Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto
accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del
motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa:
più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui
esperta manualità, condita con la proverbiale arte del
riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche
andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal
tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono
diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono
ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica
il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto
spuntano nelle vie centrali delle città «Africa - China
import», «L’Orient», «Hong Kong bazar»,
negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare
dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa»
produzione cinese.
In
alcuni paesi, Niger e Angola per citarne due, anche il panorama umano
sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è
difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche
se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon
rapporto con le popolazioni locali.
Questi
sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista»
dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo
nell’ultimo decennio.
Primi
passi
Senza
andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644),
si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei
paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di
Mao che cerca aperture internazionali e pensa a una campagna
africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito
dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La
Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di
liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i
suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi
a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori
- colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in
voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e
presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran
Bretagna.
Il
gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia,
Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i
nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry.
L’intervento è più sul piano politico - diplomatico,
interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e
dell’Occidente sul continente africano.
Politica
ed economia
Ma
la svolta nelle relazioni Cina - Africa si ha intorno alla metà
del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di
armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E
inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza
il «Forum di cooperazione Cina - Africa», il cui primo
incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis
Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora
nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui
partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato
e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I
Forum producono i documenti di principio su cui si basa la
cooperazione Cina - Africa. Dalla prima «Dichiarazione di
Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione
economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione
di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009»
nell’ultimo incontro.
Sul
piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e
fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle
politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti,
accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di
joint-ventures.
Documenti
strategici
Nel
gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento
ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne
esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi
«il più grande paese in via di sviluppo del mondo»
molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i
principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia
sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cooperare nella
solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera
scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con
l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare
reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi
africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e
sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno
e agire in stretta collaborazione negli ambiti internazionali come le
Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli
scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul
piano economico si definisce che nello scambio tutti devono
guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli
scambi.
Una
sola Cina
L’unica
condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti
ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità
della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan.
In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao
Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è
quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il
Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le
hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina
Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre
ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina -
Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico - diplomatico,
cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica
(verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle
infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni,
acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel
settore dell’educazione, tecnico - scientifica e medica.
Cooperazione
tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione),
giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche
righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però
il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il
petrolio.
Un
nuovo tipo di partenariato
Il
presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro
degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici paesi
africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per
il continente continua ad aumentare.
Con
la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina -
Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48
invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un
partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia
sul piano politico, cooperazione vincente - vincente sul piano
economico, scambi benefici sul piano culturale».
La
dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati
del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da
«eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della
cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud»,
richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la
riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni internazionali, con
l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità
internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione
degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato
esortano le organizzazioni internazionali a fornire maggiore
assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la
povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare
gli Obiettivi del millennio.
«Cina
e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e
interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive
di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e
prosperità comune».
A
caccia di risorse
La
Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo
dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il
10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di
energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione,
primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000
il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si
stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del
petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una
priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa,
grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino
oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in
assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea
Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E
il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza
negli affari interni degli stati». Approccio altamente
apprezzato dai regimi africani.
Anche
questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di
giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali
hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China
National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio
Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili
al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per
portare il greggio al mare.
La
Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu
ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo)
le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan
sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a
mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I
rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la
vendita di svariate forniture di armamenti, sia ai tempi della guerra
civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma
il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime
necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da
48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato,
cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi
ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come
manufatti.
I
contratti globali
In
cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti
a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere
infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti
globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del
debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle
materie prime.
Con
l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari
di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio.
Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del
suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del
permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle
compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere
pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10
ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre
ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla fornitura di
centinaia di camion e trattori).
Intanto
i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho
constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno
fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti
cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte
crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati
nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è
finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi».
Racconta un cooperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono
molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10
anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono
scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto
caldo», perché dormirebbero in tre, a turno, nello
stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche
la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante
asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per
una fornitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno,
l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione
della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in
tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché
la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con
lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la
Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di
centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma
secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta
recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello
Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.
Le
miniere del pianeta
Il
più recente contratto globale è quello firmato con la
Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso
17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il
settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una
serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km
di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la
ristrutturazione e rimodernamento di alcune compagnie congolesi di
estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad
esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti
di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il
presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la
ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente
nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello
mondiale, da questo punto di vista.
Il
braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China
Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche)
cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che
la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per
questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti
ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale
in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente
vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo
termine.
«Alla
televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un
contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta
padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel
paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno
rifacendo la strada Mechara - Golelchia. «Pochi sono i rapporti
con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo
uomini» continua. «A livello popolare non sono molto
accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da
parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro
raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il
cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con
quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno
cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.
Africa,
enorme mercato
Il
continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni
di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per
l’import - export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e
800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in
Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente
(tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa
australe).
Oltre
ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.)
in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai
«contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza
alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono
contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un
terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di
importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito
di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il
ciclomotore.
Questo
fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare
nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il
lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella
dei motorini in Burkina.
D’altro
lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli
africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa
cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che
il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha
dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto
disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione
della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i
rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti
scioperi.
Gli
scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di
dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il
primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il
2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti
iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente
come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione».
Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è
che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione
l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».
di
Marco Bello
MC
Dicembre 2007
Gli
Usa (non) stanno a guardare
Anche
gli Usa capiscono l’importanza strategica del continente e si
apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più
consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a
fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare
statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom,
Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta.
Finora il continente africano era «coperto» da tre di
questi.
Costruzione
di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a
Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il
«petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe
africane, coordinamento attività anti-terrorismo. Ma
anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere
aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del
vice segretario alla difesa, Teresa Whelan. Ovviamente,
«Africom» avrà una forte componente civile e
umanitaria.
La
scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione
dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è
essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli
Usa. Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati
Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è
prevista salire al 35%.
«Africom»,
che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare
operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro -
americano William Ward (58 anni), che si è occupato di
addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un
paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe
supportare una serie di altre basi sul continente. Trattative
sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana,
Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente
a un «comando su territorio africano», ed è
seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche
l’Algeria. Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è
detta favorevole a ospitare «Africom». A livello
internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La
Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la
propria penetrazione del continente.
Il
mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa
allettanti e accessibili.
Ma.B.