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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:53

TRADIZIONI RISPETTATE

AFRICA I L’ONU APPROVA LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI
TRADIZIONI RISPETTATE

di Luciano Ardesi
Nigrizia/Novembre 2007

Ci sono voluti oltre vent’anni di mobilitazione e quasi quindici di discussioni alle Nazioni Unite perché l’Assemblea generale adottasse finalmente, lo scorso 13 settembre, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni.

Più volte sul punto di essere approvato, il documento alla fine ha visto la luce solo perché, nel corso del tempo, gli stati hanno capito che, in fondo, la Dichiarazione non sarebbe stata altro che un pezzo di carta, moralmente importante, ma nulla di più. La risoluzione con la quale l’Assemblea generale l’ha approvata non è, infatti, giuridicamente vincolante. Nonostante questo limite, non sono mancati i voti contrari di quattro paesi, tutti del mondo ricco (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Usa), e le astensioni (undici, tra cui tre paesi africani: Burundi, Kenya e Nigeria).

A spingere alla sua adozione sono state, in primo luogo, le organizzazioni indigene latino-americane; quelle africane sono intervenute molto più tardi. Del resto, dai governi africani sono venute alcune delle maggiori resistenze, proprio perché per molti di essi parlare di popoli indigeni significa evocare il fantasma del tribalismo e la particolarità etnica che ostacolerebbero la costruzione dello stato moderno e unitario. Per questi motivi, in Africa, l’emergere di una coscienza indigena è stata enormemente ritardata.

La Dichiarazione elenca un gran numero di “diritti”: un catalogo sterminato che solo interventi specifici, e resi coercitivi mediante leggi nazionali, potrà rendere effettivo. Un diritto emerge su tutti: quello dell’autodeterminazione (art. 3). È stato tra i più controversi, per timore che, analogamente al diritto di autodeterminazione per i popoli colonizzati, potesse significare il diritto alla secessione o la rimessa in discussione dell’unità nazionale. Nella Dichiarazione ha un significato più circoscritto di autogoverno all’interno dello stato cui il popolo indigeno appartiene. Ne consegue che è riconosciuto il diritto di decidere autonomamente il proprio statuto politico e il proprio sviluppo economico, sociale e culturale. I popoli indigeni hanno, pertanto, la possibilità di mantenere le proprie istituzioni tradizionali, così come di dotarsi di nuovi ordinamenti.

Tre principi appaiono particolarmente importanti. Il primo è quello della non discriminazione (art. 2). Infatti, il tratto comune a tutti i popoli indigeni del mondo sono le diverse forme di emarginazione di cui sono vittime. Il secondo principio è il diritto a non subire l’assimilazione forzata o la distruzione della propria cultura (art. 8). Oltre alle politiche volontaristiche degli stati, la minaccia più forte viene da quella particolare forma di assimilazione forzata costituita dai processi di globalizzazione, che obbligano anche i popoli indigeni ad assumere modelli di vita standardizzati. Per questi motivi, la Dichiarazione prevede non solo una generica protezione della cultura e delle tradizioni, ma, soprattutto, la possibilità di mantenere o creare sistemi educativi propri. Infine (terzo principio), è riconosciuto ai popoli indigeni il diritto a non essere deportati dal proprio territorio o a non essere reinseriti senza il loro consenso (art. 10). Quest’ultimo principio rinvia alla questione fondamentale dello sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni. La Dichiarazione non contiene il diritto dei popoli indigeni a controllare le risorse naturali del proprio territorio. Fa unicamente obbligo agli stati di «consultarli» (art. 32), prima approvare qualunque progetto di sviluppo che abbia delle incidenze sulle loro terre. Nessuna proprietà è, quindi, riconosciuta ai popoli indigeni sulle risorse minerarie: si parla piuttosto di riparazioni per le conseguenze nefaste di questi piani di sviluppo.

Nonostante i limiti, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni è stata salutata in modo positivo dalle organizzazioni che li rappresentano, comprese quelle africane. Viene giudicata non un punto di arrivo ma di partenza, per far riconoscere quei diritti che faticosamente sono stati enunciati. Nessuno, all’interno di queste organizzazioni, s’illude che la seconda tappa sarà meno lunga e difficile della prima.

DIFFICILE DEFINIZIONE

Ma chi sono i popoli “indigeni” cui fa riferimento la Dichiarazione? Uno dei motivi che per anni hanno bloccato l’adozione del testo è stata proprio l’impossibilità di trovare una definizione che mettesse tutti d’accordo. Alla fine, ci si è arresi al fatto che nel diritto internazionale non ci sono definizioni di “minoranza” o di “popolo”, pur riconoscendo a queste entità alcuni diritti specifici.

La situazione africana è complicata dal fatto che quasi tutti i gruppi sociali possono dirsi indigeni, nel senso di essere originari del continente o di esservi installati da lungo tempo. La differenza culturale è un altro elemento importante, ma in Africa ciò vale per tutti i popoli indistintamente (si pensi, ad esempio, all’immensa varietà delle lingue). L’aspetto decisivo è oggi, piuttosto, la coscienza dei popoli di essere “autoctoni”. Finora, pochi popoli africani si sono definiti tali e si sono dati forme organizzate di rappresentanza. È probabile che proprio la Dichiarazione indurrà alcuni di essi a darsi una identità indigena e una organizzazione conseguente.

Anche in Africa, tuttavia, non si è attesa la Dichiarazione per far valere i diritti. I tuareg hanno tentato la via nazionale al riconoscimento dei propri diritti, soprattutto in Niger e in Mali, a partire dagli anni ‘90, anche attraverso la lotta armata. Finora gli accordi di pace non sembrano aver soddisfatto le loro rivendicazioni. Essi, comunque, come parte del popolo berbero (amazigh), hanno cercato di creare un’organizzazione internazionale che li rappresentasse tutti.

Significativa, nel dicembre scorso, è stata la vittoria ottenuta dai san del Botswana davanti all’Alta Corte del paese. Cacciati dalla riserva del Central Kalahari Game Riserve, essi hanno ottenuto il diritto al ritorno. Un anno più tardi, tuttavia, il governo di Gaborone ha rinnovato le misure di espulsione.

Sono ritornati alla ribalta gli ogoni, il popolo maggioritario nel Delta del Niger (Nigeria), di cui era originario Ken Saro Wiwa, lo scrittore-poeta impiccato nel 1995 per aver difeso il suo popolo. I recenti rapimenti di tecnici stranieri nella regione del Delta li hanno additati come “terroristi” (accusa che le organizzazioni ogoni respingono con forza). E proprio da loro vengono alcuni dei consensi più entusiasti alla Dichiarazione, consapevoli che essa potrà costituire un prezioso strumento di lotta, anche per la parte del documento dedicata alla salvaguardia dell’ambiente.

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LA PRETESA DI VERITÀ DELLE CHIESE SPINGE A RIFLETTERE ANCORA

di Vladimir Zelinskij
teologo ortodosso
Jesus/Agosto 2007

Il documento della Congregazione per la dottrina della fede - che ribadisce che soltanto la Chiesa cattolico romana può essere pienamente identificata con la Chiesa di Cristo - come una piccola scossa che, dalle profondità dell’oceano, provocherà grandi ondate. In campo protestante non si è fatta attendere una gelida tempesta, in cui si può sentire il sapore dell’offesa dopo tanti anni di dialogo ecumenico, noi non abbiamo neanche meritato di essere chiamati “Chiesa”?

Questa identità confermata, invece, ha portato un’inattesa soddisfazione nella Chiesa ortodossa, anche se la sua «carenza» - la mancanza di comunione con il successore di Pietro - è chiaramente indicata. Secondo l’ecclesiologia ortodossa, infatti, il carisma del Pescatore appartiene a ogni vescovo in quanto capo della Chiesa locale e in comunione con gli altri vescovi il primato assoluto, anche giuridico, del vescovo di Roma è solo il frutto dello sviluppo storico Due tradizioni, quella romana e quella ortodossa, sono in discussione, ma il principio della fedeltà alla Tradizione rimane un terreno comune. L’Ortodossia sottolinea la deviazione occidentale dall’eredità del primo millennio e insiste affermando che la riscoperta di questa eredità sarebbe la principale condizione per il ritorno all’umiltà Nel documento della Congregazione non è espresso un atteggiamento in qualche modo simile?

«Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica » Questa affermazione la si può capire così la Chiesa cattolica può sussistere in incognito tra le pecore degli altri ovili e l’unità deve manifestarsi attraverso la scoperta della sua presenza nascosta Ma davvero è diversa questa posizione dall’appello «Tornate al primo millennio, ritrovate la Tradizione patristica per quanto essa è ancora presente in voi»? La Chiesa ortodossa non ha mai smesso di parlare di sé, non come «venerabile Chiesa orientale», ma come unica e santa Chiesa di Cristo E quando due (?) Chiese con la stessa pretesa di verità entrano in dibattito, entrambe sono chiamate a fare ulteriori, approfondite ricerche nella Tradizione, con un orecchio aperto a ciò che oggi lo Spirito dice alle Chiese. Nessun ortodosso contesta il primato di Pietro, ma “l’infallibilità papale” era davvero voluta da Cristo? E tutti gli altri dogmi che ci dividono non sono stati introdotti in modo unilaterale, senza chiedere l’opinione dell’Oriente, come se esso non esistesse?

La chiarezza da parte della Chiesa di Roma è una sfida ci si può anche voltare dall’altra parte, facendo finta che niente sia successo…. Ma si può anche rispondere con una riflessione nuova sulla nostra enorme ricchezza condivisa.

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ALL’ITALIA SERVONO PARTITI VERI, DEMOCRATICI E REALMENTE NUOVI

di Franco Monaco
politologo

Confortati da autorevoli opinionisti, avevamo osservato che il più alto e insostenibile dei costi della politica, che affligge l’Italia in modo particolarissimo, è un vistoso deficit di democrazia governante, originato da un sistema politico-istituzionale che inibisce decisioni efficaci e tempestive. All’altezza di economie e società aperte e dinamiche e tali da farci tenere il passo dei nostri partner-competitori dentro un’Europa e un mondo sempre più integrati. Un deficit di democrazia funzionante e governante che si manifesta soprattutto nei rami alti dello Stato, a livello di Parlamento e di governo centrale. Singolarmente deboli e precari, specie se rapportati ai governi regionali e locali, decisamente più stabili ed efficienti. Con conseguenti problemi di equilibrio del sistema.

Un problema annoso, questo, che rinvia alla ventennale e irrisolta esigenza di adeguamento e riforma di regole e istituzioni. Dalla legge elettorale, di recente riscritta con il preciso (e riuscito) proposito di acuire frammentazione, instabilità, paralisi; sino al bicameralismo perfetto (nel senso di ripetitivo e inconcludente) e soprattutto alla forma di governo con i poteri del premier (sensibilmente inferiori a quelli di un presidente di regione o di un sindaco, sotto il profilo istituzionale).

In questo quadro politico-istituzionale, neppure il più carismatico statista potrebbe fare il miracolo di dar corso a un governo all’altezza delle nuove sfide, Dunque, la prima linea di risposta all’antipolitica è la riapertura del cantiere delle riforme, che tuttavia presupporrebbe spirito costituente e dunque cooperazione bipartisan. Di cui, onestamente, allo stato, non si vede traccia.

La seconda via di risposta è quella genuinamente politica. Quella cioè dell’adeguamento dei partiti, che sono gli attori-protagonisti delle moderne democrazie di massa, i soggetti collettivi che raccolgono e organizzano il consenso, selezionano la classe dirigente politica, fanno da raccordo tra società e istituzioni, Si diceva di una pressante e disattesa domanda di governo. Ma una risposta di natura democratica a tale domanda di governo non può che far leva su partiti che facciano da “infrastruttura democratica” della società. E tuttavia anche i partiti partecipano di quella complessiva crisi di sistema cui si è fatto cenno. Di quali partiti avremmo bisogno? Rispondo sinteticamente con una sequela di aggettivi qualificativi.

Di “partiti veri”, disciplinati da regole che si rispettano e che si configurino come organismi collettivi. L’opposto di partiti oligarchici o addirittura personali, cui ha concorso una legge elettorale che mette nelle mani del capo la “nomina” dei parlamentari più docili.

Di “partiti democratici” non solo di nome, cioè restituiti ai cittadini quale loro strumento di partecipazione, come prescrive l’art. 49 della nostra Costituzione. A questo risponde il ricorso a consultazioni primarie anche nella vita interna dei partiti, quelli più sensibili e aperti alle forme nuove della domanda di partecipazione, meno incline alla retorica o alla militanza tradizionale e piuttosto orientato alla “democrazia deliberativa”, ove il cittadino aderente è chiamato in presa diretta a concorrere alle decisioni che contano.

Di “partiti grandi”, a vocazione generale e con cultura di governo. Non di piccoli partiti che pensano se stessi nell’angusta logica della rappresentanza di nicchia. Qui, naturalmente, decisiva è la legge elettorale; quella attuale ci ha regalato un Parlamento abitato da ventitrè gruppi gelosi della loro autonomia.

Infine, di “partiti autenticamente nuovi”, espressione di paradigmi ideologici altri e diversi da quelli del Novecento. Eppure, a ben vedere, gli attuali partiti sono più spezzoni residuali del vecchio che non anticipazione o espressione del nuovo. Sotto questo profilo e al di là del giudizio di valore (e delle legittime preferenze), si deve riconoscere che Forza Italia e il costituendo Partito democratico rappresentano le esperienze più avanzate nella tensione all’innovazione politica.

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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:45

LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

LIBIA / RETROSCENA DELLA LIBERAZIONE DELLE INFERMIERE BULGARE
LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

di Alessandro Farina
Nigrizia/Settembre 2007

E’ ufficiale: Gheddafi è diventato buono. È diventato così buono agli occhi occidentali che, per prodigio, si sono rotte le dighe che arginavano il riarmo di Tripoli. Lo ha candidamente ammesso il ministro della difesa francese Hervé Morin: «Non esiste più l’embargo internazionale sulla vendita di armi alla Libia. Se non gliele vendiamo noi, saranno altri a farlo: italiani, russi, inglesi».

Una precisazione giunta il 3 agosto, dopo lo scoppio sulla stampa dello scandalo sull’ipotetico legame tra la liberazione delle 5 infermiere bulgare e del medico palestinese (avvenuta a Tripoli il 24 luglio) e la fornitura francese di armi a Tripoli. A lanciare il sasso era stato il figlio di Gheddafi, Saif Al-Islam, che in un’intervista a Le Monde ammise che a convincere i libici a liberare infermiere e medico — detenuti da 8 anni a Tripoli con l’accusa di aver infettato 438 bambini con il virus dell’aids — era stato un accordo militare con la Francia. Paese che si era speso molto (vedi la doppia visita a Tripoli di Cécilia Sarkozy e la passerella del marito con Gheddafi a liberazione avvenuta) per una soluzione positiva della vicenda. I giorni successivi all’intervista sono stati affollati di smentite. Il potente Claude Guéant, braccio destro del presidente francese, ha lanciato la proposta di convocare una commissione d’inchiesta parlamentare per dipanare le nuvole sull’eventuale scambio “armi-infermiere”. Lo stesso Nicolas Sarkozy, giorni dopo, ha negato l’esistenza di un memorandum — firmato con la Libia a fine luglio, secondo Le Parisien — per la vendita di un potente reattore nucleare a Tripoli, da usare per la desalinizzazione dell’acqua del mare.

Tra precisazioni e polemiche, le uniche cose certe sono che l’Mbda, società missilistica europea controllata dal gruppo franco-tedesco Eads (ma il 25% delle azioni sono anche dell’italiana Finmeccanica), ha in essere un contratto per la vendita a Tripoli di missili anticarro Milan. Contratto da 168 milioni di euro. Non solo. Esiste un secondo contratto, in fase di avanzata negoziazione, per la fornitura da parte dell’Eads alla Libia di un sistema Tetra di comunicazioni radio. Valore: 128 milioni di euro. Insomma, il gruppo franco-tedesco, con contratti per 296 milioni di euro, si è messo in prima fila nella corsa al ricco mercato della difesa libico, diventato un eldorado dalla fine dell’embargo, nel 2004. Mercato definito dalla stessa Defence Exports Services Organization (struttura inglese che si occupa, presso il ministero della difesa, della promozione e della vendita di armi costruite in Gran Bretagna) «il più promettente tra i mercati militari emergenti». Tanto che Londra si è offerta di addestrare l’esercito di Gheddafi. E anche l’Italia, in passato fornitore privilegiato della Libia, cerca di non perdere colpi. Il 3 agosto, ad esempio, Alenia Aermacchi ha annunciato un contratto di 3 milioni di euro per rimettere in condizioni di volo 12 addestratori ad elica libici SF-260.

La fine di un tabù. E un rientro da protagonista nello scacchiere internazionale per l’uomo forte di Tripoli, isolato per anni dalla comunità internazionale. La bomba diplomatica, disinnescata da Gheddafi con la liberazione delle infermiere, ha portato, poi, altri frutti. Raccolti dall’albero europeo. Bruxelles, infatti, ha pagato 500 milioni di euro a Tripoli come risarcimento danni per la morte dei bambini. Il Colonnello ha ottenuto poi la garanzia di disposizioni di favore per l’esportazione in Europa di prodotti libici e l’impegno a finanziare una serie di progetti nei settori delle infrastrutture stradali. Dalla Bulgaria, infine, è arrivato il condono del debito, pari a 57 milioni di dollari.

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PER GIORGIO LA COERENZA È TUTTO, MA VUOLE DIVENTARE CONSULENTE

Di Ettore Sutti
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

Giorgio ha quasi 50 anni e la faccia di uno che sa esattamente quello che vuole. Lui è fatto così. E non lo manda a dire. «Mai lavorato in vita mia — spiega -, non ho nemmeno una marchetta da lavoratore dipendente. Perché la coerenza è tutto. Il mio lavoro era la rapina: dentro e fuori le carceri, sperando sempre di fare il colpo che ti sistema. Però, alla fine, è la vita che ti sistema. E ti concia anche per le feste. Ora sono qui, alla mia età, che cerco di costruirmi un futuro».

La bocca di Giorgio si increspa in qualcosa che assomiglia vagamente a un sorriso. L’aria da duro gli è rimasta, anche perché dopo quattro anni passati in carcere a Milano — tre gli sono stati condonati grazie all’indulto — diventa difficile lasciarsi andare completamente. Il sorriso è quello di una persona che ci sta provando davvero, a rifarsi una vita normale, lasciandosi alle spalle l’ingombrante passato. «Una volta uscito — racconta — il vero problema era trovare un posto dove dormire. Dopo quattro anni passati dentro e senza una famiglia è difficile trovare qualcuno che ancora si ricorda di te». Dopo alcuni giorni presso amici, Giorgio si è rivolto a Spin (Sportello di orientamento e counselling, attivato dall’Ufficio di esecuzione penale esterno, in collaborazione con diverse associazioni del territorio), che lo ha indirizzato al progetto di accoglienza abitativa temporanea e di accompagnamento socio-educativo “Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi”, che vede protagonista anche Caritas Ambrosiana.

«In tempi normali - spiegano gli operatori di un “Un tetto per tutti” - impostiamo un approfondito screening delle persone indirizzateci, per capire se possiedono le caratteristiche per prendere parte a un progetto che, oltre alla condivisione degli spazi in alcuni appartamenti, prevede la presenza costante di un tutor a cui appoggiarsi, ma anche a cui rendere conto. In seguito all’emergenza post-indulto, abbiamo dovuto accelerare i tempi». Perché l’indulto ha sì svuotato le carceri, ma ha rischiato di lasciare sulla strada, abbandonate a se stesse, migliaia di persone. A Milano, per fortuna, la mobilitazione comune di enti locali e privato sociale ha consentito di potenziare o partorire progetti di accoglienza, che hanno funzionato da rete protettiva per molti “indultati”.

Una ripulita, una bella cravatta

Quanto a Giorgio, quando ha avuto accesso al progetto, non solo aveva già attivato tutti i canali di assistenza esistenti a Milano, ma addirittura era riuscito a trovarsi un lavoro tagliato su misura per lui. «Mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente - racconta - e non ho difficoltà a farmi nuove amicizie. Quando ho scoperto che cercavano venditori per servizi alla persona, lavoro che prevede il contatto umano, mi sono presentato subito. Una ripulita, una bella cravatta, tanta faccia tosta e il lavoro era mio. Nessuna sicurezza, provvigioni basse ma, almeno, avevo la possibilità di dimostrare che qualcosa valgo ancora».

Dopo qualche tempo però, Giorgio, d’accordo con il tutor di “Un tetto per tutti” e quello del Celav, centro per l’inserimento lavorativo del comune di Milano, ha deciso di lasciare l’incarico per lavorare su stesso. «Sono tornato a scuola — conclude Giorgio — per poter diventare davvero autonomo. Sto sgobbando parecchio per diventare un vero consulente. Ho fatto richiesta per una casa popolare, se non succederanno terremoti in graduatoria il prossimo anno potrei avere un “buco” tutto mio. E pensare che fino allo scorso settembre ero ancora chiuso in un cella...».

Muri Contro” foto dentro

“Muri Contro” è il titolo della mostra organizzata ad aprile dalla Sesta Opera San Fedele e dalla Fondazione culturale San Fedele di Milano. Nata attorno al corso di fotografia tenutosi a settembre-ottobre 2006 nel carcere milanese di San Vittore da Gigliola Foschi, storico e critico della fotografia, e da Andrea Dall’Asta, la mostra ha permesso a un piccolo gruppo di detenuti di riflettere su come i diversi conflitti che li abitano possano prendere corpo nella forma di un muro.

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Reportage dal paese centroamericano
BANCHE E TRAFFICI NEL PAESE DEL CANALE

di Claudia CaramantiMC Luglio Agosto 2007

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.

La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.

La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una moderna metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.

Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.

Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un gioiello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe: una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).

Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién: da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne, fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce, vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.

Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.

L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali, gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.

La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas: una società patriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.

Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli...

Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie, convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.

Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.

Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate) del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettoia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola. Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.

Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.

Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette, ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.

«I giovani non hanno più voglia di lavorare - ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcool». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i missionari battisti, arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».

Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.

Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.

Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 18 Gennaio 2008 18:56

Per non perdere la bussola - SERVE PROFEZIA

Per non perdere la bussola
SERVE PROFEZIA

di Alex Zanotelli
Dossier Nigrizia / ottobre 2007

Nel suo libro, Il sogno europeo, l’economista statunitense Jeremy Rifkin scrive: «L’Europa è diventata la nuova «città sulla collina»: il mondo sta guardando a questo nuovo esperimento di governo transnazionale, sperando che offra quell’indicazione così necessaria riguardo alla direzione che l’umanità globalizzata deve prendere. Il sogno europeo, con l’accento che pone sull’inclusività, la diversità, la qualità della vita, la sostenibilità, i diritti umani universali, i diritti della natura e la pace, è sempre più affascinante per una generazione ansiosa di essere connessa globalmente e, nello stesso tempo, radicata localmente. È mia convinzione che l’Europa si trovi ottimamente posizionata tra i due estremi dell’individualismo americano e dell’eccessivo collettivismo asiatico, per fare da battistrada verso la nuova era». Ma è questa l’Europa?

L’”esperimento Europa” è iniziato in chiave economica ed è rimasto tale. L’Ue è l’Europa dei mercati, dove pesano le lobby, cioè i gruppi d’interesse. Si calcola che a Bruxelles ci siano 2.600 lobby, con 15miIa dipendenti, che fanno sistematica pressione sulle istituzioni Ue. Secondo l’Osservatorio europeo delle imprese, il 70% di questi lobbisti rappresenta la grande industria.

Realizzato il mercato unico, il Trattato di Maastricht ha fornito le modalità e i criteri per la politica monetaria e la moneta unica, in applicazione del neoliberismo di Reagan e della Thatcher: innalzare i profitti, contenendo i salari; rendere il mercato del lavoro più flessibile per stimolare la produzione. Dunque, Maastricht struttura l’Europa dei mercati.

Con la caduta del muro di Berlino (‘89), sono entrati in gioco, del tutto imprevisti, i paesi dell’Est europeo. Una grande opportunità per l’industria Ue: acquisizioni di aziende sottocosto, delocalizzazione della produzione più tradizionale in aree a basso costo di manodopera e un nuovo mercato di oltre cento milioni di persone. Di qui, le pressioni sull’Ue perché agganci questi paesi.

E non va dimenticato che Washington ha spinto i paesi dell’Est a entrare nell’Ue, perché così potevano essere ammessi alla Nato. Per quella via, gli Usa speravano di rilanciare la propria industria bellica, modernizzando gli obsoleti arsenali del Patto di Varsavia. Questa politica ha reso l’Ue prigioniera della Nato, che da organizzazione di difesa è diventata di offesa. Dal 1999 (vertice di Washington) la Nato interviene ovunque gli interessi vitali occidentali siano minacciati; dal 2002 (vertice di Praga) sposa la guerra preventiva.

Traiamo alcune conclusioni: a) l’Europa è stata costruita con un approccio orientato a una scelta economica di natura ideologica; b) si basa sulla crescita del Pil come motore di sviluppo; c) si presenta con disuguaglianze sempre crescenti; d) non è in grado di ripudiare la guerra.

Si potrebbe dire con Jean-Paul Fitoussi, direttore del Rapporto annuale sullo stato dell’Ue, che «oggi in Europa abbiamo un governo delle regole ispirato ai principi del mercato di cui sono custodi la Banca centrale europea, il Patto di stabilità e la Direzione per la concorrenza; non abbiamo, invece, un governo delle scelte su cui possono pronunciarsi i cittadini».

COMPETERE E INTEGRARE

Questa tendenza diventa ancora più evidente con la Strategia di Lisbona e il Processo di Barcellona. Con il vertice di Lisbona (2000), la crescita della competitività e del dinamismo economico è l’obiettivo dell’Ue. Ciò scaturisce dalla necessità di recuperare il divario degli anni ‘90 tra la forte crescita dell’economia americana, più flessibile e competitiva, e la quasi stagnante economia europea.

Ma un sistema economico-politico che fa della stabilità uno dei propri punti di forza ha interesse a ritrovare la stessa stabilità alle frontiere. Di qui, la necessità di favorire lo sviluppo e la stabilità delle regioni limitrofe, che agiscono da vere e proprie zone cuscinetto alle frontiere dell’Ue. E il Processo di Barcellona, inaugurato nel 1995, coinvolgendo Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Palestinese, Libano, Siria, Turchia, Malta e Cipro. È la cosiddetta politica di prossimità. Gli obiettivi sono: la collaborazione in campo politico e in materia di sicurezza; un sostegno economico e finanziario dell’Ue che porti alla creazione progressiva di un’area di libero scambio; la cooperazione in campo culturale, sociale e umanitario.

Se esaminiamo le condizioni che i paesi mediterranei devono rispettare,per beneficiare degli aiuti comunitari, appare chiaro che viene chiesto loro di adottare integralmente il modello di funzionamento dell’Ue, con la rinuncia definitiva a una propria via allo sviluppo. Le conseguenze sono molto gravi: si sottovalutano le differenze culturali e si considerano quei popoli incapaci di esprimere una società altra da quella occidentale.

E ancora più dura sarà la nuova politica Ue verso l’Africa subsahariana, espressa fino a oggi da un rapporto di preferenza commerciale e di cooperazione (Convenzione di Cotonou, già di Lomé). Finora, sotto la copertura di “buonismo” internazionale, l’Ue ha fatto i suoi affari. Ma dal 2008 li farà ancora meglio con gli Accordi di partenariato economico regionale (Ape/Epa), che puntano al libero scambio commerciale. Gli stati africani non potranno più imporre dazi doganali sulle esportazioni europee in Africa: ciò determinerà una caduta delle entrate fiscali dal 10% al 60%, e le merci importate butteranno fuori mercato i prodotti locali.

Esempio. L’Africa non può competere con i prodotti agricoli europei sostenuti a suon di euro: 50 miliardi l’anno. Il settore agricolo costituisce il 70% dell’economia africana, è fonte privilegiata di entrate in valuta ma assisterà impotente all’invasione di prodotti agricoli sovvenzionati.

E LA DEMOCRAZIA?

Cosa pensare di questa Ue? Che prevale l’aspetto economico-finanziario su quello democratico. E il fallimento delle proposta di costituzione comune ne è la riprova. La Convenzione costituente, - un’assemblea di 105 membri, in rappresentanza dei parlamenti europeo e nazionali e della Commissione - ha terminato il suo lavoro nel 2004. Ha lavorato con il metodo, molto discutibile, del “consenso” e la società civile è stata tenuta del tutto fuori dal processo decisionale.

Intellettuali e osservatori politici hanno criticato questo modo di agire. Raniero la Valle: «Nell’Ue non vi è una comunità che si fa ordinamento, ma un regime economico che diventa ordinamento». L’Ue rischia di non rappresentare altro che l’opzione per un modello di sviluppo economico elevato a supernorma, che mette tra parentesi il principio di uguaglianza sostanziale e i diritti sociali sanciti nelle varie costituzioni degli stati europei.

Questo spiega in gran parte il rigetto, nel 2005, da parte di Francia, e Olanda della proposta di-Trattato costituzionale. È stato un “no” all’Europa dei mercati, che ; avrebbe smantellato lo stato sociale

Un altro aspetto grave — sancito dall’Accordo di Schengen del 1995 — è che le frontiere, abolite dentro l’Ue, sono state spostate al limitare della “fortezza Europa”. Dunque, un’Ue aperta al suo interno, ma impermeabile dall’esterno.

E l’Africa ne paga lo scotto. Al di là dei proclami, non c’è nessuna politica di prossimità o di buon vicinato. Anzi, buona parte dell’aiuto pubblico che prima andava all’Africa oggi va all’Est europeo. Intanto, le difficoltà economiche, i conflitti e i regimi oppressivi spingono numerosi africani a tentare l’approdo in Europa. Un flusso migratorio, spesso gestito dalle mafie, che lascia dietro di sé una scia di morte.

Oggi l’Ue è un gigante economico-finanziario, parte essenziale del grande sistema che regge il pianeta. Un sistema che permette a pochi (20% della popolazione mondiale) di controllare l’83% delle risorse a spese di molti diseredati: 854 milioni di affamati, 50 milioni di morti per fame ogni anno, 3 miliardi che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Per difendere i nostri privilegi spendiamo oltre 1.000 miliardi di dollari l’anno in armi, con uno sperpero di energie e di risorse che pesa sull’eco- sistema a tal punto da far dire agli scienziati che siamo sull’orlo del collasso del pianeta.

MISSIONE AL BIVIO

Tutto questo chiama in causa i cristiani: viviamo dentro strutture di peccato e di morte. Le Chiese riformate, riunite ad Accra (Ghana) nel 2004, hanno fotografato la situazione: «La globalizzazione economica neo-liberista è basata sulla competitività sfrenata, il consumismo, la proprietà privata priva di qualsiasi obbligo sociale, la speculazione finanziaria, la liberalizzazione e la deregolamentazione del mercato, la privatizzazione dei servizi pubblici e delle risorse nazionali. Con la promessa che ciò produrrà ricchezza per tutti. Avanza la falsa promessa di essere in grado di salvare il mondo per mezzo della creazione di ricchezza e prosperità, pretendendo di avere la signoria sulla vita ed esigendo una devozione totale, che equivale a idolatria».

Sono parole forti ma profondamente bibliche e cristiane. Come missionari comboniani, siamo sfidati a fare nostro questo giudizio, partendo dal cuore della tradizione biblica: “Il grande sogno di Dio”. Dobbiamo essere consapevoli che poteri economici, culturali, politici e militari costituiscono un sistema di dominio — “l’impero” — messo in campo da nazioni potenti per difendere i loro interessi. L’Ue è una delle colonne portanti di questo sistema di peccato.

Il dramma è che l’Europa non è cosciente di vivere in stato di peccato. È compito nostro di missionari proclamare come Giona ai niniviti: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta». Il Dio della vita, che si è rivelato in Cristo Gesù, non vuole vittime, non vuole crocefissi, non vuole morte. Per questo, l’attuale assetto del mondo — l’impero del denaro costruito su un’economia finanziarizzata e militarizzata — è per noi missionari un sistema di morte, un sistema di peccato. Ci tocca profondamente, perché è la negazione radicale del sogno di quel Dio/Abbà.

Questo Dio della vita, che noi missionari annunciamo, vuole che tutti i suoi figli vivano in pienezza. Al Sud (camminando con le vittime del sistema) come al Nord (con gli oppressori, i carnefici) abbiamo oggi un’unica missione globale: l’annuncio del Dio della vita, la denuncia di ogni sistema di morte e l’impegno concreto perché vinca la vita. Si tratta dello status confessionis, direbbe oggi Dietrich Bonhoeffer. Il quale ricordava alle chiese tedesche sotto il nazismo che non potevano proclamare la fede semplicemente recitando il Credo in chiesa, ma rivelando da che parte stavano: se dalla parte di Hitler o dalla parte delle vittime del nazismo.

Penso che oggi questo sia ancora più vero per noi. Noi cristiani dobbiamo proclamare il nostro status confessionis, dichiarando da che parte stiamo in questo sistema di morte. Se stiamo dalla parte del sistema, dobbiamo renderci conto che adoriamo l’idolo del denaro. Se invece vogliamo proclamare il Dio della vita, dobbiamo schierarci dalla parte delle vittime. È’ su questo che la missione oggi sopravvive o cade. È una missione globale che ci porta a contestare un sistema che uccide per fame, uccide per guerra; uccide il pianeta e ci uccide dentro. Per questo, la missione nel cuore del sistema, denunciandolo e contestandolo è missione tanto quanto l’annuncio della Buona Novella ai poveri del sud del mondo e a tutte le vittime del sistema. Su questo la missione oggi si gioca tutto. Io mi sento in missione. In Europa.

Rischio povertà

Secondo la Relazione congiunta sulla protezione sociale e l’inclusione sociale 2007, predisposta, all’inizio dell’anno, dalla Commissione europea, «il 16% degli europei è a rischio di povertà e il 10% vive in famiglie senza lavoro». In Europa c’è uno scarto di 3 anni tra la speranza di vita massima e quella minima per gli uomini, e le spese per l’assistenza sanitaria e le cure di lunga durata variano tra il 5 e l’11% del prodotto interno lordo.

Nell’Ue il 19% dei bambini è a rischio di povertà e la disoccupazione tra i giovani è un dato particolarmente inquietante: nel 2004 era del 18,7%, ossia il doppio del tasso medio di disoccupazione; inoltre, il 15% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni risultava aver lasciato la scuola prematuramente, circostanza che accresce il rischio di esclusione sociale.

Secondo i dati diffusi da Eurostat, il tasso di disoccupazione dell’area euro è rimasto stabile al 6,9% a giugno 2007, rispetto al mese precedente; a giugno 2006 era del 7,9%. Anche per l’Ue dei 27 il tasso di disoccupazione è del 6,9%, contro il 7% di maggio. A giugno 2007 i tassi più bassi sono stati registrati in Olanda (3,3%), in Danimarca (3,5%), a Cipro (3,9%) e in Irlanda (4,0%); i più elevati, in Slovacchia (10,7%) e in Polonia (10,2%). A giugno, erano 16,1 milioni gli uomini e le donne disoccupati nell’Ue allargata a 27, di cui 10,4 milioni nella zona dell’euro. Secondo un recente Eurobarometro, la paura di perdere il posto i lavoro e di cadere in povertà sono le preoccupazioni più sentite dai cittadini europei, e l’aumento dei flussi migratori a causa dell’apertura dei confini è vista come una minaccia, anziché come un’opportunità. Esistono forti disparità anche nel campo dell’assistenza sanitaria: la speranza di vita varia per gli uomini da 65,4 anni in Lituania a 78,4 anni in Svezia; per le donne, da 75,4 anni in Romania a 83,9 anni in Spagna.

Oltre a valutare i progressi realizzati dagli stati membri e a stabilire priorità per le azioni future, la Relazione congiunta individua esempi di buone pratiche e di approcci innovativi già adottati sul piano nazionale. Ad esempio, il Regno Unito — dove il problema della povertà infantile è relativamente preoccupante — applica tutta una serie di misure per cercare di porvi rimedio, mettendo l’accento sull’apprendimento precoce e l’assistenza all’infanzia. L’Austria ha adottato programmi per risolvere il problema dei senza casa, limitando gli sfratti, e la Polonia sostiene l’economia sociale come mezzo per promuovere l’inclusione attiva.

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Tuareg / Rivolte in Mali e in Niger
LA NAZIONE CHE NON C’È, C’È!

Angelo Turco
Nigrizia/Novembre 2007

I venti della ribellione spazzano il deserto. Temust n imajeghan, il paese dei tuareg, è di nuovo in fiamme. Parecchie cancellerie sono in allerta. E si capisce. La regione è sensibile e ogni faccenda che riguarda i nomadi, per la loro grande mobilità transfrontaliera, si trasforma in un problema internazionale. Le armi crepitano. In Mali la dissidenza è guidata da Ibrahim Ag Bahanga, cui si è aggiunto di recente il colonnello Hasan Fagaga: la rivolta va avanti da più di un anno, sia pure in fasi che alternano tregua e violenza.

In Niger i combattimenti sono iniziati in febbraio, sotto le bandiere del Movimento nigerino per la giustizia (Mnj), guidato da Agaly Alambo. Il profilo securitario degli eventi non sfugge a nessuno. E però, da Algeri a Tripoli, da Ouagadougou a Nouakchott, da Niamey a Bamako, da Washington a Parigi, da New York a Bruxelles e ad Addis Abeba, andando in giro per le diverse capitali che pure dovrebbero essere interessate, per un motivo o per l’altro, a quel che capita nel cuore del Sahara, si ha l’impressione, ancora una volta, che una “questione tuareg” non esista e non sia mai esistita.

Eppure, a fine agosto viene annunciata la saldatura dei movimenti insurrezionali, con la creazione di un’Alleanza tuareg Niger-Mali (Atnm), mentre il 19 settembre è addirittura promulgato, via internet, l’atto di fondazione della Repubblica Toumoujgha, «con la città storica di Agadez come capitale politica».

Intossicazione mediatica? Forse. Certo è che la gestione politica di questa crisi sembra del tutto inadeguata, a cominciare dal volo piatto dell’Unione africana, pur presieduta da un rispettabile uomo di stato maliano come Alpha Oumar Konaré. Del resto, il grande pubblico continua a filtrare i problemi degli imajeghan – così i tuareg chiamano sé stessi in tamajeq, la loro lingua – con la trama delle retoriche sugli “uomini velati”, gli “uomini blu”, avvolti nel mistero delle loro remote origini, mischiate ai ricordi di vecchi film sulla legione straniera impegnata in epiche gesta per la pacificazione del Sahara.

Eppure, i tuareg combattono da 130 anni per veder riconosciuta la propria dignità di popolo. Dapprima contro i colonizzatori francesi, a partire dalla famosa missione Flatters, schiacciata nel 1881 a In-Uwahen. Quindi, contro gli stati indipendenti, che ereditano dalla Francia il sistema delle frontiere coloniali e, con esso, il principio dell’inesistenza di una nazione tuareg. Secondo la ricostruzione del geografo Edmond Bernus, grande specialista del mondo tuareg, Temust n imajeghan si estende su sette stati sahelo-sahariani (Niger, Mali, Burkina, Algeria, Libia, Mauritania, Nigeria), senza contare le diaspore (Ciad, Sudan). Tuttavia, gli imajeghan vivono per metà in Niger e per un altro terzo almeno in Mali.

Il sogno dell’unità politica tramonta nel 1919, con l’annientamento delle armate di Kaosen. Nel 1957 fallisce il tentativo di dar corpo all’Organizzazione comune delle regioni sahariane (Ocrs), del tutto strumentale agli interessi petroliferi della Francia. Di fatto, nell’ultimo mezzo secolo i tuareg hanno continuato a battersi per preservare la loro cultura e il loro patrimonio identitario. Da tempo, in Niger e in Mali soprattutto, gli antichi irredentisti chiedono solo il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza, alla pari con gli altri popoli che vivono in quegli stati.

Da tempo dismessi gli abiti della secessione, i tuareg si ostinano a domandare l’autonomia amministrativa per le loro terre ancestrali nell’ambito degli ordinamenti statali. In risposta, una sconcertante sequenza di spedizioni militari, repressioni, promesse non mantenute, intese sancite internazionalmente ma non rispettate. Ultimo, l’accordo di Algeri dello scorso anno, firmato dal governo maliano e dalla ribellione, ma poi quasi ignorato da Bamako.

Gheddafi in campo

Intanto, sulla trama della dissidenza tuareg sono andati aggrumandosi altri e preoccupanti motivi di tensione. Nella fascia sahelo-sahariana un attivo banditismo transfrontaliero alimenta traffici d’ogni tipo: armi, esseri umani, droga. La penetrazione jihadista, particolarmente del gruppo Al-Qaida per il Maghreb islamico, viene segnalata da più parti. E non è un caso, forse, se proprio in queste settimane si registra una ripresa degli attentati nel nord algerino. Val la pena tuttavia sottolineare che i rapporti della ribellione tuareg con le bande del terrore – qaidisti o salafisti – sono costellati di frizioni e scontri aperti. Insomma, per niente tranquilli.

Tutto ciò allarma l’Algeria, sollecita nell’aiuto logistico alle truppe regolari maliane impegnate nella repressione anti-tuareg. Ma allarma ancor più gli americani, che hanno individuato in questa zona uno dei fronti caldi della lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente il Mali nelle operazioni miranti a dare sicurezza al nord; la stessa ambasciata americana a Bamako ha ammesso che un aereo militare, fatto bersaglio dai tiri della ribellione, è tornato integro alla base.

Dopo il Corno d’Africa, questa è la regione dove militarmente gli Usa sono più impegnati nel continente. Le esercitazioni antiterroristiche si susseguono, nel quadro di programmi pluriennali che coinvolgono una decina di paesi. Questa, del resto, è una delle aree in cui il Pentagono medita di installare il comando militare unificato per l’Africa (Africom), ma deve fare i conti con l’opposizione sia dell’Algeria che della Libia.

Per quanto ambiguo come al solito, Gheddafi ha un ruolo importante nella partita che si sta giocando. Molti credono che sia lui a soffiare sul fuoco della dissidenza tamajeq, infiammando le passioni irredentiste, con il miraggio del “Grande Sahara”, uno spazio politico per i popoli del deserto. Gli osservatori notano che il braccio armato della dissidenza è passato attraverso i campi di addestramento libici, formandosi nei ranghi della “Legione verde”, il corpo d’élite costituito alla fine degli anni ’80 e impiegato di preferenza nelle operazioni all’estero.

Sollecitato dal presidente nigerino, Mamadou Tandja, a fare da mediatore nel conflitto, il colonnello avrebbe posto come precondizione il riconoscimento dell’Mnj. La “Guida” non ama che lo si menzioni a proposito della dissidenza tuareg. A questo riguardo, ha inaugurato una strategia destinata probabilmente a fare scuola. Denuncia, infatti, per calunnia i giornali che fanno cenno alla sua posizione e alle sue presunte responsabilità. Nell’impossibilità di esibire prove giuridicamente valide in tribunale, gli organi di stampa rischiano condanne pecuniarie elevate, al punto da metterne in forse la sopravvivenza.

Porte chiuse a Niamey

A complicare enormemente il quadro c’è l’uranio, in cima alle esportazioni del Niger, che è il terzo produttore mondiale e di gran lunga il primo dei paesi africani. La Francia si trova da sempre in posizione di monopolio nello sfruttamento del minerale nigerino, iniziato nel 1971 sul sito di Arlit, nell’estremo nord.

Da molti mesi, Tandja è impegnato nella rinegoziazione del prezzo dell’uranio con l’Areva, gigante francese dell’industria nucleare. Il 1° agosto, un risultato importante: l’aumento di quasi il 50% del prezzo, passato a 40.000 franchi cfa al kg, con effetto retroattivo al 1° gennaio 2007. Risorse aggiuntive preziose per uno dei paesi più poveri del mondo. Il fatto è che l’uranio è un minerale strategico per la Francia, e ogni negoziato si pone nel quadro degli accordi di cooperazione militare franco-nigerini. In più, a fine anno i permessi di sfruttamento decadono e sarà necessario un riassetto complessivo del dossier minerario.

È in questa prospettiva che entrano in scena altre multinazionali del settore: canadesi, australiane e soprattutto cinesi. Attraverso la China Nuclear Engineering and Construction Corporation (Cnec), il dragone asiatico avrebbe incamerato una decina di permessi di prospezione, qualcosa come la metà di quelli complessivamente in gioco. In questo quadro s’iscrive l’attacco dell’Mnj in aprile al sito di Imuraren, uno dei più ricchi dell’Areva. E se, da una parte, Nicolas Sarkozy moltiplica le dichiarazioni di simpatia e di amicizia nei confronti del Niger, dall’altra non sono pochi nella capitale Niamey coloro che pensano che l’Areva abbia qualcosa a che fare con la ribellione, al fine di dissuadere i concorrenti cinesi.

Il fardello sociale di questo ginepraio si fa sentire nei due principali paesi interessati. Un sentimento di malessere si diffonde in Mali, dove i combattenti tuareg sempre più vengono accostati ai terroristi, per i loro metodi di violenza indiscriminata a causa della disseminazione nella zona di mine antiuomo. Tanto più apprezzabile, quindi, è l’apertura del governo. Grazie agli sforzi del presidente Amadou Toumani Touré, l’Algeria ha offerto le risorse finanziarie per rimettere in moto il processo di attuazione degli accordi di Algeri.

L’atteggiamento nigerino, viceversa, è di chiusura. Amnesty International, con le associazioni umanitarie nigerine, denuncia l’emanazione dello “stato di attenzione”, che sospende i diritti fondamentali ed è all’origine degli arresti e torture della popolazione civile. L’intimidazione della stampa è all’ordine del giorno.

Moussa Kaka, direttore della radio privata Saraouniya e corrispondente di Rfi e di Rsf, viene arrestato a Niamey il 20 settembre, con l’accusa di «attentato all’autorità dello stato». È tuttora in prigione.

Per quanto tempo ancora il presidente Tandja potrà ignorare le aspirazioni degli imajeghan e considerare la dissidenza tuareg come un’orda di banditi?

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Mercoledì, 26 Dicembre 2007 13:15

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

di Christian Salmon*

“Le Monde diplomatique” – dicembre 2007

(abstract)

In un articolo del “New York Times” pubblicato alcuni giorni prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, editorialista del “Wall Street Journal” dal 1993 al 2000 e in seguito autore di numerose inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò i contenuti di una conversazione da lui avuta nell’estate 2002 con un consigliere di George W. Bush: “Mi ha detto che la gente come me fa parte di quella tipologia di persone ‘che appartengono a ciò che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà’ (“the reality-based community”): questo tipo di persone pensa che le soluzioni emergano dalla loro giudiziosa analisi della realtà osservabile”. Ho fatto cenno di sì, mormorando qualcosa sui principi dell’illuminismo e dell’empirismo. Mi ha bloccato: “Non è più così che funziona realmente il mondo. Oggi noi siamo un impero” – ha proseguito – “e creiamo la nostra propria realtà nel momento in cui agiamo. E mentre voi studiate questa realtà, nel modo ragionevole che ritenete auspicabile, noi ci muoviamo di nuovo, creando altre nuove realtà che voi studierete nella stessa maniera, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia (...). E a voi, a voi tutti, non resta che studiare quello che facciamo”.

Definito “scoop intellettuale” dal “New York Time”, l’articolo di Suskind fece sensazione. Editorialisti e blogghisti s’impadronirono dell’espressione “the reality-based community”, che si diffuse sul Web al punto che il motore di ricerca Google contabilizzava, a luglio 2007, quasi un milione di contatti. Wikipedia le ha dedicato un’intera pagina (...).

Quelle considerazioni a proposito della “comunità basata sulla realtà”, dovute senza dubbio a Karl Rove alcuni mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologico: sembrano tratte più da uno spettacolo teatrale che da un ufficio della Casa Bianca. Non si limitano a riproporre gli antichi dilemmi che agitano da sempre le cancellerie, in cui si scontrano idealisti e pragmatici, moralisti e realisti, pacifisti e bellicisti o, nello specifico del 2002, difensori del diritto internazionale e sostenitori del ricorso alla forza. Propongono invece una nuova concezione dei rapporti tra politica e realtà. I dirigenti della più forte potenza mondiale si sottraggono non solo alla realpolitik, ma anche al semplice realismo, per diventare artefici della propria realtà, maestri di apparenze, rivendicando quel che si potrebbe chiamare una realpolitik della finzione.

L’invasione americana dell’Iraq, nel marzo 2003, ha fornito una spettacolare dimostrazione della volontà della Casa Bianca di “creare la propria realtà”. In quell’occasione, i servizi del Pentagono, non volendo ripetere gli errori commessi durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, sono stati particolarmente attenti alla strategia di comunicazione. Oltre ai 500 giornalisti “embedded” di cui si è tanto parlato, hanno posto una speciale attenzione nell’organizzazione della sala stampa del quartier generale delle forze americane in Qatar: un hangar per stoccaggio convertito – per la modica cifra di 1 milione di dollari – in studio televisivo ultramoderno, con podio, schermi al plasma e tutto il materiale elettronico capace di produrre in tempo reale video di combattimenti, carte geografiche, animazioni e diagrammi...

L’apparato scenico da cui il portavoce dell’US Army, il generale Tommy Franks, si rivolgeva ai giornalisti è costato da solo 200.000 dollari ed è stato realizzato da un designer che aveva lavorato per la Disney, la Metro Goldwyn Mayer e la trasmissione televisiva “Good morning America”. Dal 2001 era stato incaricato dalla Casa Bianca di creare il fondale per i discorsi del presidente; una scelta che non stupisce quando si conoscano i legami tra Pentagono e Hollywood. Più sorprendente, invece, la decisione del Pentagono di reclutare per questi lavori di scenografia David Blaine, un mago molto noto negli USA per il suo show televisivo e i giochi di prestigio in cui si affranca dalle leggi fisiche levitando o restando chiuso per giorni, senza cibo, in una gabbia. In un libro pubblicato nel 2002, colui che si definisce il “Michael Jordan della magia” rivendica l’eredità di Jean-Eugène Robert-Houdin, il leggendario mago francese che nel XIX secolo accettò di recarsi in Algeria per aiutare il governo a sedare una sommossa dando dimostrazione del fatto che le sue arti magiche erano superiori a quelle dei ribelli. Non sappiamo se è questo che il Pentagono si aspettasse da Blaine, ma il fatto che sia stato reclutato e inviato in Qatar suggerisce che i suoi talenti d’illusionista siano stati usati per qualche trucco o effetto speciale...

Scott Sforza, un ex produttore di Abc che lavorava per la propaganda repubblicana, ha creato molti degli sfondi sui quali Bush ha fatto le più importanti dichiarazioni dei suoi due mandati. È a lui che si deve la scenografia del 1° maggio 2003, in cui il presidente, sulla portaerei Abraham Lincoln, davanti a uno striscione con su scritto “Mission accomplished” dichiarava: “Le grandi operazioni di guerra in Iraq sono terminate. Nella battaglia in Iraq, gli USA e i loro alleati hanno vinto”.

Ma la messa in scena non finiva lì. Il presidente era atterrato sulla portaerei a bordo di un aereo da caccia ribattezzato per l’occasione Navy One e sul quale era scritto “George Bush, commander in chief”. Lo si vide uscire dal cockpit, vestito da aviatore, col casco in mano, come se tornasse da una missione, in un grandioso remake di “Top Gun”, il film prodotto da Jerry Bruckheimer, un habitué delle operazioni congiunte Hollywood-Pentagono, autore di “Profiles from the front line”, una trasmissione di tele-realtà sulla guerra in Afghanistan. Il commentatore di Fox News aveva visto giusto nell’esclamare, in segno di ammirazione: “È stato fantastico, come a teatro”. David Broder del “Washington Post” fu affascinato dalla “postura fisica” del presidente. Sforza aveva dovuto inquadrare la scena con grande attenzione, per evitare che all’orizzonte si vedesse la città di San Diego, distante una sessantina di chilometri: la portaerei, in realtà, avrebbe dovuto navigare in mare aperto, nella zona dei combattimenti.

Ma l’inquadratura di un discorso presidenziale non è mai stata così suggestiva come il 15 agosto 2002, quando il presidente degli USA si pronunciò solennemente sulla sicurezza nazionale davanti alla celebre falesia del monte Rushmore, dove sono scolpiti i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosvelt e Abraham Lincoln. Durante il discorso, le telecamere furono posizionate in modo da filmare Bush di profilo, con il volto che si sovrapponeva a quello dei suoi illustri predecessori...

(...) Secondo Ira Chernus, professore all’università del Colorado, Rove ha praticato, durante i due mandati di Bush, una “strategia alla Sherazade”: “Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie, storie così favolose, così accattivanti, così avvincenti che il re (o in questo caso i cittadini americani, che in teoria governano il nostro paese) dimenticherà la condanna capitale. (Rove) gioca con il senso di insicurezza degli americani, i quali hanno l’impressione che la vita gli sfugga”. La cosa gli è riuscita particolarmente bene nel 2004, al momento della rielezione di Bush, quando ha sviato l’attenzione degli elettori dal bilancio della guerra, chiamando a raccolta i grandi miti collettivi dell’immaginario americano: “Karl Rove” – spiega Chernus – “ha scommesso che gli elettori sarebbero rimasti ipnotizzati da storie stile John Wayne, con ‘uomini veri’ che combattono il diavolo alla frontiera, così da evitare la sentenza di morte che gli elettori medesimi possono pronunciare contro un partito che ci ha condotto al disastro in Iraq. Rove continua a inventare storie di buoni e cattivi a uso dei candidati repubblicani. Punta a trasformare ogni elezione in teatro morale, in un conflitto che oppone il rigore dei repubblicani alla confusione dei democratici. (...) La strategia alla Sherazade è una grande truffa, costruita sull’illusione che semplici storie moralizzanti ci possano trasmettere un senso di sicurezza, indipendentemente da quanto succede nel mondo. Rove vuole che ogni voto a favore dei repubblicani sia una presa di posizione simbolica”. Costretto alle dimissioni dai membri democratici del Congresso nell’agosto 2007, Rove ha annunciato la sua decisione con questa confessione, che equivale a una firma apposta in calce a tutta la sua opera: “Io sono Moby Dick, e loro mi inseguono!”.

*Scrittore, membro del “Centre de recherches sur les arts et le langage”. Ha appena pubblicato “Storytelling, la machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits”, La Découverte, Parigi, 2007.

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Venerdì, 16 Novembre 2007 19:44

L’ODISSEA DI ABRAHAM

L’ODISSEA DI ABRAHAM

di Gabriele Del Grande
da Mondo e Missione / Ottobre 2007

«Avevo il numero di telefono di un poliziotto a Tripoli; è lui che mi ha messo in contatto con il commissariato di Zuwarah. Quando ho chiamato, mi hanno fatto parlare un paio di minuti con mia moglie, ma non siamo riusciti a dirci niente, non faceva altro che piangere. Almeno però sapevo che erano vivi. Poi il silenzio per quattro mesi. Ogni giorno controllavo la mail, ma non c’era nessuna novità. Avevo paura che li avessero deportati nel deserto o che li avessero ammazzati. La Libia è un inferno».

Si chiama Abraham, ha 27 anni; è fuggito dall’Eritrea, nel 2000. Lo incontro a Tor Vergata, periferia est di Roma. A due passi dal grande raccordo anulare, la vecchia sede dell’Università Roma 2 specchia sui vetri neri delle finestre la luce del sole di un pomeriggio d’estate. Il palazzo è occupato da un paio d’anni da circa 300 giovani, in maggioranza eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Abraham mi aspetta al terzo piano. Tre settimane fa la moglie Anna è arrivata in Sicilia con il piccolo Daniel. Il viaggio è durato sei anni, eppure alle porte di Roma, senza documenti e lavoro, la terra promessa sembra ancora lontana.

Insieme con un’intera generazione, Abraham è fuggito dalla coscrizione militare obbligatoria imposta dal presidente Isaias Afwerki. Per l’indipendenza dall’Etiopia le truppe eritree hanno combattuto trent’anni, dal 1961 al 1991, e il conflitto è riesploso tra il 1998 e il 2000 per l’assegnazione dei confini. Tuttavia, ancora oggi, la pace è lontana. Compiuta la maggiore età, uomini e donne sono chiamati a impugnare le armi per sorvegliare la frontiera militarizzata con il gigante vicino, l’Etiopia. Quattro milioni di eritrei contro 75 milioni di etiopi, ovvero un popolo contro un esercito. A togliere l’uniforme prima dei 40 anni sono autorizzate solo le donne incinte, i malati e gli studenti universitari. Per tutti gli altri il mandato è a tempo indeterminato. Ad Asmara non rimangono che vecchi e bambini. Intanto al fronte un numero crescente di ventenni rifiuta di gettare via gli anni migliori abbracciati a un fucile. Sfidano l’accusa di alto tradimento e lasciano il Paese, sognando l’Europa. Nel 2006 in Sicilia ne sono arrivati 2.859, tra cui 308 donne e 116 bambini; nel 2005 erano stati 1.974. Abraham è uno di loro.

La sua prima tappa è stata Khartoum, in Sudan, dove uno zio era emigrato molti anni prima. Lì è sbocciato l’amore con Anna, anche lei eritrea ma nata e cresciuta in Sudan, e dopo un paio d’anni è arrivato Daniel. Un bambino prodigio, visto che a soli 15 giorni di vita ha attraversato i mille chilometri di deserto del Sahara, avvolto in un turbante nero per proteggerlo dal sole e dalla sabbia, stretto tra le braccia di mamma e papà. Sul fuoristrada pick-up erano in 32. La macchina girava di giorno, tra le dune e le buche, sotto l’arsura del sole. Ogni sera i motori si spegnevano, per un po’ di riposo, stretti gli uni sugli altri, per cercare un minimo di tepore nelle gelide notti del Sahara, ma soprattutto per non mostrare la luce dei fari ai posti militari della frontiera. Alla fine, dopo un numero imprecisato di giorni, l’alba ha mostrato lontana, bagnata da un miraggio, la città di Kufrah, il primo avamposto libico sul lungo cammino verso il Mediterraneo.

L’impresa non ha fatto entrare Daniel nel guinness dei primati, ma in Europa sì. Prima, però, ha dovuto sfidare due volte le acque del canale di Sicilia.

Luglio 2005, il primo viaggio. Sessantaquattro persone su un vecchio legno, che imbarca acqua dalle fessure tra le tavole dello scafo. I crampi alle gambe, la nausea e il rumore assordante del motore tengono svegli nel buio. Ognuno con delle bottiglie di plastica tagliate raccoglie l’acqua tra i piedi, sul fondo, per poi gettarla in mare. Sperare.

All’alba il motore va in panne. Silenzio tra le onde. Mentre qualcuno svita a casaccio con una maledetta pinza di ferro, arrivano i soccorsi degli operai di una piattaforma petrolifera nella zona. L’equipaggio prende a bordo solo donne e bambini, per poi lasciare alla deriva gli altri passeggeri, intercettati due giorni dopo da un elicottero italiano.

Abraham è salvo. Al centro di accoglienza di Lampedusa, il primo pensiero va alla moglie e al piccolino. Disperato, cerca di denunciarne la scomparsa. Inutile: non viene ascoltato. «Noi non possiamo fare niente».

Nelle stesse ore, dall’altro lato del Canale, Anna viene rimpatriata in Libia e arrestata. Il suo telefono rimane spento per quattro mesi.

«Mi ero trasferito a Milano, lavoravo alla fiera di Rho. In città era appena arrivata Suzi, una delle donne che era con noi sulla barca a luglio. Fu lei a raccontarmi cos’era accaduto a mia moglie».

Un camion parcheggia davanti al commissariato di Zuwarah. Una decina di donne con i rispettivi bambini, di pochi anni o neonati, sono fatte salire, insieme ad altre 60 persone, dentro un container di ferro caricato sull’autorimorchio. I motori sono già accesi. Le porte si chiudono sul carico umano. Fa buio. Si parte: direzione Kufrah, 1.500 chilometri più a sud, al confine col Sudan.

Presto sotto il sole di luglio il container diventa un forno, l’aria si fa pesante, non si vede a un palmo dal naso. I bambini piangono. Il viaggio dura due giorni. A bordo non c’è niente da bere né da mangiare. Presto l’odore diventa insopportabile: vomito, feci, urine, gasolio e sudore. La morsa del sole non si allenta, la gente boccheggia. La gola brucia dalla sete, chi ha una bottiglietta raccoglie le urine per berle. Finché, finalmente, stremati dal viaggio, i portelloni si aprono sulla notte di un paesaggio desertico, di fronte al carcere dell’ultima città libica prima della frontiera con il Sudan, Kufrah.

I deportati attraversano i cancelli, derisi dai militari. Molti conoscono già le grate di ferro di Kufrah. Ricordi di lividi, fame e ferite. Vengono perquisiti. Soldi, telefonini e braccialetti se li prendono gli agenti. Le celle si chiudono. Tre mesi dopo, alle luci dell’alba, senza nessun preavviso, un camion verde militare carica una sessantina di persone a bordo. Sono state condannate all’espulsione in Sudan. Tra loro ci sono anche Anna e il piccolo Daniel, sei mesi.

Il camion si avvia tra le buche di una pista di terra tra le dune del deserto. Li aspetta un viaggio lunghissimo, ma i motori si fermano circa un paio d’ore dopo. L’autista fa scendere tutti. Il sole del mattino già inizia a bruciare, e un orizzonte di sabbia e miraggi blocca sul nascere qualsiasi idea di fuga. Le opzioni sono due, spiegano in arabo i militari a un ragazzo che fa da interprete: «Duecento dollari a testa e vi riportiamo in città. Oppure proseguiamo».

La polizia sa di giocarsi un carico d’oro. Nel giro di un’ora di trattative si trova l’accordo. Molti sono riusciti a nascondere i soldi al momento dell’arresto, cuciti addosso nell’orlo dei pantaloni o dentro le scarpe. Chi ha più dollari paga la quota per le donne e i bambini rimasti senza un centesimo. Raggiunta la periferia di Kufrah, gli stessi militari li mettono in contatto con dei passeur amici. Chi ha altri soldi parte subito sui fuoristrada diretti a Benghasi, al nord. Anna e il piccolo sono salvi.

Appena Abraham ha notizie della moglie, le versa con un Western Union i due ultimi stipendi per pagare l’affitto a Tripoli e comprare un altro viaggio in barca. «Certo che avevo paura per il bambino. Ma era l’unica soluzione. In Libia, ogni giorno rischiava d’essere arrestata e mandata di nuovo a morire nel deserto. Tornare in aereo era impossibile: se si fosse presentata all’ambasciata eritrea, l’avrebbero arrestata immediatamente. Se dovevano morire, meglio che morissero in mare, piuttosto che in mezzo al deserto o in un carcere».

Tre mesi dopo, luglio 2006, la moglie e il bambino sbarcano a Lampedusa. Abraham li aspetta da un anno.

Niente di speciale. La loro è una storia come tante; basterebbe chiedere a uno dei 19.099 uomini, delle 1.037 donne o dei 1.264 bambini sbarcati in Sicilia nel 2006. Ognuno di loro ricorda un inferno. La traversata negli ultimi dieci anni è costata la vita ad almeno 2.216 persone. Ma tutto questo il piccolo Daniel non lo sa. Nella sua affollata cameretta con vista sull’autostrada romana gioca a far scontrare due macchinette colorate, mentre Anna mi offre un tè in un bicchiere di plastica. Qui non c’è il deserto, né le sbarre di una galera, divise che strillano e voci che piangono in camerate di gente ammucchiata, e non ci sono nemmeno le onde del mare la notte o il rumore assordante del motore per ore e ore. A due anni Daniel è già un piccolo ometto, e presto saprà abituarsi anche alla normalità.

Il 27 agosto 2004 un aereo venne dirottato dai deportati eritrei a Khartoum, in Sudan. Lì, 60 dei 75 passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. In patria avrebbero fatto la fine dei 223 deportati da Malta tra settembre e ottobre del 2002. Tornati in Eritrea, furono detenuti e torturati. Lo hanno testimoniato ad Amnesty International i pochi riusciti a evadere, che oggi sono rifugiati politici nel Nord America e nei Paesi scandinavi. Trattenuti prima nella prigione di Adi Abeito e poi, in seguito a un tentativo di fuga, nel carcere di massima sicurezza di Dahlak Kebir, molti di loro sono stati uccisi.

Anche questo spinge a buttarsi nel Mediterraneo, costi quel che costi. «Una volta in Libia non puoi più tornare indietro - dice Abraham, mentre rimette nel portafogli il permesso di soggiorno per motivi umanitari -. Restare a Tripoli è un inferno, ma la via del ritorno passa di nuovo da Kufrah e dal deserto. Se proprio devi morire, meglio continuare il viaggio».





Una generazione dispersa tra deserto e mare


Quella di Abraham è l’odissea comune a migliaia e migliaia di persone. Arrivano ogni estate, da anni, su vecchie barche e gommoni affidati alle correnti del mare. Occupano lo spazio di una breve notizia sulle pagine di cronaca dei quotidiani, e poi spariscono. Sono i clandestini, figli di una generazione tagliata fuori dal diritto alla mobilità oppure in fuga da guerre e persecuzioni, attraverso viaggi che sono vere e proprie odissee. Il mare è soltanto l’ultimo degli ostacoli. Prima c’è da attraversare il deserto. Le piste transahariane sono disseminate degli scheletri dei clandestini.

Il Sahara è un passaggio obbligato. E più pericoloso del mare. Il grande deserto separa l’Africa occidentale e il Corno d’Africa dai Paesi del Mediterraneo, da dove è facile imbarcarsi clandestinamente per l’Italia e la Spagna. Si attraversa su camion e fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato, Libia e Algeria dall’altro.

Una ricerca firmata Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com), basata sulle notizie documentate dalla stampa internazionale, parla di almeno 1.069 morti sotto il sole del deserto del Sahara dal ’96 al 2006. E chi scampa alle settimane di viaggio tra le dune deve solo sperare di non essere arrestato a Tripoli dalla polizia del colonnello Muammar al-Qaddafi, ultimo gendarme del cortile europeo, alle soglie di un mare, il Mediterraneo, che ormai è diventato una fossa comune.

Nella più totale indifferenza internazionale, dal 1988 ad oggi, dice Fortress Europe, almeno 9.229 persone hanno perso la vita sulle rotte dell’immigrazione clandestina.

Soltanto il canale di Sicilia ha inghiottito almeno 2.216 persone.
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