LAICITÀ NELL’ISLAM
di Mostafa EI Ayoubi
Giornalista
Nigrizia/Aprile 2007
In una realtà multiculturale, multietnica e multireligiosa come quella europea, la laicità occupa una posizione centrale nel dibattito politico e culturale. Ma laicità è una nozione che si presta a interpretazioni diverse e, a volte, anche approssimative. Spesso si fa confusione tra laicità e laicismo: la prima fa riferimento alla separazione tra la sfera religiosa e quella politica; il secondo è una forma di ideologia che nega alla religione una sua importante funzione socio-culturale.
Nell’odierna Europa, la distinzione tra il politico e il religioso, tra il razionale e il dogmatico, tra lo stato e la chiesa, è più che mai fondamentale per garantire la realizzazione di un modello di società equa e solidale in cui lo stato laico svolge un ruolo di “facilitatore” dei rapporti tra i diversi gruppi sociali che condividono lo spazio pubblico e di “vigile” nell’assicurare uguali diritti e doveri per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di genere, di religione e di cultura.
In Italia vivono 3,5 milioni di immigrati, che costituiscono ormai diverse minoranze religiose e culturali. Ciononostante, pare che nell’ambito del mondo politico non si abbia la consapevolezza che la laicità sia un elemento determinante per costruire una società plurale rispettosa delle varie tradizioni religiose. La laicità dello stato viene sbandierata solo quando un sikh pretende di non portare il casco per guidare il motorino, perché usa il turbante (considerato un simbolo religioso), o quando una donna musulmana pretende d’indossare il burka per strada. Ma quando si tratta di disparità di trattamento tra cittadini che professano fedi diverse — ricordiamo che il rapporto tra lo stato e le minoranze religiose fa riferimento alla legge del 1929 sui culti ammessi —, la bandiera della laicità viene spesso abbassata.
Ovviamente, la laicità rimane una questione aperta non solo per lo stato italiano, ma anche per le minoranze religiose, che, a nome della laicità, rivendicano il diritto di professare liberamente la loro fede, a volte in maniera pretestuosa, come nei casi del sikh e della musulmana sopraindicati.
Che rapporto hanno, ad esempio, i musulmani che vivono in Europa con il principio della laicità? Cosa pensano circa la separazione tra la sfera religiosa e quella politica?
Spesso viene chiesto ai musulmani: «Com’è che voi venite in Europa a rivendicare la laicità dello stato, mentre da voi non vi è una separazione tra stato e chiesa?». A questa domanda — posta male — molti rispondono in modo errato: «Noi siamo laici, perché non abbiamo né chiesa né clero».
Per cercare di decifrare il rapporto che i musulmani hanno con la laicità, bisogna tornare indietro nella storia. I primi contatti risalgono all’epoca del colonialismo: attraverso la colonizzazione dei paesi islamici il concetto della laicità entrò nel dibattito islamico e fu recepito come un modello mediante il quale gli occidentali intendevano delegittimare l’islam. In seguito, nel periodo post-indipendenza, il riferimento a un certo tipo di secolarizzazione e laicità non fu un’esperienza fondamentalmente democratica. In paesi come la Turchia, la Siria, l’Iraq e la Tunisia, l’organizzazione del potere era basata sulla separazione della sfera politica da quella religiosa. Eppure, l’esperienza dell’applicazione della laicità in questi paesi islamici non ha portato alla loro democratizzazione. Di conseguenza, nell’immaginario collettivo islamico prevale una rappresentazione negativa del concetto di laicità. Ciò vale anche per molti immigrati musulmani di prima generazione che oggi vivono in Occidente.
Ad ogni modo, l’approccio alla laicità cambia da una realtà islamica a un’altra: vi sono musulmani che la rifiutano, altri che si adattano e altri che, in un ambito secolarizzato, cercano di rileggere le proprie fonti religiose e interpretarle in un contesto laico.
Tra i più ostili alla laicità vi sono i salafìti, una corrente fondamentalista che non fa nessuna distinzione tra religione e stato. Il loro approccio al Corano è esclusivamente letteralista: «Siate obbedienti a Dio, al suo profeta e a coloro, tra di voi, che hanno autorità». I più rappresentativi di questa corrente sono i wahabiti (Arabia Saudita), che, in sostanza, dicono che non si fa politica e non si contesta un potere islamico.
Vi è un altro movimento salafìta che cerca di ricavare dalla religione tutto ciò che è politico. Sono i jihadisti: per loro il Corano è la fonte di organizzazione del potere politico e, quindi, non ci può essere una distinzione tra la sfera religiosa e quella politica.
Nell’ambito delle realtà riformiste islamiche, la laicità è generalmente accettata. Molti dicono che per vivere in un contesto politico e culturale che impone la laicità bisogna “conformarsi” attraverso una rilettura del Corano e della Sunna (consuetudine, modo di comportarsi, regola di interpretazione e di comportamento che i musulmani traggono dalle tradizioni relative a Maometto). Tuttavia, l’affacciarsi sulla scena socio-politica europea di musulmani di terza e quarta generazione sembra favorire la nascita di una nuova scuola di pensiero riformista, che vuole interagire con la laicità non in maniera passiva (cioè adattandosi), ma costruendo un dialogo critico dinamico di fecondazione reciproca. Ciò potrebbe favorire la nascita di un islam europeo, che riconosca alla laicità il suo valore e la sua importanza.