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Domenica, 20 Aprile 2008 20:41

IRAQ: INTERVISTA A MONS. RABBAN AL QAS, VESCOVO DI AMADHYA - KURDISTAN IRACHENO

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L’appoggio logistico dati dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Governi regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parola del vescovo di Amadhiya.
Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Governo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte di chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano al nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.


Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil - accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dai centro e dai sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Crc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina  vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuoli fare di Ankawa una città moderna e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.

In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti. La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ’60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Crc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano».Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte dei Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Balzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan, chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento.
Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Balzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa esterna all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, ma solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collaborazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze internazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana e quali?
Questa è una domanda che bisogna rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati USA che vi risiedono dicono che per loro è come “essere in vacanza”. Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace.

di Luigia Storti
MC  Luglio-Agosto 2007


Laboratorio Kurdistan: un paese in formazione

Il Kurdistan iracheno, formato dai tre governatorati di Dohuk, Erbil e Sulaymaniyah, occupa la parte nord e nord-orientale del paese. Oltre ad essere un’entità geografica, il Kurdistan è anche, nella sua visione più ampia, un «sogno» politico del popolo curdo. Con il dissolvimento dell’impero ottomano, i curdi avevano creduto di poter ottenere un proprio stato, come era stato promesso loro con il «Trattato di Sèvres» del 1920. Gli interessi delle potenze europee e dei nascenti stati nazionali arabi, però, misero fine a quel sogno e il «Trattato di Losanna» del 1923 ne sancì l’appartenenza a quattro stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria. Solo con la guerra all’Iraq del 2003 ha potuto assaporare per la prima volta una sorta di autogoverno riconosciuto, anche se non, per ora, indipendente.
Per quanto riguarda i curdi iracheni la loro storia è stata segnata da diverse lotte che li hanno opposti ai vari governi che si sono succeduti nel paese. Particolarmente aspra, è stata l’opposizione curda al regime baathista di Saddam Hussein, culminata con la «Campagna di Anfal» che, dal 1986 al 1988, portò alla morte di migliaia di curdi.
Nel 1991,dopo la sconfitta dell’Iraq nella prima guerra del Golfo, i curdi tentarono di ribellarsi al regime baathista, che reagì con una feroce repressione. A loro protezione venne varata l’operazione «Provide Comfort» che portò all’istituzione di una zona di interdizione al volo (no-fly zone) per gli aerei iracheni, a nord del 36° parallelo.
Grazie a questo ombrello protettivo, i curdi elessero, nel 1992, il primo parlamento regionale, i cui 105 seggi furono così assegnati: 5 ai cristiani, 50 al Partito democratico curdo (Pdk), guidato da Massoud Barzani, e 50 all’unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato da Jalai Talabani, attuale presidente dell’Iraq.
il governo curdo, però, durò solo due anni e da allora, per tutti gli anni Novanta, si succedettero varie lotte intestine, in cui si fronteggiarono militarmente i due maggiori partiti. Tali lotte causarono migliaia di morti e portarono la regione a una situazione di stallo, con il Kurdistan diviso in due zone di influenza: a ovest il Pdk e a est il Puk.
Al momento dell’invasione dell’Iraq del 2003 i curdi si rivelarono alleati preziosi degli usa e delle forze alleate, specialmente dopo il rifiuto dei governo turco di far transitare le truppe statunitensi per il proprio territorio. Nel gennaio del 2006 le due entità politiche curde si riunirono e, nel maggio dello stesso anno, diedero vita al Governo regionale curdo, con capitale Erbil (Hewlèr in curdo). Il governo ha come presidente Massoud Barzani e come primo ministro Nechirvan Barzani, e un parlamento regionale con i propri ministeri.
Per ora il Kurdistan, sebbene di fatto indipendente, fa parte della Repubblica irachena, anche se i suoi dirigenti continuano a invocarne la totale autonomia. Questa richiesta è però avversata sia dal governo centrale di Baghdad, sia dalla confinante Turchia. Quest’ultima, infatti, teme che anche i cittadini curdi che risiedono nei suoi confini siano tentati di richiedere autonomia e indipendenza; cosa che il governo di Ankara non è assolutamente disposto a concedere.
La relativa calma di cui il Kurdistan gode, e che ne ha fatto la terra di elezione per coloro che sfuggono alle violenze del centro e sud dell’Iraq, corre però il rischio di infrangersi. Alla fine del 2007, infatti, si dovrebbe tenere un referendum per decidere la sorte della città di Kirkuk, il capoluogo del governatorato di At-Ta’mim, attualmente facente parte della Repubblica irachena. Negli anni ‘90, questa città venne sottoposta dal regime di Saddam Hussein a una politica di «arabizzazione», che ne limitò la presenza curda e che di fatto ne mutò la composizione demografica. A partire dal 2003, invece, si è potuto assistere a un’opposta politica in favore della popolazione curda. Il referendum dovrebbe dare la possibilità ai suoi abitanti di scegliere se rimanere a far parte del governo centrale o essere ammessi a quello curdo, che ne vorrebbe addirittura fare la propria capitale. Il motivo di questo interesse speciale per Kirkuk è presto spiegato. Ai di là delle varie ragioni di ordine etnico, culturale, religioso o morale, bisogna ricondurre il discorso al cuore di tutti i problemi del paese: il petrolio, sui quale la città di Kirkuk letteralmente galleggia.
Lu.Sto.
Letto 2117 volte Ultima modifica il Mercoledì, 21 Maggio 2008 01:40

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