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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:57

NON C’È FUTURO SENZA DONNE

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NON C’È FUTURO SENZA DONNE

di Sabina Siniscalchi
MC Ottobre-Novembre 2007

Sono la maggioranza dei poveri e di coloro che muoiono per malattie curabili, degli analfabeti e dei sottoccupati, delle vittime di guerra e degli abitanti delle baraccopoli. Le donne sono la dimostrazione vivente degli errori e miopia del potere politico. Nonostante tutto, in ogni parte del mondo, sempre più donne lottano per un futuro pacifico, sostenibile, duraturo.

Nell’anno 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli «Obiettivi di sviluppo del Millennio »:otto grandi finalità che dovrebbero consentire al mondo di lasciarsi alle spalle per sempre povertà,ingiustizia e diritti violati. Tali Obiettivi riassumono gli impegni sottoscritti dai capi di stato e di governo in occasione delle conferenze mondiali realizzate dall’Onu, nel corso degli anni Novanta,sui vari aspetti dello sviluppo:ambiente, popolazione, occupazione, salute, infanzia parità di genere.

Eventi importantissimi di cui non bisogna perdere traccia e coscienza, che hanno definito con chiarezza e competenza le coordinate di un futuro pacifico, sostenibile e duraturo per l’umanità.

Purtroppo, i piani di azione con cui si sono concluse queste conferenze, anche se sono stati sottoscritti dai governanti sotto i riflettori del mondo intero, sono rimasti largamente inapplicati. Per questo, sette anni fa l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan,ha individuato un pacchetto minimo di otto obiettivi,chiari e condivisi, che potessero essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2015.

Le donne e i “Millenium Goals”

I Millennium Goals prevedono il dimezzamento del numero dei poveri e degli affamati, la scolarità universale, la parità di genere, l’abbattimento della mortalità infantile, la tutela della salute materna, la lotta all’Aids e alle altre pandemie, la salvaguardia del patrimonio ambientale, l’accesso all’acqua potabile, e, infine la creazione di un partenariato globale per raggiungere insieme il traguardo dello sviluppo.

Tre degli Obiettivi del Millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equi equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti Tuttavia,è evidente che tutti gli otto goals toccano direttamente la sorte e la vita delle donne, proprio nella misura in cui esse rappresentano la stragrande maggioranza dei poveri, la gran parte di coloro che muoiono per malattie curabili, la percentuale maggiore degli analfabeti,dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccopoli...

Le donne sono la prova vivente delle drammatiche condizioni del mondo, il loro stato è la dimostrazione angibile degli errori e della miopia di chi detiene le leve del potere politico ed economico.

Spesso siamo inclini a pensare che le donne vivano male solo in Africa, in Asia o in America Latina, a smentire questa nostra convinzione di comodo arrivano,dai paesi ricchi e industrializzati, i dati sul lavoro precario delle giovani donne, quelli sulle disparità nelle retribuzioni, quelli sulla condizione delle donne immigrate e sulla violenza domestica.

Per quanto riguarda l’Italia,ci ha pensato di recente il Financial Times a sottolineare una condizione apparentemente meno drammatica, ma ugualmente discriminante;il prestigioso quotidiano definisce l’Italia «il paese delle veline»: in parlamento la percentuale di donne non supera il 16 per cento, mentre giovani donne provocanti e mute vengono utilizzate in abbondanza da pubblicità e televisione.

L’Italia si ferma agli ultimi posti tra i paesi europei per quanto attiene il ruolo delle donne in politica e in economia. Le donne italiane fanno fatica a raggiungere posti di responsabilità nelle imprese e nelle istituzioni;basti pensare che solo nel 1995, una donna, Fernanda Contri,è diventata per la prima volta giudice della Corte costituzionale e un’altra, Susanna Agnelli, è stata nominata, sempre per la prima volta, ministro degli Esteri.

Nella discussa Turchia,dove sono stata lo scorso luglio, ho monitorato lo svolgimento delle elezioni politiche per conto del Consiglio d’Europa, le donne in parlamento sono l’11%; una donna è stata fino a pochi mesi fa presidente della Corte costituzionale; un’altra è a capo della confindustria locale.

Dunque, nessun paese ha da insegnare ad altri in materia di pari opportunità, di pieno riconoscimento del ruolo delle donne e di rispetto dei loro diritti fondamentali.

La piattaforma con cui si concluse la Conferenza mondiale sulle donne, che si svolse a Pechino nel 1995,rimane largamente incompiuta. Se si escludono i progressi della scolarizzazione delle bambine, gli altri traguardi sono ancora lontani. A Pechino, ad esempio, i capi di governo avevano concordato l’adozione di politiche per riservare alle donne il 30% dei seggi parlamentari, ma dieci anni dopo,solo il 15% di tutti i parlamentari nel mondo sono donne.

Il lato oscuro della globalizzazione

Esperti di sviluppo delle Nazioni Unite e leader della società civile fanno notare che,se alcune tendenze dell’economia mondiale hanno avuto un impatto positivo sulla vita delle donne, ve ne sono altre che hanno indebolito la loro lotta per l’uguaglianza economica e politica. Ad esempio le donne che, a milioni, vivono nelle aree rurali e lavorano in agricoltura sono diventate più povere e malnutrite a causa del passaggio dalla produzione per il fabbisogno alimentare locale a quella per il commercio e l’esportazione.

Anche i tagli alla spesa sociale,che sono stati al centro delle politiche di aggiustamento economico imposte, negli ultimi 20 anni,ai paesi indebitati da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, hanno comportato una crescita del disagio femminile: in molti paesi in via di sviluppo,le donne hanno perso qualsiasi sostegno pubblico nella cura, nel nutrimento e nel dei figli,con esiti spesso drammatici, mentre nei paesi industrializzati, sempre in nome del risanamento dei bilanci statali, i servizi pubblici invece di aumentare sono spesso diminuiti;secondo un recente studio dell’unicef, la condizione dei bambini e delle loro madri è peggiorata in molti paesi dell’Est Europa, passati dall’economia controllata dallo stato all’economia di mercato,a causa dei minori finanziamenti pubblici a scuole,asili, ospedali.

Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (OiI) lancia l’allarme sulla situazione delle donne lavoratrici, specialmente in realtà dove il sindacato è debole o inesistente come nelle zone franche riservate ad aziende straniere che producono per il mercato estero. L’assenza di norme per la sicurezza e di qualsiasi forma di tutela sanitaria e di maternità espone queste lavoratrici a enormi rischi e al ricatto dei datori di lavoro.

Secondo l’Oil, l’assenza di decent work (lavoro dignitoso), in Cina, India ed altri paesi con un elevato tasso di crescita economica, rappresenta il lato oscuro della globalizzazione.

La discriminazione contro le donne, sicuramente non è più stabilita per legge, ma è connaturata a processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie.

Ancora in troppi paesi, le donne sono escluse dall’accesso a risorse fondamentali per lo sviluppo,come il credito, la proprietà della terra e di altri strumenti di produzione, la formazione e la tecnologia.

Occorre invertire questa tendenza e ripartire dalla consapevolezza che uno sviluppo stabile e duraturo non può prescindere dal protagonismo delle donne. Sotto questo profilo, la cooperazione allo sviluppo può svolgere un ruolo fondamentale.

Lo scorso gennaio ho partecipato al World Social Forum di Nairobi,dove la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, è stata formidabile: donne energiche e intelligenti che,a dispetto dei pochi mezzi a loro disposizione, hanno voluto partecipare per portare la loro testimonianza e le loro richieste. Hanno ribadito la volontà di essere artefici del proprio sviluppo e padrone del proprio destino; hanno mostrato gli ottimi progetti e le straordinarie esperienze che hanno saputo mettere in campo con piccoli aiuti.

Donne coraggiose e dinamiche che non si arrendono di fronte all’impoverimento del loro continente, che non si rassegnano alla perdita dei loro uomini uccisi dalle guerre o emigrati per cercare lavoro; donne consapevoli della propria dignità e orgogliose delle risorse del proprio popolo. Donne che hanno molto da insegnare al resto del mondo.

E’ a queste donne che dovrebbe essere indirizzato l’aiuto internazionale; dovrebbero essere loro a ricevere la maggior parte delle risorse economiche che arrivano dai paesi donatori. Purtroppo non è così: il Dac (Development Aid Committee) calcola che la quota dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) destinata ai progetti promossi, realizzati e guidati dalle donne è ancora minima. Un approccio che va radicalmente rivisto,se si vuole davvero sostenere, attraverso la cooperazione, il cammino di liberazione dal bisogno dei popoli del Sud del mondo.

Spese militari: un insulto alle donne

Attraverso il recupero di dignità e di ruolo delle donne, passa anche la lotta contro la violenza che le brutalizza e le annienta in ogni parte del mondo.

Nonostante la Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne sia stata ratificata da 179 paesi, la loro incolumità e la loro libertà è sempre più minacciata da nuove guerre e conflitti, dal crescente traffico di esseri umani e dal diffondersi dei movimenti fondamentalisti.

Gli studi delle agenzie dell’Onu sulla violenza di genere sono pieni di dati agghiaccianti:si stima che ogni anno quasi un milione di donne sia oggetto di traffico e più della metà sia destinata all’Europa. Oltre a essere sfruttate,queste donne sono in balia della violenza di protettori, clienti e persino delle forze dell’ordine.

Anche la violenza domestica è un’altra grave emergenza,tanto che il problema è costantemente nell’agenda del Consiglio d’Europa: l’organizzazione internazionale, di cui fanno parte 47 paesi,che ha come finalità la promozione dei diritti umani e la diffusione della democrazia.

Un recente studio,commissionato dal governo svizzero, intitolato «Donne in un mondo insicuro», riferisce che una percentuale crescente di donne subisce aggressioni fisiche da parte del partner o di altri componenti maschi della propria famiglia. La violenza domestica imperversa non solo nei paesi in via di sviluppo,che sono spesso carenti in termini di protezione legale, ma anche nelle società industriali sviluppate, secondo la ricerca svizzera; negli Stati Uniti, per esempio, nonostante le rigide leggi contro la violenza di genere, una donna su quattro è vittima di abusi.

A Nairobi mi ha colpita l’affermazione di June Zeitlin,del Wedo (organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo delle donne, una rete internazionale che raggruppa decine di associazioni di ogni regione del mondo): «Si fa molta retorica sui diritti delle donne, ma gli interventi concreti sono del tutto insufficienti. Nonostante le promesse fatte a Pechino 12 anni fa,ancora oggi ben 40 paesi si rifiutano di adottare una legislazione contro la discriminazione delle donne, inoltre anche in paesi in cui questa legislazione è vigente sopravvivono costumi e tradizioni fortemente pericolosi per le donne».

Basti pensare che in India sono oltre 700 le donne uccise nel 2006, ma meno del 2% dei responsabili è stato condannato per omicidio.

La violenza sulle donne è aggravata anche dallo stato crescente di guerra che caratterizza il mondo dall’inizio del Millennio. È come se le donne perdessero terreno di fronte all’escalation militare e alle crescenti spese per la difesa e gli armamenti di molti governi; le risorse per gli interventi sociali e la cooperazione scarseggiano, ma ogni anno si spendono - secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) - mille e duecento miliardi di dollari in armi, una cifra che rappresenta 25 volte la spesa necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio!

«Cittadine di seconda classe», ma...

Purtroppo se n’è parlato poco sui nostri giornali, ma all’inizio di quest’anno 200 tra scrittrici, artiste, parlamentari e attiviste sociali degli Stati Uniti hanno lanciato un appello alle donne di tutto il mondo per dare forma a un’alleanza globale contro la guerra.«Ne abbiamo abbastanza della guerra insensata in Iraq e del crudele attacco ai civili in tutto il mondo - si legge nell’appello -. .Abbiamo seppellito molti dei nostri amati e visto troppe vite mutilate per sempre. Questo non è il mondo che vogliamo per noi e i nostri figli».

Anche nei paesi che non sono colpiti dalla guerra, la condizione delle donne resta dura: cittadine di seconda classe sia nel mondo ricco che nel mondo povero. Nonostante questo, le donne continuano a lottare e alcune, sia pure ancora troppo poche, riescono a farsi strada nel mondo politico e imprenditoriale.

Vorrei citare tre esempi di successo, verificatisi di recente. Lo scorso luglio, in India, Pratibha Patil è stata eletta presidente della repubblica: è la prima donna capo di stato nella storia della potenza asiatica. Una nomina forse determinata più dagli interessi dei partiti in lizza che dal carisma della candidata; tuttavia la presenza di una donna al massimo livello istituzionale ha generato grandi speranze tra le donne indiane, anche perché in passato la Patil ha operato in organizzazioni femminili e si è battuta per i diritti delle donne del suo paese.

Il 2 e 3 agosto si è svolto a Quito in Ecuador un incontro dal titolo «Donne che trasformano l’economia». Vi hanno partecipato un centinaio di rappresentanti di organizzazioni femminili di vari paesi dell’America Latina, che hanno messo in atto iniziative di resistenza all’economia neoliberista e al Cafta (trattato di libero commercio tra Usa e Centroamerica). «Non siamo venute qui solo per dire no al Trattato e allo strapotere delle grandi multinazionali - ha detto Ana FeliciaTorres del Costa Rica - siamo venute anche per dire si: sì alla vita, sì ai diritti, sì all’educazione, alla casa,alla sicurezza alimentare. L’economia deve avere questi come obiettivi prioritaril».

Il 7 agosto le donne del Kenya hanno lanciato la Campagna Un milione di firme per 5O posti, un’iniziativa di pressione sul parlamento per far approvare una proposta di legge che riserva 50 seggi speciali alle donne. Tra gli ideatori della Campagna, c’è Martha Karua, ministro per la Giustizia e affari costituzionali, una politica convinta che i suoi colleghi maschi siano più influenzabili da una mobilitazione che da tanti studi e dibattiti. Martha Karua ha spiegato così la proposta: «Si tratta di una misura di breve termine,che può contribuire a sradicare le grandi disparità tra uomini e donne presenti nella società keniana e che si riflettono nella rappresentanza parlamentare».

Alcuni anni fa,Gertrude Mongella, già ministro della Tanzania, fondatrice dell’Ong Awa (Advocacy for Women in Africa) e attualmente prima presidente del Parlamento pan-africano, mi disse:«Ci sono stati molti cambiamenti dalla Conferenza di Pechino,e molto positivi. L’uguaglianza di uomini e donne sta diventando una realtà, non è più solo un argomento di cui conversare. Non abbiamo ancora raggiunto tutti i traguardi che ci eravamo prefissi a Pechino, per varie ragioni, ma si sono fatti molti sforzi riguardo alla disuguaglianza e alla discriminazione contro le donne. Ci sono leggi che puniscono la violenza contro le donne, leggi che richiedono una percentuale minima di rappresentanza femminile a diversi livelli nella società. Sono i primi risultati della conferenza di Pechino,occorre andare avanti».

Letto 3608 volte Ultima modifica il Lunedì, 10 Marzo 2008 15:44

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