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Domenica, 22 Giugno 2008 21:12

ORISSA, I PERSEGUITATI DI SERIE B

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A Natale in India un’ondata di violenza ha lasciato dietro di sé morti e rovine. Per mesi alle ong cristiane è stato impedito di portare aiuti. E il mondo sta in silenzio


Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle loro. Ma adesso abbiamo tutti paura».

Parla della sua Baminigam padre Santosh Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack-Bhubaneswar. Parla di un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni. È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei fanatici indù dell’Rss che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E un clima di intimidazione che - a ormai diversi mesi di distanza - qui si tocca ancora con mano. Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la processione.

Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre. «Vuoi sapere come è andata davvero?», chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo. Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda Saraswati, un santone indù legato all’Rss che gira per l’Orissa per «riportare alle loro origini» i tribali convertitisi al cristianesimo. «Non è vero - ribatte padre Santosh -. Tutto è nato quando la mattina del 24 dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto».

Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a bruciare. Ci sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e di grossi dubbi.

«Avevamo capito quello che stava per accadere - racconta mons. Raphael Cheenath, l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal -. Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece non hanno fatto proprio niente». Incontriamo mons. Cheenath a Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal da qui dista cinque o sei ore di macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’Rss in cui si additano i cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma, più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale, guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del Bjp, il partito nazionalista indù.

«A febbraio - continua l’arcivescovo - proprio qui in Orissa c’è stato un attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente: nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, - quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani - ci sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?».

Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. «Non permettono alle nostre ong di  portare aiuti - denuncia mons. Cheenath -. Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire». Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza... Persino la casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta - che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi -, è stata attaccata. Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. Misereor - l’organizzazione di solidarietà internazionale della Chiesa tedesca - si è fatta avanti per aiutare a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le comunità colpite.

«Ufficialmente - commenta monsignor Cheenath - ci dicono che è per motivi di sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle ong cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa nel 1999, quando c’è stato il super-ciclone. Furono duemila i nostri volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni». Per sbloccare questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la Corte Suprema indiana, con una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.
 Guardi questa grande città, così uguale a tutte le altre, e fai fatica a credere che sia un covo di fanatici. «Sappiamo che molti indù sono contrari alle violenze - conferma il presule -. Privatamente ci hanno anche espresso solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono apertamente che vogliono distruggerci».
«Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?», gli chiediamo. «Sono convinto - ci risponde l’arcivescovo - che dietro all’estremismo religioso vi sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit. Prima erano come schiavi. Adesso - almeno una parte di loro - studia nelle nostre scuole, mette in piedi attività nei villaggi, rivendica i propri diritti. E chi - anche nell’India del boom economico - vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il Paese».

L’Orissa come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci dall’arcivescovado e ti imbatti nel «Big Bazar», il nuovissimo centro commerciale in stile americano. L’aeroporto - come tutti gli scali indiani - è in espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali. «Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era ancora la giungla», racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier Insitute of Management, uno dei fiori all’occhiello della città. Una facoltà di economia dalla storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la Provincia dei gesuiti. Anche in uno Stato in cui vige la legge anti-conversione, dunque, non c’è alcun problema a tenere il nome di San Francesco Saverio nella ragione sociale di un ente di diritto pubblico. Perché in India Xavier School  è ovunque sinonimo di qualità. «Tutti vogliono le nostre strutture - continua padre Augustine -, ne riconoscono la qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un centro d’élite. E allora - ad esempio - organizziamo anche corsi di management rurale, pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi». E poi - sempre qui a Bhubaneswar - c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti. Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di spoken English per aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubane-swar. Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.

L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi - al contrario - vuole mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata. C’è un importante appuntamento elettorale in vista: salvo elezioni anticipate, nel maggio 2009 in India ci saranno le elezioni generali. Il Bjp - il partito nazionalista indù, sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra - mira alla rivincita. E - come hanno dimostrato nel 2002 le violenze con i musulmani in Gujarat - soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo più efficace per serrare le proprie fila. «Non è un caso - sostiene padre Jimmy Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute - che queste violenze contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del Bjp. E che sia avvenuto proprio in Orissa, Stato dove nel 2009 si voterà anche per il governo locale».

È un gioco che - nonostante i fatti di Natale - a Bhubaneswar va avanti. Apriamo l’edizione locale del quotidiano The Indian Express in un giorno qualunque. E puntuali troviamo le dichiarazioni del leader del Rss K. S. Sudar-shan: «Sono diverse le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi».

La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto successo a Natale, sta procedendo con metodi quanto meno discutibili. «Dopo mesi in cui non se ne era saputo più nulla - ha denunciato sul suo blog John Dayal, segretario generale dell’All India Christian Council - il giudice incaricato è arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: “Avete convertito qualcuno qui?”». Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani, non le violenze commesse dai fanatici indù.

Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. «Finora non sono state ancora date indicazioni ufficiali - continua Dayal -. Su alcuni giornali, però, abbiamo letto che scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di 200 mila rupie (circa 5 mila dollari), ma le chiese e i conventi saranno esclusi. Se così fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi. Escluderli non ha alcun senso».

Questo è il tipo di calma che si respira oggi in Orissa. «Sotto la cenere cova una situazione esplosiva - denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action Net -. Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per “riconvertire” i tribali cristiani. Ci sono discriminazioni sulle terre. Non sono violazioni delle leggi anti-conversione? Perché non le applicano?».

Resta, però, una domanda: persone uccise, case e chiese bruciate, zone vietate ai cristiani. Dove sta la differenza rispetto al fondamentalismo islamico cui - giustamente - è riservato così tanto spazio sui nostri giornali? E perché nessuno in Occidente alza la voce sull’Orissa? A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al Parlamento a New Delhi non ha fatto notizia sui nostri giornali. La risposta del vescovo Cheenath è amara: «L’India di oggi è un mercato che fa gola a tutti - spiega -. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle minoranze non interessa a nessuno». È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.

Giorgio Bernardelli
Mondo e Missione / maggio 2008


Adivasi e «zone speciali»

Un quarto dei circa 36 milioni e mezzo di abitanti dell’Orissa è costituito da adivasi, cioè da popolazioni tribali. È la quota più alta tra tutti gli Stati indiani. E se ai tribali si aggiungono i dalit - l’altro gruppo sociale più emarginato nella rigida scala delle caste indiane - si arriva quasi a un 40 per cento per quelle che, utilizzando ancora l’eufemismo britannico, la burocrazia indiana classifica come «scheduled castes and scheduled tribes». Basta questo dato per spiegare perché l’Orissa (insieme al Bihar) figuri in fondo a tutte le classifiche sugli indicatori di ricchezza degli Stati indiani. Tanto per fare qualche esempio qui ancora oggi il 65 per cento della popolazione non ha accesso all’acqua potabile e solo il 20 per cento delle strade sono asfaltate. Eppure lo stereotipo dello Stato arretrato può essere anche fuorviante. Perché anche l’Orissa oggi è uno Stato su cui fioccano gli investimenti. Nei pressi di Paradip - il suo maggiore porto - la sudcoreana Posco ha realizzato un mega-impianto da 12 miliardi di dollari per la produzione dell’acciaio. E la Reliance Industries - una delle più importanti società industriali indiane - si appresta a costruire a Hirma la più grande centrale termoelettrica del mondo, che con i suoi 12 mila megawatt dovrebbe rifornire di energia sei Stati indiani. I tribali nei villaggi della foresta. Gli impianti industriali modernissimi nelle zone economiche speciali. La miscela esplosiva dell’Orissa si spiega anche così.


Tensioni in tutta l’India

L’Orissa è il caso più drammatico di una situazione grave che tocca purtroppo anche altri Stati dell’India. Nel mese di marzo - ad esempio - due suore carmelitane che da tredici anni svolgono il loro ministero tra i tribali, sono state assalite dai fondamentalisti indù  nel Maharashtra, lo Stato di Mumbai. «Gridavano accusandole di operare conversioni», hanno raccontato alcuni testimoni. Nel Madhya Pradesh, invece, a Pasqua il governo ha disposto che le forze dell’ordine fossero schierate all’esterno delle chiese durante le celebrazioni. Una misura presa dopo gli oltre cento attacchi subiti dal dicembre 2003, cioè da quando il Bjp ha conquistato anche questo governo locale. Proprio negli stessi giorni, però, il Parlamento di un altro Stato indiano - il Rajasthan, una delle mete preferite dei turisti – approvava una legge anti-conversione che prevede una pena di cinque anni di carcere e una multa di 50mila rupie (circa 800 euro) per chi opera conversioni «tramite forza, coercizione o frode». Con il Rajasthan diventano sei gli Stati indiani dove è in vigore questo tipo di normativa. «È un insulto alla cultura della nostra nazione - ha dichiarato ad AsiaNews il cardinale Varkey Vithayathil, neo-presidente della Conferenza episcopale indiana -. Questa legge è del tutto inutile ed è voluta dalle forze fondamentaliste che, in questo modo, creano soltanto sfiducia ed intolleranza nella nostra società».
Letto 1674 volte Ultima modifica il Domenica, 29 Giugno 2008 00:56

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