prioritaril».

Il 7 agosto le donne del Kenya hanno lanciato la Campagna Un milione di firme per 5O posti, un’iniziativa di pressione sul parlamento per far approvare una proposta di legge che riserva 50 seggi speciali alle donne. Tra gli ideatori della Campagna, c’è Martha Karua, ministro per la Giustizia e affari costituzionali, una politica convinta che i suoi colleghi maschi siano più influenzabili da una mobilitazione che da tanti studi e dibattiti. Martha Karua ha spiegato così la proposta: «Si tratta di una misura di breve termine,che può contribuire a sradicare le grandi disparità tra uomini e donne presenti nella società keniana e che si riflettono nella rappresentanza parlamentare».

Alcuni anni fa,Gertrude Mongella, già ministro della Tanzania, fondatrice dell’Ong Awa (Advocacy for Women in Africa) e attualmente prima presidente del Parlamento pan-africano, mi disse:«Ci sono stati molti cambiamenti dalla Conferenza di Pechino,e molto positivi. L’uguaglianza di uomini e donne sta diventando una realtà, non è più solo un argomento di cui conversare. Non abbiamo ancora raggiunto tutti i traguardi che ci eravamo prefissi a Pechino, per varie ragioni, ma si sono fatti molti sforzi riguardo alla disuguaglianza e alla discriminazione contro le donne. Ci sono leggi che puniscono la violenza contro le donne, leggi che richiedono una percentuale minima di rappresentanza femminile a diversi livelli nella società. Sono i primi risultati della conferenza di Pechino,occorre andare avanti».

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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