I risultati ufficiali del referendum costituzionale del 26 marzo dicono che i “sì” hanno ottenuto il 75,9% e che ha votato il 27,1% degli aventi diritto. Dato, questo secondo, contestato da molti osservatori e da due importanti organizzazioni non governative, che hanno parlato di una partecipazione al voto non superiore al 5% dell’elettorato.
Tutto è stato fatto molto in fretta. È del dicembre scorso il primo annuncio da parte del presidente Hosni Mubarak dell’intenzione di riformare la costituzione del 1971. È seguito un breve dibattito in parlamento, boicottato dalle opposizioni. Una settimana dopo la chiusura del dibattito, si è andati a votare. A nulla sono valse le proteste e le manifestazioni di molti cittadini, né la cauta presa di distanza del Dipartimento di stato americano. Il rais ha preferito incassare quanto prima la garanzia di poter governare con poteri sempre più forti, senza più contravvenire alla costituzione.
Mubarak ha giustificato il suo progetto — e la sua fretta — parlando dell’assoluta necessità di «favorire la partecipazione popolare» e di «porre fine a ogni riferimento all’era “socialista”», di nasseriana memoria, già morta e sepolta da tempo.
La verità è che, con i 34 articoli modificati, è stata ridisegnata la mappa del potere, con nuovi ed estesi limiti alle libertà politiche e civili. È stata, innanzitutto, introdotta la proibizione di qualunque partito e di qualunque attività politica a contenuto religioso. Inoltre, solo i partiti politici con almeno il 3% dei seggi in parlamento hanno il diritto di esprimere un proprio candidato alla presidenza della repubblica. Due disposizioni unanimemente lette come misure contro i Fratelli Musulmani, la più radicata forza politica e il maggior schieramento di opposizione in parlamento (con 88 candidati indipendenti, sparsi nei diversi partiti). In pratica, i Fratelli non potranno mai avere quel riconoscimento ufficiale che aspettano da decenni; in particolare, non potranno avanzare una loro candidatura alla presidenza, quando il rais deciderà di andare in pensione. Le presidenziali sono nel 2011, ma non è scontato che Mubarak (79 anni), al potere dal 1981, esca di scena.
In ogni caso, non si ripeterà più il caso (avvertito dal regime come “scandalo”) di giudici che, nel corso di scrutini elettorali, osano denunciare irregolarità: una delle modifiche apportate al testo costituzionale trasferisce il compito di sorvegliare la regolarità delle operazioni di voto dai giudici a una commissione indipendente, nominata dal governo.
Nella storia egiziana, le elezioni non sono mai state trasparenti. D’ora in poi, la loro “opacità”, ai fini di perpetuare il regime, è assicurata. E questo attenua di molto la portata degli emendamenti che trasferiscono una modesta parte dei poteri del presidente al primo ministro e alle due camere del parlamento. In mancanza di trasparenza, in caso di elezione, tutto si risolverà in una ridistribuzione di funzioni all’interno del medesimo sistema di potere.
L’aspetto più preoccupante della riforma è la sospensione di alcune garanzie individuali e l’estensione dei poteri del presidente in caso di minacce di terrorismo (art. 179). Il rais potrà deferire a tribunali (anche militari) qualunque civile sospettato di questo crimine. Come già in buona parte dei paesi occidentali, anche in Egitto la lotta al terrorismo diventa il grimaldello con cui scardinare le libertà individuali. Libertà che già godono una pessima salute nel paese, anche grazie allo stato di emergenza che Mubarak mantiene ininterrottamente dal 1981.
Dunque, si prevedono ulteriori giri di vite e, forse, la trasformazione dell’Egitto in uno stato di polizia.