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Venerdì, 16 Novembre 2007 19:39

Guardare il creato con gli occhi di Dio

Guardare il creato con gli occhi di Dio

di Gerolamo Fazzini
da Mondo e Missione/Agosto-Settembre 2007

Il tema della vita è stato uno di quelli sottolineati con maggior forza nel corso della quinta Conferenza generale degli episcopati dell’America Latina e dei Caraibi ad Aparecida, nel maggio scorso. La vita minacciata, offesa, negata in mille modi: dalle guerre all’aborto, passando per lo sfruttamento sessuale e la violenza diffusa. Si è parlato di «ecologia umana», con un obiettivo privilegiato: l’Amazzonia.

La domanda è: come immaginare uno sviluppo umano nel segno di una fedeltà al Vangelo? La dottrina sociale della Chiesa suggerisce due aggettivi: «integrale» (ossia attento a tutte le dimensioni dell’umano, a cominciare dall’apertura alla trascendenza) e «sostenibile», cioè preoccupato delle ripercussioni sul futuro e sulle nuove generazioni.

La Giornata del creato, che da qualche anno si celebra il primo settembre, è un’occasione privilegiata per una riflessione - che sia preludio a un impegno di cambiamento - su questo tema così cruciale. «Giornata del creato» dice in partenza l’orizzonte che noi cristiani adottiamo nell’affrontare la questione ecologica. Da un lato, siamo chiamati a riconoscere che il mondo, la natura, sono stati fatti da un Altro e rappresentano un immenso dono. Dall’altro, sappiamo che il Creatore ha affidato alle donne e agli uomini la salvaguardia del creato, consegnando loro una signoria responsabile sulla natura. All’uomo è chiesto di esercitare un difficile equilibrio, dal momento che, come sa sfruttare al meglio scienza e tecnologia, è capace - purtroppo - di operare scelte disastrose. Per se stesso, per gli altri e per il pianeta.

Salvaguardia dell’ambiente in senso cristiano significa, allora, non già una tutela passiva della natura, bensì prendere sul serio la questione ecologica. Che non è una moda passeggera, ma rappresenta un’autentica emergenza e una sfida per tutti i credenti: non a caso anche l’imminente assemblea ecumenica europea di Sibiu - come già le precedenti di Basilea e Graz - se ne occuperà. Questi criteri dovrebbero guidarci anche nell’affrontare il dibattito, oggi infuocato, sui cambiamenti climatici. L’incontro di studio e confronto fra esperti di varie scuole - tenutosi in Vaticano qualche mese fa per iniziativa del Pontificio consiglio giustizia e pace - ha offerto moti spunti che possono essere interpretati come altrettante bussole per un discernimento serio.

Li ricapitoliamo in sintesi. Innanzitutto. il dibattito scientifico su origine e motivi dei cambiamenti climatici non è chiuso, dal momento che esistono posizioni differenziate. La Chiesa incoraggia la scienza ad andare avanti nella ricerca e nel confronto.

Inoltre, ciò che sta a cuore alla Chiesa è lo sviluppo dei Paesi poveri, ragion per cui le politiche sul clima devono tenere conto di questa priorità. Ciò significa che come cristiani non possiamo condividere politiche ambientali che siano pretesto per impedire uno sviluppo armonico dei Paesi poveri o, peggio ancora, per promuovere un controllo forzato delle nascite. Infine, i cambiamenti climatici non sono in sé causa di povertà, ma aggravano problemi là dove c’è maggiore vulnerabilità, a causa del sottosviluppo. Per questo sono importanti politiche che promuovano uno sviluppo a misura d’uomo e di ambiente, in un quadro più ampio di adattamento ai cambiamenti.

In sintesi: la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. I problemi ambientali nascono dalla negazione del Creatore, che conduce a un doppio esito, in entrambi i casi pericoloso: lo sfruttamento selvaggio delle risorse («dominio dispotico e dissennato») o la divinizzazione della natura, che porta a considerare l’attività umana come male in sé. Per uscire da questa doppia trappola (l’egoismo consumista che aggredisce la natura o l’ambientalismo che la idolatra, a danno dell’uomo) una via c’è: tornare a guardare a quanto ci circonda con gli occhi di Dio.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 16 Novembre 2007 19:37

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Il nostro Paese sta cambiando: i volti delle persone che incontriamo per le strade sono diversi, le lingue che sentiamo parlare risuonano estranee, gli odori che provengono dalle case vicine ci sono sconosciuti, eppure siamo sempre nello stesso luogo, sempre in Italia, seppur trasformata, plurale, vale a dire multietnica, multiculturale e multireligiosa. Chi sono queste nuove persone? Da dove provengono? Vogliono restare o ripartire? E se rimanessero, saprebbero accettare e rispettare i valori della nostra Costituzione? Potremmo considerarli cittadini italiani soltanto dopo cinque anni?

In occasione della Giornata mondiale del migrante, Benedetto XVI ha preso a esempio la Famiglia di Nazaret per mostrare come, attraverso il suo peregrinare, è possibile intravedere la dolorosa condizione di tanti migranti, specialmente dei rifugiati, de- gli esuli, degli sfollati, dei profughi, dei perseguitati che si trovano ad affrontare numerosi disagi, ristrettezze economiche, diffidenze e notevoli fragilità psicologiche, nella difficile ricerca di un nuovo luogo in cui vivere. Il Papa ha sottolineato che nel vasto campo delle migrazioni la persona umana dev’essere sempre al centro: «Soltanto il rispetto della dignità umana di tutti i migranti, da un lato, e il riconoscimento da parte dei migranti stessi dei valori della società che li ospita, dall’altro, rendono possibile la giusta integrazione delle famiglie nei sistemi sociali, economici e politici dei Paesi di accoglienza1». Solo così questo fenomeno non costituirà soltanto un problema, ma anche e soprattutto una risorsa per l’umanità.

Immigrazione: alla ricerca delle giuste regole

Eppure i migranti restano, sotto certi punti di vista, uno degli elementi negativi delle nostre società, la parte oscura e ignota, quella da cui ci si vuole salvaguardare, quella che si teme perché sconosciuta, diversa, a volte clandestina. Per questo è necessario in primo luogo tutelarli: sia attraverso opportuni presidi legislativi, giuridici e amministrativi specifici, sia mediante una rete di servizi, di punti di ascolto, di strutture di assistenza che ne permettano la conoscenza e l’inserimento nei diversi contesti sociali. Di fatto, nel trattare dell’immigrazione è fondamentale, come scrive Johan Ketelers, segretario generale dell’Icmc (International catholic migration commission), considerare anzitutto i diritti umani e «l’ulteriore sviluppo di un sistema legale internazionale, volto a proteggere gli immigrati, che sia accettato, ratificato e applicato da tutti i Paesi »2, senza tralasciare però i doveri e gli obblighi degli stessi immigrati, e le ragionevoli aspettative che i Paesi di arrivo nutrono a tale riguardo.

Per questo tutti i protagonisti della vita pubblica, inclusi gli immigrati e le loro organizzazioni, devono contribuire a formulare regole serie e trasparenti, che permettano lo sviluppo del processo d’integrazione e di un fondamentale cambio di mentalità, volto al rinnovamento della convivenza civile. Il presidente Napolitano, in uno dei tanti suoi interventi sul tema, dopo aver sostenuto l’importanza e la valenza positiva del fenomeno immigrazione nell’Italia di oggi - per sopperire alla carenza di mano d’opera in vari settori, per combattere il decremento delle nascite; per una modernizzazione sociale e culturale -, ha aggiunto: «La strada dell’integrazione è ancora lunga e va affrontata con coerenza e rigore. A tal fine è anzitutto necessario che gli ingressi avvengano per via legale. Gli immigrati non devono più avere la paura di vivere in condizione irregolare e di sopportare le conseguenze dell’emarginazione che all’irregolarità si associa. È soprattutto cruciale evitare i gravissimi rischi collegati agli ingressi clandestini. Dare certezze al percorso migratorio fin dai Paesi d’origine, con regole che tutti devono rispettare, significa far rientrare nella normalità un fenomeno che ormai contrassegna questo secolo»3.

Un’occasione per testare le nostre capacità di accoglienza e la chiara applicazione delle regole è arrivata il 1° gennaio, con l’estensione della cittadinanza europea a bulgari e rumeni. Secondo quanto stabilito dall’articolo 18 del Trattato istitutivo della Comunità europea, è riconosciuto loro il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio di tutti gli Stati membri e, per quel che riguarda l’Italia, non saranno più sottoposti alla disciplina normativa prevista dalla Bossi-Fini(d.l. 1998,n. 286). Pertanto i cittadini rumeni e bulgari già esentati dall’obbligo del visto per soggiorni turistici, non dovranno munirsene nemmeno per altri motivi di ingresso - lavoro, famiglia, studio -, ma basterà il possesso di un normale documento di identità o di un passaporto4. Temendo ripercussioni in ambito lavorativo, il Governo italiano nel Consiglio dei ministri del 27 gennaio 2007; analogamente a quanto previsto in altri Paesi dell’Ue, ha deciso di avvalersi di un “regime transitorio” (durata un anno), prima della completa liberalizzazione dell’accesso al lavoro subordinato, lasciando invece senza alcuna restrizione il lavoro autonomo.

Se a marzo dello scorso anno si poteva parlare di 400.000 unità per i rumeni presenti in Italia e di 30.000 per i bulgari, queste cifre hanno ovviamente subito un incremento in seguito all’apertura delle frontiere che, per quanto non ancora quantificabile, ha vieppiù alimentato la già alta diffidenza verso i Rom5, minoranza etnica in Romania, dove costituiscono circa il 10% dei 23 milioni di quella popolazione. I Rom, proprio per il loro stile di vita nomade, sono fortemente discriminati in Romania, ottenendo presso quel Parlamento un solo rappresentante, nonostante le 40 comunità presenti nel Paese. Ebbene, questa situazione negativa in patria, unita al diritto alla libera circolazione acquisito il 1° gennaio, ha fatto temere un’invasione delle nostre città da parte dei Rom i quali, solitamente ghettizzati nelle periferie italiane, rischiano ancora una volta di diventare il “capro espiatorio” e di essere cacciati, quando invece - proprio per la loro mobilità -, sono i meno desiderosi di trattenersi in un Paese.

Va invece rilevato che, a. partire dal 1992, proprio i rumeni (non Rom) hanno decuplicato la loro presenza in Italia - sono oggi quasi tre milioni -, pur non avendo casa o residenza comunale, e rimanendo sprovvisti di iscrizione alle anagrafi comunali. Come, sottolinea la Caritas italiana, «l’andamento degli ultimi anni può far pensare a una pressione migratoria di 60.000 lavoratori». Anche la “questione nomadi” - rispetto alla quale la Caritas è molto impegnata a livello sia dell’accoglienza, sia del confronto istituzionale - evidenzia aspetti complessi, che richiedono di considerare attentamente le disposizioni europee, ricordando che l’applicazione delle leggi e la sicurezza sono valori condivisi anche dalla maggior parte degli immigrati, tanto più che in Italia, nel 2006, il 23,3% delle assunzioni, secondo i dati della Camera di commercio di Milano, è stato appannaggio di immigrati - particolarmente nel settore dei servizi, immobiliare, del noleggio, delle pulizie e della vigilanza, ma con presenze anche nella sanità, nell’istruzione, nella ristorazione e nel commercio -, evidenziando come il flusso extracomunitario, se gestito con razionalità, può diventare una preziosa, risorsa per lo sviluppo nazionale6.

Cittadinanza e integrazione. Quali i tempi?

Ma quanti sono gli immigrati in Italia? Secondo i dati Istat, forniti dal Ministero dell’Interno, al 1° gennaio 2006 i cittadini stranieri residenti in Italia erano 2.670.514, cifra alla quale vanno aggiunti sia i minori residenti, sia gli irregolari: il Rapporto Eurispes parla di 800 mila persone, arrivando così a più di 3 milioni7 . Naturalmente in crescita, visti i nuovi arrivi - nel mese di marzo 2006 sono state presentate 485.000 domande di assunzione - e le nascite dei figli di cittadini stranieri. Inoltre, il nostro Paese si conferma primo, tra i Paesi europei, per numero - assoluto e relativo - degli immigrati irregolari8, e presenta la più alta percentuale di extracomunitari sul totale degli immigrati, oltre che di immigrati disoccupati o sottoccupati. Se nell’arco di dodici anni, dal 1992 al 2004, si è passati da 650 mila permessi di soggiorno a più di due milioni, oggi siamo arrivati a parlare di cittadinanza agli stranieri dopo cinque anni di permanenza in Italia.

Nel progetto della nuova legge sulla cittadinanza, all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, si legge che due sono gli aspetti su cui poggia il testo unificato: la concezione della cittadinanza come strumento volto a favorire l’integrazione; la concezione della cittadinanza come, atto di volontà individuale che, in presenza di determinate condizioni, impegna lo Stato. Inoltre gli elementi costitutivi della nuova disciplina consistono nello ius soli, nell’appartenenza fisica e sociale alla comunità, nell’adesione ai principi costituzionali e nella possibilità della doppia cittadinanza. Quindi: cittadinanza dopo cinque anni di residenza regolare e continua nel Paese per gli adulti; cittadinanza per i bambini che nascono in Italia, a patto che almeno uno dei due genitori risieda legalmente da almeno cinque anni senza interruzioni; cittadinanza per i ragazzi che non nascono qui ma che, da almeno cinque anni, studiano o lavorano e hanno almeno uno dei due genitori nella stessa condizione.

L’art. 5 della legge recita: «L’attribuzione della cittadinanza è condizionata dalla conoscenza della lingua italiana equivalente al livello del terzo anno della scuola primaria»9, ma è necessario chiedersi: se la cittadinanza è la forma giuridica di un contenuto alto, che dovrebbe certificare l’appartenenza a una comunità e la condivisione di una serie di valori fondanti, basteranno cinque anni di residenza e la minima conoscenza della nostra lingua per fare di uno straniero un cittadino nel senso pieno del termine? La riduzione drastica dei tempi favorirà il processo di integrazione, o aiuterà persone che vogliono soltanto sfruttare i vantaggi derivanti dall’acquisizione di certi diritti, senza la sottomissione ai relativi doveri? E infine, siamo certi che i valori della nostra democrazia, il conseguente rispetto della dignità umana, le libertà civili e religiose, il primato della legge, saranno considerati sacri e inviolabili dai nuovi cittadini, compresi quelli di religione islamica?

Non va dimenticato infatti che nel nostro Paese, al 31 dicembre 2006, gli immigrati musulmani con regolare permesso di soggiorno erano un milione e che l’Islam è la seconda religione in Italia, con il 33,2% di praticanti; senza tener conto degli irregolari, la cui presenza - elevata in alcune zone e in alcuni periodi dell’anno - non è ben quantificabile, a causa della grande mobilità e del continuo ricambio di persone. Com’è noto, esistono più forme di Islam riconducibili a tre differenti atteggiamenti: il primo rappresentato da una fede vissuta interiormente da musulmani moderati, pacifici coabitatori tra noi, che tendono a integrarsi, pur mantenendo salde le proprie radici; il secondo caratterizzato da un’indifferenza verso i legami con la tradizione di provenienza e incurante di ogni espressione di religiosità; il terzo, apparentemente il più forte e aggressivo, non solo pretende dallo Stato italiano di finanziare le istituzioni islamiche - scuole coraniche e moschee10 -, ma anche si oppone vivacemente a concedere alternative nelle scelte personali dei corregionali, come dimostrano le vicissitudini della Carta dei valori e dei principi, in cui l’Ucoii ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante11.

Al di là della complessa “questione islamica”, ancora pressoché irrisolta, va sottolineato che un documento, sia passaporto o carta d’identità, non determina il sentirsi parte di uno Stato, né la cittadinanza può essere considerata un punto di partenza per una futura integrazione. Essa è semmai il punto di arrivo di un processo molto lungo, che inizia dalla conoscenza della lingua, della storia, delle tradizioni, dei principi giuridici fondamentali del nostro Paese, per passare poi dall’estraneità all’accettazione sincera, dall’ostilità al sentirsi a casa, dal multiculturalismo alla piena integrazione socioculturale e politica. Ciò non significa pretendere una coincidenza tra nazionalità e cittadinanza, ma semplicemente l’accettazione piena e consapevole da parte del migrante - pur nel rispetto delle sue diversità culturali e religiose -, dei fondamenti costituzionali e dell’ordinamento giuridico del nostro Stato: dopo averlo effettivamente conosciuto. Solo così sarà possibile una convivenza in cui, se da un lato la nostra tradizione saprà arricchirsi con nuovi contributi, diverse realtà, altre culture con essa compatibili - senza mostrare alcun timore di perdere la propria identità -, dall’altro i cittadini “acquisiti” potranno sentirsi parte di questa nazione.

Note

(1) Migranti-press, anno XXIX, n. 3, p. 1. Proprio in relazione a quanto detto, e per mantener vive le parole del suo predecessore Giovanni Paolo II – “L’uomo che soffre ci appartiene” -, Benedetto XVI ha personalmente visitato la mensa di Colle Oppio una delle tante gestite dalla Caritas romana, definendola “un luogo significativo della città di Roma, ricco di umanità. In questa mensa è possibile toccare con mano la presenza di Cristo nel fratello che ha fame e in colui che gli offre da mangiare. Qui si può sperimentare che, quando amiamo il prossimo, conosciamo meglio Dio”. Ricordiamo che i pasti serviti dalla mensa di Colle Oppio – a Roma e Ostia ce ne sono altre tre -, nel 2005 sono stati 122.000 e, su un totale di 4.573 ospiti, il 73% erano stranieri, provenienti da 98 Paesi diversi.

(2) Migranti-press, anno XXIX, n. 4, p. 2.

(3) Migranti-press, anno XXVIII, n. 51, p. 9.

(4) In caso di provenienza diretta dalla Romania o Bulgaria, i soggetti verranno sottoposti a controlli minimi alla frontiera, tipo: accertamento dell’identità della persona e verifica della validità e autenticità dei documenti di viaggio. Il diritto di ingresso può essere limitato solo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza.

(5) Migranti-press, anno XXIX, n. 13, p. 3. A tal proposito è intervenuto monsignor Piero Gabella, responsabile della Fondazione Cei Migrantes, sostenendo che “gli allarmismi fanno nascere paure nella gente, che poi interpreta i fatti in modo poco cristiano. Occorre abbassare i toni e vedere cosa accade realmente, senza pregiudizi”. Innegabilmente, però, la “questione zingari” – nella sua formulazione più vaga – coinvolge negativamente presso l’opinione pubblica i Rom (e altri gruppi di nomadi), come visto nel paginone de La Stampa, 18 aprile 2007, “Ho visto gli zingari rubare i bambini”, dove si evoca il rapimento della piccola Denise.

(6) Cf ivi, p. 5. Secondo un’inchiesta di Repubblica, 11 aprile 2007, il settore edile è quello in cui maggiormente sono presenti gli immigrati, spesso con garanzie e tutele minime, il 45% su 1.200.000 operai. Di questi 600.000 sono in nero e, quindi a rischio di gravi infortuni, perché di solito costretti a lavorare senza alcuna attrezzatura di sicurezza.

(7) Secondo Caritas-Migrantes, Immigrazione, Dossier Statistico 2006. XVI Rapporto, Centro Studi e Ricerche Idos, Roma 2006, gli stranieri in Italia sarebbero 3.035.144. il Dossier è un progetto di ricerca e sensibilizzazione che fa capo alla Caritas italiana, alla Fondazione Migrantes e alla Caritas diocesana di Roma. Per un’approfondita analisi delle cifre ivi riportate cf Simone M., Il Dossier sull’immigrazione , in Civiltà Cattolica 2006 IV, pp. 490-499.

(8) Vanno ricordati i continui sbarchi di clandestini nell’isola di Lampedusa, con non pochi incidenti, oltre che nel resto delle coste italiane. Secondo il Corriere della Sera, 12 aprile 2007, è al vaglio del Consiglio dei Ministri la nuova legge sull’immigrazione Amato-Ferrero che, sostituendo la Bossi-Fini, intende rendere più flessibile l’incontro tra offerta e domanda di lavoro. Tra l’altro, l’ultima relazione di Palazzo Chigi sui servizi segreti conferma che la maggior parte dei clandestini (64%) sono stranieri col permesso di soggiorno scaduto, overstayers che magari lavorano in nero, mentre sono più ridotte le quote di chi varca “fraudolentemente” le frontiere terrestri (23%) e di chi sbarca sulle coste italiane (13%). Tra i 700.000 senza documenti, molti sono gli extracomunitari che hanno chiesto il permesso di soggiorno grazie ai decreti flussi 2006: e su questo fronte, assicura Amato, «il 68% delle 400.000 domande risulta ormai definito. A Milano, su 33.665 domande ne sono state definite 18.660 (di cui 8.980 respinte)». Davanti a questi numeri, il ministro Ferrero non esclude una regolarizzazione «tale e quale a quella fatta dalla Cdl», che sanò la posizione di 700.000 persone. Il Giornale, 12 aprile 2007, riferisce che la nuova legge sull’immigrazione vorrebbe ridurre l’irregolarità e potrebbe permettere a un milione e mezzo di immigrati di votare alle elezioni amministrative o di essere eletti nei Comuni – da sottolineare il fatto che il 20% degli iscritti alla Cgil è extracomunitario -, con l’unico requisito di avere la carta di soggiorno, che viene consegnata a chi risiede nel nostro Paese da almeno cinque anni e ne fa richiesta.

(9) Per una lettura di tutti gli articoli del nuovo testo unico riguardante le «Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza», e che riduce da 10 a 5 gli anni necessari per ottenere la cittadinanza italiana, cf Migranti -press, anno XXIX, n. 10, p. 8.

(10) Il Giornale, 12 aprile 2007. In 7 anni, le scuole coraniche e le moschee, presenti in Italia, sono aumentate del 50%, grazie ai finanziamenti dello Stato per le organizzazioni assistenziali e religiose.

(11) L’Ucoii (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli Musulmani - un movimento fondamentalista e radicale -,è salita ai vertici delle cronache nazionali per essere l’interlocutore principale con cui il ministero dell’Interno, fin dai tempi di Pisanu, ha dato vita a una Consulta islamica, organo composto di 16 membri, col compito di favorire l’integrazione degli islamici in Italia. L’8 febbraio 2007 Hamza Piccardo e Mohamed Nour Dachan, rispettivamente presidente e portavoce dell’Ucoii sono stati indagati - dopo mesi di indagini - dalla Procura di Roma per l’ipotesi di reato di istigazione all’odio razziale, in seguito ad alcune dichiarazioni nelle quali era scritto «ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano», con l’evidente intento di paragonare le stragi naziste a quelle in Libano. Per ulteriori approfondimenti cf Vanzan P. - Scatena M., “L Islam tra noi, da Regensburg alla Carta dei valori”, in Studium settembre/ottobre 2006, pp. 651-667, e Vanzan P., Nota politica, in VP 6/2007.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

Potenza nucleare nel Medio Oriente - LA BOMBA DI PULCINELLA

Angela Lano, giornalista e scrittrice, è direttore del sito www.infopal.it 
da MC Maggio 2007

Il segreto di Pulcinella è stato infin svelato:lsraele è una potenza nucleare. Come tutti sapevano già dalle rivelazioni del tecnico nucleare Mordechai Vanunu,vent’anni fa (leggi: Missioni Consolata, luglio-agosto 2004, ndr). A togliere gli ultimi dubbi, semmai ce ne fossero ancora in giro, è stato lo stesso premier israeliano Ehud Olmert che, l’11 dicembre scorso,durante un’intervista alla tv tedesca Sat1, ha dichiarato: «L’Iran, apertamente, esplicitamente e pubblicamente minaccia di spazzare via Israele dalla mappa. Potete affermare che ciò rappresenti lo stesso livello, quando essi aspirano ad avere armi nucleari come America, Francia, Israele,Russia? ».Già,armi nucleari «come Israele».

Mordechai, l’Iran e i media mondiali

Mordechai Vanunu,che ha passato 18 anni in prigione dopo che nel 1986 aveva reso pubblico il programma nucleare israeliano, ha dichiarato all’agenzia France Press (www.afp.com): «Le affermazioni di Olmert non sono nulla di nuovo, ma è una buona cosa che Israele abbia deciso di renderle pubbliche. Il mondo, ora, non dovrebbe solo parlare dell’Iran, ma anche di Israele come minaccia nucleare con cui avere a che fare, in modo da creare un Medio Oriente libero dal nucleare e portare la pace». Tuttavia, l’attenzione internazionale è concentrata sull’Iran. Non passa giorno senza che i nostri e gli altri media ci avvertano del «pericolo atomico iraniano», nella lenta, inesorabile,devastante preparazione del «consenso» alla nuova guerra di Bush &compagnia.

Israele è l’unica potenza atomica del Vicino e Medio Oriente,e ha invaso il Libano, l’estate scorsa, e massacra da decenni il popolo palestinese.

All’inizio di gennaio, la rivista militare Genus riferiva quanto riportato da esperti militari:è probabile che Israele possieda circa 150-200 testate nucleari,chiamate «Yeriho» (Gerico), e missili in grado di portare testate a lunga gittata. La testimonianza arriverebbe da “foto satellitari”, secondo le quali, le stazioni di lancio dei missili si troverebbero nell’area di Zechariya, vicino a Beit Shemesh, a ovest di Gerusalemme.

Il 13 novembre scorso,durante la visita a Washington, Olmert aveva per la prima volta fatto cenno a un’azione militare contro l’Iran per «bloccarne il programma militare»:«l’Iran accetterà una soluzione di compromesso sulla questione nucleare solo se avrà motivo dì aver paura»

Quelle bombe nucleari in attesa...

Il 17 gennaio, il quotidiano inglese Sunday Times pubblicava un articolo dal titolo «Rivelazione: Israele pianifica un attacco nucleare contro l’Iran»: «Due squadriglie aeree israeliane si stanno addestrando per far saltare un’installazione iraniana usando bombe a testata nucleare. (...) L’attacco sarebbe il primo con armi nucleari dal 1945,quando gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le bombe israeliane avrebbero ognuna una forza equivalente a 1/15 della bomba di Hiroshima. Bombe convenzionali con laser apriranno dei tunnel dentro gli obiettivi. “Mini bombe nucleari” verrebbero immediatamente sparate dentro un impianto a Natanz, esplodendo in profondità per ridurre il rischio della ricaduta radioattiva. “Non appena verrà data luce verde, ci sarà una missione, un colpo e il progetto nucleare sarà distrutto ha dichiarato una delle fonti. (.. .) Il governo israeliano ha più volte minacciato che non lascerà mai che armi nucleari vengano costruite in Iran,il cui presidente Mahmoud Ahmadinejad, ha dichiarato che “Israele deve essere spazzato via dalla mappa geografica”(...).Scienziati hanno calcolato che, sebbene la contaminazione dal bunker potrebbe essere limitata , tonnellate di sostanze a base di uranio radioattivo verrebbero rilasciate».

Arsenali Usa in Israele

Il 12 dicembre dello scorso anno, l’agenzia israeliana Ynetnews (www.y netnews.com) appartenente al gruppo Yedioth, ha reso noto che «il senato e la camera dei rappresentanti Usa hanno approvato il raddoppio degli arsenali statunitensi in Israele». In questi depositi, ha scritto il giornalista Manlio Dinucci, il Pentagono conserva armi e altri equipaggiamenti militari, del valore di 100 milioni di dollari, da usare in Medio Oriente «in caso di emergenza». Ma,«in caso di emergenza, anche Israele è autorizzato a usare questi arsenali».Ora essi saranno raddoppiati come capacità e, grazie a un finanziamento di 200 milioni di dollari, «riempiti di nuovo».Perché riempiti di nuovo? Perché “gran parte delle armi e degli equipaggiamentistatunitensi depositati in Israele l’anno scorso è stata usata questa estate per combattere la guerra in Libano”.

Questo raddoppio tira in ballo anche il nostro Paese: “Come documenta l’organizzazione statunitense Global Security (www.globalsecurity.org) – scrive ancora Dinucci -, il 31° squadrone munizioni che opera a Camp Darby”, la base logistica dell’esercito Usa tra Pisa e Livorno, è responsabile del maggior e più disseminato arsenale di munizioni convenzionali delle forze aeree Usa in Europa, consistente in 21mila tonnellate collocate in Italia, e di due depositi classificati, situati in Israele. Questi e altri arsenali statunitensi in lsraele, gran parte dei quali è stata usata per la guerra contro il Libano, sono dunque una sorta di succursale di Camp Darby.(..) E, poiché ora il raddoppio e il riempimento degli arsenali Usa in Israele saranno effettuati dal 31° squadrone munizioni, sarà sempre questa base Usa in Italia a svolgere un ruolo chiave.

Un po’ di … preistoria atomica israeliana

La farsa del lapsus-fuga di notizie sull’arsenale nucleare israeliano, di cui il premier Olmert si è reso (consapevole?) strumento, copre una verità indiscussa e ben precedente anche alle ormai datate rivelazioni di Vanunu.

Il piano nucleare israeliano ha non solo una storia, ma anche una preistoria, registrata su documenti, libri, ecc. Nel numero del 24 dicembre scorso la rivista Jeune Afrique ripercorre la «preistoria» nucleare di Israele attraverso il libro del giornalista israeliano Michael Karpin,«The bomb in the Basement»:«L’autore fa risalire la “preistoria dell’armamento nucleare israeliano”al 1930, precisamente alla rivolta araba del 1935-1939 in Palestina contro la potenza mandataria britannica e contro la colonizzazione sionista. È da allora, dunque, prima della shoah, che David Ben Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica e che diventerà il primo capo di governo israeliano, si convince che i suoi correligionari sarebbero stati sterminati dagli Arabi, se non fossero stati protetti da un esercito più potente dell’insieme delle forze della regione. Questa “dottrina Ben Gurion” comprenderà, a partire dal 1945, la volontà di acquisire un arsenale atomico e impedire ai vicini di israele di entrare in competizione su questo terreno.

Dalla fine della Guerra mondiale, il movimento sionista ricerca e ottiene l’appoggio degli Stati Uniti e, singolarmente,di un gruppo di 17 ricchi ebrei americani,che finanziano l’acquisto e il trasporto delle armi, delle munizioni e delle macchine belliche, Questo comitato, Sonneborn, dal nome di uno dei 17 membri,apporterà ancora un importante contributo, nel 1956-1957,al progetto nucleare franco-israeliano.

Questo orientamento al nucleare, voluto da Ben Gurion, è evidenziato dopo la creazione dello Stato, nel 1948, da un dipartimento di ricerca nucleare”.

Israele, partner militare dell’Italia

Il governo israeliano è nostro partner militare: il 17 maggio 2005, il governo Berlusconi vara la Legge n. 94, dove viene istituzionalizzata un’intesa per la cooperazione militare con Israele siglata nel 2003 (www.italgiure.giustizi.it). «Essa prevede - prosegue Dinucci - una serie di attività congiunte, tra cui “importazione, esportazione e transito di materiali militari ”organizzazione delle forze armate ”scambio di dati tecnici, informazioni e hardware”militari. In tal modo l’Italia contribuisce, con ricerche e alte tecnologie, anche al potenziamento dell’arsenale nucleare israeliano, l’unico in Medio Oriente». Proprio una bella equivicinanza!

Un accordo firmato a ottobre del 2006 prevede la partecipazione della flotta navale israeliana alla campagna militare Nato “Activ eEndeavour” (www.afsputh.nato.int) finalizzata a combattere il “terrorismo nel Mediterraneo”. La squadra navale Nato è comandata da un ufficiale italiano agli ordini statunitensi.

«In questi ultimi mesi - scrive Seymour Hersh su The New Yorker (riportiamo la traduzione pubblicata su Internazionale del 9 marzo2007, ndr) - con il progressivo deteriorarsi della situazione in Iraq, l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisa alla sua strategia in Medio Oriente, sia nella diplomazia ufficiale sia nelle operazioni clandestine. Questa “sterzata”- così la definiscono alcuni alla Casa Bianca - ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel sempre più acceso conflitto tra musulmani sciiti e sunniti in atto nella regione.

Per contrastare l’Iran, paese a prevalenza sciita, la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush - in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita - conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire l-Iezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran».

Di tale pericoloso scenario di «guerra infinita» parla ormai quasi quotidianamente un illustre personaggio ebreo canadese, il prof. Michel Chossudovsky nel suo interessante e documentato sito di ricerca (www.globalresearch.ca): «Il mondo è al crocevia della più grave crisi della storia moderna - scrive in L’impensabile. La guerra nucleare statunitense-israeliana contro l’Iran .Gli Stati Uniti si sono imbarcati in un’avventura militare,una “lunga guerra” che minaccia il futuro dell’umanità. In nessun momento, da quando la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, il 6 agosto 1945, l’umanità è stata più vicina all’impensabile, a un olocausto nucleare che potrebbe potenzialmente diffondersi, in termini di contaminazione radioattiva,su una larga parte del Medio Oriente. Ci sono prove crescenti che l’amministrazione Bush,in accordo con Israele e la Nato, sta pianificando una guerra nucleare contro l’Iran, ironicamente, in rappresaglia per il suo programma atomico inesistente. L’operazione militare statunitense-israeliana è annunciata come “in un avanzato stato di preparazione”. Se tale piano stesse per essere lanciato, la guerra mondiale si intensificherebbe e probabilmente coinvolgerebbe l’intera area mediorientale e centrasiatica. La guerra potrebbe estendersi oltre la regione e, come alcuni analisti hanno suggerito, alla fine condurrebbe alla Terza guerra mondiale».

I media: amplificatori di menzogne

«L’Iran possiede un avanzato sistema aereo e la capacità di colpire le postazioni Usa e alleate in Iraq e negli Stati del Golfo, come ha dimostrato nei recenti esercizi militari» afferma Chossudovsky, sottolineando che, per rovesciare la minaccia della guerra,c’è bisogno di una campagna di informazione internazionale capillare sui «danni della guerra propagandata dagli Usa che prevede l’uso delle armi nucleari. Il messaggio deve essere forte e chiaro: non è solo l’Iran che costituisce una minaccia alla sicurezza globale, ma anche Stati Uniti d’America e Israele». Non possiamo che sperare, insieme al prof. Chossudovsky, ad analisti, studiosi, uomini e donne di pace che questa nuova guerra per cui la propaganda mediatica statunitense, israeliana ed europea sta lavorando da un paio di anni, non diventi realtà. Possiamo augurarci che i media, italiani compresi, smettano di fare i banditori di menzogne, gli amplificatori di balle planetarie e contro la vita sul pianeta, e rivelino, come alcuni stanno già facendo, i retroscena dell’ennesima impostura dei «signori delle guerre». Il mondo, gli esseri umani, non potrebbero permettersi una guerra nucleare.

«Bisogna rompere la cospirazione del silenzio - sottolinea Chossudovsky - mettere in luce le menzogne dei mezzi di informazione e le loro distorsioni, affrontare la natura criminale dell’amministrazione Usa e di quei governi che la sostengono, la sua agenda di guerra e la cosiddetta «Agenda della sicurezza nazionale», che ha già definito i contorni di uno stato di polizia. È fondamentale portare il progetto di guerra di Usa e Israele di fronte al dibattito politico, soprattutto nel Nordamerica, nell’Europa occidentale e in Israele. Politici e cittadini devono assumere una posizione contro la guerra». Quella imminente contro l’Iran. E contro tutte le altre attualmente in corso.

Due tesi che fanno discutere

Due libri diversi stanno facendo discutere e riempire le pagine culturali e politiche di riviste e quotidiani italiani: l’uno, Israele siamo noi (Edizione Rizzoli), scritto dalla pasdaran del conflitto israelo-palestinese, Fiamma Nierenstein; l’altro, Obiettivo Iran (Fazi), dell’ex capo delle ispezioni Onu per gli armamenti nucleari.

Il libro della Nierenstein critica duramente il pacifismo ebraico e sostiene l’inesistenza dell’apartheid israeliano attuato contro la popolazione palestinese. Check-point, barriere elettroniche sofisticatissime, muro di separazione, omicidi mirati di militanti e leader delle brigate della resistenza palestinese, occupazione, botte, torture, prigioni stracolme di palestinesi, proposta dei partiti religiosi di destra israeliani di «espellere gli arabi israeliani» dal paese, pulizia etnica, ecc, sono tutte invenzioni della propaganda antisemita. Fandonie, insomma, propinate da gente in malafede; propaganda che arriva anche dagli stessi Israeliani pacifisti e da movimenti ebraici occidentali; una congiura contro Israele, l’unica «democrazia-laboratorio del Medio Oriente».

La tesi della Nierenstein è questa: «Israele è un modello positivo di convivenza civile, proprio perché è fondato su un’ideologia - il sionismo - che propone un modo di vita insieme laico e carico di valori, attento ai bisogni della collettività e alla libertà degli individui, fondato sulla pace e sul progresso, alieno per sua natura dalla violenza». Israele e tutti i suoi abitanti, sia ebrei sia arabi, sarebbero dunque «direttamente minacciati di estinzione da parte del terrorismo suicida» e, in particolare, dall’Iran di Ahmadinejad, Hizbollah libanesi e Hamas palestinese.

In sintesi, quindi, Israele siamo noi, perché «la minaccia che lo sovrasta incombe su tutta la nostra civiltà occidentale, attaccata dall’estremismo islamico». Si tratta, in fondo, della tesi ormai imperante dello scontro tra civiltà, tra Oriente e Occidente.

Obiettivo Iran, di Scott Ritter, spiega perché Washington mira a far crollare il regime di Mahmoud Alimadinejad, anche a costo di «forzare la mano» all’Europa. L’autore «prospetta un’ipotesi in contro- tendenza rispetto al rnainstream dell’informazione: basandosi su un’attenta ricostruzione delle indagini condotte dalla Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) in Iran, dimostra che lo spettro del nucleare paventato dagli americani è stato ingigantito ad arte per giustificare un nuovo intervento in Medioriente. E che il programma di arricchimento dell’uranio è stato potenziato soprattutto a scopo energetico, non bellico.

Ma alla luce di questi elementi, la posizione dell’America appare sempre più strumentale: un altro tassello si aggiunge così al complesso quadro della strategia mistificatoria del governo Bush, già utilizzata per convincere l’opinione pubblica della necessità della guerra in Iraq. La Casa Bianca non è l’unica ad avere degli interessi in un nuovo disastroso conflitto: dopo le provocazioni di Ahmadinejad, Israele considera l’Iran il suo nemico pubblico n. 1 e teme un attacco missilistico. Ma in gioco ci sono pure gli accordi commerciali fra Iran e Cina per le risorse energetiche e gli investimenti della Russia».

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LA STRADA È LUNGA
Costa D’Avorio / Il dopo Accordi di Ouagadougou

di Andrea Anselmi
da Nigrizia/Giugno 2007

Il “dialogo diretto” tra il governo di Abidjan e gli ex ribelli sembra offrire dei risultati insperati. Gli accordi di Ouagadougou del 4 marzo hanno messo in moto dinamiche inaspettate, soprattutto alla luce delle difficoltà incontrate, da quasi cinque anni, per trovare una soluzione alla crisi.

Come previsto dalle disposizioni dell’accordo, il 29 marzo Guillaume Soro, già capo delle forze ribelli, è stato nominato primo ministro e ha formato un governo con l’obbiettivo principale di riportare la calma nel paese e organizzare al meglio la tenuta di nuove elezioni.

La formazione governativa comprende, al momento, undici ministri del partito del presidente Laurent Gbagbo, il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), sette delle Forze Nuove, e cinque a testa per i maggiori partiti di opposizione: il Raggruppamento dei Repubblicani (Rdr), di Alassane Ouattara, e il Partito democratico della Costa d’Avorio, di Henri Konan Bédié.

Da metà aprile, inoltre, Gbagbo ha annunciato l’inizio dello smantellamento della “zona di fiducia” (zone de confiance), che divide il nord e il sud del paese dal settembre 2002. Le forze internazionali di interposizione saranno gradualmente sostituite (una riduzione di metà ogni due mesi, fino al completo ritiro) da brigate miste di soldati dell’esercito ivoriano e di forze ribelli, sotto la tutela del Centro di comando integrato (Cci), struttura paritaria composta dagli stati maggiore delle due ex formazioni avversarie.

La fine della zona cuscinetto” dovrebbe permettere la ripresa di scambi regolari tra le due metà della Costa d’Avorio e potrebbe segnare un passo decisivo verso la riunificazione del paese. Inoltre, visti i progressi delle ultime settimane, diverse istituzioni sembrano aver ripreso fiducia nel possibile consolidamento del processo di pace ivoriano. Per esempio, a fine aprile il ministro ivoriano dell’economia e delle finanze, Charles Koffi Diby, è riuscito a trovare un accordo con la Banca mondiale per la ripresa dei prestiti.

Tali progressi erano impensabili fino a qualche mese fa. Dall’autunno scorso, il dialogo e le possibilità di un miglioramento concreto della situazione ivoriana sembravano, infatti, essersi arenati per l’ennesima volta. Le elezioni di ottobre erano state nuovamente posticipate per problemi legati al disarmo dei contendenti, all’identificazione e alla registrazione degli elettori.

A novembre, la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite pareva aver definitivamente messo alle corde Gbagbo, al quale era concesso ancora un anno di tempo prima che la legittimità del suo mandato presidenziale venisse revocata.

I mesi seguenti sono stati costellati da una serie di manifestazioni anti-Gbagbo, spesso duramente represse dall’intervento delle forze dell’ordine. Questo clima di tensione sembra, tuttavia, aver cominciato a dissiparsi con l’inizio delle contrattazioni tra il presidente ivoriano e il capo dei ribelli, Soro. Le negoziazioni iniziate nel febbraio scorso - al cospetto del capo di stato burkinabé, Blaise Compaoré - hanno portato alla firma degli accordi di Ouagadougou. Oltre allo smantellamento della zone de confiance, sostituita da una “linea verde” temporanea, questi patti prevedono una semplificazione del processo di identificazione e rilascio dei documenti necessari al voto, un quadro permanente di concertazione tra i quattro leader principali del paese (Gbagbo, Soro, Bédié e Ouattara) e la previsione di giungere a elezioni entro dieci mesi.

L’accordo trovato tra le due parti esclude, di fatto, qualsiasi mediazione internazionale (da parte dell’Onu o della Francia) e appare particolarmente favorevole al capo dello stato. Il presidente ivoriano sembra aver completamente svuotato d’importanza la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite. Si è sottratto agli obblighi del Gruppo di lavoro internazionale (che aveva il compito di seguire gli avanzamenti del processo di pace) e non si è ancora precluso nessun margine d’azione rispetto a Soro. La mancanza di compromessi specifici nella ripartizione di ruoli tra presidente e primo ministro si associa, inoltre, alla flessibilità delle scadenze fissate per la messa in pratica delle riforme previste.

Nonostante i concreti avanzamenti e la speranza nel raggiungimento degli obiettivi previsti, numerosi dubbi e preoccupazioni circondano la realtà ivoriana.

Fa discutere, per esempio, l’approvazione, alla quasi unanimità, di una legge di amnistia che copre tutti i delitti «contro la sicurezza dello stato» dal settembre 2000 (elezioni di Gbagbo) a oggi. Inoltre, se da un lato si temono possibili ricadute di violenza con la progressiva partenza dei contingenti internazionali, dall’altra ci si chiede quali possano essere le possibilità concrete di portare a pieno compimento tutti i propositi sviluppati negli accordi di pace.

Per quanto riguarda il primo punto, la scomparsa di una zona tampone di controllo potrebbe aumentare il rischio di eventuali azioni militari da parte di uno dei due schieramenti, eliminazioni mirate e abusi (omicidi, rapimenti, furti, violenze sessuali) nella “zona cuscinetto”, a opera di individui o milizie armate. A questo proposito, Francia e Nazioni Unite hanno confermato la loro intenzione di mantenere una presenza militare in Costa d’Avorio (che ora conta 11mila uomini, di cui circa 3.500 francesi).

Il nodo della questione sarà capire quali sono le vere intenzioni di Gbagbo e di Soro. Se si tratta, in definitiva, di un’ennesima spartizione a tempo indefinito della torta ivoriana o se l’obiettivo è quello di porre definitivamente fine alla crisi del paese. Allontanati, almeno per il momento, gli attori internazionali, la risoluzione della crisi è profondamente dipendente dalla buona volontà di cooperazione delle parti. L’impressione è che, nelle loro attività congiunte, Gbagbo e Soro mescolino rispetto e sfiducia reciproca. Oltre a questi scogli di ordine psicologico, tuttavia, gli impedimenti tecnici rimangono seri: disarmo, censimento della popolazione, registrazione degli elettori e revisione delle liste elettorali restano al centro della questione ivoriana.

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Lunedì, 12 Novembre 2007 19:01

IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

 IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Già in VF 12/2006, pp. 52-53, abbiamo presentato l’impegno del ministro dell’interno, Giuliano Amato, per realizzare l’integrazione dei musulmani nel tessuto sociale e politico italiano, coinvolgendo le varie organizzazioni islamiche presenti tra noi in una Carta dei valori condivisibile anche da loro1. Tra le 16 organizzazioni che rappresentano l’arcipelago islamico presente tra noi, spicca l’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli musulmani, movimento fondamentalista radicale. Questa organizzazione è salita ai vertici delle cronache nazionali nell’agosto 2006, quando - in seguito alla guerra nel Libano - fece pubblicare affermazioni, tipo: «Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano». Deciso a contrastare tali farneticazioni, Amato aveva immediatamente convocato la Consulta senza però riuscire – nonostante l’appoggio della maggioranza - a ottenere le scuse di Mohamed Nour Dachan, presidente dell’Ucoii.

Glissiamo sulle alterne vicende dei mesi successivi, con le varie redazioni di quella Carta, e veniamo ai contenuti della nuova Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, che il ministro Amato ha presentato il 23 aprile2. Nel presentare questa nuova redazione alla Consulta islamica e ai rappresentanti italiani di tutte le altre confessioni, il responsabile del Viminale ha detto: «Ora si vedrà chi intende aderire e concorrere quindi alla sua diffusione e all’approfondimento dei temi trattati», ma non ha voluto pronunciarsi sulle conseguenze di un eventuale rifiuto da parte di alcuni organismi islamici, mentre Cardia ha ammesso che «nelle audizioni ci sono stati elementi più sfumati. Può darsi che queste riserve si sciolgano oppure che portino queste organizzazioni a fare un passo indietro dalla Consulta islamica».

La Carta, purtroppo, ha un valore puramente simbolico, visto che «non può essere adottata come atto pubblico e quindi imposta ai cittadini». Tuttavia costituisce «una fonte di ispirazione per l’azione dello stesso ministero e accompagna il processo d’integrazione degli immigrati e il percorso verso la cittadinanza italiana». In particolare ha detto Amato, «può concorrere a consolidare il tratto identitario di un islam italiano e a creare la premessa per un’intesa con lo Stato». Tre i principi fondamentali che la ispirano: «La centralità della persona umana e la sua dignità; l’uguaglianza dei diritti fra uomo e donna; il diritto alla libertà religiosa che sta alla base della laicità dello Stato e della scuola. Su questi valori e sull’ancoraggio totale alla Costituzione non ci sono zone franche, coni d’ombra o riconoscimento di poteri alternativi». Suddivisa in sette paragrafi, la Carta riguarda in particolare: le radici culturali, la dignità della persona, i diritti sociali, l’istruzione, la famiglia, la laicità e la libertà religiosa, l’impegno internazionale dell’Italia4.

Nell’incipit, dopo aver dichiarato che «l’Italia riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», viene condannata sia la poligamia, «contraria ai diritti della donna», sia ogni forma di coercizione e di violenza, dentro e fuori le mura domestiche, sia i matrimoni forzati o tra bambini, sia ogni forma di razzismo: dall’antisemitismo all’islamofobia. Souad Sbai, rappresentante delle donne marocchine in Italia, ha dichiarato: «Il documento ha chiarito alcuni punti che a noi donne stavano particolarmente a cuore, come il riconoscimento dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna, e dunque il godimento di pari diritti tra coniugi, il “no” alla poligamia, la necessità della conoscenza della lingua italiana per l’ottenimento della cittadinanza italiana. E ancora, la condanna di ogni discriminazione razziale, sessuale e religiosa, il riconoscimento all’interno della coppia di pari potestà educativa, ferma restando la libertà di pensiero dei figli e la libera scelta religiosa per qualsiasi individuo. Tuttavia consideriamo questo risultato non come un punto di arrivo, ma come la partenza per ottenere ulteriori traguardi»5.

La Carta inoltre puntualizza che «l’Italia è uno dei Paesi più antichi d’Europa che affonda le radici nella cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell’orizzonte del cristianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l’ebraismo, ha preparato l’apertura verso la modernità e i principi di libertà e di giustizia. I valori su cui si fonda la società italiana sono frutto dell’impegno di generazioni di uomini e di donne di diversi orientamenti, laici e religiosi, e sono scritti nella Costituzione del 1947. Essa rappresenta lo spartiacque nei confronti del totalitarismo e dell’antisemitismo, che ha avvelenato l’Europa del secolo XX e perseguitato il popolo ebraico e la sua cultura. La Costituzione è fondata sul rispetto della dignità umana ed è ispirata ai principi di libertà e uguaglianza, validi per chiunque si trovi a vivere sul territorio italiano».

Inoltre: «L’Italia è impegnata perché ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali. Al tempo stesso, ogni persona che vive in Italia deve rispettare i valori su cui poggia la società, i diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi. Alle condizioni previste dalla legge, l’Italia offre asilo e protezione a quanti, nei propri Paesi, sono perseguitati o impediti nell’esercizio delle libertà fondamentali. Nel prevedere parità di diritti e di doveri per tutti, la legge offre il suo sostegno a chi subisce discriminazioni, o vive in stato di bisogno, in particolare alle donne e ai minori, rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. I diritti di libertà, e i diritti sociali, che il nostro ordinamento ha maturato nel tempo devono estendersi a tutti gli immigrati»6.

Questi, a grandi linee, i contenuti della Carta, e benché siano previsti nuovi contrasti prima di giungere alla sua piena ratifica, è chiara la nostra apertura verso l’islam. Ma inevitabile fa capolino la domanda: i musulmani residenti tra noi accetteranno i principi contenuti nella nostra Costituzione, anche se contrari alla loro fede? La risposta è ardua, come s’è visto nel travagliato iter della Carta, perché, se noi sappiamo distinguere la sfera religiosa da quella civile e politica, per l’islam fideista esse fanno tutt’uno, regolato dalla religione rivelata da Allah nel Corano a Maometto, «cosicché non c’è distinzione né tanto meno separazione tra vita religiosa e sociale, tra sfera civile e sfera religiosa, tra legge civile e legge religiosa, ma questa codificata nella sharìa, è l’unica legge civile. In tal modo l’ordine politico e giuridico ha la sua fonte nella rivelazione coranica e non può quindi costituirsi in maniera autonoma, indipendentemente da questa, ma deve seguire i precetti, che, essendo “divini”, sono immutabili, a differenza delle leggi “umane” le quali, essendo fatte dagli uomini, possono essere modificate o abolite da essi»7

Eppure, secondo Adnane Mokrani, dell’Università gregoriana, un tema chiave per l’integrazione dei musulmani tra noi è il concetto di “laicità”, perché se nella storia del pensiero islamico la laicità è stata spesso presentata in modo sbagliato - come separazione tra religione e Stato, tra etica e religione, identificandosi con l’incoraggiamento alla corruzione -, sembra giunto il momento di farla conoscere «in modo positivo, come garanzia di uguaglianza e di giustizia, che sono due principi fondamentali nella teologia islamica». Dello stesso parere è Carlo Cardia: «Di fronte alla questione islamica, e del multiculturalismo, l’Occidente avrebbe una grande occasione storica. Quella di mostrare il volto migliore della laicità, che sa distinguere, accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nell’islam (come in altre religioni), e sa respingere pratiche e fenomeni di arretratezza civile e culturale che anche nelle terre cristiane sono esistiti in passato».

«La laicità potrebbe svolgere verso l’islam quella stessa funzione di stimolo anche critico che ha svolto verso altre confessioni, e favorire un’evoluzione, che ne esalti la religiosità e ne emargini le scorie del passato, soprattutto per ciò che riguarda la libertà religiosa e i principi di eguaglianza tra uomo e donna»8. Soltanto uno Stato fedele alla propria identità laica e accogliente, ma anche severo verso gli estremismi, non deluderà le aspettative di quegli immigrati che, una volta giunti nel nostro Paese, sperano di poter fruire dei diritti umani - uguaglianza, libertà, dignità - che vengono loro negati altrove, né degli italiani, che esigono chiarezza e regole per una convivenza civile e pacifica.

Note

  1. L’iniziativa era partita già dal ministro Pisanu, che aveva dato vita a una Consulta islamica, con 16 membri, rappresentanti di altrettante organizzazioni di musulmani presenti in Italia.

  2. www.osservatoriosullalegalità.org. Il Comitato scientifico, cui si deve quest’ultima redazione, era presieduto dal prof. Carlo Cardia (Università Roma Tre), e comprendeva i proff. Roberta Aluffi Beck Peccoz (Università di Torino), Khaled Fouad Allam (Università di Trieste), Adnane Mokrani (Università gregoriana di Roma), Francesco Zannini (Pontificio istituto di studi arabi e islamistica di Roma). Inoltre, hanno partecipato ai lavori del Comitato il prefetto Franco Testa e il vice prefetto Maria Patrizia Paba.

  3. Avvenire, 24 aprile 2007.

  4. Acide le critiche de Il Manifesto, 24 aprile 2007: «Nel tentativo di tutelare i valori acquisiti nel nostro Paese e minacciati invece da posizioni tradizionaliste, spesso maggioritarie in alcune popolazioni immigrate, la Carta rischia di essere arretrata rispetto alle nuove istanze poste oggi dalla società italiana, come avviene nel capitolo sulla famiglia, istituzione mummificata nella sua declinazione eterosessuale e monogamica. Nessun riferimento alle nuove famiglie allargate, su cui da mesi si discute, né tanto meno alle unioni omosessuali, cosa che ci si sarebbe aspettati almeno da un documento che non ha alcun valore giuridico, ma ha invece il fine di costruire una cultura del rispetto reciproco».

  5. Avvenire, 24 aprile 2007. Ha poi aggiunto: «Le opposizioni in merito all’approvazione del testo – all’interno della Consulta - ci sono e continueranno a esserci ma il fatto che, una volta per tutte, questi e altri temi fondamentali siano stati messi nero su bianco, e precisati in un testo ufficiale, è di estrema importanza, soprattutto per quelle donne, marocchine e no, che quotidianamente vivono l’inferno dei matrimoni poligamici imposti e della totale assenza di diritti. La Carta dei valori dà nuovamente coraggio alle donne che lo avevano perso, a tutte coloro che si ritrovano in balia di un illegale potere patriarcale e che avevano bisogno di una decisa presa di posizione da parte delle Istituzioni italiane».

  6. www.osservatoriosullalegalità.org.

  7. De Rosa G., Islam e Occidente, LDC-La Civiltà Cattolica 2004, Torino-Roma, pp. 233s.

  8. Cf rispettivamente Jesus, gennaio 2007, p. 49 e Cardia C., Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo 2007, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, p. 27.

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Mercoledì, 26 Settembre 2007 21:33

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ
Intervista a Noam Chomsky* - da “Le Monde diplomatique”, settembre 2007

(abstract)

Le Monde diplomatique
Cominciamo con la questione dei media. In Francia, nel maggio 2005, all’epoca del referendum sul trattato della Costituzione europea, la maggior parte degli organi di stampa sosteneva il “sì”, e tuttavia il 55% dei francesi ha votato “no”. Il potere di manipolazione dei media non sembra dunque assoluto.

Noam Chomsky
Il lavoro sulla manipolazione mediatica o sulla fabbrica del consenso fatto da Edward Herman e da me (Edward Herman e Noam Chomsky, “Manufacturing Consent”, Pantheon, New York, 2002) non affronta la questione dell’influenza dei media sul pubblico. È un argomento complicato, ma le poche ricerche approfondite sul tema suggeriscono che, in realtà, questa influenza sia più forte sulla parte istruita della popolazione. A livello di massa l’opinione pubblica sembra, invece, meno dipendente dal discorso dei media. Prendiamo, ad esempio, l’eventualità di una guerra contro l’Iran: il 75% degli americani ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero cessare le minacce militari e privilegiare la ricerca di un accordo diplomatico. Varie inchieste condotte da istituti occidentali affermano che l’opinione pubblica iraniana e americana convergono anche su alcuni aspetti riguardanti la questione nucleare: la stragrande maggioranza della popolazione di entrambi i paesi pensa che la zona che si estende da Israele all’Iran dovrebbe essere interamente liberata dalle armi nucleari, comprese quelle in dotazione alle truppe americane della regione. Ora, per trovare questo tipo di informazione nei media bisogna cercare col lanternino. Peraltro, nessuno dei principali partiti politici dei due paesi difende questo punto di vista. Se l’Iran e gli Stati Uniti fossero autentiche democrazie, all’interno delle quali la maggioranza determina realmente le scelte politiche, l’attuale scontro sul nucleare sarebbe senza dubbio già risolto. Ci sono altri casi del genere. Rispetto, ad esempio, al budget federale degli USA, la maggioranza degli americani auspica una riduzione delle spese militari e un aumento, invece, delle spese sociali, dei crediti versati alle Nazioni unite, dell’aiuto economico e umanitario internazionale, e infine la cancellazione delle riduzioni di imposta decise dal presidente George W. Bush a favore dei contribuenti più ricchi. Su tutti questi temi la politica della casa bianca è totalmente contraria alle richieste dell’opinione pubblica. Ma le inchieste che mostrano questa persistente opposizione pubblica raramente trovano spazio sui media. Cosicché i cittadini non solo sono allontanati dai centri di decisione politica, ma sono anche tenuti all’oscuro del reale stato d’animo dell’opinione pubblica. A livello internazionale si registra preoccupazione per l’abissale “doppio deficit” degli Stati Uniti: il deficit commerciale e quello di bilancio. Ma questi esistono solo in stretta relazione con un terzo deficit: quello democratico, che continua ad ampliarsi non solo negli USA, ma più in generale in tutto il mondo occidentale.

L.M.d.
Ogni volta che si chiede a un giornalista di grido o a qualche presentatore di un grande telegiornale se subiscono pressioni, se gli capita di essere censurato, questi risponde che è assolutamente libero e che esprime le proprie convinzioni. Sappiamo come funziona il controllo del pensiero nelle dittature, ma come si attua in una societò democratica?

N.C.
Quando i giornalisti sono chiamati in causa, rispondono immediatamente: “Nessuno ha fatto pressioni su di me, scrivo ciò che voglio”. È vero. Solo che, se esprimessero opinioni contrarie alla posizione dominante, non scriverebbero più i loro editoriali. La regola non è assoluta, certo; capita anche a me di essere pubblicato dalla stampa americana, neppure gli Stati Uniti sono un paese totalitario. Ma chiunque non soddisfi certe esigenze minime non ha alcuna possibilità di entrare nel novero dei commentatori di primo piano. D’altronde questa è una delle grandi differenze tra il sistema di propaganda di uno stato totalitario e il modo di procedere delle società democratiche. Esagerando un po’, si può dire che nei paesi totalitari lo stato decide la linea da seguire e tutti devono poi conformarvisi. Le società democratiche operano in modo diverso. La linea non è mai enunciata come tale, è sottintesa. Si procede, in qualche modo, a un “lavaggio di cervelli in libertà”. E anche i dibattiti appassionati nei grandi media si svolgono nel quadro dei parametri impliciti consentiti, tenendo al margine molti punti di vista contrari. Il sistema di controllo delle società democratiche è molto efficace; insinua la linea direttrice come l’aria che si respira. Non ce ne accorgiamo, tanto che a volte ci sembra di assistere a un dibattito particolarmente vivace. In fondo è infinitamente più efficace dei sistemi totalitari. Prendiamo, per esempio, il caso della Germania all’inizio degli anni ’30. Si tende a dimenticarlo, ma allora era il paese più avanzato d’Europa, all’avanguardia in campo artistico, scientifico, tecnico, nella letteratura e nella filosofia. Poi, in un brevissimo lasso di tempo si è prodotto un capovolgimento totale, e la Germania è diventata lo stato più sanguinario, più barbaro della storia umana. Tutto questo è stato possibile instillando la paura: paura dei bolscevichi, degli ebrei, degli americani, degli zingari, in breve di tutti coloro che, secondo i nazisti, minacciavano il cuore della civiltà europea, cioè gli “eredi diretti della civiltà greca”. In ogni caso, è quanto scriveva il filosofo Martin Heidegger nel 1935. Ora, la maggior parte dei media tedeschi che ha bombardato la popolazione con questo tipo di messaggi ha utilizzato le tecniche di marketing messe a punto... dai pubblicitari americani. Non dimentichiamo che un’ideologia viene imposta sempre nello stesso modo. Per dominare, la violenza non basta: ci vuole una giustificazione di altra natura. Così, quando una persona esercita il suo potere su un’altra – che sia un dittatore, un colonialista, un burocrate, un marito o un padrone – ha bisogno di un’ideologia giustificatrice, sempre la stessa: la dominazione è fatta “per il bene” del dominato. In altri termini, il potere si presenta sempre come altruista, disinteressato, generoso. (...).

* Docente di linguistica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, Stati Uniti.

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E WAL-MART TENTA I CATTOLICI CON LE BAMBOLE DELLA BIBBIA

di Matteo Alviti – da “Il manifesto”, 15 agosto 2007

(abstract)

Ancora pochi giorni e gli scaffali del settore giocattoli di Wal-Mart si illumineranno di luce divina. Il 18 agosto la One2believe lancerà sul mercato statunitense la prima linea di bambole parlanti ispirata ai personaggi della Bibbia. Gesù, Noè, i muscolosissimi Davide e Sansone, che ricordano un po’ i pupazzi della saga di He-man. E poi Mosè, che ripete i comandamenti con voce cupa e metallica: “Non devi commettere adulterio. Non devi rubare...”. Trenta centimetri di bambola biblica, e ce n’è per tutti i gusti. “Siamo la One2believe”, si legge sul sito dell’azienda californiana, “creatori della linea di giocattoli Tales of glory”. L’operazione commerciale concordata con il colosso statunitense della vendita al dettaglio si limiterà in un primo periodo alle 425 filiali Wal-Mart della cosiddetta bible belt, tra il sud e gli stati del Midwest – là dove il sentimento religioso si ammanta spesso di miope fondamentalismo – oltre che in alcuni negozi della California e della Pennsylvania. David Socha, fondatore e amministratore delegato dell’azienda, è un giovane dalla faccia pulita e dal carattere determinato. Socha è consapevole che in ballo c’è un mercato potenzialmente enorme: “So che, se potessero scegliere, il 90% degli americani comprerebbero i nostri personaggi invece dei giochi violenti attualmente sul mercato”. Vista come un baluardo contro l’assuefazione alla violenza in tenera età, l’idea potrebbe riscuotere anche simpatia. Ma le dichiarazioni di Socha ne rivelano la natura commercial-fondamentalista. Per il fondatore dell’azienda californiana si tratta di una lotta “per le menti dei bambini”: il bene contro le manifestazioni del male in formato giocattolo “che glorificano la morte e le uccisioni”. E visto che si tratta di una sperimentazione che terminerà a gennaio, dopo le feste natalizie, in bilico tra il sacro e il profano Socha chiama l’armata di Dio alla guerra giusta, quella santa. “Questo progetto rappresenta un’occasione immensa per la comunità della fede. È una chance per far sapere che noi, come comunità cristiana, siamo preoccupati per i giocattoli con cui giocano i nostri bambini. Siamo consapevoli dell’influenza che questi hanno sulle loro menti impressionabili e vogliamo vedere più opzioni che onorino Dio”. È una battaglia, dice Socha, contro i produttori di giocattoli senza Dio. Anche la Barbie, ha chiesto preoccupato un reporter della Abc? “No, no, la Barbie va bene”. Ironia della sorte, o del capitalismo, i pupazzi destinati a un pubblico tendenzialmente conservatore sono prodotti in quel che resta della Cina comunista. Per la One2believe, che finora ha venduto i suoi prodotti direttamente attraverso chiese e Internet, la multinazionale di Bentonville, Arkansas, rappresenta un’occasione unica. “Con Wal-Mart – il più grande rivenditore di giocattoli statunitense – il mercato è illimitato, grazie a Dio”, si lascia scappare David Socha. In fondo non sembra altro che una conferma della teoria weberiana sulle assonanze tra lo sfaccettato spirito del protestantesimo – in questo caso nella sua variante evangelica – e quello capitalista. (...). In un video promozionale una bambola della One2believe viene presentata a una bambina. La piccola ascolta incuriosita il promotore che spiega il senso divino dell’oggetto. “Ma parla anche?”. “Certo!” E il pupazzo: “Dio ama il mondo così tanto che ha mandato il suo unico figlio a pagare per il peccato. Così chi crede in lui non può essere punito”. La bambina sorride: “That’s cool!”.

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L’ITALIA DEI NUOVI SCHIAVI . I MILLE VOLTI DELLA TRATTA

Tratta di esseri umani: un concetto associato, in questi anni, alle vittime dello sfruttamento sessuale a fini di prostituzione. In realtà il tema della tratta sempre più si collega, nei fatti, anche ai fenomeni dell’immigrazione irregolare, al lavoro nero (in casa, in azienda, nei campi, negli alberghi, nell’edilizia, nella pesca), alle vicende dei minori sfruttati per accattonaggio, al commercio illegale di organi e di minori per adozioni. Il volto della tratta e delle cosiddette “nuove schiavitù”, nell’Italia e nel mondo contemporanei, si va ampliando e diventa multiforme.

È possibile, in ogni caso, mettere a fuoco alcuni punti fermi. Lo consentono alcune ricerche promosse da Caritas Italiana, ma anche l’ormai decennale lavoro svolto dal Coordinamento nazionale contro la tratta, avviato e promosso da Caritas Italiana. Fatta salva la distinzione tra “traffico” e “tratta” (in base ad alcune norme nazionali ed europee, il primo concetto si riferisce a flussi illegali e a forme di sfruttamento, il secondo presuppone anche una coercizione della libertà e l’uso della violenza nei confronti della persona trafficata), è dunque possibile affermare che negli ultimi quattro anni in Italia sono state trafficate 170 mila persone; di esse, 55 mila sono state oggetto di tratta, 50 mila a scopo sessuale, le restanti 5 mila a scopo lavorativo (dato che riguarda soprattutto persone cinesi che vivono nella regioni del centro Italia, in particolare la Toscana).

A partire da questi dati e incrociandoli con altre ricerche, sì può ritenere inoltre che le vittime di sfruttamento sessuale in Italia siano in media 25-30 mila all’anno, di cui almeno 1.500 minori. Difficile, invece, fare una stima delle vittime di sfruttamento sul lavoro, anche perché tra i fenomeni dell’immigrazione irregolare per lavoro, del lavoro nero e dello sfruttamento lavorativo vi sono confini piuttosto incerti. In sintesi, comunque, in Italia le persone “trattate” presentano tre volti prevalenti: quello di chi è prostituito a scopo sessuale, quello del lavoratore sfruttato, quello del minore sfruttato.

Ogni tragitto, una violenza

Per quanto grave e multiforme, il fenomeno della tratta può essere aggredito. A patto di cambiare alcuni atteggiamenti, da parte sia della politica che dei soggetti sociali. Tra le operazioni che bisogna attuare o intensificare, occorre anzitutto vigilare sui tragitti battuti dagli organizzatori della tratta. Dal loro studio si ricavano elementi di conoscenza, interessanti. il tragitto Ucraina-Chioggia, per esempio, è molto pesante, per chi lo compie, sul piano economico e dello sfruttamento: dietro c’è un debito contratto nel paese di origine, anche dal nucleo familiare. La tratta Marocco-Crotone si caratterizza soprattutto per i danni che possono derivare alle famiglie delle persone trafficate: se gli emigranti non riescono a pagare, i trafficanti confiscano le case o addirittura uccidono i famigliari. La tratta Marocco- Varese è fondata sull’indebitamento delle famiglie nei confronti degli strozzini, la tratta Pakistan-Crotone è legata ancora una volta al debito delle famiglie, la tratta Ecuador- Ventimiglia è legata fortemente allo strozzinaggio, la tratta Cina-Trieste è sovente un viaggio pagato verso l’occidente da un imprenditore che ha lasciato il suo paese da tempo e ha fatto fortuna. E’ necessario, in proposito, che la politica apra gli occhi, dedicando un’attenzione particolare al tema della mobilità delle persone, oltre che a quello della difesa della libertà e dei diritti.

In secondo luogo, è opportuno rafforzare la protezione sociale. Nel caso della tratta per scopi sessuali, negli ultimi cinque anni almeno 40 mila persone hanno chiesto aiuto al numero verde e alle reti che lavorano per la protezione sociale delle donne vittime di tratta I progetti, anche finanziati attraverso il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del consiglio, sono stati in grado di accoglierne circa 11.500. Di queste, solo 700 hanno abbandonato il progetto. Bisogna dunque operare per rafforzare i progetti e la rete che li attua, attraverso un riconoscimento pubblico e la dotazione di risorse, anche da parte dei piani sociali locali.

In tempi di riforma della legge sull’immigrazione, la battaglia politica più importante è quella per la protezione sociale delle vittime. Bisogna modificare il meccanismo previsto dall’articolo 18, che in sei anni ha consentito la concessione di 5.500 permessi di soggiorno (su 11.500 persone accolte) alle vittime di tratta, di cui il 70% premiali (per chi collabora denunciando sfruttatori e “protettori”) e solo il 30% sociali (per le vittime più esposte, anche in caso di ritorno in patria): occorre che l’articolo 18 diventi sempre più una misura sociale e uno strumento per recuperare dignità e libertà, oltre che per colpire le reti criminali.

Lavorare dentro e fuori

Oggi la mobilità degli essere umani attraverso le frontiere molto spesso è regolata dai meccanismi del “traffico”. Sulla base di questa constatazione, in Italia appare necessario rivedere la legge sull’immigrazione, la cosiddetta Bossi-Fini, per ritornare alla figura dello sponsor e alla concessione di permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, e per istituzionalizzare la “prova lavoro”: legalità e visibilità degli ingressi sono i primi presupposti per la tutela di ogni persona. Quanto alla politica sociale, occorre che non si proceda secondo tre livelli di dignità: della persona, del cittadino, del residente. In caso contrario, si finirebbe per negare diritti fondamentali, magari solo perché una persona non è cittadino né residente. E’ molto importante, al contrario, proseguire lungo la strada intrapresa da alcuni comuni per dare la cittadinanza sociale ai soggetti che hanno bisogno di essere difesi rispetto ad alcuni diritti fondamentali. Questo aspetto è rilevante sul piano legislativo: oggi i comuni sono i soggetti fondamentali e centrali nel campo della difesa dei diritti della persona, dunque devono essere messi in grado di operare in questa direzione.

Da ultimo, sul fronte internazionale c’è bisogno di maggiore programmazione. La cooperazione è fondamentale nella lotta alla tratta: è molto importante creare un continuum tra i progetti avviati nel territorio italiano e i progetti che si conducono in Europa e nel mondo. Sulla stessa persona, il cittadino rumeno o il cittadino nigeriano che a un certo punto della loro parabola vengono trafficati in Italia, deve interagire uno stesso progetto da due punti di vista: l’attenzione alla tutela della persona e della sua famiglia, per risultare efficace e non dispersiva, deve essere unitaria.

di Giancarlo Perego
Italia Caritas / Marzo 2007




Undicimila persone assistite, migliaia indagati per vari traffici

L’osservatorio nazionale sulla tratta degli esseri umani ha esposto a fine gennaio, in un convegno tenutosi a San Benedetto del Tronto, i dati salienti sul fenomeno, ottenuti confrontando informazioni provenienti da diverse fonti ufficiali: ministeri della giustizia e dell’interno, Direzione nazionale antimafia e Dipartimento per i diritti e le pari opportunità. Si tratta dei primi risultati di un progetto Equal di cui è titolare e promotrice l’associazione “On the road”. Spesso le cifre, in questo ambito, risultano impossibili da sovrapporre, perché raccolte in base alle competenze di ciascun ente, con sistemi differenti di rilevazione. I dati riguardano comunque il fenomeno emerso, cioè tutti i casi venuti a conoscenza degli operatori sociali o della giustizia.

Tra marzo 2000 e giugno 2006, 11226 persone vittime di violenza e grave sfruttamento sono state inserite nel Programma di assistenza e inclusione sociale (previsto dall’articolo 18 della legge sull’immigrazione); 619 erano minori, mentre 5.495 sono stati i permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari. Dai dati della Direzione nazionale antimafia risulta invece che 993 persone, tra il 2003 e il 2005, hanno subito reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 86 nel 2003, 428 nel 2004, 479 nel 2005. Inoltre da settembre 2003 al 2005 sono stati 2.136 gli indagati per reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 828 nel 2005, 1.044 nel 2004. Secondo il ministero dell’interno, sono stati invece 3.201 nel 2004 e 3.215 nel 2005 gli indagati per tratta, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e della prostituzione minorile, sfruttamento dei minori nell’accattonaggio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

(fonte: Redattore sociale)

Protezione sociale: l’articolo 18 va applicato in modo omogeneo

Il Coordinamento nazionale contro la tratta degli esseri umani promosso da Caritas Italiana, di cui fanno parte anche Migrantes e il Gruppo Abele, ha sollecitato più volte negli ultimi anni il ripristino del Tavolo interministeriale di coordinamento per l’applicazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, raccomandando la presenza di rappresentanti di enti e associazioni che lavorano sul campo. L’articolo 18 permette il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale anche alle vittime di tratta che non sporgono denuncia né hanno alcun tipo di collaborazione con la polizia o l’autorità giudiziaria. Purtroppo, l’applicazione non è risultata omogenea sul territorio nazionale. Un valido aiuto sulle modalità di applicazione della normativa può essere dato, in termini di consulenza a enti e associazioni, dallo sportello giuridico InTi, istituito dal Gruppo Abele, dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e sostenuto da sempre dalla regione Piemonte.

Percorsi di dignità oltre la schiavitù «Ma dovremmo lavorare sui clienti»

Sono molte le Caritas diocesane che assistono donne uscite dai giri della prostituzione. Però il recupero andrebbe esteso anche a chi compra i loro servizi...

Piccoli orizzonti di dignità. Ricostruiti, giorno dopo giorno, sulle macerie di esistenze sfregiate dalla violenza, persino dalla schiavitù. Molte Caritas diocesane, in Italia, si battono a favore delle vittime della tratta di esseri umani. La Caritas di Roma lo fa sin dal 1994. «Nella nostra esperienza quotidiana, grazie anche al lavoro dei centri d’ascolto, incontriamo donne giovani che cerchiamo di proteggere nelle case di accoglienza, gli istituti delle suore di Nostra Signora degli Apostoli e delle suore Adoratrici del Santissimo sacramento e della carità. Noi li chiamiamo “punti di appoggio”,». Suor Erma Marinelli è referente del progetto Roxanne per la Caritas diocesana della capitale, e conosce bene l’odissea, anche interiore, cui va incontro una vittima di tratta, dopo essersi (o essere stata) sottratta a certi “giri”. «Mentre aspettano i documenti per tornare in patria volontariamente, le ragazze vivono al sicuro un periodo di discernimento sulla loro vita, provano a capire cosa realmente desiderano per ricominciare a vivere. Nel caso vogliano rimanere in Italia, c’è l’opportunità di imparare meglio la nostra lingua ed essere aiutate nella ricerca di un alloggio e un lavoro. La collaborazione con enti locali e privati sta dando risultati; è importante lavorare in rete per rispondere a più bisogni. Per favorire l’integrazione nei quartieri della città, svolgiamo attività di sensibilizzazione nelle parrocchie. Ci sarebbe da lavorare molto anche sui “clienti”. In più di dieci anni ho ascoltato e parlato con uomini molto giovani o con i capelli bianchi, dovremmo prevedere sostegni psicologici e percorsi di recupero anche per loro...».

Il comune di Roma ha realizzato una rete per l’accoglienza delle donne vittime della tratta e della prostituzione. Dal 2000 è stato appunto avviato il progetto Roxanne, che prevede attività di prevenzione, aiuto e invio ai servizi di persone vittime della tratta sessuale. Sono stati attivati ambulatori per la prevenzione e la cura della salute, unità di strada con sportelli diurni per informazioni, ascolto e consulenza, strutture di accoglienza protetta, corsi di apprendistato e formazione lavorativa.

Utenti” molto giovani

In altri contesti, il lavoro dei soggetti sociali sorge dall’attenta lettura del territorio. «Negli ultimi anni, da noi, il fenomeno della prostituzione è aumentato in modo proporzionale all’aumento della presenza di persone immigrate. Dal 2000 in poi, sulle nostre strade abbiamo visto crescere il numero delle ragazze di colore, spesso provenienti dalla Nigeria. E siamo a conoscenza del fatto che da tempo donne rumene si prostituiscono in casa». Don Mimmo Francavilla, direttore della Caritas diocesana di Andria, ricorda gli inizi di un intervento coraggioso. «Nel 2005, dopo aver ricevuto un invito dalla prefettura di Bari, alcuni operatori hanno partecipato a un corso sugli aspetti legali, sanitari e sociali della tratta di esseri umani. Ciò ha motivato ulteriormente il nostro desiderio di elaborare risposte. Eravamo e siamo consapevoli di come questo triste fenomeno ponga seri rischi sul versante educativo, sanitario, della stabilità delle famiglie e del contrasto della criminalità. Abbiamo deciso di venire allo scoperto, cominciando a impostare il nostro progetto su due cardini: offrire l’opportunità di un’accoglienza protetta, promuovere attività di sensibilizzazione negli ambiti ecclesiali e civili. Lavoriamo in rete con la Comunità San Francesco Oasi 2 di Trani, dove le ragazze vittime di tratta vengono ospitate per avere la possibilità di tornare a integrarsi nella società. Oltre all’impegno nelle parrocchie, abbiamo un occhio di riguardo per le scuole medie e superiori, dove proponiamo e svolgiamo corsi di educazione all’affettività. Anche perché, grazie a una ricerca basata su 524 questionari, abbiamo rilevato che non di rado l’età dei clienti delle prostitute, nel nostro territorio, è molto bassa...».




di Pietro Cava



Italia Caritas- Marzo 2007

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UNA STORIA PER LEUROPA, LA VERITÀ DAI RICORDI. PURIFICATI

di Domenico RosatiItalia Caritas/Aprile 2007

La costruzione dell’Europa ristagna, la Costituzione ha avuto l’infarto e non si sa come rianimarla, l’Euro solleva problemi più che risolverli, i Trattati di Roma compiono cinquant’anni e li dimostrano tutti: per commemorarli non s’è trovato di meglio che dar fondo alle risorse dell’ottimismo, ponendo il quesito “Serve ancora l’Europa?”. I motivi per rispondere positivamente sono tanti. Ma ce n’è uno apparentemente minore, finora neppure registrato dagli osservatori politici, a conferma della famosa sentenza di Aldo Moro per cui “il bene non fa notizia, ma esiste”.

Ecco: il “bene europeo” da segnalare sta in un libro di storia per i licei. Ma non un manuale qualsiasi. Titolo in due lingue (Histoire/Geschichte), su di esso studiano, già nel presente anno scolastico, i ragazzi di Francia e Germania. Il manuale è stato pensato e redatto da un gruppo di storici dei due paesi, secondo un progetto varato nel 2003 dal presidente Chirac e dal cancelliere Schröder. li primo volume, già in uso, riguarda “L’Europa e il mondo dopo il 1945” (gli altri due copriranno i periodi dall’antichità al Romanticismo e dal 1800 al 1945): copertina rossa, è pubblicato dall’editore Klett in Germania e da Nathan in Francia. Molte illustrazioni, grafici, tabelle, letture e documenti: assai geometrico e bilanciato. Sulla sua validità didattica si esprimeranno gli esperti, gli storici sul suo valore scientifico. Ma l’apparizione di quest’opera merita il riguardo riservato alla “cosa che accade per la prima volta”. Mai, infatti, di qua e di là del Reno si era sviluppata una riflessione comune sul passato di due popoli che non sono stati, nel tempo, un modello di buon vicinato. E il fatto non sarebbe inimmaginabile, se non all’interno di un processo di convergenza, per quanto debole e intermittente, come quello della costruzione europea.

Una realtà, due approcci

Anche la rappresentazione degli eventi è interessante. Emerge, infatti, non il tentativo di costruire una “storia comune”, ma l’intenzione di tematizzare le differenze rispetto a un’unica realtà. D’altra parte sarebbe stato impossibile... piallare contraddizioni sedimentate da secoli di conflitti. Non dunque una lettura franco-tedesca della storia, ma un uso dei contrasti storici per superare molti tabù politici.

Così, della seconda guerra mondiale si scrive non con il riflesso del “culto della vittoria”, ma con l’ispirazione del “dovere della memoria”. E se pare scontato il richiamo all’orrore della shoah, è da segnalare che Parigi riconosce che il fenomeno di Vichy (la collaborazione con gli occupanti tedeschi) era stato occultato per non inficiare il mito di una Francia “unanimemente resistente”.

Non sembrano operazioni di aggiramento diplomatico, ma di autentica “purificazione” del ricordo, in nome di una ricerca della verità che, quando è sincera, amplia gli orizonti

e consente “estensioni tematiche” altrimenti impossibili. Così i ragazzi tedeschi scoprono la decolonizzazione, mentre i loro colleghi francesi si confrontano con le “questioni religiose” fino a oggi bandite dal programmi della “repubblica laica”. E si comprende che ciò é possibile perché ci si colloca nella prospettiva di un’Europa che cerca se stessa in un mondo globalizzato.

Domanda spontanea: perché la “cosa buona” dovrebbe essere riservata solo ai ragazzi francesi e tedeschi? Il recente attrito tra Italia e Croazia suggerirebbe un’attenzione verso i Balcani. Ma tutti i popoli della vecchia Europa hanno un passato da condividere con altri, invece di coltivarlo in solitudine. Una “storia degli europei”? È dimostrato: non è impossibile.

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Colombia/Le miniere di smeraldi del Boyacà occidentaleLACRIME VERDI POLVERE BIANCA

di Viviana Peretti da Otanche - Colombia

Mondo e Missione/Aprile 2007

Racconta la leggenda che la principessa Tena pianse per l’abbandono di un cacique e le sue lacrime si congelarono nelle montagne sotto forma di verdi smeraldi, pietre preziose che quotidianamente «stregano» migliaia di persone nel mondo. In Colombia, la sfortunata principessa ha fatto la fortuna della gente del Boyacà occidentale, una delle più belle e fertili regioni di questo strano Paese sudamericano. Nonché delle più ricche di «gocce verdi».

Da Bogotà si arriva ad Otanche dopo sei ore di jeep, due su una «comoda» provinciale, il resto su una pista sterrata che si snoda tra colline di banani e caffé. Otanche è famosa per il complesso smeraldifero di Coscuez, che da sempre compete con Muzo, altro centro boyacense i cui smeraldi sono apprezzati d esportati in tutti i mercati del mondo. Secondo Jean Claude Michelou, direttore dell’Associazione internazionale delle gemme colorate, «le miniere di Muzo e Coscuez producono il 45 per cento degli smeraldi presenti sul mercato mondiale». Tuttavia, attualmente, il settore conosce una profonda crisi e le esportazioni sono inaspettatamente crollate. Tra le molteplici ragioni, la principale è rappresentata dal fatto che molti commercianti colombiani sono soliti iniettare delle resine all’interno delle pietre, alfine di correggerne gli errori e aumentarne così il valore. Ma con il tempo gli smeraldi ritoccati svelano l’inganno... C’è da dire però che il mercato nero continua ancora a foraggiare abbondantemente il settore.

Il complesso minerario circonda il villaggio di Otanche e sfama le dodicimila anime che ci vivono. Quasi tutta l’economia legale della regione, infatti, ruota intorno all’estrazione delle pietre, che vengono successivamente tagliate e commercializzate a Bogotà. In parallelo, però, fiorisce anche la coltivazione della coca. Secondo le Nazioni Unite, nella regione ci sono 359 ettari seminati con la planta maldita. Il governo ha promesso incentivi ai campesinos affinché piantino cacao, ma sinora si è trattato solo di promesse.

Tutta la zona è controllata dai patrones, concessionari delle miniere che sostituiscono lo Stato su tutti i fronti. Con i loro eserciti privati garantiscono la sicurezza e per riciclare i dollari del narcotraffico costruiscono case, scuole, chiese e ambulatori... Qualunque problema d’ordine pubblico si gestisce come se fosse un affare privato. Dal 1946 lo Stato colombiano si limita solo a concedere gli appalti per lo sfruttamento delle miniere, senza esercitare nessun tipo d’autorità nella regione. Nel villaggio esiste una stazione di polizia, ma in giro non si vede neppure l’ombra di un poliziotto. Si vocifera che siano barricati nel commissariato.

I politici colombiani arrivano da queste parti solo in periodo d’elezioni. Vengono a stringere mani e a dare pacche sulle spalle. Arrivano in cerca di voti o, meglio ancora, a comprare voti. «Sbarcano e organizzano pranzi pubblici, macellando vacche nella piazza principale, affinché le persone si ricordino di loro nelle urne», racconta David, giovane minatore nato ad Otanche. E aggiunge: «Arrivano su fuoristrada tappezzati di manifesti e carichi di sacchi di riso e zucchero». Promettono alla gente d’investire in infrastrutture e ai pezzi grossi locali di continuare a chiudere un occhio sui loro traffici illegali. Ma solo nel secondo caso mantengono le promesse. Così questi signorotti continuano a spadroneggiare nell’assoluta latitanza di uno Stato che continua a definirsi la più antica democrazia latinoamericana.

Otanche è il feudo di Vìctor Carranza, conosciuto a livello internazionale come lo «zar degli smeraldi», e accusato dalla giustizia colombiana di paramilitarismo e sequestro estorsivo nella Costa Atlantica e negli Llanos, le immense pianure orientali al confine col Venezuela. Secondo l’accusa, tra il 1984 e il 1989, Carranza ha formato e finanziato gruppi paramilitari nelle regioni di Muzo e Coscuez. L’idea di don Vìctor, come lo chiamano i suoi uomini, era impedire all’estinto cartello della droga di Medellìn d’impadronirsi dei migliori giacimenti smeraldiferi del Paese. Pablo Escobar, infatti, aveva messo gli occhi sull’affare degli smeraldi per poter riciclare i dollari che provenivano dalla vendita della cocaina. Lo «zar» ha vinto la battaglia e nel 1990 è stato incluso nell’esclusiva lista di miliardari che pubblica la rivista Forbes, con una fortuna stimata in mille milioni di dollari.

Dal 1998 Carranza ha affrontato tre processi, dai quali è sempre uscito vittorioso. L’ultimo gli è costato tre anni di carcere ma, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria, è stato assolto ancora una volta. Oggi vive nella zona e, oltre a frequentare le miniere di sua proprietà per scegliere le pietre migliori da vendere all’estero, si dedica alla promozione turistica della regione, organizzando, tra le altre cose, un concorso di bellezza che assegna l’altisonante titolo di Miss Esmeraldas. Ennesimo inno all’ipocrisia e alla frivolezza in un territorio dove il 72 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Triste primato uguagliato solo dalla regione più povera della Colombia: il Chocò, sulla costa pacifica.

Quando Carranza è alle prese con tribunali e centri penitenziari, a farne le veci è il suo luogotenente, don Darìo, un quarantenne molto disponibile che somiglia sfacciatamente a Pablo Escobar: stessa stazza, stesso sorriso assassino, stessi baffetti insignificanti e undici figli sparsi nella regione, oltre a una fedina penale che farebbe impallidire anche il killer più sanguinario. Ha in gestione alcune miniere e, in più, secondo molti, controlla la produzione ed esportazione della polvere bianca.

I «mammasantissima» e le loro guardie del corpo, detti pàjaros (picciotti), vanno in giro con tanto di pistola e due caricatori alla cintola. Nella zona tutti hanno il ferro (la rivoltella) e lo usano al calar delle tenebre. La colonna sonora di Otanche, infatti, non è la salsa come nel resto del Paese, bensì il rumore di spari e raffiche di mitra che profanano la pace notturna. Così può capitare di alzarsi all’alba e incontrare la proprietaria dell’albergo che toglie le macchie di sangue dalla soglia di casa. Lo fa come se spolverasse, con una naturalezza che lascia senza parole. Gli spari, però, non sono una prerogativa solo notturna. Spesso, infatti, jeep e Bmw blindati attraversano le polverose strade del villaggio, smuovendo l’afa pomeridiana con colpi in aria per celebrare l’arrivo a destinazione di un carico di cocaina. Se non fosse così verdeggiante e non mancassero stivali e speroni, potrebbe sembrare il Far West, con omaccioni cinti da cinturoni portati con falsa disinvoltura su pantaloncini da mercatino delle pulci e ciabatte da mare. Su tutti spicca per eleganza «EI Divino», un giovane che da anni gestisce diverse miniere e sfoggia i suoi gioielli anche in piscina. infatti, non è raro vederlo a bordo vasca, con addosso la fondina impermeabile, dove ripone la sua Browning con impugnatura di madreperla e due immancabili caricatori. Pare che abbia fatto fortuna come minatore. E uno dei pochi a poter raccontare il mistero e la magia d’iniziare come umile picconatore per poi trovarsi a gestire miniere e mercato della droga. La stessa parabola di Vìctor Carranza: inizi da minatore di Guateque, piccolo villaggio boyacense, per arrivare ad essere lo «zar degli smeraldi».

La maggior parte di coloro che scendono anche duemila metri sotto terra per dodici lunghe ore, alle prese con dinamite e temperature superiori ai quaranta gradi, sono i poveri, i tanti disperati figli del pueblo colombiano. Ciascuno sopporta, abbassa la testa e tira avanti come può nella speranza d’arrivare un giorno a incontrare la pietra che cambierà la propria sorte e quella della propria famiglia. Una famiglia spesso lontana, dalla quale si ritorna più spesso malati che vincitori. O che a volte vive nelle tante piccole baraccopoli che circondano le miniere, catapecchie sospese in aria sui pendii delle montagne. E così i figli finiscono col fare il lavoro dei padri, accarezzando il sogno che prima o poi arrivi la suerte, la fortuna, mentre le mogli si danno da fare, setacciando il materiale portato in superficie, nella speranza di recuperare qualche briciola verde, qualche morrallita, come vengono chiamate le lacrime di poco valore. Anche se può sembrare assurdo, per molti essere minatore è un privilegio e bisogna lottare per diventarlo. «Qui è molto difficile entrare e ci si riesce solo con la raccomandazione di un patròn, senza la quale è impossibile anche solo avvicinarsi a una miniera», spiega Agustìn Mendoza, mentre confessa che il suo incubo ricorrente è di perdere il lavoro.

A Otanche l’attività di scavo non s’interrompe mai e la montagna non sa cosa sia il riposo, così come non lo sanno i tanti minatori e guaqueros che s’alternano durante l’intera giornata, con turni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, in condizioni di lavoro estreme, con calore e umidità folli, respirando continuamente polvere. Quella maledetta polvere che s’attacca ai polmoni e li fa invecchiare rapidamente, quando non provoca la morte per tumore o silicosi.

Rolando è uno dei tanti sopravvissuti a questo destino di sofferenza e morte. Ha 28 anni e non appena maggiorenne ha deciso di lasciare la sua città natale, Chiquinquirà, a quattro ore dalle miniere, per tentare la sorte e magari rientrare da vincitore. E’ quasi scappato di casa inseguendo il sogno delle miniere e della ricchezza facile e veloce. Una volta a Otanche, però, si è scontrato con le dure condizioni di lavoro nelle miniere, con turni che sembravano non finire mai, con la stanchezza fisica e mentale e con l’assenza di prospettive. «Ho provato la fame e la disperazione di non poter mangiare nient’altro che pane e acqua zuccherata perché spesso, dopo dodici ore di lavoro, non avevo neppure tremila pesos (circa un euro - ndr) per un pasto», dice senza nostalgia. Si è scontrato anche con l’avidità degli appaltatori dei tunnel, ai quali vanno tutte le pietre estratte, se non si fa in tempo ad ingoiarle prima. Finché un giorno un’infezione gli ha provocato piaghe immonde che non si rimarginavano mai e per curarsi ha dovuto - provvidenzialmente - lasciare la vita da minatore... Oggi è avvocato: «Devo la vita alla malattia e ai miei che mi hanno riaccolto senza troppe domande», riconosce Rolando con un nodo in gola.

Secondo monsignor Luis Felipe Sànchez, vescovo di Chiquinquirà, «i contadini preferiscono lavorare anni nelle miniere, convinti che prima o poi diventeranno ricchi, invece di coltivare la terra fertile. E se si dedicano all’agricoltura in genere coltivano coca, perché i e tradizionali prodotti locali - arance e banane - permettono guadagni irrisori, mentre la coca rende molto di più». Negli anni Ottanta, l’apparente tranquillità della regione si è rotta. Mentre le miniere producevano a pieno ritmo, qualcosa che oggi è soltanto un ricordo, è scoppiato uno scontro tra faide senza precedenti, conosciuto come Guerra verde, che ha lasciato sul terreno 3.500 vittime. Le ritorsioni sono arrivate sino al mercato bogotano degli smeraldi, dove si sparava come sul set di un film western. La guerra è finita nel 1990 con un accordo di pace promosso dalla Chiesa e firmato da Carranza e altri leader degli smeraldi.

Una minaccia oggi è rappresentata dai guerriglieri delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), che da diversi anni cercano d’infiltrarsi nella regione per mettere le mani sul mercato delle pietre e sul più redditizio traffico della droga.

E’ come essere sempre in attesa che la polveriera sulla quale ci si trova seduti esploda.

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