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Venerdì, 29 Giugno 2007 19:34

I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ

I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ

di Attilio Giordano
L’Ancora aprile 2007

Il rapimento e la liberazione del collega Daniele Mastrogiacomo è stato l’ultimo episodio che invita a riflettere su queste nuove guerre al terrorismo, ma pure sullo spaesamento dei giornalisti, sempre più stretti tra il dovere di raccontare quello che accade e il nuovo ruolo di merce di scambio.

Comprensibilmente, in seguito all’ennesimo rapimento - che in tutti noi evoca orrore e terrori - si riapre una questione apparentemente estranea: è giusto stare in Afghanistan con i nostri soldati? È giusto stare nelle altre venti e più missioni militari nel mondo? Nel confuso e ideologico dibattito in corso si dimenticano un paio di cose che chi ha visto l’Afghanistan dal vero sa benissimo.

La prima: l’Italia è a Kabul e a Herat con una missione che le Nazioni Unite hanno affidato alla Nato. L’Italia può uscirne solo teoricamente. O meglio: può uscirne praticamente, ma mettendo a repentaglio non i suoi rapporti con l’America, ma con le Nazioni Unite. Secondo: anche ammettendo - ed io lo credo - che i bombardamenti americani in Afghanistan siano stati dettati da ragioni diverse da quelle dichiarate, non si può scordare che a Kabul, fino al novembre 2001, c’era un regime molto vicino al terrorismo che fece crollare il World Trade Center e colpì altri obiettivi negli Stati Uniti.

Se Saddam Hussein non c’entrava affatto, ed è pacifico, non lo stesso si può dire dei Taliban che ospitavano Bin Laden. E comunque: se oggi le forze dell’Onu abbandonassero l’Afghanistan non verrebbero meno a un’arrogante invasione.

Semplicemente, lascerebbero quel Paese in mano a bande criminali e selvagge che ne farebbero un campo di battaglia.

La posizione bellicosa americana - e di parte della politica italiana - è assurda quanto quella strenuamente pacifista che ci vorrebbe fuori dalle regole dell’Onu e cinici rispetto alla sorte dei poveri afgani.

L’aspetto più fastidioso - magari mentre un collega rischia la vita - è proprio questo dell’approccio di parte della nostra politica: così indifferente e faziosa, così ignorante della realtà, aggrappata a strumenti ideologici vecchi e irritanti. Si può discutere di queste cose avendo mente solo a un governo da mettere in difficoltà o a elettori da accontentare nei loro sentimenti più irrazionali?

In Afghanistan la libertà non è l’addio degli occidentali. Perché prima, durante decenni di storia, lasciati liberi, gli afgani, quelli tra loro che hanno armi e fanatismo da vendere, gestivano una Società enormemente ingiusta, priva di pietà, dove si uccidevano le donne con poco più rispetto di quanto non se ne usasse per gli animali, dove l’istruzione equivaleva al peccato, dove i poveri erano miseri e i contadini miserrimi schiavi dei signori della guerra e del loro oppio. Non c’era molto di buono in quella società guastata già dai tempi dell’invasione sovietica, quando gli americani finanziavano i “gloriosi taliban” contro il nemico comunista.

In questo pantano, in un certo senso, l’errore americano (e tanti morti che ha determinato) è stato entrare in un meccanismo senza uscita: si possono - adesso - lasciare le cose come le si è trovate? Si può abbandonare tutto all’ingiustizia dopo aver sprecato fiumi di parole sulla democrazia importata? Il Grande Gioco dei grandi strateghi è andato a picchiare in qualcosa di ostile e sconosciuto, in nessun modo gestibile. Una trappola. Dentro, c’è finito anche un giornalista onesto che ha fatto il suo lavoro a dispetto di tante difficoltà, con il rischio della vita, ma pure di diventare un’arma impropria.

E due disgraziati afgani, con i quali ho passato un mese anch’io, interprete e autista, che avevo ereditato proprio da Daniele Mastrogiacomo.

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RD CONGOIL’ANALISI DI PADRE MARTIN EKWA - TRE LEVE PER LO SVILUPPO

François Misser da Kinshasa
Nigrizia/Maggio 2007

Padre Martin Ekwa, vicino all’arcivescovo di Kisangani, mons. Laurent Monsengwo, è un gesuita che ha dedicato gran parte della sua lunga vita alla formazione spirituale e professionale della classe dirigente congolese. E lo ha fatto sempre con un ruolo di primo piano: responsabile dell’insegnamento cattolico dal 1960; dal 1984 alla testa del Centro cristiano d’azione per i dirigenti e i quadri d’impresa nella Repubblica democratica del Congo (Cadicec). Uomini politici, imprenditori, diplomatici e religiosi considerano questo ottuagenario, ancora in gamba, come un saggio e un osservatore accorto, benevolo ma anche esigente nei confronti della storia del paese e del suo sviluppo.

Sorprendentemente, relativizza la parola “crisi”. «Invece di parlare di crisi, mi chiedo se non si debba parlare di evoluzione, di tentativi infruttuosi», esordisce padre Ekwa, sottolineando che all’indipendenza (30 giugno 1960) c’erano ben pochi quadri dirigenti congolesi. Non c’era un solo medico o un avvocato. Lo stesso primo ministro del primo governo congolese, Patrice Lumumba, aveva fatto solo due anni di scuola secondaria superiore. E questo stato di cose non ha facilitato il rapporto con i belgi nella fase post-coloniale. Dopo l’assassinio di Lumumba, Mobutu Sese Seko, prima capo di stato maggiore dell’esercito e poi presidente, ha monopolizzato il potere per un trentennio. Mobutu ha potuto beneficiare di una grande indulgenza, sia all’interno che all’esterno del paese, essendo considerato, in piena guerra fredda, un bastione contro l’espansione del comunismo in Africa. «Io stesso ero d’accordo con questa impostazione», riconosce il gesuita.

Detto ciò, dall’indipendenza il paese ha vissuto un declino continuo. Sono stati formati dirigenti ma non imprenditori. Del resto, mancava l’idea stessa di impresa: padre Ekwa ricorda che il primo direttore della fabbrica di birra Bralima è stato un fattorino.

Nel 1972 arrivò la “zairizzazione”, voluta da Mobutu. Una scelta che comportò anche la nazionalizzazione delle imprese straniere e le cui conseguenze si fanno sentire anche oggi. Analizza Ekwa: «Non siamo stati saggi. Abbiamo detto ai belgi: “Andatevene. Siamo in grado di fare tutto da soli”. Non era così... Sono state messe a condurre le imprese persone con una formazione universitaria, ma prive del sostegno di qualcuno con un’esperienza consolidata. Il sistema politico era dittatoriale e anarchico, nel senso che nessuno comandava. Quello che contava non era la competenza, ma essere in buoni rapporti con i capi politici o appartenere alla loro etnia. Così il sistema si è avvitato su sé stesso».

E ancora: «Si è soffocata l’università per paura che potesse diventare un pericolo per il potere. A dirigerla sono state nominate solo persone fedeli a Mobutu. Perfino nell’università cattolica si è seguito questo criterio, come spiego nel libro L’École trahie (“La scuola tradita”, Cadicec, Kinshasa, 2004). Così Mobutu ha, di fatto, statalizzato tutto il sistema scolastico, lo stato si è dichiarato proprietario di ogni scuola e si è assunto il compito di nominare anche i direttori dei collegi. Più tardi, di fronte a una reazione dei genitori, sono sorte le scuole convenzionate. Ma c’è voluta una capacità di resistenza straordinaria per salvaguardare l’autonomia dei collegi cattolici. Da parte dei protestanti, la resistenza è stata più debole, ma bisogna dire che quest’ultimi erano attivi soprattutto in ambito ospedaliero».

Come spiega che Mobutu, che pure aveva studiato, non. avesse compreso che era un errore affidare la direzione di imprese a quadri senza esperienza?

Ci si può anche chiedere perché il Belgio abbia atteso così a lungo prima di dare un’adeguata formazione ai congolesi. Poi, quando si è deciso, l’ha fatto senza convinzione. E perché non c’erano contatti umani tra colonizzati e colonizzatori? A Kinshasa, dalle 18.00, nessun nero poteva attraversare il Boulevard 30 Giugno. Le due comunità erano del tutto separate.

Oggi gli imprenditori sembrano darle ragione, quando parlano di fallimento del sistema formativo-educativo. Si lamentano che molti giovani diplomati arrivano senza competenze sul mercato del lavoro. Ci sono stati molti “anni bianchi”, cioè con le scuole chiuse, e talvolta i professori per sopravvivere fanno commercio di diplomi...

È chiaro che in un sistema scolastico così malconcio solo i più brillanti se la possono cavare e uscire con qualche competenza. Però mi chiedo: dove sono le imprese che prendono i giovani e insegnano loro un mestiere? Questo paese ha 60 milioni di abitanti. Si è fortunati, se si trovano 100mila persone con una discreta formazione intellettuale. La massa è enorme e coloro che devono far da locomotiva sono pochi.

Gli uomini d’affari congolesi sembrano essere più commercianti che veri imprenditori che trasformano il prodotto. Manca un’etica del lavoro e del profitto. Com’è l’homo oeconomicus congolese?

I nostri avi non avevano idea di che cosa fosse un’impresa. E ciò è valido per l’insieme dei paesi africani. Anche oggi, il più delle volte, chi lavora ha la mentalità del funzionario, dell’impiegato, non è integrato nell’economia moderna. Certo poi bisogna anche interrogarsi sull’etica d’impresa di certi stranieri che sbarcano qui da noi.

Insisto. I congolesi sembrano non possedere il senso del risparmio. Ciò è dovuto al clima, al fatto che non c’è mai freddo e dunque non ci sono granai, come sostengono alcuni sociologi?

Non bisogna generalizzate. Sono originario della regione di Idiofa, a 140 km da Kikwit, e li ci sono i granai. E’ vero che la gente della foresta, per esempio, nell’Equateur, vive di raccolta e di caccia. Ma sono altre le questioni da prendere in considerazione. Abbiamo degli avvocati e dei medici intellettualmente preparati e brillanti che però, spesso, non sono in grado di gestire compiutamente un ufficio o un ambulatorio. Ecco: ci sarebbe bisogno di formazione in questo campo. Del resto, il paese è sempre stato fuori dai circuiti dell’economia moderna.

Non nascondo che questa situazione ci crea molti problemi. Guardiamo al sistema bancario. Dove sono le banche nell’Rd Congo? Dove sono i congolesi esperti di questo settore? Si dirà che lo stato deve mettere ordine, ma è un giro di parole. Da dove viene lo stato?

Tuttavia, sembra esserci un disordine tipicamente congolese, anche se l’Rd Congo non è stata la sola a essere colonizzata...

Ci sono storie diverse. Kenya e Nigeria, per esempio, hanno avuto contatti con l’Occidente ben prima di noi. L’Università MerleauPonty a Dakar è stata creata nel 1932, quella di Kinshasa nel 1954. I primi collaboratori delle piantagioni della Unilever (multinazionale anglo-olandese) sono stati nigeriani e ghaneani. In definitiva, tra belgi e congolesi non c’è ma stata una transizione, un passaggio di consegne. Ma può anche darsi che, all’indomani dell’indipendenza, se il Congo fosse stato diviso in sei paesi, oggi vivremmo una situazione molto migliore.

In ogni caso, ho fiducia nel futuro: abbiamo istituzioni legittime, espresse dal popolo, e questo è fantastico; al governo ci sono giovani e politici di lungo corso. La corruzione non mi preoccupa. L’importante è che, per esercitare il potere, si debba essere eletti e non nominati. Dopo queste elezioni, c’è stato chi ha ricevuto una bella lezione di umiltà.

Le elezioni hanno visto emergere nuove personalità, ma ancora molti dei soliti noti gestiscono Io stato. Com’è possibile fare una nuova politica in queste condizioni?

Mobutu ha preso il potere trentenne. Oggi il presidente Kabila e Kamitatu, uno dei ministri di punta, hanno più o meno quell’età. Nello stesso tempo, ci sono sulla scena uomini che hanno una certa esperienza nell’ambito delle attività economiche, gli stessi che negli anni ‘90 contestarono a Mobutu la sua gestione dello stato e dell’economia. E c’è, è vero, un primo ministro, Antoine Gizenga, un po’ avanti con gli anni. Ma sulla sua onestà e capacità sono pronto a scommettere.

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Venerdì, 29 Giugno 2007 19:26

LAICITÀ NELL’ISLAM

LAICITÀ NELL’ISLAM

di Mostafa EI Ayoubi
Giornalista
Nigrizia/Aprile 2007

In una realtà multiculturale, multietnica e multireligiosa come quella europea, la laicità occupa una posizione centrale nel dibattito politico e culturale. Ma laicità è una nozione che si presta a interpretazioni diverse e, a volte, anche approssimative. Spesso si fa confusione tra laicità e laicismo: la prima fa riferimento alla separazione tra la sfera religiosa e quella politica; il secondo è una forma di ideologia che nega alla religione una sua importante funzione socio-culturale.

Nell’odierna Europa, la distinzione tra il politico e il religioso, tra il razionale e il dogmatico, tra lo stato e la chiesa, è più che mai fondamentale per garantire la realizzazione di un modello di società equa e solidale in cui lo stato laico svolge un ruolo di “facilitatore” dei rapporti tra i diversi gruppi sociali che condividono lo spazio pubblico e di “vigile” nell’assicurare uguali diritti e doveri per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di genere, di religione e di cultura.

In Italia vivono 3,5 milioni di immigrati, che costituiscono ormai diverse minoranze religiose e culturali. Ciononostante, pare che nell’ambito del mondo politico non si abbia la consapevolezza che la laicità sia un elemento determinante per costruire una società plurale rispettosa delle varie tradizioni religiose. La laicità dello stato viene sbandierata solo quando un sikh pretende di non portare il casco per guidare il motorino, perché usa il turbante (considerato un simbolo religioso), o quando una donna musulmana pretende d’indossare il burka per strada. Ma quando si tratta di disparità di trattamento tra cittadini che professano fedi diverse — ricordiamo che il rapporto tra lo stato e le minoranze religiose fa riferimento alla legge del 1929 sui culti ammessi —, la bandiera della laicità viene spesso abbassata.

Ovviamente, la laicità rimane una questione aperta non solo per lo stato italiano, ma anche per le minoranze religiose, che, a nome della laicità, rivendicano il diritto di professare liberamente la loro fede, a volte in maniera pretestuosa, come nei casi del sikh e della musulmana sopraindicati.

Che rapporto hanno, ad esempio, i musulmani che vivono in Europa con il principio della laicità? Cosa pensano circa la separazione tra la sfera religiosa e quella politica?

Spesso viene chiesto ai musulmani: «Com’è che voi venite in Europa a rivendicare la laicità dello stato, mentre da voi non vi è una separazione tra stato e chiesa?». A questa domanda — posta male — molti rispondono in modo errato: «Noi siamo laici, perché non abbiamo né chiesa né clero».

Per cercare di decifrare il rapporto che i musulmani hanno con la laicità, bisogna tornare indietro nella storia. I primi contatti risalgono all’epoca del colonialismo: attraverso la colonizzazione dei paesi islamici il concetto della laicità entrò nel dibattito islamico e fu recepito come un modello mediante il quale gli occidentali intendevano delegittimare l’islam. In seguito, nel periodo post-indipendenza, il riferimento a un certo tipo di secolarizzazione e laicità non fu un’esperienza fondamentalmente democratica. In paesi come la Turchia, la Siria, l’Iraq e la Tunisia, l’organizzazione del potere era basata sulla separazione della sfera politica da quella religiosa. Eppure, l’esperienza dell’applicazione della laicità in questi paesi islamici non ha portato alla loro democratizzazione. Di conseguenza, nell’immaginario collettivo islamico prevale una rappresentazione negativa del concetto di laicità. Ciò vale anche per molti immigrati musulmani di prima generazione che oggi vivono in Occidente.

Ad ogni modo, l’approccio alla laicità cambia da una realtà islamica a un’altra: vi sono musulmani che la rifiutano, altri che si adattano e altri che, in un ambito secolarizzato, cercano di rileggere le proprie fonti religiose e interpretarle in un contesto laico.

Tra i più ostili alla laicità vi sono i salafìti, una corrente fondamentalista che non fa nessuna distinzione tra religione e stato. Il loro approccio al Corano è esclusivamente letteralista: «Siate obbedienti a Dio, al suo profeta e a coloro, tra di voi, che hanno autorità». I più rappresentativi di questa corrente sono i wahabiti (Arabia Saudita), che, in sostanza, dicono che non si fa politica e non si contesta un potere islamico.

Vi è un altro movimento salafìta che cerca di ricavare dalla religione tutto ciò che è politico. Sono i jihadisti: per loro il Corano è la fonte di organizzazione del potere politico e, quindi, non ci può essere una distinzione tra la sfera religiosa e quella politica.

Nell’ambito delle realtà riformiste islamiche, la laicità è generalmente accettata. Molti dicono che per vivere in un contesto politico e culturale che impone la laicità bisogna “conformarsi” attraverso una rilettura del Corano e della Sunna (consuetudine, modo di comportarsi, regola di interpretazione e di comportamento che i musulmani traggono dalle tradizioni relative a Maometto). Tuttavia, l’affacciarsi sulla scena socio-politica europea di musulmani di terza e quarta generazione sembra favorire la nascita di una nuova scuola di pensiero riformista, che vuole interagire con la laicità non in maniera passiva (cioè adattandosi), ma costruendo un dialogo critico dinamico di fecondazione reciproca. Ciò potrebbe favorire la nascita di un islam europeo, che riconosca alla laicità il suo valore e la sua importanza.

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Venerdì, 29 Giugno 2007 19:25

VERSO UNO STATO DI POLIZIA

 VERSO UNO STATO DI POLIZIAdi Carlo StellaNigrizia/Maggio 2007

I risultati ufficiali del referendum costituzionale del 26 marzo dicono che i “sì” hanno ottenuto il 75,9% e che ha votato il 27,1% degli aventi diritto. Dato, questo secondo, contestato da molti osservatori e da due importanti organizzazioni non governative, che hanno parlato di una partecipazione al voto non superiore al 5% dell’elettorato.

Tutto è stato fatto molto in fretta. È del dicembre scorso il primo annuncio da parte del presidente Hosni Mubarak dell’intenzione di riformare la costituzione del 1971. È seguito un breve dibattito in parlamento, boicottato dalle opposizioni. Una settimana dopo la chiusura del dibattito, si è andati a votare. A nulla sono valse le proteste e le manifestazioni di molti cittadini, né la cauta presa di distanza del Dipartimento di stato americano. Il rais ha preferito incassare quanto prima la garanzia di poter governare con poteri sempre più forti, senza più contravvenire alla costituzione.

Mubarak ha giustificato il suo progetto — e la sua fretta — parlando dell’assoluta necessità di «favorire la partecipazione popolare» e di «porre fine a ogni riferimento all’era “socialista”», di nasseriana memoria, già morta e sepolta da tempo.

La verità è che, con i 34 articoli modificati, è stata ridisegnata la mappa del potere, con nuovi ed estesi limiti alle libertà politiche e civili. È stata, innanzitutto, introdotta la proibizione di qualunque partito e di qualunque attività politica a contenuto religioso. Inoltre, solo i partiti politici con almeno il 3% dei seggi in parlamento hanno il diritto di esprimere un proprio candidato alla presidenza della repubblica. Due disposizioni unanimemente lette come misure contro i Fratelli Musulmani, la più radicata forza politica e il maggior schieramento di opposizione in parlamento (con 88 candidati indipendenti, sparsi nei diversi partiti). In pratica, i Fratelli non potranno mai avere quel riconoscimento ufficiale che aspettano da decenni; in particolare, non potranno avanzare una loro candidatura alla presidenza, quando il rais deciderà di andare in pensione. Le presidenziali sono nel 2011, ma non è scontato che Mubarak (79 anni), al potere dal 1981, esca di scena.

In ogni caso, non si ripeterà più il caso (avvertito dal regime come “scandalo”) di giudici che, nel corso di scrutini elettorali, osano denunciare irregolarità: una delle modifiche apportate al testo costituzionale trasferisce il compito di sorvegliare la regolarità delle operazioni di voto dai giudici a una commissione indipendente, nominata dal governo.

Nella storia egiziana, le elezioni non sono mai state trasparenti. D’ora in poi, la loro “opacità”, ai fini di perpetuare il regime, è assicurata. E questo attenua di molto la portata degli emendamenti che trasferiscono una modesta parte dei poteri del presidente al primo ministro e alle due camere del parlamento. In mancanza di trasparenza, in caso di elezione, tutto si risolverà in una ridistribuzione di funzioni all’interno del medesimo sistema di potere.

L’aspetto più preoccupante della riforma è la sospensione di alcune garanzie individuali e l’estensione dei poteri del presidente in caso di minacce di terrorismo (art. 179). Il rais potrà deferire a tribunali (anche militari) qualunque civile sospettato di questo crimine. Come già in buona parte dei paesi occidentali, anche in Egitto la lotta al terrorismo diventa il grimaldello con cui scardinare le libertà individuali. Libertà che già godono una pessima salute nel paese, anche grazie allo stato di emergenza che Mubarak mantiene ininterrottamente dal 1981.

Dunque, si prevedono ulteriori giri di vite e, forse, la trasformazione dell’Egitto in uno stato di polizia.

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Venerdì, 11 Maggio 2007 23:25

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

di Ivan Carozzi

da Carta n° 13 – 14/20 aprile 2007

(abstract)

“Che alcuni sacerdoti siano ‘merletto di giorno e cuoio di notte’ è un’espressione che avrei voluto inventare io”: queste parole sono tratte da “Fede oltre il risentimento”, saggio di teologia con un tocco di sensibilità “queer” appena uscito per Transeuropa Edizioni. L’autore è James Alison, sacerdote e teologo inglese (cattolico) dichiaratamente omosessuale, che nel libro indaga sul rapporto tra amore diverso e sacre scritture. Lo fa riferendosi al pensiero del filosofo e antropologo René Girard, pensatore francese che ha riletto la storia dell’umanità alla luce delle categorie di “vittima” e “capro espiatorio”. Alison ha fatto parte dell’ordine domenicano dal 1983 al 1995, fino a quando, cioè, non è stato fatto oggetto di persecuzioni a causa della sua dichiarata omosessualità. Da allora si è reinventato pastore itinerante, organizzando seminari e ritiri spirituali per sacerdoti. Osservatore attento e coraggioso dei rapporti tra società, Chiesa e mondo gay, Alison segue con passione anche quanto sta accadendo nel nostro paese a proposito del progetto di legge sulle unioni civili. A James Alison, Carta ha rivolto alcune domande.

Carta
Che opinione si è fatto dei Dico?


James Alison

Confesso di preferire ai Dico quelle forme di unioni civili giuridicamente omologhe al matrimonio. La soluzione spagnola e canadese mi sembra la migliore.

C.
Per quale ragione?

J. A.
Per ragioni sia teologiche sia pratiche. In accordo con Benedetto XVI ritengo che all’unione fra due individui vadano riconosciuti tutta la forza e gli strumenti necessari perché si faccia vera testimonianza di fede ed espressione divina. Non sono però d’accordo con il Papa quando afferma che tale possibilità debba concedersi solo a individui di sesso opposto. Sulle questioni pratiche, e che riguardano la sfera del diritto, credo sarebbe più utile servirsi di termini come “coniugi” e “conviventi”, ignorando ogni riferimento al sesso. È una scelta lessicale che semplificherebbe il percorso di legge, evitando questioni tortuose che spesso sono fonte di speculazioni arbitrarie.

C.
Quando è avvenuto il suo “coming out”?

J. A.
A 18 anni. Mi sembrò doveroso per onestà verso il prossimo e verso me stesso.

C.
Lei sostiene che da una lettura approfondita delle sacre scritture è possibile ricavare un atteggiamento sereno nei confronti dell’amore omosessuale.

J. A.
Certo, e in accordo con le interpretazioni più recenti della Bibbia. La categoria dell’omosessualità è un’invenzione del diciannovesimo secolo, di cui non si ha notizia nella Bibbia. Gli episodi biblici che vengono usati contro i gay appartengono alle antiche culture mediterranee. Sono episodi di umiliazione sessuale, di stupro di gruppo, che riguardano entrambi i sessi e che ricordano gli abusi praticati nel carcere di Abu Ghraib. Spesso ci accostiamo alla Bibbia cercando ciò che ci torna più utile. Se volessimo usarla come manuale per odiare qualcuno, probabilmente ci riusciremmo. Ma mi sembrano un approccio e una lettura del tutto strumentali.

C.
La Chiesa teme che una legge sulle unioni civili possa trasformare radicalmente le fondamenta della nostra civiltà. Perché tanta paura?

J. A.
Forse non sono la persona più adatta a esprimermi su quanto sta accadendo in Italia, tuttavia credo che ogni volta che si profila la possibilità di un grande cambiamento sociale le forze conservatrici tendono istintivamente a irrigidirsi. In seguito, quando quel cambiamento si è ormai consolidato, quelle stesse forze cominciano a familiarizzare con il nuovo contesto sociale, scoprendo che non ha avuto quell’impatto distruttivo di cui temevano. In un articolo apparso su www.noi.it viene rilevato come le parrocchie e le piccole diocesi abbiano un atteggiamento disteso verso la questione delle unioni civili, a differenza degli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Non mi sorprende. È la prova che la realtà si trova sempre un po’ più avanti di quanto si creda.

C.
La cultura gay è penetrata a fondo nella moda, nell’arte, nello spettacolo. Eppure, appena si parla di diritti civili per i gay riaffiorano antiche ostilità.

J. A.
È una situazione paradossale. Il vero momento di rottura si verifica piuttosto quando in un determinato paese i leader della destra diventano consapevoli che la questione gay non può ridursi a materia ideologica, a qualcosa che serva a marcare la differenza fra destra e sinistra. Quando realizzano che si tratta di una questione che può riguardare i loro stessi membri ed elettori. A quel punto le loro precedenti posizioni cominciano a sembrargli stupide e imbarazzanti. È accaduto tra i tory inglesi, nel partito popolare spagnolo e accadrà fra i repubblicani negli Usa, anche a causa degli scandali che li hanno investiti. In questi paesi la Chiesa ha l’opportunità di mutare atteggiamento proprio grazie a tali cambiamenti politici e culturali.

C.
Molti leader politici dichiarano di non nutrire nessun sentimento di discriminazione nei confronti dei gay. Ci si limita a dire che l’attribuzione dei diritti civili agli omosessuali potrebbe minacciare l’istituzione del matrimonio.

J. A.
Se questa affermazione non deriva dal pregiudizio, allora deve basarsi su di un qualche tipo di prova. Una prova che non esiste. Non dimentichiamo che i gay rappresentano una modestissima percentuale della popolazione, circa il 4%. Chi avversa le unioni civili afferma che potrebbero alla lunga cancellare l’istituzione del matrimonio. Ma è forse accaduto questo in Olanda, in Spagna, in Canada, nel Massachussets?

C.
Si dice anche che le unioni civili potrebbero rivelarsi un cavallo di Troia per arrivare a una legge sulle adozioni per le coppie omosessuali.

J. A.
Se la gente vuole una nuova legge sulle adozioni, allora sarà una questione che verrà a porsi pubblicamente, senza sotterfugi. In molti paesi dell’Ue e del Sud America gay e lesbiche possono già adottare, a condizione che uno dei partner abbia legami di parentela col bambino. A meno che per cavallo di Troia non si debba intendere che dietro le adozioni per le coppie omosessuali si nasconda una qualche sinistra intenzione, come se in ogni omosessuale dovesse nascondersi un pedofilo. Si tratta di un altro pregiudizio, smentito da molte ricerche che attestano come non esista nessun specifico legame tra omosessualità e pedofilia. Tanto meno ci sono motivi per ritenere che un bimbo cresciuto da una coppia gay non possa avere la stessa possibilità di crescere di un qualsiasi altro bambino.

C.
Lei vive e lavora in Gran Bretagna, dove le “civil partnership” hanno raggiunto un anno e mezzo di vita.

J. A.
Le “civil partnership” hanno trovato il generoso supporto dei parenti e degli amici dei congiunti, per i quali avevano senso e razionalità. Personalmente ho partecipato a due cerimonie, una a Londra, l’altra a Leicester, e confesso di averle trovate piuttosto toccanti.

C.
Che ruolo ha avuto il pensiero di Girard nel suo lavoro?

J. A.
Mi è stato essenziale per la comprensione del cristianesimo. Il suo punto di vista sul desiderio è decisamente liberatorio. Per Girard non esistono differenze tra i vari orientamenti sessuali, dal momento che ognuno di essi è governato dal medesimo impulso mimetico e competitivo. E dal momento che gay ed etero possono positivamente trasformarsi abbracciando un modo di amare non competitivo. È stata infine risolutiva, anche per la mia stessa esistenza, l’idea girardiana di capro espiatorio.

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Giovedì, 05 Aprile 2007 17:09

IDENTIKIT DI UNA NUOVA SPIRITUALITÀ

IDENTIKIT DI UNA NUOVA SPIRITUALITÀ

AL FORUM DI NAIROBI UNA RIFLESSIONE IN TEMPO DI CRISI

NAIROBI. Quali tratti, quali colori, dovrebbe avere la spiritualità per "un altro mondo possibile"? È stato questo il tema di uno dei seminari svoltisi durante il Forum di teologia, promosso dalla Rete Europea di Chiesa per la Libertà (un network di gruppi, comunità e movimenti cattolici di base di una quindicina di Paesi europei), a cui hanno preso parte Evaristo Villar e Pilar Yuste della rivista Éxodo, Hugo Castelli della Chiesa di base di Madrid, la teologa e religiosa del Sacro Cuore Maria José Arana, il teologo e missionario claretiano José María Vigil. La ricerca di una nuova spiritualità è chiamata a fare i conti con l'emergere di un nuovo paradigma, quello del pluralismo religioso, con cui la biodiversità religiosa diventa un "valore sacro", un dono di Dio, e ogni pretesa di considerare la propria religione come "quella vera", e conseguentemente di volerla imporre agli altri, perde ogni ragion d'essere di fronte all'evidenza che tutte le religioni che lavorano a favore dell'umanità risultano ugualmente valide, ugualmente preziose. Ma tale ricerca deve fare i conti, anche, con la stessa crisi delle religioni, così come si sono strutturate 5mila anni fa, durante la rivoluzione agraria del neolitico. È in Europa, dove la società agraria sta volgendo al tramonto, che la crisi delle religioni starebbe iniziando a manifestarsi, mostrando l'incompatibilità di ogni sistema di credenze con la nuova società della conoscenza, e aprendo la strada a una spiritualità senza religioni. Una spiritualità tutta da costruire, ma il cui nucleo potrebbe già essere individuato nella cosiddetta regola d'oro (in positivo: "tratta gli altri come vorresti che gli altri trattassero te" o in negativo: "non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te"), in cui si trova l'essenza stessa della tradizione ebraico-cristiana e che si incontra in tutte le religioni quasi con le stesse parole: "una base comune minima eppure enorme", ha affermato José María Vigil, e non solo etica, ma anche spirituale, perché "che un fratello soffra la fame è per me un problema di spiritualità". Un'ipotesi di lavoro, quella presentata durante il seminario, che ha, inevitabilmente, suscitato critiche e perplessità: c'è chi individua in essa "una visione eccessivamente occidentale", chi teme una deriva individualista e spiritualista e chi ritiene che le religioni debbano essere purificate e non superate. Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, un commento sul seminario di uno dei relatori, Evaristo Villar. (c. f.)

 da Adista Documenti n°24 del 24 Marzo 2007

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UNA SPIRITUALITÀ IMBEVUTA DI PRASSI, UNA PRASSI IMPREGNATA DI SPIRITO

NAIROBI. Nuova spiritualità cercasi, una "spiritualità per un altro mondo possibile": il tema, per l'appunto, della seconda edizione del Forum mondiale di Teologia e Liberazione svoltosi a Nairobi dal 16 al 19 gennaio (v. Adista nn. 18 e 22/07). Una spiritualità imbevuta di prassi, che si faccia carne nella storia, "onesta", per usare un'espressione del teologo Jon Sobrino, nei confronti della realtà. Una spiritualità che guarisca dalle "patologie" che la deturpano, come ha illustrato il teologo spagnolo Juan José Tamayo durante l'ultima sessione di lavoro del Forum, centrata su "Spiritualità e rispetto della diversità", a cui ha preso parte insieme alla nigeriana Teresa Okure e alla portoricana Eunice Santana de Valez. Una spiritualità, ha affermato quest'ultima, "che non abbia paura di lasciarsi ispirare dalla lettura di altre religioni, che riconosca la complessità estrema di tante questioni e dunque la necessità di affrontarle senza arroganza, che sia cosciente del fatto che tutto è relazionato a tutto, che tutti siamo membri di uno stesso corpo e soffriamo e gioiamo ad ogni sofferenza e gioia di ciascuna delle sue parti, che ci sfida a camminare insieme, costruendo legami e alleanze, alla ricerca di alternative come l'Alba, l'Alternativa bolivariana delle Americhe".
Sono quattro, secondo Tamayo, le idee fondamentali attorno a cui va ripensata, riformulata e rivissuta la spiritualità nell'orizzonte della diversità culturale e religiosa del nostro mondo: l'interculturalità, l'interidentità, l'interspiritualità e l'interliberazione, quest'ultima presente in tutti i suoi diversi cammini e in tutte le sue diverse dimensioni, "personale e comunitaria, politica ed economica, interiore e strutturale, religiosa e culturale". Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l'intervento, con alcuni tagli, del teologo spagnolo, da lui dedicato "Ai bambini e alle bambine di Kibera, a Nairobi, la baraccopoli più densamente popolata dell'Africa - 800mila persone -, simbolo dell'esclusione determinata dalla globalizzazione neoliberista, che mi hanno affettuosamente accolto con il saluto ‘karibu' (benvenuto) e con i quali ho sognato per alcune ore un ‘altro mondo possibile'. Che il Forum Mondiale di Teologia e Liberazione e il Forum Sociale Mondiale, celebrati questi giorni a Nairobi, risveglino la coscienza dei governanti e generino la ribellione degli esclusi". (claudia fanti)

da Adista Documenti n°24 del 24 Marzo 2007

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MA IO VI "DICO": DA GERUSALEMME LE PAROLE DEL CARDINAL MARTINI ALLA CHIESA ITALIANA

GERUSALEMME. Né la distanza, né l'età, né la malattia hanno affievolito la sua voce: anche da Gerusalemme, il card. Carlo Maria Martini parla alla Chiesa italiana e offre un punto di riferimento a quanti non si riconoscono nello stile impresso alla Cei dal card. Camillo Ruini, in attesa delle prime mosse concrete del suo successore, mons. Angelo Bagnasco. L'occasione è il ‘pellegrinaggio' che 1300 fedeli dell'arcidiocesi di Milano, guidati dal loro vescovo card. Dionigi Tettamanzi, hanno effettuato in Terra Santa per andare a festeggiare gli 80 anni di Martini. E durante una messa celebrata nella Basilica della Natività di Betlemme, il cardinale (come riportato da Repubblica e dal Corriere della Sera del 16/3) è intervenuto, in termini come sempre non espliciti ma chiari, sulla polemica dei Dico e sulle iniziative promesse dalla Cei per fermarli.
Queste le parole di Martini: "È un grande compito che dobbiamo portare avanti, per il quale io prego nella mia intercessione quotidiana: che ci sia dato, anche come Chiesa italiana, di dire quello che la gente capisce: non un comando dall'alto che bisogna accettare perché è lì, viene ordinato, ma come qualcosa che ha una ragione, un senso, che dice qualcosa a qualcuno...". "Bisogna farsi comprendere ascoltando anzitutto la gente", aggiunge, "le loro necessità, problemi, sofferenze, lasciando che rimbalzino nel cuore e poi risuonino in ciò che diciamo, così che le nostre parole non cadano come dall'alto, da una teoria, ma siano prese da quello che la gente sente e vive, la verità dell'esperienza, e portino la luce del Vangelo".

La famiglia, il cardinale lo aveva già accennato nelle scorse settimane, va "promossa" più che "difesa". E Martini ricorda anche il suo discorso sulla famiglia per la vigilia di Sant'Ambrogio del 2000 (v. Adista n. 1/01), in cui aveva ribadito che "al vertice delle nostre preoccupazioni ci dev'essere il proposito di sostenere positivamente e di promuovere le famiglie in senso proprio, non di penalizzare le unioni di fatto" e avvertiva che "è importante non lasciarsi dominare dal panico da accerchiamento e da recriminazioni senza frutto". La famiglia, ripete oggi, "è una istituzione che ha una forza intrinseca, la forza non è data dall'esterno e da chissà dove. Bisogna che questa forza sia messa in rilievo, che la gente la desideri, la ami, e faccia sacrifici per essa".

Quanto ai problemi della Chiesa di fronte alla modernità, Martini precisa che "la modernità non è una cosa astratta. In verità ci siamo dentro, ciascuno di noi è moderno se vive autenticamente ciò che vive. Non è questione di tempi. Il problema è essere realmente presenti alle situazioni in cui si vive, essere in ascolto, lasciare risuonare le parole degli altri dentro di sé e valutarle alla luce del Vangelo". Non è il caso di vivere tra costanti timori e recriminazioni: "Durante l'omelia ho parlato delle comunità che troppo spesso rimangono prigioniere della lamentosità. Il Signore vuole che noi guardiamo alla vita con gratitudine, riconoscenza, fiducia, vedendo le vie che si aprono davanti a noi. Quando andavo nelle parrocchie a Milano, trovavo sempre chi si lamentava delle mancanze, del fatto che non ci sono giovani. E io dicevo di ringraziare Dio per i beni che ci ha concesso, non per quelli che mancano. Dicevo che la fede, in una situazione così secolarizzata, è già un miracolo. Bisogna partire dalle cose belle che abbiamo e ampliarle. L'elenco delle cose che mancano è senza fine. E i piani pastorali che partono dall'elenco delle lacune sono destinati a dare frustrazioni e non speranze". (a. s.)

da Adista Notizie n° 23 del 24 Marzo 2007

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CONTRO JON SOBRINO LA PRIMA NOTIFICAZIONE DEL PONTIFICATO DI BENEDETTO XVI.

MA NON È UNA CONDANNA

CITTÀ DEL VATICANO. Il colpo è arrivato, ma attutito: la "Notificazione sulle opere di p. Jon Sobrino" da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, la prima sotto il pontificato di Benedetto XVI, per quanto riscontri nell'opera del teologo "proposizioni non conformi con la dottrina della Chiesa", non prevede, come si era temuto, esplicite sanzioni.
La voce di una possibile condanna del 69enne teologo di origine basca, residente nel Salvador dal 1957, circolava già da qualche settimana: per questo, al Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, svoltosi a Nairobi dal 16 al 20 gennaio scorso, i teologi avevano voluto rendergli un pubblico omaggio (Adista lo ha pubblicato sul n. 18/07), senza però rinunciare alla speranza che all'ultimo minuto il Vaticano decidesse di lasciare la Notificazione in un cassetto. Era stato il quotidiano spagnolo El Mundo, il 9 marzo scorso, ad annunciare, per il 15, la pubblicazione del provvedimento, che, secondo il quotidiano, avrebbe dovuto imporre al teologo il divieto di insegnare in un qualsiasi centro cattolico e di pubblicare libri con il nihil obstat dell'autorità ecclesiastica. A confermarlo era stato, l'11 marzo, l'arcivescovo di San Salvador in persona, l'opusdeista Fernando Sáenz Lacalle, il quale, durante la conferenza stampa successiva alla messa domenicale in cattedrale, si era premurato di comunicare la decisione della Congregazione per la Dottrina della Fede su Sobrino, precisando come in Vaticano "già da tempo si studiassero i suoi scritti" e come "già da anni fossero stati mandati avvertimenti" al teologo. "Quello che dice la Santa Sede – aveva dichiarato l'arcivescovo – è che le conclusioni degli studi teologici su Cristo che il padre Sobrino ha pubblicato non sono concordi con la dottrina della Chiesa ed egli non potrà insegnare teologia in nessun centro cattolico finché non riveda le sue conclusioni".

Il mistero delle sanzioni
Pubblicata dalla Sala Stampa vaticana il 14 marzo, un giorno prima di quanto previsto da El Mundo, la Notificazione – che riguarda due libri di cristologia di Sobrino, Jesucristo Liberador. Lectura histórico-teológica de Jesús de Nazaret, del 1991, e La fe en Jesucristo. Ensayo desde las víctimas, del 1999 (entrambi pubblicati in italiano dalla Cittadella di Assisi, nel 1990 e nel 2001) – non dice nulla a proposito delle sanzioni di cui aveva dato notizia El Mundo e che erano state confermate da Sáenz Lacalle. Un fatto che non ha ovviamente mancato di suscitare gli interrogativi più vari: se cioè le sanzioni non fossero previste fin dall'inizio o se piuttosto siano state eliminate all'ultimo, e, in quest'ultimo caso, se per disaccordi interni al Vaticano, su pressione della Compagnia di Gesù o per timore dello scalpore che tali misure stavano provocando (v. notizia successiva). In ogni caso, come ha precisato ai giornalisti il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, p. Federico Lombardi, lui stesso gesuita, il provvedimento "non è una condanna o una sanzione esplicita nei confronti della persona", ma una puntualizzazione per chiarire che "alcune sue affermazioni non corrispondono al pensiero e alla dottrina della Chiesa": il teologo avrebbe cioè approfondito maggiormente "il versante dell'umanità" di Gesù, lasciando in ombra o sottovalutando "la dimensione che unisce Cristo a Dio". "Spetterà poi alle competenze dei singoli vescovi o rettori locali - ha spiegato Lombardi ai giornalisti - decidere se accettare o meno i suoi insegnamenti o i suoi testi": una frase oltremodo significativa, che sembra allontanare ulteriormente il rischio di sanzioni.

Gli "errori" del teologo
La Congregazione per la Dottrina della Fede aveva deciso già nell'ottobre del 2001 di iniziare sui due volumi del teologo "uno studio ulteriore e approfondito", adottando, per via dell'"ampia diffusione" dei suoi scritti, la "procedura urgente". In seguito a tale esame, nel luglio del 2004 era stato inviato all'autore, per mezzo del Preposito Generale della Compagnia di Gesù, p. Peter Hans Kolvenbach, un Elenco di proposizioni erronee e pericolose rilevate nei due libri, a cui Sobrino aveva risposto nel marzo del 2005: una risposta che, all'esame della Congregazione, non era risultata "soddisfacente". Da qui la decisione di pubblicare la Notificazione "allo scopo di offrire ai fedeli un criterio di giudizio sicuro, basato sull'autentica dottrina ecclesiale, circa alcune affermazioni contenute negli scritti dell'autore", relativamente ai presupposti metodologici, alla divinità di Gesù Cristo, all'incarnazione del Figlio di Dio, alla relazione fra Gesù Cristo e il Regno di Dio, all'autocoscienza di Gesù Cristo e al valore salvifico della sua morte. Accompagna la Notificazione una Nota esplicativa che riconosce la preoccupazione di Sobrino "per la situazione dei poveri e degli oppressi, specialmente in America Latina" - preoccupazione che, afferma, "appartiene senza dubbio alla Chiesa intera" -, ma sottolinea la necessità di mettere in rilievo i "gravi difetti, sia metodologici che di contenuto" presenti nell'opera del teologo.

Il primo errore di Sobrino sarebbe quello di considerare come luogo ecclesiale della cristologia la "Chiesa dei poveri" e non "la Fede apostolica trasmessa attraverso la Chiesa a tutte le generazioni". Il teologo non presterebbe "la debita attenzione alle fonti", e sarebbe proprio questa, a giudizio della Congregazione, "la causa dei problemi presenti nella sua teologia". La Notificazione, firmata il 26 novembre del 2006 dal card. William Levada e da mons. Angelo Amato, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione (la si può leggere integralmente sul sito del Vaticano: www.vatican.va), accusa Sobrino di non affermare con la debita chiarezza la divinità di Gesù, ritenendola presente nel Nuovo Testamento soltanto "in germe", e rivelando "una concezione erronea del mistero dell'Incarnazione e dell'unità della persona di Gesù Cristo". Il documento contesta ugualmente la sua visione del rapporto fra Gesù e il Regno di Dio, centrata sulla distinzione tra mediatore, la persona di Gesù, e mediazione, il Regno di Dio inteso come realizzazione della volontà di Dio su questo mondo: secondo la Congregazione, per quanto Sobrino definisca Gesù come mediatore definitivo, ultimo ed escatologico del Regno, "il vincolo fra di essi risulta privato del suo contenuto peculiare e della sua singolarità". Secondo la Congregazione, nella riflessione del teologo non appaiono "con la dovuta chiarezza" né la relazione filiale di Gesù con il Padre - "l'intimità e la conoscenza diretta ed immediata che egli ha del Padre" - né il valore salvifico della sua morte: si contesta a Sobrino la riduzione dell'efficacia della morte di Gesù al valore di esempio motivante per gli altri e alla rivelazione dell'Homo verus fedele a Dio fino alla morte sulla croce: "La morte di Cristo sarebbe in tal modo exemplum e non sacramentum". (claudia fanti)


da Adista Notizie n° 23 del 24 Marzo 2007

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UNA CIVILTÀ IN CRISI CHE SEMBRA DESTINATA ALL’ECLISSI - €uropa dove sei?

Vita Pastorale n. 2 2007


            La civiltà europea è in declino e ne nasce un’altra. Fiorisce un nuovo mondo cui gli Europei diventano estranei. Qual è la ragione di questa crisi che sembra inarrestabile e pare destinata a cancellare una civiltà e una cultura durate almeno tremila anni?

Anzitutto, declina l’etica che aveva guidato gli Europei nel lungo itinerario della loro storia, ma è in crisi anche la giustizia, insieme a un diritto che ha orientato la storia del mondo almeno dai tempi di Giustiniano. Ma l’Europa mostra la sua crisi anche attraverso la diffusione capillare della pornografia e di altri fattori di disgregazione sociale, come la crisi della famiglia e l’impoverimento psicologico e ideale delle classi giovanili. Tutto questo e legato al tramonto di un’immagine del mondo a cominciare dall’identità cristiana che si trasferisce in altri continenti. La scuola non aiuta a rispondere a queste sfide e si trasforma in una specie di sistema di diseducazione obbligatoria. Insomma, non prepara i ragazzi alla vita, mentre l’università contribuisce al collasso dell’identità europea.

Ma assistiamo anche alla crisi dell’identità economica, al tramonto dell’imprenditorialità e del binomio religione e sviluppo, mentre un massiccio flusso migratorio – d’altronde necessario – favorisce la perdita di identità. Contribuiscono anche il consumismo, il declino dei sindacati, la diffusione della cultura del rifiuto del lavoro e delle ferie. La politica coagula e gestisce il declino perchè l’Europa usa una politica antica inadatta a un mondo così diverso; inoltre la cosiddetta cultura progressista non - esiste quasi più. Ma l’Europa - declina anche perché logorata da altri fattori che la distinguono dal passato: i media;il rumore assordante da cui è dominata giorno e notte, la nuova immagine della morte, la nuova moda, l’artificio di una cultura lontana dall’individuo medio. Di qui una sorta di auto-genocidio, espressione anche del declino delle natalità e della diffusione di una marea di anziani che preparano il collasso o forse la fine dell’Europa. Ma come fare per superare tutto questo?

Anzitutto sarebbe necessario accelerare l’unificazione economica e politica, per rendere compatta un’economia che sarebbe ancora ,la maggiore del pianeta; bisognerebbe dare un colpo d’ala alla natalità, perché senza natalità è difficile che si abbiano sviluppo e conservazione dell’identità europea. E’ anche necessario un sistema di valori e di ideali che garantirono il primato dell’Europa per molti secoli. E’ anche necessario orientare la produzione industriale a livelli tecnologici e di qualità più elevati e riformare radicalmente la scuola. Ma come può un’Europa senza valori, laici o religiosi, senza identità, raccogliere la sfida del resto del mondo, visto che la civiltà europea ha avuto, come le altre, una nascita, una gioventù, una maturità, dopo di che è appassita e forse sta morendo? E’ possibile che sia vicina l’ora della nostra scomparsa dallo scenario mondiale o forse l’Europa può dare vita a un’altra civiltà diversa da quella che sta morendo? Per l’Europa è ormai la ventiquattresima ora, ma possiamo ancora salvarci prendendo coscienza della catastrofe che ci minaccia.

Lei ha dato a un suo libro di molti anni fa il titolo L’eclissi del sacro nella società industriale,e ora intitola questo ultimo libro, L’eclissi dell’Europa. Perché?

“Credo che quell’eclissi dei valori, della religione, dei principi morali su cui si reggeva l’Europa abbia preparato questa eclissi. Di qui, l’analogia nel titolo.

Ma queste due considerazioni sono abbastanza generiche. In pratica, in concreto, quali sono i fattori che secondo lei provocano questa grande eclissi dell’identità europea?

“L’Europa è stata per secoli il centro del mondo. Gli europei avevano dei grandi ideali e le diverse regioni dell’Europa, allora dette Stati nazionali, hanno dato vita alle grandi rivoluzioni culturali, alla nascita delle nuove civiltà, come ad esempio è accaduto con la fine dell’impero romano e l’avvento del cristianesimo, con il Rinascimento, con la rivoluzione liberale e la rivoluzione industriale. In seguito, la crisi morale e soprattutto due guerre mondiali hanno messo in crisi l’Europa. Mi pare fosse lord Mountbatten che, firmando l’indipendenza dell’India, disse: “Questa è la fine del primato dell’uomo bianco”. Difatti, in pochi decenni, sono spariti gli imperi coloniali che avevano permesso all’Europa di dominare il mondo».

Ma in concreto?

«In concreto le guerre, il progresso tecnico-scientifico si sono accompagnati alla crisi della scuola, a quella del cristianesimo che in questi ultimi decenni è emigrato fuori dell’Europa, un continente ormai scettico, edonista, senza ideali, impegnato nel vivere il suo piccolo mondo giorno dopo giorno».

Le conseguenze di tutto questo?

“Questo continente di spensierati edonisti, forse condotti su nuovi sentieri della vita delle grandi guerre, ha visto il collasso della famiglia, la crisi della natalità, e si è visto, quindi, travolto dall’impeto delle più giovani generazioni di Paesi come l’India e la Cina. In questo periodo, mentre la presenza demografica del nostro continente declina, anche il primato economico viene messo in crisi dal trasferirsi in Asia del centro del mondo”.

Che è accaduto dei valori un tempo dominanti in questo continente?

«Le chiese, un tempo affollate, si sono svuotate. Si è verificata quella che molti chiamano la rivoluzione pornografica, che ha visto la penetrazione capillare della pornografia nella società e nella cultura europea. Parlo della famosa pornonotte che vede nudi femminili, e ultimamente anche maschili, e legioni di lesbiche esibirsi in una miriade di televisioni, trasformando lentamente, anche da questo punto di vista, la società europea. Inoltre, il consumismo capillare, che consente d’altronde il funzionamento del sistema, perché chi guadagna consuma e permette al sistema di produrre, distrugge il complesso dei valori, trasformando gli europei in pigri consumatori di beni, servizi, messaggi culturali, ecc. Come ha detto a suo tempo Oscar Wilde: “Noi ormai conosciamo il prezzo di tutto e il valore di niente”».

In conclusione?

«Stiamo dunque assistendo alla drammatica eclissi di una civiltà, di un popolo, di quel popolo europeo che è stato il principale artefice della storia del mondo. Oggi l’Europa è un continente in declino, assediato da decine di milioni di individui che probabilmente, dato che tra l’altro ne abbiamo bisogno, finiranno per travolgerci».

La sua visione è catastrofica. Ma c’è qualche speranza?

“Nel mio libro alla fine faccio alcune considerazioni, su cui non mi soffermo, che danno un profilo di quello che gli europei dovrebbero fare per ritrovare se stessi, per ridare all’Europa il primato perduto persino nel mondo scientifico. Infatti non dimentichiamo che un secolo fa i premi Nobel erano quasi tutti europei e ora quasi nessuno. Dobbiamo dunque, ripensare la maniera di vivere. di lavorare. di dare un significato alla vita. E’ un’impresa quasi impossibile, ma io ho ancora qualche speranza e per questa ragione, parlo di eclissi e non di fine. Mi sostiene l’ottimismo della volontà pur nel pessimismo della ragione”.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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