RD CONGOIL’ANALISI DI PADRE MARTIN EKWA - TRE LEVE PER LO SVILUPPO
François Misser da Kinshasa
Nigrizia/Maggio 2007
Padre Martin Ekwa, vicino all’arcivescovo di Kisangani, mons. Laurent Monsengwo, è un gesuita che ha dedicato gran parte della sua lunga vita alla formazione spirituale e professionale della classe dirigente congolese. E lo ha fatto sempre con un ruolo di primo piano: responsabile dell’insegnamento cattolico dal 1960; dal 1984 alla testa del Centro cristiano d’azione per i dirigenti e i quadri d’impresa nella Repubblica democratica del Congo (Cadicec). Uomini politici, imprenditori, diplomatici e religiosi considerano questo ottuagenario, ancora in gamba, come un saggio e un osservatore accorto, benevolo ma anche esigente nei confronti della storia del paese e del suo sviluppo.
Sorprendentemente, relativizza la parola “crisi”. «Invece di parlare di crisi, mi chiedo se non si debba parlare di evoluzione, di tentativi infruttuosi», esordisce padre Ekwa, sottolineando che all’indipendenza (30 giugno 1960) c’erano ben pochi quadri dirigenti congolesi. Non c’era un solo medico o un avvocato. Lo stesso primo ministro del primo governo congolese, Patrice Lumumba, aveva fatto solo due anni di scuola secondaria superiore. E questo stato di cose non ha facilitato il rapporto con i belgi nella fase post-coloniale. Dopo l’assassinio di Lumumba, Mobutu Sese Seko, prima capo di stato maggiore dell’esercito e poi presidente, ha monopolizzato il potere per un trentennio. Mobutu ha potuto beneficiare di una grande indulgenza, sia all’interno che all’esterno del paese, essendo considerato, in piena guerra fredda, un bastione contro l’espansione del comunismo in Africa. «Io stesso ero d’accordo con questa impostazione», riconosce il gesuita.
Detto ciò, dall’indipendenza il paese ha vissuto un declino continuo. Sono stati formati dirigenti ma non imprenditori. Del resto, mancava l’idea stessa di impresa: padre Ekwa ricorda che il primo direttore della fabbrica di birra Bralima è stato un fattorino.
Nel 1972 arrivò la “zairizzazione”, voluta da Mobutu. Una scelta che comportò anche la nazionalizzazione delle imprese straniere e le cui conseguenze si fanno sentire anche oggi. Analizza Ekwa: «Non siamo stati saggi. Abbiamo detto ai belgi: “Andatevene. Siamo in grado di fare tutto da soli”. Non era così... Sono state messe a condurre le imprese persone con una formazione universitaria, ma prive del sostegno di qualcuno con un’esperienza consolidata. Il sistema politico era dittatoriale e anarchico, nel senso che nessuno comandava. Quello che contava non era la competenza, ma essere in buoni rapporti con i capi politici o appartenere alla loro etnia. Così il sistema si è avvitato su sé stesso».
E ancora: «Si è soffocata l’università per paura che potesse diventare un pericolo per il potere. A dirigerla sono state nominate solo persone fedeli a Mobutu. Perfino nell’università cattolica si è seguito questo criterio, come spiego nel libro L’École trahie (“La scuola tradita”, Cadicec, Kinshasa, 2004). Così Mobutu ha, di fatto, statalizzato tutto il sistema scolastico, lo stato si è dichiarato proprietario di ogni scuola e si è assunto il compito di nominare anche i direttori dei collegi. Più tardi, di fronte a una reazione dei genitori, sono sorte le scuole convenzionate. Ma c’è voluta una capacità di resistenza straordinaria per salvaguardare l’autonomia dei collegi cattolici. Da parte dei protestanti, la resistenza è stata più debole, ma bisogna dire che quest’ultimi erano attivi soprattutto in ambito ospedaliero».
Come spiega che Mobutu, che pure aveva studiato, non. avesse compreso che era un errore affidare la direzione di imprese a quadri senza esperienza?
Ci si può anche chiedere perché il Belgio abbia atteso così a lungo prima di dare un’adeguata formazione ai congolesi. Poi, quando si è deciso, l’ha fatto senza convinzione. E perché non c’erano contatti umani tra colonizzati e colonizzatori? A Kinshasa, dalle 18.00, nessun nero poteva attraversare il Boulevard 30 Giugno. Le due comunità erano del tutto separate.
Oggi gli imprenditori sembrano darle ragione, quando parlano di fallimento del sistema formativo-educativo. Si lamentano che molti giovani diplomati arrivano senza competenze sul mercato del lavoro. Ci sono stati molti “anni bianchi”, cioè con le scuole chiuse, e talvolta i professori per sopravvivere fanno commercio di diplomi...
È chiaro che in un sistema scolastico così malconcio solo i più brillanti se la possono cavare e uscire con qualche competenza. Però mi chiedo: dove sono le imprese che prendono i giovani e insegnano loro un mestiere? Questo paese ha 60 milioni di abitanti. Si è fortunati, se si trovano 100mila persone con una discreta formazione intellettuale. La massa è enorme e coloro che devono far da locomotiva sono pochi.
Gli uomini d’affari congolesi sembrano essere più commercianti che veri imprenditori che trasformano il prodotto. Manca un’etica del lavoro e del profitto. Com’è l’homo oeconomicus congolese?
I nostri avi non avevano idea di che cosa fosse un’impresa. E ciò è valido per l’insieme dei paesi africani. Anche oggi, il più delle volte, chi lavora ha la mentalità del funzionario, dell’impiegato, non è integrato nell’economia moderna. Certo poi bisogna anche interrogarsi sull’etica d’impresa di certi stranieri che sbarcano qui da noi.
Insisto. I congolesi sembrano non possedere il senso del risparmio. Ciò è dovuto al clima, al fatto che non c’è mai freddo e dunque non ci sono granai, come sostengono alcuni sociologi?
Non bisogna generalizzate. Sono originario della regione di Idiofa, a 140 km da Kikwit, e li ci sono i granai. E’ vero che la gente della foresta, per esempio, nell’Equateur, vive di raccolta e di caccia. Ma sono altre le questioni da prendere in considerazione. Abbiamo degli avvocati e dei medici intellettualmente preparati e brillanti che però, spesso, non sono in grado di gestire compiutamente un ufficio o un ambulatorio. Ecco: ci sarebbe bisogno di formazione in questo campo. Del resto, il paese è sempre stato fuori dai circuiti dell’economia moderna.
Non nascondo che questa situazione ci crea molti problemi. Guardiamo al sistema bancario. Dove sono le banche nell’Rd Congo? Dove sono i congolesi esperti di questo settore? Si dirà che lo stato deve mettere ordine, ma è un giro di parole. Da dove viene lo stato?
Tuttavia, sembra esserci un disordine tipicamente congolese, anche se l’Rd Congo non è stata la sola a essere colonizzata...
Ci sono storie diverse. Kenya e Nigeria, per esempio, hanno avuto contatti con l’Occidente ben prima di noi. L’Università MerleauPonty a Dakar è stata creata nel 1932, quella di Kinshasa nel 1954. I primi collaboratori delle piantagioni della Unilever (multinazionale anglo-olandese) sono stati nigeriani e ghaneani. In definitiva, tra belgi e congolesi non c’è ma stata una transizione, un passaggio di consegne. Ma può anche darsi che, all’indomani dell’indipendenza, se il Congo fosse stato diviso in sei paesi, oggi vivremmo una situazione molto migliore.
In ogni caso, ho fiducia nel futuro: abbiamo istituzioni legittime, espresse dal popolo, e questo è fantastico; al governo ci sono giovani e politici di lungo corso. La corruzione non mi preoccupa. L’importante è che, per esercitare il potere, si debba essere eletti e non nominati. Dopo queste elezioni, c’è stato chi ha ricevuto una bella lezione di umiltà.
Le elezioni hanno visto emergere nuove personalità, ma ancora molti dei soliti noti gestiscono Io stato. Com’è possibile fare una nuova politica in queste condizioni?
Mobutu ha preso il potere trentenne. Oggi il presidente Kabila e Kamitatu, uno dei ministri di punta, hanno più o meno quell’età. Nello stesso tempo, ci sono sulla scena uomini che hanno una certa esperienza nell’ambito delle attività economiche, gli stessi che negli anni ‘90 contestarono a Mobutu la sua gestione dello stato e dell’economia. E c’è, è vero, un primo ministro, Antoine Gizenga, un po’ avanti con gli anni. Ma sulla sua onestà e capacità sono pronto a scommettere.