È il Qatar, il piccolo emirato che sembra essere stato messo al mondo dall'Arabia Saudita, nelle acque del Golfo Persico, che, per primo, ha tentare di dare a queste "rivoluzioni" un formato adatto a favorire i suoi protetti, i "Fratelli Musulmani". Per fare questo, Doha si è essenzialmente appoggiata sulla forza del suo impatto mediatico, sulla presenza sul suo territorio di numerose guide spirituali e sull'iniezione di milioni di "Petrodollari" per aiutare i suoi alleati islamisti in Egitto, Tunisia, Yemen, Libia e Siria.
Monomissione insopportabile agli occhi dei regimi tribali di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e il Kuwait, che vedono una minaccia esistenziale in questo. Da qui l'idea di un sostegno finanziario e mediatico in appoggio ai Salafiti, che conducevano una campagna elettorale in Tunisia e in Egitto, contro i Fratelli musulmani e il loro vecchio sogno di creare una «Oumma islamyia» (nazione islamica) e un nuovo "Califfato".
Ecco approntato il quadro scenico per un fronteggiamento titanico tra i due giganti del "Panislamismo", il Qatar e l'Arabia Saudita.
"Fratelli Musulmani" contro Salafiti
Doha è intervenuta mediaticamente finanziariamente e anche militarmente in Libia e Siria, per sconfiggere (?) i suoi propri alleati, i Fratelli Musulmani, mentre Riyadh si coinvolgeva militarmente per sedare la rivolta popolare in Bahrain.
Il Regno wahhabita ha sborsato a sua volta miliardi di dollari per far abortire la rivoluzione yemenita e per avere influenza sulle elezioni democratiche in Tunisia ed Egitto, e non ha esitato a intervenire in Siria, per mezzo di milizie interposte. Milizie estremiste, che con la loro proverbiale crudeltà e con le loro estorsioni si sono guadagnate l'iscrizione nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Riyadh ha anche gettato tutto il suo peso per sostenere il colpo di stato militare in Egitto, cominciando con l'applaudirlo, prima di svenarsi, con altri paesi del Golfo, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, con un assegno di dodici (12) miliardi di dollari, come "aiuto al cambiamento."
Alla indignazione generale suscitata dalla macelleria di piazza "Rabiaa Al Adaouiya", Riyadh ha replicato, spedendo in tutta fretta a Parigi il suo ministro degli Esteri Saoud Al Faysal , con la missione di mettere sotto pressione gli occidentali e di ricordare loro le considerevoli risorse finanziarie che il suo paese ha investito, nella sua ferma determinazione a rendere l'Egitto il riferimento universale per quanto riguarda il regime sunnita. Fine dell'indignazione occidentale!
Il groviglio di Doha ....
Non c'è bisogno di uno sforzo intellettuale per capire il posizionamento dell'Arabia Saudita, per la quale l'Iran sciita e la Fratellanza Musulmana costituiscono un pericolo mortale. E proprio come se l'è presa con i Fratelli Musulmani in Egitto, Riyadh non nasconde le sue ambizioni di dare la sua impronta alla rivoluzione siriana, per minare l'influenza iraniana nella regione. Tutte prese di posizione che, come per incanto, hanno coinciso con il colpo di palazzo di Doha, un "putsch bianco" che ha deposto Khalifa bin Hamad al-Thani, con dolcezza - allorquando il suo primo ministro Hamad bin Jassim bin Jabr Al Thani si rilassava a bordo del suo yacht -, per il sostegno dato ai Fratelli musulmani, che l'emiro si era sforzato a lungo di presentare agli Occidentali come loro alleato pragmatico. Ma anche se dopo il putsch l'ex numero due non è apparso né durante l'investitura del principe Tamim bin Ahmed né in pubblico, egli rimane il patron di "Al Jazeera", il potente canale del Qatar, che rimane il fedele sostegno della "Fratellanza" in Egitto, in totale contrasto con le posizioni del nuovo ministro degli Esteri, Khaled al- Attiya che ha applaudito il colpo di stato contro il presidente Mohamed Morsi.
… e la fine ... della letargia saudita
Al di fuori da questo groviglio inestricabile, diversi eventi hanno scosso la leggendaria letargia diplomatica di Riyadh ed hanno spinto l'Arabia a far ribaltare la geopolitica regionale, in favore dei suoi interessi strategici: l'elezione in Iran di Hassan Rohani, un pragmatico che non nasconde affatto il desiderio di normalizzare le relazioni del suo paese con l'Occidente, l'allineamento di Hezbollah su Teheran, a proposito della questione siriana, con il rischio accresciuto del rafforzamento della "Mezzaluna sciita" e la salita al potere, decisa dalle urne, degli islamisti apparentati ai "Fratelli Musulmani" in Tunisia e in Egitto, a spese delle correnti salafite di obbedienza saudita. Anche se questi tre avvenimenti inquietano, a colpo sicuro, il potere saudita, è nella guerra di successione che infuria negli arcani del palazzo che bisogna cercare l'essenziale della sua improvvisa iperattività.
Infatti, il capitolo finale della storia di Al Saud è scritto con l' attuale principe ereditario Salman bin Abdulaziz, l'ultimo dei figli del fondatore del Regno. Dietro di lui, una armata di principi non nasconde la sua ambizione di succedergli, un giorno. Bandar Bin Soltan è uno di loro. Il potente capo dei servizi di sicurezza è il secondo uomo più forte del paese dopo Khaled Touijri, Capo di gabinetto del re Abdullah. Quest'ultimo è minato dalla malattia e la sua prossima morte metterà fine allo strapotere di Touijri per la sua non appartenenza alla stirpe reale. Il Principe Bandar, che non ignora nulla di questo presupposto, è determinato a usare tutta la sua influenza per trascinare gli americani nella guerra in Siria, esattamente come egli aveva fatto per l'Iraq al tempo della malattia di Re Fahd Bin Abdelaziz, convincendo quest'ultimo della pretesa esistenza di armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein.
"Islam petrolifero"
Se l'Arabia Saudita detiene questo rango così particolare sullo scacchiere mondiale, essa lo deve prima di tutto al suo petrolio. Ma ciò che rafforza considerevolmente il suo potere, è il posto che essa occupa nel dispositivo militare americano in Medio Oriente e il suo ruolo di più importante alleato geostrategico dell'America, dopo Israele, e questo a dispetto delle divergenze di valore tra i due paesi.
Nel corso di questi decenni, gli USA non hanno cessato di destreggiarsi tra gli imperativi di approvvigionamento di petrolio e la preoccupazione per la stabilità politica di un Medio Oriente, che non cessa mai di sprofondare in una spirale di violenza. Una scelta difficile ma non impossibile, a condizione che a Washington ci si decida a sostenere la creazione di vere democrazie. Un'idea la cui sola evocazione ripugna alla famiglia reale saudita che, si accanisce a colpi di miliardi per far deragliare qualsiasi esperienza democratica, come ha fatto una volta in Libano e ora in Bahrain, in Egitto, in Tunisia , nello Yemen. Il supporto ai regimi giordano e marocchino dipende dalla stessa preoccupazione di sbarrare la strada a ogni velleità di democratizzazione.
E anche quando gli Stati Uniti hanno cercato di esportare in Iraq il loro savoir-faire in materia di democrazia, l'Arabia Saudita ha giocato la carta della guerra civile mortale, sostenendo i sunniti contro gli sciiti. Il paese ha fatto del proselitismo wahabita il suo credo ad un punto tale, che alcuni hanno chiamato quest'ultimo "Islam petrolifero". Appoggiando i peggiori gruppi estremisti islamici, come l'Arabia aveva chiuso gli occhi, a suo tempo, sulle di centinaia di sauditi nelle file di Al Qaeda in Afghanistan e in Cecenia, così essa fa oggi per l'Iraq, la Siria e lo Yemen.
Fratelli nemici
Il regime saudita, che si definisce lui stesso alleato dell'America, diventa suo nemico alla minima evocazione di democrazia in Egitto, in Iraq e in Palestina, o se si tratta di contrastare l'influenza crescente dell'Iran. In realtà, l'asse Washington - Riyadh resiste più per le minacce alle quali i due alleati fanno fronte, piuttosto che per valori che essi condividano. Così, il regime saudita non avrebbe mai mandato i suoi carri armati a sedare la rivolta in Bahrain, se non fosse stato l'alleato degli Stati Uniti. Non più di quanto non avrebbe partecipato al sabotaggio dell'esperienza democratica in Tunisia, applaudito il colpo di stato militare in Egitto e persuaso il re del Marocco a rimangiarsi le sue promesse di riforma.
Abbiamo visto come il regime saudita, minacciato ai suoi confini durante la primavera araba, aveva dimenticato presto la sua disputa con il Regno hashemita per sostenerlo, e come si era dimenticato l'allineamento dello Yemen su Saddam Hussein per appoggiare il regime yemenita.
L'America avrebbe per lo meno chiuso gli occhi, se non autorizzato un simile "interventismo" se si fosse trattato dell'Iran? Sicuramente no!
È l'alleanza americano-saudita che rende sicure le autorità saudite nelle loro mene. Tanto quanto il regime saudita è il più grande alleato degli Stati Uniti nella regione, altrettanto esso si concede la libertà di opporsi a loro quando si tratta di minacce di democratizzazione.
Al Qaeda, questo figlio illegittimo degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita
Visto ciò che precede, si impone una domanda: fino dove intende arrivare l'America nel suo appoggio al regno saudita che assicura la sopravvivenza delle dittature, col rischio di nuovi bagni di sangue e di instabilità politica?
Piuttosto che scommettere contro l'interesse dei popoli e probabilmente contro i suoi stessi interessi, lo Zio Sam avrebbe una migliore ispirazione se puntasse sul risveglio della gioventù araba e su una revisione al ribasso delle esigenze dell'America per il petrolio del Golfo. Esso rappresenta solamente l'otto (8) per cento dei bisogni americani. Una ragione in più perché Washington finalmente riveda i suoi rapporti criminali con il regime saudita, fonte ideologica della diffusione del pensiero wahhabita, il più grande ostacolo per la democrazia nella regione e la più grande minaccia per la stabilità nel mondo. Come promemoria: è da questa unione che è nato questo il figlio illegittimo e malefico, chiamato "Al Qaeda" che si riproduce freneticamente e al di fuori di ogni legittimazione, in Iraq, nello Yemen , in Nord Africa, in Somalia, in Siria e nel Sahel. Nulla dice che esso non partorirà domani una creatura mostruosa che nessuno potrà controllare più.
Le forze democratiche farebbero bene a non fare affidamento sugli Stati Uniti e sull'Occidente. Le due entità hanno tutto da perdere se le rivoluzioni arabe dovessero prevalere e se il vento di rivolta dovesse propagarsi alle petromonarchie del Golfo.
La credenza popolare suggerisce che ogni cambiamento che riguarda l'Egitto si ripercuote sui paesi limitrofi, visto il suo peso geostrategico, la sua forza demografica e la sua influenza culturale. Ma appare ormai chiaro che ogni cambiamento dovrebbe, in realtà , partire dalla Penisola arabica, non già perché essa fosse stata la culla dell'Islam, o stia all'origine della propagazione dell'arabismo, ma in ragione della natura dei regimi che la governano. Regimi costruiti su stretti legami familiari e su considerevoli fortune . È normale che nessuno di loro non ne vorrebbe sapere di un cambiamento che nuocerebbe a questi due interessi strettamente intrecciati.
Traduzione dal francese Attilio Zinelli
Pubblicato il 12/09/2013 su
ORIGINAL : http://www.lakome.com/رأي/106-editorial/30024-السعودية-الخطر-الداهم.html — con Fabio Cochis e altre 3 persone.