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In cammino con Dio

Il vero pane disceso dal cielo

di Francesco Mosetto

Nel Vangelo di Giovanni il miracolo dei pani è accompagnato da un dialogo tra Gesù e i Giudei, che ne di schiude il significato simbolico sullo sfondo del racconto biblico della manna (Es 16). In un certo senso l'evangelista rilegge in chiave cristologica la pagina dell'Esodo: il «pane dal cielo», che per mezzo di Mosè il Signore aveva donato ai figli di Israele, prefigura il vero pane dal cielo, lo stesso Gesù, che dà la vita al mondo, ossia a tutta l'umanità. Ma accostiamo anzitutto la pagina giovannea, cercando di scoprire il percorso attraverso il quale l'evangelista conduce i suoi lettori.

Un duplice segno

Dopo la sezione iniziale ( «da Cana a Cana», cc. 1-4), il quarto Vangelo riporta una serie di «segni», accompagnati da discorsi oppure dialoghi che ne enucleano il significato: la guarigione del paralitico (c. 5), il miracolo dei pani e il cammino di Gesù sulle acque (c. 6), l'illuminazione del cieco (c. 9), la risurrezione di Lazzaro (c. 11).

I due «segni» del c. 6 del Vangelo di Giovanni sono collegati tra loro anche nei Sinottici: indizio questo di una tradizione comune molto antica. Se in Marco e in Matteo il miracolo dei pani è narrato due volte (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39), ciò si può spiegare con lo sdoppiamento dell'unica tradizione. Luca (Lc 9,10-17) si limita al primo dei racconti. A sua volta la versione giovannea presenta contatti sia con la prima sia con la seconda moltiplicazione dei pani. Mentre lo sfondo biblico e le allusioni sacramentali si possono già avvertire nel racconto dei Sinottici, Giovanni accentua la portata cristologica del racconto, che viene ulteriormente esplicata nel dialogo seguente.

Anche il cammino di Gesù sulle acque lascia trasparire uno sfondo biblico che ne orienta l'interpretazione. Mentre in Marco (Mc 6,45-51) l'automanifestazione di Gesù incontra tuttora l'ottusità spirituale dei discepoli, che impedisce loro di cogliere il mistero della sua persona, in Matteo (Mt 14,22-32) esso conduce a una professione aperta di fede. L'espressione con la quale Gesù si presenta ai discepoli e che si legge anche nei sinottici («lo sono»), nel quarto Vangelo assume una valenza caratteristica (cf 8,24.28.58; 13,19), come equivalente del nome divino (cf Es 3,14; Is 43,10s).

Il dialogo

Quasi si direbbe che per il quarto evangelista il segno dei pani è un pretesto per l'autorivelazione di Gesù. Con i vv. 22-25 si passa velocemente da un racconto pieno di realismo, benché carico di suggestioni simboliche, a un dialogo serrato, la cui architettura rivela un disegno preciso. Per semplicità e chiarezza distinguiamo tre parti, tra loro ben concatenate:

- Prima parte (vv. 26-35): il «segno» rimanda alla realtà: «il pane della vita», che è lo stesso Gesù.

- Seconda parte (vv. 35-48): per avere il pane della vita è necessaria la fede in Gesù, vero pane disceso dal cielo.

- Terza parte (vv. 48-58): dando se stesso come cibo, Gesù «dà la vita al mondo».

All'interno di ciascuna parte il dialogo, dall'andamento a prima vista tortuoso, lascia trasparire una precisa intenzionalità teologica. Ne evidenziamo i passaggi:

Dal «segno» alla realtà

Punto di partenza è il segno del pane: i Giudei cercano Gesù perché ha saziato la loro fame materiale, ma non hanno compreso il segno nel suo vero significato (v. 26). Gesù orienta la loro ricerca verso il suo verso oggetto, il cibo che «rimane in vita eterna» (v. 27). Chi dà questo cibo è Il Figlio dell'uomo, l'inviato di Dio, da lui accreditato con il miracolo; cf 5,36: «le opere che il Padre mi ha dato da compiere... testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».

I Giudei accolgono l'invito di Gesù a procurarsi «il cibo che rimane in vita eterna», ma lo fraintendono: giocando sul verbo ergazein (v. 26: ergazesthe, procuratevi; v. 28: ergazometha, facciamo) l'evangelista suggerisce che la parola di Gesù è stata interpretata secondo la mentalità farisaica, come esortazione a procurarsi i beni divini mediante le opere della Legge. Ma subito Gesù corregge il fraintendimento e per la seconda volta imprime alla ricerca dei suoi ascoltatori la direzione giusta: «Questa è l'opera di Dio (quella che egli si attende dall'uomo): credere in colui che egli ha mandato» (v. 29).

L'iniziativa passa ai Giudei, i quali provocatoriamente chiedono un «segno», più precisamente quello della manna, che aveva accreditato Mosè come inviato di Dio (vv. 30-31; si cita il Salmo 78, che richiama Es 16). La richiesta appare paradossale, dal momento che il miracolo dei pani appena avvenuto corrisponde puntualmente alla pretesa dei Giudei; ma il richiamo a Mosè e ad Es 16 è soprattutto funzionale all'interpretazione del segno che Gesù ha compiuto.

Difatti la nuova risposta di Gesù offre la chiave di lettura del miracolo dei pani sullo sfondo del racconto biblico della manna e consente di identificare il pane di Dio, quello che «rimane in vita eterna» e che Gesù stesso aveva annunciato fin dall'inizio del dialogo (vv. 32-35; cf v. 27). Interessante notare la triplice contrapposizione, che sottolinea la somiglianza e insieme la novità del dono escatologico: «non Mosè... ma il Padre mio...»; non la manna, ma «il vero pane dal cielo»; non «vi diede», allora, ma «vi dà», adesso. Un ulteriore confronto tra la manna e il vero pane che discende dal cielo sarà istituito più avanti (vv. 49s): «i padri hanno mangiato la manna nel deserto e (= eppure) sono morti»; chi invece mangia del vero pane dal cielo, solo adombrato dal prodigio dell'esodo, «vivrà in eterno».

Il vero «pane di Dio» - continua Gesù - «è quello/colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Grazie alla consueta tecnica del fraintendimento l'ultimo scambio di battute tra i Giudei e Gesù conduce al primo vertice del dialogo, ove finalmente si decifra il segno del pane, identificato con Gesù stesso. Come la Samaritana aveva chiesto: «Signore, dammi di quest'acqua...» (4,15), così i Giudei, tuttora prigionieri del senso materiale delle parole, dicono: «Signore, dacci sempre questo pane». Eppure Gesù non respinge la domanda; piuttosto ne fa l'occasione per presentarsi come il vero pane che dà la vita e per invitare a se gli uomini: «lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35).

Come avere il pane della vita

La seconda parte del dialogo prende l'avvio dalle parole con le quali Gesù si definisce «il pane della vita» (v. 35) e vi ritorna (v. 48) attraverso un'ampia digressione sul tema della fede; o meglio: tratta della fede come condizione necessaria e indispensabile per ottenere il pane della vita, sviluppando l'accenno introdotto fin dal v. 29.

Con linguaggio sapienziale (cf Is 55,1-3; Prv 9,1-6; Sap 16,26), Gesù invita gli uomini al banchetto della vita: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35). Venire a Gesù equivale a credere in lui come Figlio e inviato del Padre. La fede però non è un'opera umana; alla sua origine c'è l'iniziativa del Padre, che «dà» a Gesù i credenti (v. 37; cf 17,2.12.24), li «attira» a lui (v. 44). «Magna gratiae commendatio», esclama sant' Agostino (in Jo. Tract. XXVI, 2).

A più riprese Gesù ha rivolto il suo appello alla fede (cf 3,14ss.31ss; 5,24.36ss); da ultimo nella parte iniziale del dialogo (v. 29) e con l'invito del v. 35. Ora sollecita la fede dei Giudei e - attraverso il testo evangelico - di tutti gli uomini, insistendo sul senso ultimo della sua venuta nel mondo secondo il disegno del Padre: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (v. 40). Come un ritornello, le parole «io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (vv. 40.43; cf v. 39) contribuiscono a definire il concetto di «vita eterna» come adempimento della speranza giudaica nel mondo futuro.

Vi è però un ostacolo alla fede: l'umanità di Cristo (v. 42). L'interrogativo stupito dei Giudei è noto anche alla tradizione sinottica (cf Mt 13,35; Mc 6,3; Lc 4,22). Il quarto Vangelo ritorna più volte su questo tema (cf 1,45s; 7,25ss.40ss). Senza l'azione invisibile della grazia, l'uomo non riesce a superare il livello dei sensi approdando alla fede nell'Incarnazione del Verbo (vv. 43s).

Mangiare il pane della vita

Riallacciandosi al tema del pane, nella terza parte del discorso (vv. 48-58) Gesù ne sviluppa il simbolismo sotto un duplice aspetto: in riferimento al supremo dono di se, che egli compirà sulla croce, e in ordine all'Eucaristia, memoriale del suo sacrificio e banchetto nel quale egli stesso si fa cibo e bevanda dei credenti.

Dopo aver ripetuto l'affermazione: «lo sono il pane della vita», il vero «pane che discende dal cielo» (vv. 48-51ab), ora Gesù precisa: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51c). Con il linguaggio semitico («carne» nel senso di corpo, persona concreta) e con trasparente allusione al dono di se nella morte («io darò... per...»; cf 10,11.1.5; 11,50.52; 15,13; 17,19;18,14; v. anche 1 Gv 3,16), le parole di Gesù conferiscono ora al pane un valore simbolico più circoscritto rispetto alla identificazione precedente. Lo scopo ultimo della «discesa» del Verbo dal mondo di Dio (il «cielo») è infatti il sacrificio della croce: là e solamente allora Gesù realizza pienamente la figura della manna, pane disceso dal cielo per la vita agli uomini.

La parola di Gesù è rivelazione. Come tale supera le attese e provoca la meraviglia, addirittura lo sconcerto: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 53). Ancora una volta la incomprensione serve da trampolino per un annuncio più aperto, una risposta che non elimina lo scandalo, ma invita a superarlo nella piena disponibilità al dono di Dio.

Poiché la «vita», nel senso alto e pieno che il termine ha nella Bibbia e particolarmente nel linguaggio giovanneo, è data agli uomini per mezzo del Verbo (Gv 1,4), il Figlio unigenito che Dio ha donato «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3,16), il «pane di Dio», che «dà la vita al mondo» (6,33); e poiché tutto ciò si realizza attraverso la morte sacrificale di Gesù, l'uomo non potrà aver parte a tale vita se non ricevendo quel pane nella verità piena del suo essere donato.

Di qui, con logica rigorosa e sconvolgente oblatività, l'invito di Gesù a «mangiare di questo pane» (v. 51), «mangiare la carne del Figlio dell'uomo e bere il suo sangue» (v. 53); Carne e sangue di Gesù - ove il binomio sottolinea che unica è la persona, mentre la distinzione suggerisce la morte cruenta - sono «vero cibo» e «vera bevanda» perché l'uomo attinge in essi la realtà da cui scaturisce la «vita»; non una realtà astratta e atemporale, ma un essere storico e un evento di salvezza.

L'insistenza sui verbi «mangiare»-«bere» e sui termini «cibo»-«bevanda», «carne»-«sangue», è certo intenzionale: il lettore iniziato al sacramento della Cena non può non intuire che l'invito di Gesù riguarda ultimamente il rito sacramentale. Con le parole: «Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue dell'alleanza...» (Mt 26,26.28) non ha forse egli stesso consegnato il memoriale del suo sacrificio? E tuttavia il corpo e il sangue del Signore, che nell'Eucaristia diventano cibo e bevanda dell'uomo, sono appunto l'umanità glorificata del Verbo, il Cristo risorto sorgente di vita per i credenti. La sua morte e risurrezione, evento che compie l'Incarnazione del Verbo come evento di salvezza, fanno dunque di Cristo il vero «pane disceso dal cielo per la vita del mondo».

Una duplice considerazione completa le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (vv. 56-57). La seconda precede e fonda logicamente la prima, perché riguarda la comunione di vita tra Gesù e il Padre. Il Padre, che è il «vivente» per eccellenza (cf Sa142,3 ecc.) e «ha la vita in se stesso» (Gv 5,26), è la sorgente della vita anzitutto nei confronti del Figlio, il quale può dire: «io vivo per il Padre», partecipando cioè alla sua stessa vita.

Il Figlio a sua volta comunica la vita divina agli uomini: chi crede in lui «ha la vita eterna» (vv. 40.47; cf 3,16; 5,24). Alla luce delle cose appena insegnate, ciò si realizza mangiando il «pane della vita»: «colui che mangia di me vivrà per me», ossia: avrà parte alla vita divina che dal Padre per mezzo del Figlio viene comunicata agli uomini.

Tra i credenti e Gesù nasce pertanto una comunione di vita analoga a quella che intercorre tra lui e il Padre: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (v. 56). Parole che anticipano gli insegnamenti dell'ultima cena e ne sono illuminati: «In quel giorno saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (14,20.23); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto...» (15,5); «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... lo in loro e tu in me...» (17,21.23). Fede in Cristo e sacramento della Cena, nel loro inscindibile intreccio, sono dunque il mezzo offerto all'uomo per comunicare intimamente alla vita stessa di Dio, la «vita eterna».

Tu hai parole di vita eterna

L' epilogo registra una duplice reazione alle parole di Cristo e, più generalmente, alla sua rivelazione attraverso i segni e il discorso: il rifiuto dei «molti», che si «tiravano indietro e non andavano più con lui» (6,66) e la fede coraggiosamente professata da Simon Pietro a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Si compie così la «crisi» (3,19; cf 9,36), separazione e giudizio, per la quale gli uomini si dividono davanti a Gesù: da una parte i non credenti, che si scandalizzano della sua persona e per le sue parole; dall'altra quelli che non inciampano nel «duro linguaggio» della rivelazione di Cristo e sono condotti a lui dal Padre.

Gesù stesso commenta lo scandalo e getta luce nell'intimo del cuore umano. La «carne», ossia l'uomo come creatura limitata e fragile, non riesce da sola a percepire la presenza di Dio nel Figlio incarnato. Chi dà la vita «è lo Spirito», la potenza di Dio che rigenera (cf 3,5s) e guida alla conoscenza della «verità» (cf 14,26; 15,26; 16,13). Di questa forza divina sono cariche le parole di Gesù; esse sono «spirito e vita» (v. 63), sono «parole di vita eterna» (v. 68).

D'altra parte, la rivelazione di Gesù è tuttora incompleta: il Figlio dell'uomo deve ancora «salire là dov'era prima». La sua esaltazione (cf 3,14s; 8,28; 12,31ss), oltre a costituire un ritorno alla condizione antecedente la discesa dell'Incarnazione (cf 17,5.7.24), sarà anche manifestazione della sua divinità («Io sono»: 8,28) e conferma suprema delle sue parole.

Dalla manna all’Eucaristia

Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao traccia l'itinerario di un lungo viaggio che ogni credente percorre ogni volta che prende parte all'Eucaristia: dalle steppe del Sinai e dalle pagine del libro dell'Esodo all'incantevole conca del lago di Genezaret, al momento affascinante dell'ultima Cena e a quello terribile della croce, al misterioso incontro con il Risorto nella celebrazione eucaristica, che a sua volta anticipa il banchetto celeste: solo allora il «pane della vita», Cristo, comunicherà definitivamente all'uomo quella vita che egli stesso riceve dal padre, sì che in Lui anche noi possiamo godere la «vita eterna».

L'intero percorso è segnato da un'immagine, quella del pane: prima nella forma di un cibo prodigioso, la manna; poi come segno compiuto da Gesù e da lui stesso interpretato; quindi come cifra dell'Incarnazione del Verbo, «il pane della vita» disceso dal cielo; infine come elemento della cena pasquale, consegnato da Gesù ai suoi come sacramento del suo corpo e memoriale del suo sacrificio.

La prima tappa, quella rappresentata dal miracolo della manna nel cammino dell'esodo, orienta e prefigura quelle successive. Il richiamo al celebre testo biblico nel c. 6 del Vangelo di Giovanni costituisce uno degli esempi classici di quella rilettura dell'Antico Testamento, attraverso la quale il Nuovo Testamento, mentre riconosce al primo un «valore profetico», al tempo stesso ne rivela il «senso spirituale» e ne indica il «compimento» nella realtà nuova e superiore che è Cristo.

Non è certo se il testo citato al v. 31 sia Es 16,4 oppure Sal 78,24 L XX: ciò ha relativa importanza. La citazione porta con se l'eco di una serie di testi, biblici ed ebraici post-biblici, che ricordano il miracolo della manna e ne illustrano il significato. In particolare, sulla scia del Deuteronomio (Dt 8,3), il libro della Sapienza vede nella manna il simbolo della parola di Dio (Sap 16,24-26). L'interpretazione sapienziale è atte stata anche dai commenti rabbinici al libro dell'Esodo (Mekhiltà, Esodo Rabbà) e da Filone di Alessandria (Legum Allegoriae III, 56; Her:.. 39). D'altra parte, all'attesa di un nuovo Mosè era associata l'idea che avrebbe ripetuto il prodigio della manna: «Come il primo salvatore fece scendere la manna... così anche l'ultimo salvatore farà discendere la manna...» (Eccles. Rabba 1,28; v. anche Mekhiltà su Es 16,25; 2 Baruch 29,8).

Al tempo messianico o escatologico si riferisce anche il tema isaiano del banchetto, che il Signore ha preparato sul monte Sion per tutti i popoli (cf Is 25,6-8) ed al quale, nel contesto, è associata la vittoria sulla morte (Is 26,19). Vicino al tema del banchetto messianico è quello della tavola che la divina Sapienza ha imbandito: «Venite a mangiare il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato... e vivrete...» (Sap 9,5s: cf Sir 15,1-3; 24,19s). Questi temi tra loro affini si rifanno ultimamente all'«albero della vita» che si trovava nel paradiso (Gn 2,9; 3,22); ad esso probabilmente si ispirano anche le espressioni giovannee «il pane della vita», «l'acqua viva... che zampilla in vita eterna» (Gv 4,10.14), la «luce della vita» (Gv 8,2). È comunque interessante che nella letteratura giudaica, come per il pane, si trovi una interpretazione sapienziale anche dell’albero della vita: «La Torà è un albero di vita per ogni uomo che la studia...» (Targum Neophyti I, Gn 3,24).

Su questo sfondo la parola di Gesù si comprende in modo più adeguato. Egli è il «vero pane disceso dal cielo», «il pane della vita», che compie le figure dell'Antico Testamento e ne realizza l' annuncio profetico. Il miracolo dei pani è un «segno», la cui portata cristologica risalta alla luce del Primo Testamento; d'altra parte, senza di questo e senza l'ulteriore ricerca (midrash) coltivata nei circoli sapienziali giudaici, non sarebbe nemmeno comprensibile l'evento e il messaggio cristiano.

(da Parole di vita, 4, 97)

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In cammino con Dio

Massa e Meriba: la crisi della fede

di Antonio Nepi

«Ascoltate la sua voce: "Non indurite il Cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere"» (Sal 95,8-9). Posto dal salmista sulle labbra di JHWH, il «giorno di Massa e Meriba» resta scolpito nella memoria del Primo e Secondo Testamento come paradigma della crisi di chi è chiamato a camminare con Dio, nella tensione tra il già della liberazione e il non ancora del «riposo» nella terra promessa: il rischio di contestare Dio e le sue «vie», di non ricordare le sue misericordie, e di attaccare il cuore ai «doni di Dio» anziché a Lui che dona; più profondamente, di mettere in dubbio la sua compagnia nel cammino: «il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Nella storia fondativa del Pentateuco troviamo due narrazioni complete di questo «giorno» fatidico (Es 17,1-7; N m 20,1-13), nonche vari richiami nel libro del Deuteronomio e nei Salmi. Ci soffermeremo sul testo di Es 17,1-7.

La vocazione d'Israele come vocazione di Dio

Il libro dell'Esodo racconta un evento di importanza capitale: la liberazione d'Israele e la sua nascita come popolo. Per la prima volta il Dio della creazione, dei singoli patriarchi, ha interpellato una collettività in schiavitù, dimentica delle sue radici, facendosi conoscere con il suo «vero» nome JHWH (Es 3,14). Fedele alle sue promesse, le ha rivelato la sua paternità, la sua solidarietà di parente più prossimo (go'el) e l'ha chiamata ad entrare in alleanza con lui, ad essere la sua famiglia, la sua sposa (Es 6,2-8).. Si tratta di una scelta gratuita di Dio, dettata da un innamoramento (Dt 7,7-9). Il passaggio del Mare dei Giunchi è stato una nuova creazione: il «battesimo» di Israele come popolo. Ogni nuova creazione, come ogni liberazione, è coincidenza di morte e vita: libertà da una schiavitù ('abodah) disumana, libertà per un servizio ('abodah); morte ad una non identità e dispersione in Egitto, vita per una nuova identità e per una inedita vocazione. JHWH ha liberato Israele, perché solo da libero può scegliere di aderire al suo progetto di alleanza e di servizio. È al Sinai che Israele saprà cosa Comporti questa alleanza e questo servizio (cf Es 19,5-6): JHWH vuole fare di questo popolo la sua peculiare proprietà (segullah), un regno con la missione sacerdotale di rappresentare Dio dinanzi all'umanità e l'umanità dinanzi a Dio; una nazione (che avrà quindi terra e legge) chiamata ad essere santa, cioè a vivere e far trasparire la stessa vita e lo stesso stile di Dio. La vocazione d'Israele è la vocazione di Dio. Israele è ancora ignaro del dono e del compito che lo attende. Dinanzi ai suoi occhi il deserto, orrido ed ignoto.

La via del deserto

Perché Dio sceglie per Israele la strada del deserto, quando poteva condurlo per una strada più comoda (Es 13,17)?

Dt 8,2-5 risponde che è stato un test pedagogico della paternità di Dio. Nel linguaggio sapienziale del passo, il percorso del deserto è stato una scuola di sapienza e di correzione, dove il Padre «mette alla prova» il figlio, per togliergli le maschere del cuore, per educarlo alla ri-conoscenza (intesa nel suo duplice senso di riconoscimento e gratitudine). Nel deserto (midbar), cifra esistenziale dell'ambiguità e dei miraggi, Israele è stato chiamato a distinguere la Parola (dabar) dalle parole, a sperimentare la propria fragilità, la sconfitta delle proprie sicurezze per rendersi conto che la vita dipende unicamente da JHWH.

Dt 32,10-12 rilegge il cammino esodico come il tempo dello svezzamento premuroso:

«Egli lo trovò in una terra deserta... lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata... lo sollevò sulle sue ali».

Il deserto è stato il momento della crescita di un popolo neonato (per Ez 16 di una bimba trovatella), che prende coscienza della sua liberazione, e deve imparare a muovere i primi passi non solo verso «la terra», ma «alla presenza di Dio», accogliendone le direttive. In tutto il libro del Deuteronomio, il deserto si configura come una palestra di solidarietà, in cui si impara a diventare «fratelli», a condividere quanto viene offerto da Dio e a difendersi insieme.

Questi due testi, però, presentano una visione retrospettiva del cammino, che ha il respiro di chi è alle soglie della meta. Ma l'Israele presso il Mare dei Giunchi questo non lo sa. Il deserto si spalanca minaccioso davanti ai suoi occhi come morte, desolazione, come luogo inospitale e invivibile, spazio degli agguati e dimora degli spiriti maligni, dove bisogna avere i beni vitali essenziali, saper gestire bene le proprie forze per poterne uscire. Certo, nel cuore d'Israele c' è la memoria euforica della prodigiosa liberazione e il futuro delle promesse. Ma restano, non del tutto rimossi, due inquietanti interrogativi; il primo suggerito da Faraone, il secondo dal popolo: «II deserto bloccherà Israele?» (14,3); «Mosè, che ha fatto uscire Israele dall'Egitto, lo farà morire nel deserto?» (14,12). Alle spalle la morte di Egitto, davanti la «morte» del deserto. Parafrasando K. Barth, il deserto è come una porta: dietro si può trovare Dio o il diavolo. Israele è chiamato ad una scelta: saprà affrontare il rischio della sua libertà giovane e prepararsi a divenire quel che è? Saprà fidarsi di Mosè e di JHWH, che lo ha liberato e credere che si tratta di un tempo intermedio, ma obbligatorio, perché momento di nuda e necessaria verità? Oppure la difficoltà, la vertigine di questa libertà, ridesterà l'illusione e il rimpianto della falsa sicurezza della schiavitù? Nel primo caso il deserto può essere la chance della più completa intimità fra i partners, e della provvidenza di doni impensati nell'ottica di Dio; nel secondo, il deserto diventa lo spazio dell'insofferenza, della protesta, dello smarrimento. È per questo che nella memoria profetica d'Israele, il deserto sarà un simbolo ambivalente: in un certo filone (Os 2,16; Ger 2,2) viene letto in chiave ideale e positiva come il tempo del «fidanzamento»; ma in un altro filone profetico, il deserto non è stato altro che il tempo di una continua e crescente ribellione: «Ma gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto; essi non camminarono secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare perché l'uomo viva» (Ez 20,13). Nel racconto dell'Esodo e dei Numeri, pur con differenze, ritroviamo quest'ultima pessimistica conferma: dal Mar Rosso al Sinai (Es 15-17) ed anche dopo il dono della Legge (Es 32; N m 11-12; 13-14; 16; 20; 21,4-9;

25,1-5) Israele non ha saputo cogliere questa chance.

Dal Mar Rosso al Sinai

Nel libro dell'Esodo, il cammino di Israele verso il Sinai si apre con Mosè, che leva l'accampamento presso il Mar Rosso (Es 15,22) e si chiude con l'accampamento davanti al monte (19,2). Il racconto del viaggio nel deserto si configura come un intreccio di episodi (Es 15,22-18,27) narrativamente autonomi, in luoghi non facilmente identificabili, di cui prospettiamo la sequenza:

a) 15,22-27 la mormorazione aMara

b) 16,1-36 le quaglie e la manna nel deserto di Sin

c) 17,1-7Ia mormorazione di Massa e Meriba a Refidim

d) 17,8-16 il combattimento contro Amalek a Refidim

e) 18,1-27 incontro di Mosè e Ietro - istituzione dei giudici a Refidim.

L'unità narrativa di questo intreccio è data dal «deserto», dagli attori Mosè, Dio, il popolo, presenti in tutti gli episodi, contornati di volta in volta da altri personaggi.

Una sorta d'inclusione c'è tra il primo episodio dove Dio «istruisce» (yrh) e impone delle direttive (hoq + mispathoq + torot 18,16.20). Sin dall'inizio c'è la compagnia di una istruzione che sarà codificata al Sinai, nella Torah. 15,25-26) e l'ultimo, dove il compito di Mosè è farle conoscere (

Ogni episodio presenta generalmente lo stesso schema: c'è una mancanza di un elemento vitale (acqua amara, carne-pane, acqua, difesa dai nemici, amministrazione della giustizia), e la soluzione di questa mancanza, per la mediazione di Mosè (gesto e/o invocazione), che assume un ruolo sempre più determinante.

JHWH appare sullo sfondo del racconto; parla direttamente solo con Mosè (ed Aronne), che è il suo portavoce. In ogni episodio la mancanza vitale fa emergere un suo «titolo» (il Medico 15,26; il Saziatore 16,29; il Vessillo 17,15; il Liberatore - Più grande di tutti gli dei 18,10-11; a Massa e Meriba appare invece sotto l'interrogativo del v.7).

Il popolo, particolarmente attivo nei primi tre episodi, non sembra far altro che «mormorare» (15,24; 16,2.7.8; 17.3), «mettere alla prova» (17,2.7) e «protestare» (17,2.7). Questa protesta scompare completamente negli ultimi due episodi.

Come un sinistro e seducente basso continuo in ogni episodio compare il termine «Egitto/egiziani», che ha un tono diverso sulle labbra degli Israeliti (15,26; 16,3; 17,3) e sulle labbra di Mosè, del narratore e di Ietro (16,1.6;18,1.8.9.10.11).

Massa e Meriba

Nel libro dell'Esodo l'episodio di Massa e Meriba (17,1-7) appare al centro del viaggio verso il Sinai. Si tratta di una tappa che ricapitola e costituisce il culmine delle reazioni negative del popolo dinanzi alle mancanze vitali, che si sono finora susseguite. Nel contempo, le conclude, perché sempre a Refidim, si svolgeranno, a quanto pare, gli altri due ultimi episodi del viaggio (combattimento contro Amalek e l'incontro con Ietro), senza alcun accenno di reazioni negative.

Il racconto attuale costituisce un'unità autonoma, delimitata stilisticamente dall'inclusione tra «l'assenza» ('yn) di acqua nel v.1b e la domanda sull'assenza ('yn) di Dio in mezzo al popolo nel v. 7. Appare una spiccata fraseologia giuridica di lite.

La sequenza narrativa assomiglia a quella dei precedenti episodi: a) quadro: il popolo si accampa a Refidim (v. 1); b) complicazione: manca del tutto l'acqua e il popolo spinto dalla sete protesta e mormora (vv. 1b-3); c) la «svolta»: Mosè invoca il Signore, che interviene, ordinandogli il percuotere la roccia con il bastone per far sgorgare acqua: Mosè esegue l'ordine (4-6); d) conclusione: il narratore offre un' eziologia e la chiave interpretativa dell'episodio.

La mormorazione d’Israele

Israele continua il suo viaggio. Quasi per ironia, nell'assonanza dell'ebraico, ogni tappa (ms') si è rivelata una prova (msh) di Dio. Si tratta di un test, che trova in una direttiva il proprio riferimento. Proprio nella prima difficoltà a Mara, Dio aveva dato a Mosè una «istruzione», che è nel contempo un limite (hoq). La bussola è una Parola, che finora si è dimostrata fedele; rispettarla è garanzia di protezione e di rotta ed impedisce di ricadere nella logica degli Egiziani. Mosè è il portavoce privilegiato di questa parola salvifica. Nel deserto Israele può fare solo questo: se non conosce la pista concreta, ha però una rotta precisa: ascoltare la voce del Signore e prestare orecchio ai suoi ordini (15,26). Sorge ancora una volta il problema di una mancanza vitale, che nel deserto è la mancanza per antonomasia. L'assenza totale d'acqua sembra tradire l'assenza di JHWH (cf v. 1 e v.7). La reazione del popolo è progressiva: la sete scatena la «protesta» e cresce in una «mormorazione» contro Mosè. La mancanza sfocia in un conflitto.

Soffermiamoci su questa reazione del popolo. Israele «protesta» contro Mosè. Il verbo usato (ryb) oltre ad avere un senso generico di protesta, scontentezza, rimprovero, che rivendica un diritto, è squisitamente termine tecnico giudiziale, il verbo della contesa bilaterale, dove i due contendenti devono risolvere la lite senza l'intervento di un terzo giudice. È lo stesso verbo che ritroviamo sulle labbra di Geremia e di Giobbe, che citano Dio in giudizio (Ger 12,1; Gb 9). Qui Israele mette sotto processo Mosè.

Israele «mormora» contro Mosè. Il verbo usato (lwn) ha il senso di brontolare, biasimare qualcuno, specie se è un capo; Israele critica la guida di Mosè. Ma processare e criticare Mosè, in realtà, è un processare e criticare Dio; Israele lo dimentica, il lettore lo sa dalle pagine precedenti (16,7-8); Mosè qui lo ripete, smascherandolo come un «mettere alla prova» (nsh) JHWH.

Forse uno dei testi più densi, in una situazione analoga, che riassume questo «mettere alla prova Dio», si trova nel libro di Giuditta. La città di Betulia è assediata dagli Assiri e il popolo è demoralizzato per la mancanza d'acqua; in preda all'esasperazione mette sotto processo il re e preferisce diventare schiavo degli Assiri, consegnando la città al saccheggio, se entro cinque giorni il Signore non interverrà. Dio appare come «colui che li ha venduti» (7,25) per farli morire di sete e di mali. A questo punto è Giuditta, a richiamare i capi alla saggezza:

«Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno, evi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini ? Certo voi volete mettere alla prova Dio onnipotente, ma non ci capirete niente, ne ora ne mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo dell'uomo ne di afferrare i pensieri della sua mente, come potete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possano fare minacce e pressioni come uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,12-17).

Tentare Dio significa prendere il posto di Dio ed insegnargli il mestiere, pretendere una manifestazione tangibile del suo potere, ed imporgli le proprie scadenze. La fiducia di Giuditta nasce dalla sapienza di chi sa che Dio ha i suoi ritmi e le sue scadenze imprevedibili per l'uomo, ma a cui resta puntualmente fedele, come Egli stesso ricorda (Sal 75,3; Is 5,19; Ez 12,21-28).

Nel nostro testo «tentare Dio» significa ribaltare i ruoli, perché solo lui può «mettere alla prova» Israele (15,25; 16,4) donando un'istruzione e una «strada» in cui Israele deve camminare (16,4.28). Questa prova è un atto di amore secondo Sir 2,1-18, che mira a purificare il cuore e a crescere nel «timore di Dio», inteso non come paura, ma come rispetto reverenziale e fiducia in Lui, come unico Signore.

«Tentare il Signore» si traduce nel «mormorare». Mormorare contro Dio significa assenza di memoria. Israele dimentica JHWH, Signore unico della vita, che ha rivelato il suo potere sul cosmo in Egitto, che ha protetto i figli e il bestiame d'Israele (Es 9,3-4; 11,7; 12,12.31) ed ha trasformato il mare in terra asciutta; così come dimentica che è stato lui, nelle tappe precedenti, a trasformare le acque amare in acqua potabile, a donare carne e pane nel deserto.

Ma mormorare significa soprattutto rinnegare l' esodo, traviare il senso dei fatti. Ciò emerge nella domanda sarcastica: «Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto nel deserto, per farci morire di sete?» (17.3). Israele legge l'Esodo come cammino verso la morte, non verso la vita: come già era accaduto (14,11-12;16,2) perde di vista la terra promessa, vede il deserto non come luogo di passaggio, ma come «sepolcro» per sempre, beffa, o tradimento di un Dio sadico, o impotente (N m 14,15-16; Gs 5,9). Riemerge nel termine «Egitto» il cuore schiavo d'Israele, la nostalgia del passato, il rifiuto della libertà del presente e della vocazione futura: in altre parole significa ripiombare nella logica di Faraone. Se ripensiamo a Es 16,2 il popolo, come Elia, Geremia, Giobbe e Giona, preferisce morire, anziché accettare e dare ragione alla logica di Mosè e di Dio.

La svolta avviene con il grido-querela (s'q) di Mosè, che fa intervenire Dio, come a Mara (15,25). È un grido che nasce non soltanto dalla paura di essere lapidato; in gioco non c'è soltanto la sua vita, ma anche il nome di Dio ed il senso dell' esodo. La preghiera di Mosè è la reazione antitetica alla mormorazione e nasce dalla fiducia nell'intervento di Dio. Dio ordina a Mosè di percuotere la roccia, con lo stesso bastone con cui aveva percosso il Nilo. È uno strumento che fa memoria di una salvezza già avvenuta e disponibile. Mosè deve passare «davanti» al popolo, mentre Dio starà «davanti» a Mosè sulla roccia nell'Oreb. In questa posizione Mosè appare come «sacerdote», unico intermediario tra il popolo e JHWH. Il prodigio in se non viene descritto, ma si dice brevemente che Mosè eseguì l' ordine sotto gli occhi degli anziani, testimoni privilegiati e rappresentanti ufficiali del popolo. Diversamente dal racconto di Nm 20, non si accenna a nessuna reazione di fede, o incredulità del popolo, ne a qualche punizione o castigo.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»

Il racconto termina con una chiosa del narratore che spiega i toponimi Massa (= prova) e Meriba (= contestazione), ricapitola l'episodio e ne interpreta il senso con l'interrogativo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Se si legge il testo, ci accorgiamo che gli Israeliti non hanno mai fatto questa domanda. Non è la prima volta che il narratore esplicita parole mai dette dal popolo (cf 14,12). L'interrogativo rimette in discussione i precedenti titoli positivi di Dio compagno e aiuto nel cammino, il nome stesso di JHWH e della sua presenza in mezzo al popolo: nome che significa capacità di agire (3,12-15; 8,8). Il narratore lo lascia volutamente aperto ed è un invito a rileggere il racconto: perché e per chi? Per i lettori di sempre, dell'Israele che rilegge la storia e di noi che la rileggiamo oggi. Ecco allora che nel racconto dell'Esodo, «il giorno di Massa e Meriba» diventa un tragico anticipo del peccato di Es 32 (il vitello d'oro) e trascende un preciso momento storico per abbracciare tutta la storia e giungere al cuore della questione capitale del rapporto tra Israele e Dio. In questa parabola sapienziale il narratore retroproietta tutte le domande, i «deserti» e le «seti» dei momenti più drammatici di Israele, soprattutto la domanda e il deserto dell'esilio: «E forse la mia mano troppo corta per riscattare, oppure io non ho la forza per liberare?» (Is 5,20). Non si tratta di un quesito filosofico, né tantomeno della domanda di un ateo. È la domanda del saggio o dello stolto, ambedue in difficoltà nel capire l'eloquente «silenzio» di

Dio. Il lettore viene chiamato a decidere, a dirimere la «lite» tra JHWH e il popolo alla luce di quanto è accaduto e sa; è sempre il lettore che deve riconoscere la «presenza» di JHWH nell'«assenza» dell'acqua e nell’agire di Mosè. La risposta è sapienziale, perché riguarda due giudizi di valore: quello del popolo che stravolge il senso dell'esodo, interpretandolo come cammino di morte, strategia di un Dio sadico o assente. Quello di Mosè e degli anziani per cui Dio continua ad essere presente nell'assenza, a ripetere i suoi gesti salvifici. La scelta è anche fra due atteggiamenti dinanzi allo stesso bisogno o assenza: protestare contro Dio o supplicarlo come Mosè. I due atteggiamenti possono coincidere, come per Giobbe, Geremia, Abacuc (Ab 1,2): è possibile chiamare in causa Dio in una querela, che nasce dalla fede e si fida, pur inquieta, del suo disegno. Implicitamente il lettore è invitato ad avere gli occhi di Mosè e degli anziani e a far loro riferimento. Nell'abbandono della fede, come per Giobbe, è possibile approdare da una «conoscenza per sentito dire» di Dio ad una visione o esperienza fatta sulla propria pelle (Gb 42,5); ma questa sapienza passa inevitabilmente per la «lotta» di Giacobbe con l'Altro (Gn 32,23-33).

Il NT ha riletto il cammino del deserto come paradigma dell'esperienza cristiana: la prova autentifica la vocazione dei figli di Dio (cf 1 Cor 10). In particolare, nel sermone agli Ebrei, Massa e Meriba diventano paradigma del rischio e della crisi del credente, tra il già del battesimo e il non ancora della meta. Nel «viaggio», abbiamo il viatico e la bussola di una Parola viva ed operante, che chirurgicamente mette a nudo la verità del nostro cuore (Eb 3,7-4,13).

È in Gesù che troviamo risolto il ryb, la contesa tra il popolo e Dio. Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo, nel corso del suo ministero si presenta con i titoli di JHWH: è il Medico (M c 2,17), il Saziatore (M c 6,41), l'acqua viva (Gv 4,13), nonché il vessillo salvifico (Gv 3,14) e la giustizia di Dio (1 Cor 1,30). Ma è soprattutto il Dio in mezzo a noi, l'Emanuele (Mt 1,22; 18,20; 28,20). Anche lui subisce le mormorazioni della gente, che contestano la sua Parola e Il suo modo di agire, fino a metterlo sotto processo.

Gesù ha sperimentato il deserto, accettando la prova (Mt 4,1-11). Ma è sulla croce, che ha avuto sete (Gv 19,28). Se al Getsemani ha lottato come Giacobbe (Lc 23,44), sul Golgota Gesù non solo attraversa, ma diventa il deserto stesso di Dio. Il suo grido-protesta «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45; Mc 15,34) si traduce in fiducioso abbandono al Padre: «Nelle tue mani consegno il mio spirito/gola» (Lc 23,45). Ed il Padre lo trasforma in sorgente di acqua viva per l'umanità (Gv 19,34).

(da Parole di vita, 4, 1997)

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In cammino con Dio

Es 15: Il canto del mare

di Guido Benzi

Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio miracoloso del mare dei Giunchi da parte degli Ebrei. Si tratta di un inno epico, nel quale si fondono i temi della vittoria e della salvezza operate da Dio in favore del suo popolo, onde poterlo far giungere alla «santa dimora». Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio del mare, ma se ne discosta, anzi si innalza, e questa sua prospettiva dal respiro epico travolge tempi e momenti: essa parte da un «qui» ed un «ora» (15,1) che è il momento in cui Israele ha passato il mare e le acque hanno travolto l'esercito egiziano, ma enumera poi in una rapida carrellata i popoli (Filistei, Edom, Moab, Canaan) che lo separano dalla meta, fino a intravedere questa meta, il «monte della tua eredità», il «santuario che le tue mani hanno fondato» (v. 17), dunque più in là del Sinai, più in là del Giordano, sulla soglia del Tempio.

Possiamo veramente dire con alcuni commentatori moderni che il Canto del Mare è come lo srotolarsi di un tappeto rosso che dal fondo del mare entra nel cuore del Tempio di Gerusalemme. Dunque inno epico, nel senso che fa di un evento una figura capace di interpretare l'intera storia di un popolo, e dell'umanità. Figura in movimento di danza, con la voce di Mosè, in contraccanto a quella di Miriam, ed il suono dei cembali. Figura di un popolo perennemente in cammino tra il Santuario e la Croce, come magistralmente ha interpretato Marc Chagall, nel suo «Le passage de la mer Rouge». Poema che diviene visione dell'intera storia vissuta da Israele, non solo nel suo Esodo dall'Egitto, o nel suo vagare nel deserto, ma in ogni tempo. Momento di sosta, respiro lungo, esplosione di gioia e ringraziamento dopo la tensione raccontata dalla narrazione dell'Esodo. Celebrazione di un atto di fede che ha per contenuto la coscienza di una vocazione: essere popolo, popolo di Dio, da Lui salvato, educato, «piantato» come segno per tutta l'umanità dell'amore di Dio, perché «il Signore regna in eterno e per sempre!».

1. Un testo che sfugge ad ogni classificazione

In effetti il Canto del Mare è un testo «sfuggente» nel senso che da un lato è molto chiara la sua funzione, quella di celebrare in senso poetico il passaggio del mare, lasciando poi che l'ombra di tale evento capitale si prolunghi su tutta la storia di Israele, dall'altro però tale testo non si lascia del tutto catturare dagli strumenti, anche i più sottili, dell' analisi esegetica. Non è questa la sede di pignole discussioni filologiche, ma non può essere passato sotto silenzio il fatto che già solo la considerazione dei tempi verbali di questo inno pone molti problemi irrisolti: il maggiore dei quali sta nel passaggio continuo dai passati ai futuri (le cui forme nell'ebraico sono assimilabili). Questo avviene soprattutto nel v. 9 e nei vv. 16-17 ed è in quest'ultimo passaggio che si pone un interrogativo: l'entrata nella terra promessa è concepita come un evento futuro o passato? Si tratta di un canto «profetico», o di una celebrazione molto posteriore? Gli studiosi sono incerti, anche se è chiaro che, comunque vada, nel momento in cui il Canto è stato redatto, Israele ha già piena coscienza della sua identità di popolo di Dio, da Lui salvato e costituito.

Anche dal punto di vista dell'analisi della forma letteraria del Canto non troviamo unanime consenso. Inno, salmo d'intronizzazione, litania, salmo di vittoria, salmo di ringraziamento: ognuna di queste denominazioni trova almeno un riscontro nel testo, e tuttavia il Canto del Mare nella sua interezza non ne rispecchia con chiarezza nessuna. Certamente il Canto contiene elementi innici con particolare riferimento alla grandezza di Dio (6-11). I versetti di apertura sono tipici del salmo di ringraziamento. Vi sono ripetizioni che sarebbero ritornelli litanici. La formula «II Signore regna» è tipica dei salmi di intronizzazione. E certamente si tratta di una celebrazione di vittoria. Il contesto globale suggerisce dunque che il Canto sia nato originalmente come inno di vittoria e che poi si sia ampliato in nuove e successive utilizzazioni di tipo celebrativo e cultuale, e tuttavia non ci sono argomentazioni forti per appoggiare tale teoria.

Nemmeno la sequenza dei fatti narrati nel Canto offre uno spunto di organizzazione. Essa non segue affatto la narrazione di Es 14, anche se ne conserva qualche spunto nei vv. 8-10. Considerando questa «libertà» del Canto esso si avvicina di più alle rievocazioni storiche fatte dai salmi (78, 105, 106), anzi ne sarebbe il prototipo.

Dunque, la denominazione scelta in questo articolo, di inno epico, non si basa su considerazioni di tipo formale, ma su considerazioni di tipo contestuale: di fatto il Canto del Mare, così come 10 si trova oggi nella narrazione dell'Esodo, ha un valore rievocativo che decisamente supera i confini ristretti della storia e delle forme in cui è nato.

Quanto detto pone anche il problema (pure questo irrisolto) della datazione di questo inno. Tralasciando ogni indicazione di data (che comunque anche nei più noti autori è alquanto vaga: essi oscillano infatti tra il XIII ed il V sec. a.C.) possiamo valutare gli argomenti a favore o contro di una tradizione antica o alquanto recente. Di fatto possiamo affermare con Childs che il Canto del Mare appartenga alla tradizione dell'Esodo, cioè che si inserisca nell'ambito di una tradizione narrativa già sviluppata sebbene esso presenti l'evento del mare come una vittoria sugli Egiziani piuttosto che l'uscita dall'Egitto. In secondo luogo va registrato che il Canto presenta la tradizione del mare connessa alla tradizione della conquista della terra promessa, che va presupposta.

Riguardo al rapporto tra la tradizione del mare descritta in Es 15 e quella descritta in prosa, va notata una certa differenza (segnata anche dal genere diverso tra prosa e poesia) ma si deve affermare comunque una consonanza. Il Canto descrive una doppia azione del mare. Le acque si ammassano al soffio di Dio (v. 8) e poi sempre per il soffio di Dio ricoprono il nemico (v. 10). L'effetto del vento è quello di «congelare» le acque. Appaiono anche i due elementi presenti nella narrazione delle fonti J e P cioè il vento e la muraglia d'acqua (14,21-22). In che rapporto sta Es 15 con J e P? Es 15 apparterrebbe ad una tradizione parallela al più antico racconto di J e questo manifesterebbe la antichità della tradizione del mare. A testimoniare una datazione assai antica concorrono anche argomenti di tipo filologico i quali forniscono una base abbastanza certa. Si può certo pensare ad arcaismi, normalmente presenti nel linguaggio poetico, ma la coerenza delle ricorrenze starebbe a testimoniare una certa genuinità.

Un particolare non di poco interesse è il rapporto tra il Canto del Mare, attribuito a Mosè, e la strofa attribuita a Miriam nel v. 21. Alcuni commentatori (Noth, Boschi) ed in generale la scuola tedesca, hanno pensato che si tratti del primo nucleo del Canto, di datazione assai antica, di tradizione E. Altri studiosi, di scuola anglosassone, seguendo Albright, hanno sostenuto che si tratti semplicemente del titolo del Canto, o eventualmente del ritornello. Con Childs notiamo che tali disquisizioni si affidano a degli argomenti congetturali assai deboli.

In conclusione anche dalla complessità della storia redazionale e testuale del Canto del Mare, notiamo la sua importanza nell'ambito della narrazione dell'Esodo, ed anche nell'ambito della celebrazione cultuale del prodigioso intervento di Dio in favore del suo popolo.

2. Struttura e ritmo

Anche la struttura di Es 15,1-21 è stata assai studiata. Certamente il v. 1 ha un suo posto particolare, sia per l'uso della prima persona singolare, sia per la sua ripresa al v. 21, che conclude questa sezione dei due canti.

Anche il v. 18, ha una sua particolarità, e richiama le acclamazioni cultuali del tempio o il grido di celebrazioni di intronizzazione.

Il brano in prosa del v. 19 sembrerebbe una cucitura redazionale ad opera del redattore sacerdotale (P), il quale richiama l'evento del mare per saldare i due inni al racconto di Esodo.

I vv. 20-21 restituiscono il contesto narrativo e il testo del Cantico di Miriam.

Rimane da esaminare la struttura di 2-17. Molte sono le strutturazioni proposte: Boschi propone una strutturazione di tre stanze divise in quattro strofe l'una. Noth nota un punto di cerniera nei versetti 12-13 ponendo in sequenza i tre atti redentivi di Dio: stendere la destra, guidare, condurre alla meta.

Sembra comunque assai saggio notare che il Canto si divide tematicamente in due grandi ante: il prodigio del mare e il passaggio di Israele tra i popoli. Così va preferita la suddivisione più semplice suggerita da Alonso Schökel: 1-3 introduzione innica con elementi specifici e generici; 4-12 sconfitta degli Egiziani nel mare ad opera dell'azione di Dio (va notata l'inclusione del tema della «destra» in 6 e 12); 13-18 Israele passa tra i popoli fino alla visione del Santuario. Si tratta di un dittico assai espressivo: come le acque all'intervento di Dio si ergono a muraglia, così i popoli «restano immobili come pietra».

Resta da dire qualcosa sul ritmo poetico adottato: si tratta prevalentemente di un ritmo binario, scandito anche dall'uso di ripetizioni.

3. Da canto di vittoria a professione di fede

Il contesto in cui è collocato il Canto del Mare è chiaramente un contesto di vittoria sugli Egiziani. Tuttavia abbiamo visto come questa vittoria si arricchisca via via di tutti gli elementi del cammino di Israele fino alla terra promessa e alla visione del Santuario. Abbiamo notato come la storia della redazione di tale testo sia una storia complessa, che non va trascurata, ma che neppure va enfatizzata a discapito della sua collocazione attuale nel libro dell'Esodo. Notiamo un elemento di continuità ed uno di discontinuità che danno a pensare.

La continuità sta nel fatto che il Canto del Mare è appunto presentato come canto di vittoria, appena passato il Mare dei Giunchi. Canto di vittoria, ma anche di scampato pericolo. Esso sostanzialmente ripete ciò che il racconto in prosa ha già fissato, ma lo ripete in modo poetico, cioè dal «di dentro» del sollievo e della gioia che esplode di fronte alla salvezza. Esso dunque ha un effetto «corale» molto interessante, perché esprime, attraverso una sorta di ripiegatura all'interno del racconto, il «sentire» di coloro che sono impegnati nello svolgimento della narrazione.

Ma proprio qui sta l'elemento di discontinuità. Di lettura in lettura, di passaggio in passaggio, il Canto del Mare si è arricchito (ed ancora in qualche modo si arricchisce) della voce di coloro che lo leggono, anzi di coloro che lo recitano nell'assemblea del Signore. Per cui non è solo più vittoria sull'Egitto, ma diviene vittoria sulla Filistea, su Moab, Edom, Canaan. Diviene un inno alla vittoria perenne che Dio opera in favore del suo popolo.

Nella sezione introduttiva di 1b-3 e nella sezione che narra la vittoria sugli Egiziani (4-12), predomina il costante attributo della vittoria a Dio. Scompare ogni attore (Mosè, Aronne, il popolo), Dio solo è colui che opera il prodigio e la vittoria. Anche il nemico viene citato in modo specifico solo in un punto (v. 4: riferimento ai carri, esercito, capi del faraone) mentre nel resto del Canto lo si cita genericamente. Dio, padrone del cosmo, al quale si piegano in obbedienza gli elementi della creazione (acque, vento, fuoco, pietra), è anche colui che salva, colui che abita la storia, che dona vittoria al suo popolo.

Nella sezione che narra la vittoria sui popoli, si canta Dio come il pastore del suo popolo (al v. 13 va preferita la traduzione di Boschi «l'hai condotto al suo pascolo santo»), che lo guida con la sua provvidenza, alla terra promessa e al Santuario.

Di fatto va notato come questo canto di vittoria abbia tutte le caratteristiche di una professione di fede come sottolinea anche il v. 14,31: Credettero a Dio e a Mosè suo servo. Si tratta dunque di una vera e propria interpretazione della storia alla luce dell'azione di Dio, una azione di salvezza, che ancorata in un momento preciso della storia di Israele (14,30 Quel giorno...) si estende a tutto il futuro, fino all'eternità (Ap 15,3).

(da Parole di vita, 4,97)

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Martedì, 18 Settembre 2007 01:38

Lezione Dodicesima. L'esperienza dell'esilio

Lezione Dodicesima

L’ESPERIENZA DELL’ESILIO

 



«Dopo la caduta di Gerusalemme
fui trasferito in Babilonia
e là Israele fu
quale nave senza nocchiero»

(Poesia di chiusura della Megillà di Puru)

1. L’Evento storico

Sotto il nome di esilio si designano le deportazioni in Babilonia dei notabili del popolo d’Israele, vinto ed assoggettato militarmente dalla potenza caldea. Questo fenomeno era comune nell’Oriente antico: la deportazione delle classi dominanti dal punto di vista economico, politico e spirituale, era una misura preventiva contro eventuali insurrezioni (cfr. Am. 1).

Pubblicato in Bibbia

In cammino con Dio

Il passaggio del mare (Es 14)

di Marcello Milani


Premessa

Il brano «narrativo» in questione, a cui segue la versione poetica di carattere innico e liturgico (Es 15), contiene uno degli episodi più noti della Bibbia, ripreso e celebrato continuamente, nelle feste, nel teatro e nel cinema, nella Bibbia stessa, sia nell' Antico che nel Nuovo Testamento. Basti citare l'inno dal linguaggio mitico di Sal 77,14-21 e le menzioni in Sal 66,6; 78,13s; 106,7-12; 114, ecc.; ma anche in Is 43,16-21; Sap 10,18-19. Nel Nuovo Testamento si pensi a 1 Cor 10,1-2 (come simbolo battesimale) ed a Eh 11,29, per ricordare due citazioni esplicite (ma occorre ricordare le frequenti allusioni anche nei vangeli). Non si devono infine dimenticare Giuseppe Flavio (Antiquitates Jud. II, 318ss), Filone (Vita Mosis, I, 176ss e Legum Alleg. II, 102) e le tradizioni midrasciche. Il nostro testo ha messo in atto dunque una continua rilettura per celebrare il momento decisivo della liberazione dall'Egitto, l'addio definitivo e irrevocabile, che determinò una netta separazione tra passato e futuro e portò ad una situazione nuova (cf Is 43,18-19). «È l'ultima battaglia, l'ultima frontiera. Concentra tutte le tensioni precedenti in una giornata definitiva e per questo il suo ricordo è cifra abbreviata. Il Mar Rosso divide la geografia, divide la storia e si tramuta in una linea divisoria dell'esistenza».

Un racconto parallelo è costituito dall'ultimo atto dell'esodo: il passaggio del Giordano (cf Gs 1,10-18; 3-4; Sal 114), tanto che alcuni autori intendono il nostro racconto come secondario rispetto a quello, descritto a immagine dell'ingresso in Canaan (cf Bibbia di Gerusalemme).

Una prima lettura ha cercato di cogliere il formarsi storico del racconto (metodo storico-critico ), ravvisandovi almeno una duplice rappresentazione del nucleo centrale (vv. 21-29): da una parte il passaggio può avvenire in forza di un «vento impetuoso» che spazza via le acque e dissecca il mare, mentre gli egiziani sono sorpresi dal riflusso delle acque (è la tradizione detta jahwista: vv. 21b.24-25.27; Sal 77 e 114 aggiungono alla tempesta il terremoto), dall'altra Mosè stendendo la mano divide le acque e le fa ritornare alloro livello travolgendo gli egiziani (tradizione sacerdotale: vv. 21a.22-23.26.28-29). Per il narratore jahwista il Faraone prende l'iniziativa e da qui derivano gli eventi successivi; nel sacerdotale è Dio a prendere l'iniziativa, sviluppando il racconto in tre comandi e annunci con esecuzione e compimento. L'attuale racconto sottolinea la potenza della fede di Mosè (14,13-14.31), che rischia tutto sulla parola di Dio, e la salvezza miracolosa degli ebrei (vv. 30-31).

I particolari dell'avvenimento restano per noi oscuri. n linguaggio è da epopea. n luogo del passaggio resta incerto nella designazione. Il tenore del racconto attuale non si cura di precisare luoghi e fatti come essi esattamente siano avvenuti; invita a chiedersi piuttosto di che cosa essi siano simbolo, quale messaggio l'autore intenda offrire. Perciò il seguente lavoro si attiene alla fase narrativa di Es 14, nell'intento di cogliere la struttura del racconto attuale e i princìpi che danno coerenza al testo, per rilevarne i simboli e le implicanze teologiche.

Articolazione della narrazione

Il racconto, che contiene ripetizioni tematiche e alternanze tonali, frutto della rielaborazione di materiale diverso ma divenuti ora fatti di stile, è preparato e anticipato dalla narrazione della prima tappa del «cammino»: partenza dall'Egitto per la strada del deserto verso il Mare, viaggio da Succot fino a Etam (Es 13,17-22). È cammino lungo, non per la via più logica, «la strada dei Filistei», costeggiata di fortezze, ma attraverso il deserto. È motivato dalla necessità di assicurare la perseveranza dei fuoriusciti ed evitare che «ritornassero in Egitto» (vv. 17s). È anche marcia militare di un esercito a ranghi compatti, in ordine di battaglia o ben equipaggiato, cammino trionfale con il signore in testa, che manifesta la sua presenza nella «colonna di nube» di giorno e nella «colonna di fuoco» di notte (Es 13,21-22). I versi sembrano riassumere e anticipare il tema centrale dell'esodo: il cammino nel deserto (il vocabolario del v. 20 caratterizza il ritmo delle grandi tappe, cf 16,1-16). Essi preparano il lettore al distacco definitivo di Israele dall'Egitto (la partenza della mummia di Giuseppe porta via ogni segno egiziano) e lo convincono che egli sta per assistere a un momento unico della storia di Israele (il verbo «vedere» acquista nel contesto una funzione importante).

Nel capitolo 14 la salvezza-liberazione assume la forma di un racconto di guerra e di lotta che rivela la forza di Dio di fronte al potere egiziano. Al popolo che grida all'arrivo degli egiziani, Mosè risponde con un oracolo che fa eco allo schema della «guerra santa»: la «vittoria» è assicurata dalla presenza divina e sarà «salvezza» (v. 13); «n Signore combatterà per voi» (v. 14): Dio combatte da solo contro il potente esercito inseguitore e lo vince, dimostrando la sua «gloria», mentre il popolo rimane in silenzio; supera la paura di Israele con la rassicurazione di Mosè («non temete»); blocca, scompiglia e mette in fuga «esercito, carri e cavalieri».

n ritmo del racconto è segnato da tre riprese del discorso divino (vv. 1.15.26). È la parola di Dio che mette in moto gli eventi: come in Is 40-55, è parola creatrice all'inizio e in tutta la storia; sempre essa compie il disegno divino per cui è inviata (Is 55,11). Riconosciamo dunque tre scene o sequenze, le prime due di simile lunghezza (vv.I-14.15-25), la terza più breve (vv. 26-31). Ognuna inizia con il comando di Dio che dà istruzioni a Mosè e annuncia anticipatamente la vittoria; segue la descrizione degli eventi (=esecuzione e compimento). Al centro delle prime due è annunciato il riconoscimento di JHWH (vv. 4.18), ambedue si concludono con una medesima frase: Il Signore combatte per Israele (v. 14 = promessa, al futuro; v. 25 = riconoscimento degli Egiziani, presente). Due brevi pause (la crisi, vv. 10-13; l'angelo del Signore, vv. 19-20) servono a drammatizzare e rilanciare il racconto. o a creare un tono meditativo e di attesa. L'ultima scena è riassuntiva, realizzando la promessa del v. 13: Israele «vede la salvezza» e crede nel Signore e in Mosè che prima contestava (v. 31).

1. L’accampamento davanti al mare: cammino e attesa (vv. 1-14)

Il comando del Signore pone in moto il fatto narrativo (vv. 1-4): gli Israeliti devono «ritornare» per accamparsi di fronte al mare, così da suscitare la reazione del Faraone: li penserà errabondi e bloccati nel deserto. L'annuncio anticipa il risultato: almeno nell'ultima redazione, è Dio che «rende duro, ostinato» il cuore del re, impedendogli di comprendere il fatto, e lo incita nella sua avidità a inseguire gli schiavi fuggitivi con il suo esercito, preparandone la sconfitta.

Il fatto crea un problema: Dio incita al male? Qualcuno traduce il verbo come «incoraggiare, rendere fermo il cuore, renderlo ardito», cioè «incitare al combattimento», in un contesto di guerra santa o nel confronto di una tenzone, nel senso che Dio lancia la sfida. Ma perché Dio vuole il combattimento? Non per la vittoria di Israele, ma per manifestare la sua gloria di fronte a un potere violento ed essere riconosciuto dagli Egiziani (il v. 17 è tradotto, piuttosto liberamente: «asserire la mia autorità su»). Nel contesto del capitolo, quel combattimento appare un giudizio profetico sul peccato (cf Es 14,4.17-18 con Ez 28,22; 39,13). Infatti, l'ostinazione del Faraone è legata alla sua mutata opinione sulla liberazione. Egli intende ridurre ancora Israele in schiavitù e impedire il servizio-culto a Dio, che sarà dato dopo la liberazione, al Sinai. Il significato ultimo è dunque teologico: il ribelle alla sovranità del Signore sarà costretto, suo malgrado, a riconoscerlo: «gli Egiziani sapranno che io sono JHWH» (v. 4). Israele stesso «vedrà» il Signore come salvatore vittorioso. Così, Dio rivelerà la sua «gloria», manifesterà cioè la sua presenza attiva, «la sua mano potente». L'ostinazione del Faraone è dunque il modo con cui Dio fa conoscere la sua volontà e il suo giudizio, la sua potenza e il suo essere a chi lo rifiuta.

La narrazione (vv. 5-9) dimostra la realizzazione del piano divino: per Israele obbedendo (v. 4b), per il Faraone inconsciamente. Il lettore è condotto nel campo nemico che «insegue», ma due flash lo riportano nel campo di Israele, accentuando il contrasto ( cf due participi: in marcia a mano alzata, in segno di libertà, e accampato, vv. 8b.9b). Gli schieramenti si oppongono nei loro atti: gli Israeliti «fanno» quanto ha detto il Signore (v. 4b), ma rimproverano Mosè di averli fatti uscire («che hai fatto?», v. 11); gli Egiziani si pentono: «che abbiamo fatto?» (v. 5); tuttavia, è Dio il vero protagonista: il nome JHWH-Signore appare otto volte nella sezione, egli guida l'azione (vv. 8-9, cf v. 2), egli «farà» la salvezza (v. 13), risolvendo la crisi.

Il «discorso» divino però non si realizza subito. Il narratore opera uno stacco. Cambia soggetto e ci riporta dagli Israeliti (vv.10b-14): «vedendo» improvvisamente le truppe egiziane avvicinarsi minacciose, sono presi di sorpresa. L'uscita trionfante si tramuta in disperazione: da una parte gli Egiziani, dall'altra il mare. Ogni via è preclusa, il deserto diventa una tomba. È la prima «crisi» dopo l'uscita, descritta secondo il modello delle «mormorazioni» nel deserto (cf Es 15,22-18,27; N m 10,1-20,13; Sal 78), anche se il motivo presenta qualche differenza: la reazione non è dettata da fame e sete, ma da una minaccia esterna. Diventa grido al Signore-JHWH e ribellione contro Mosè. Se il primo risente l'eco delle invocazioni di aiuto in Egitto, la protesta contro Mosè riflette il mancato riconoscimento della liberazione e la nostalgia dell'Egitto: «È meglio per noi servire l'Egitto che morire nel deserto!». L'alternativa Egitto-deserto (vv.II-12) comporta connotazioni emotive e antitetiche; e nei due luoghi si oppongono i contendenti, Dio e Faraone. L'Egitto è insieme oggetto di odio e nostalgia, di rifiuto e desiderio: è il passato della schiavitù ma anche di una certa sicurezza; permane un legame invisibile tra aguzzino e vittima, inseguitore e perseguitato. Il deserto è il futuro con la prospettiva della libertà, ma più prossime appaiono morte e tomba. Tra le due tombe è preferibile «seppellirsi nel proprio passato piuttosto che rischiare il futuro di libertà nel deserto». Questa è rischio che si guadagna e difende contro i pericoli, ma negli Israeliti è ancora viva la mentalità degli schiavi che li porta a «tornare indietro». L'uomo - scrive Alonso Schokel - «si sente diviso tra l'ansia di libertà e il desiderio di sicurezza, e in mezzo al rischio ancora la sicurezza della schiavitù, il riposo finale in un sepolcro».

La reazione di Mosè è diversa dalle altre scene di mormorazione: egli esorta il popolo al coraggio e a una nuova fiducia nel Signore. Occorre ritrovare la «tranquillità» della fede. La sua risposta contiene un oracolo di salvezza (vv. 13-14), la vittoria resta come promessa: non devono temere ('al-tîra'û), ma «stare saldi e vedere (ûre’û)» la salvezza-vittoria del Signore; gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più.

2. La notte in mezzo al mare: notte di veglia, marcia e vento (vv. 15-25)

In questo atto centrale, allo schema di spazio si aggiunge il tempo: la notte. La risposta del Signore conferma l'oracolo di salvezza di Mosè. Anzitutto interroga Mosè: «Perché gridi a me?». In realtà era stato il popolo a gridare (v. 10): la narrazione non accenna a una preghiera di Mosè (come in 5,22-23), forse perché lo identifica con il popolo stesso; egli è intercessore e partecipe di ogni vicenda del popolo (cf 32,31-32). Quindi indica una strada aperta per Israele, esorta al coraggio, a riprendere il cammino (v. 15): richiede l'obbedienza anticipata di fede come ad Abramo (cf Gn 12,1-3). Infine, impartisce l'ordine a Mosè con l'annuncio (vv. 16-18): quel mare che appariva un'invalicabile ostacolo si apre miracolosamente e offre un «passaggio», diventa il luogo della salvezza. E sarà opera del Signore! Accettando di entrare nel mare, Israele accetta il rischio della fede, sfida la morte e supera la paura di morire.

Il v. 17 riprende il v. 4: là Dio spingeva Faraone a inseguire, qui a entrare nel mare. Ma per gli Egiziani sarà un'imitazione fatale. E ribadito lo scopo non ancora realizzato: il Signore mostrerà la sua gloria e sarà riconosciuto dagli Egiziani.

Prima dell'esecuzione (vv. 21-23), un'interruzione narrativa (vv. 19-20) conferisce alla scena un carattere meditativo. È la necessaria riflessione per comprendere l'atto di salvezza. Quella notte sarà notte di veglia e di marcia (fino alla veglia del mattino, v. 24, come nella celebrazione liturgica della Pasqua), i cui protagonisti sono l' angelo e la nube, le tenebre, il vento e il mare. Angelo e nube segni della presenza di Dio, da avanguardia si spostano a retroguardia e separano i contendenti ponendosi in mezzo, mentre vento e acqua si affrontano in un combattimento cosmico, nella tenebra della notte. Tenebre, vento e acqua del mare richiamano l'inizio della creazione (Gn 1,2): dal caos Dio traeva il mondo, da questa grande battaglia sorge una nuova creazione, dalle tenebre una nuova luce. Mediante il «vento orientale», particolarmente arido e violento, il Signore stesso respinge e pone in fuga anzitutto le acque del mare che bloccano la marcia del popolo. Così Israele può entrare nel mare prosciugato e continuare la sua marcia, inseguito per la medesima strada dagli Egiziani con tutto il loro potenziale bellico, ma senza vedere gli avversari, protetti dalla nube opaca.

La lotta tra il vento e il mare dura tutta la notte fino al mattino: le acque si dividono e appare la terra asciutta (vv. 22.29), come nella creazione (Gn 1,9s). In modo simile, il vento aveva prosciugato le acque del diluvio (Gn 8,1), facendo emergere la terra con la ripresa della vita, evidenziando un nuovo cosmo e una nuova umanità. Così, il passaggio in mezzo alle acque del mare acquista un valore simbolico, segna la «nascita» di Israele come popolo, nell'avverarsi di una nuova creazione.

La lotta cosmica si intreccia con quella terrena. In realtà, si tratta di una battaglia umano-divina. Alla veglia del mattino (vv. 24-25), cioè sul far del giorno, il Signore getta il suo sguardo sul campo egiziano e lo mette in rotta. L'azione parte dalla «colonna di fuoco e nube» che di notte teneva i due gruppi separati (v. 24): l'espressione potrebbe essere un modo per dire che temporale, folgore e oscurità nel cielo, scoppiano annunciati dal forte vento del v. 21. Così a tenebre, mare, vento e terra, si aggiungono fuoco e luce. Il cosmo lotta per i fuggitivi, senza che essi combattano, devono solo obbedire. La nube che prima guidava, illuminava e proteggeva ora combatte per Israele, «blocca o frena» le ruote dei carri, oppure le «fa deviare» nel pantano, impedendo l'inseguimento, e travolge l'esercito egiziano seminando il panico. Così gli Egiziani riconoscono che JHWH combatte contro di loro. Si chiude un primo cerchio: la realizzazione della promessa di Mosè (v. 14) e il riconoscimento di JHWH e della sua gloria (vv. 4 e 18). Resta l'ultimo atto, la sconfitta definitiva del nemico, la salvezza e il riconoscimento del Signore da parte di Israele.

3. Il mattino liberatore: sconfitta e salvezza (vv. 26-31)

Nel terzo comando ed esecuzione (vv. 26-27) le azioni invertono il processo rispetto alla seconda scena: le acque divise «ritornano» allo stato originario, incontro agli Egiziani; gli «inseguitori» diventano «fuggitivi». Entrano nel mare, ma mentre per Israele le acque si «ritraggono» (v. 21), formando un muro (vv. 29.22), sicché esso «cammina in mezzo al mare», cioè trova la sua strada (a destra e a sinistra) nell'asciutto, per gli Egiziani non c'è passaggio: sono bloccati e travolti dal Signore «in mezzo al mare», le acque li ricoprono, diventano la loro tomba. I vv. 28-29 riassumono gli opposti effetti finali.

Acquista importanza il tempo. Alla notte di separazione, veglia e marcia, segue il mattino di liberazione e vittoria: il mare è superato, le tenebre sono vinte dal fuoco e dalla luce. Il mattino («la veglia del mattino», v. 24; «allo spuntar del giorno, il primo mattino», v. 27) è sovente simbolo di salvezza o vittoria, il tempo dei grandi interventi liberatori di Dio. È il momento della teofania (Es 19,16) e della manna (Es 16), in cui gli Israeliti vedono la gloria del Signore (16,7-8); al primo mattino avviene l'intervento divino liberatore di Gerusalemme assediata (Sal 46,6); è il mattino dei grandi giorni trionfali (Gs 6,12.15; 8,10). Così «quel giorno» (v. 30) diventa il «giorno della salvezza» (cf 1 Sam 14,23; 2 Sam 23,10), in cui il Signore «agisce» con la sua mano potente (v. 31), giorno da celebrare nella liturgia mediante le feste (cf Sal 118,24).

E la visione finale dei nemici morti sulla spiaggia produce il timore-rispetto di Dio: la vittoria induce il popolo a credere in Dio e nel suo rappresentante. È la sintesi del processo narrativo: di fronte a Faraone che si avvicinava, gli Israeliti levarono gli occhi e temettero assai e gridarono al Signore (v. 10); Mosè esortava a non temere ('al-tîra'û), perché avrebbero visto (ûre’û) la salvezza-vittoria del Signore («vedere e temere» sono foneticamente collegati in ebraico), gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più. Ora Israele sperimenta la liberazione e ritrova la fede: «Israele vide gli Egiziani morti sulla spiaggia», «vide la mano potente» del Signore, «e il popolo temette-rispettò il Signore e credette» (v. 31). La fede di Israele coincide con quella di Mosè. Essa emerge quando la prova è superata, abbandonando il terrore dello schiavo e la paura della morte. Uscendo dal mare Israele nasce come popolo che testimonia e annuncia la miracolosa liberazione di Dio. Allora, il passaggio del mare diventa fatto rivelatore che manifesta i due atteggiamenti opposti dell'Egitto e di Israele. «Da un lato, l'accettazione del rischio giunge alla negazione del mare come termine di tutta la storia e segna, per Israele, l'inizio di una nuova esistenza; dall'altro, l'avidità dell'Egitto ci fa assistere a uno dei molteplici esempi di "imitazione fatale"».

In conclusione, il racconto del passaggio del mare narra della nascita di Israele: «Immerso nelle acque delle origini, tuffato nella notte cosmica, Israele, è separato mediante il fuoco dal suo passato di schiavitù in Egitto e condotto da questo medesimo fuoco verso la luce della sua vita nuova e libera; questa via gli è offerta perché ha vinto la paura rischiando nello sconosciuto che sta al di là; essa è inaccessibile all'Egitto che cerca solo di perpetuare il suo passato». Per gli Israeliti il passaggio è trovare una strada verso una vita nuova, quando non c'è più speranza: entrando nel mare simbolo di morte, lo negano e lo superano. La loro forza deriva dall'obbedienza alla parola del Signore. Il racconto infatti proclama la salvezza mediante la fede. Nella grande lotta essi stanno in silenzio, passivi, inermi. Hanno una sola possibilità, ritrovare la tranquillità della fede (v. 13): se essi «muovono il campo» (nāśā’) e «ritornano» (ŝûb), non in Egitto, ma là dove il Signore ha loro indicato, egli aprirà loro una strada; se essi «fanno» quanto Dio dice, egli «fa» la liberazione. Allora inutilmente l'Egitto «muoverà il campo» dietro a loro; non sarà passaggio, ma imitazione fatale: le acque «ritorneranno» su di loro, per travolgerli «in mezzo al mare». Tuttavia, essi stessi sono invitati alla fede: riconosceranno il Signore che prima avevano rifiutato.

In questa prospettiva si può rileggere il contesto di guerra. Non celebrazione nazionale, ma lotta contro un «potere» che voleva dare la morte (cf Es 2), giudizio e azione di forza di Dio contro quanti si arrogano diritto e giustizia contro il debole, basandoli sulla propria forza (cf Sap 2,11), propagandata con esercito, carri e cavalieri. Costoro da inseguitori si ritrovano fuggitivi. E dalla sconfitta del nemico cosmico è un mondo nuovo che nasce.

Pubblicato in Bibbia

In cammino con Dio

Il valore permanente dell'Esodo

di Carlo Bazzi


Per le conseguenze che ha prodotto, per la profondità dei valori che ha messo in gioco, per la ricchezza della sua rivelazione su Dio e sull'uomo l'esodo oltrepassa l'Esodo, il suo senso supera l'evento che lo ha originato, per divenire fondamento della storia di Israele come popolo, modello di azione e di interpretazione, simbolo della salvezza. Rappresenta la continuità del piano di Dio nella discontinuità dei tempi e nell' oscillazione delle risposte umane. Il dossier che si può raccogliere sull'esodo - al,di fuori dell'Esodo - è così altrettanto voluminoso e almeno altrettanto significativo. È utile prima vedere i motivi e i modi della permanenza dell'Esodo nella storia ebraica e poi introdursi negli eventi drammatici dell'esilio babilonese e del ritorno a Gerusalemme con le visioni innovative che produce nei grandi profeti contemporanei. Infine il discorso cadrà sul valore dell'esodo per noi cristiani.

a) Permanenza dell'Esodo

Motivi di permanenza

Molti sono i motivi di questa permanenza e fecondità. Sappiamo bene che l'epopea dell'Esodo è stata redatta a molta distanza dagli eventi ed essa stessa contiene già in se riflessioni posteriori e risonanze attraverso molti altri fatti che hanno influito sul linguaggio e la forma stessa del primo Esodo. Basta pensare all'apostasia del vitello d'oro riflesso della politica religiosa di Geroboamo o all'opera di fusione di due tradizioni autonome come quella della fuga dall'Egitto e quella dell'alleanza sul Sinai.

E la presenza di formule e di un nucleo sostanziale tante volte ripetuto e schematizzato hanno trasformato l'Esodo in un paradigma produttivo. Un primo schema molto diffuso è quello binario dell'uscire e dell'entrare o quello ternario che aggiunge l'attraversare. Una variazione molto frequente è quella che pone Dio come protagonista che fa uscire e fa entrare e il popolo diviene oggetto della sua iniziativa. Questi tre verbi di base attraggono e ordinano tanti temi: all'uscire si collega l'Egitto e la schiavitù; all'entrare il tema della terra, del lavoro e del riposo; all'attraversare quelli del deserto, del cammino e dell'attesa. Verbi e temi formano uno schema facilmente esportabile e applicabile a molte situazioni.

Nella Bibbia è conosciuto un altro schema basato sull'esperienza dell'Esodo: situazione di grave oppressione - invocazione a Dio - intervento divino - lode per la liberazione ottenuta. Dio viene invocato come ultima risorsa per l' estremità del bisogno ma anche perché Egli è considerato il parente più prossimo - il «redentore» - obbligato a intervenire per il legame familiare stabilito con i padri e le promesse fatte loro. È classico l'uso che di questo secondo schema fa il deuteronomista nel valutare la storia d'Israele, ad es., nel libro dei Giudici, programmaticamente espresso e reso riproduttivo in Gdc 2,11-19. Nella sfera collettiva ma anche in quella personale lo ritroviamo descritto in tanti Salmi.

La memoria dell'Esodo sopravvive anche in tanti settori e tante istituzioni della vita di Israele. La Pasqua è, per eccellenza, il memoriale perenne dell'Esodo, che lo rende vivo per ogni generazione e rende ogni generazione contemporanea e protagonista dell'uscita dalla schiavitù dell'Egitto, spingendola a uscire da ogni altra schiavitù. Con questo rito l’'Esodo viene rivissuto nelle dimensioni della famiglia e del vicinato, ricordando e attualizzando, mangiando e bevendo, cantando e significando. Così l'esodo diviene vita. Con il primo mese dell' anno la storia riparte sempre dal suo inizio e i figli di Abramo vengono sempre ricostituiti come popolo.

L' Esodo e l'alleanza

Un altro legame perenne è costituito dalla categoria dell'alleanza, sancita sul Sinai. Essa è inserita nel cuore della esperienza dell'Esodo e realizzata tramite la mediazione di Mosè, lo stesso protagonista storico della liberazione. L'alleanza richiama l'Esodo e, come interpretazione globale di tutta la vita del popolo e dell'individuo, gli conferisce attualità perenne. Sappiamo poco del rito della rinnovazione periodica dell'alleanza. Dt 31,10 lo fissa ogni 7 anni, per la Festa delle Capanne e non sappiamo se ciò fosse la prassi effettiva. Certo ci sono testimonianze di solenni rinnovazioni che hanno valore epocale, come è il caso dell'assemblea di Sichem, appena entrati nella Terra, secondo Giosuè 24 e per Giosia in 2 Re 23 e così via. L'esodo rivive nell'alleanza e l'alleanza trae la sua origine e il suo senso da quella epopea di liberazione. In questo quadro assume il suo vero significato anche la Legge: essa è stipulazione di alleanza, effetto e garanzia della libertà ottenuta, motivo di rapporto e di fedeltà concreta al Dio alleato. Senza la Torah l'Esodo rimane avulso dalla vita o rinchiuso nel passato o nel rito: senza l'Esodo la Legge scade a imposizione o a principio organizzativo o principio etico. La Legge deve esser effetto di un' esperienza di libertà per divenire causa di una condotta nella giustizia e, nella fraternità.

All'Esodo e soprattutto all'alleanza è legata la Terra. È il punto di arrivo del movimento esodale ma è anche un compito e una conquista, che misura le capacità e la fedeltà dell'uomo. Nella stipulazione dell'alleanza, la terra è soggetta a leggi di distribuzione, di riscatto, di produzione, di relazioni. Diviene spesso causa di arroganza e violenza, di scontri e ingiustizie, di tentazioni e di idolatria, di vanto e di ribellione. La bella catechesi di Dt 8 invita a stare sulla terra come nel deserto, dipendenti da Dio e riconoscenti del suo dono. Alla fine, il possesso della terra per se e l' attrazione dei culti della fertilità travierà Israele e porterà alla perdita della stessa terra.

L'Esodo e il rapporto con Dio

Ma l'Esodo non è solo esemplare o giuridicamente costitutivo della vita del popolo, è anche il riferimento forte nello sviluppo e nelle vicissitudini dei rapporti fra il Dio vivo e il popolo peregrino nella storia. L'esperienza che ha creato il popolo fa parte indelebile della sua identità. L'esodo impegna Dio non meno che l'uomo. Drammatico e notevole è l'episodio di Es 32,11-14 in cui Mosè richiama Dio stesso agli impegni derivanti dalla esperienza di liberazione per cui neppure l'Onnipotente può distruggere l'opera delle sue mani o troncare l'iniziativa da lui stesso messa in atto. In Gdc 6,12-16 Gedeone replica all'angelo che lo saluta presentando come uno scandalo la miseria presente confrontata alla grande opera di salvezza operata da Dio al momento dell'uscita dall'Egitto. La memoria dell'Esodo funge come precedente, come memoria di liberazione, come titolo di diritto. Talora i profeti si comporteranno con Dio in modo simile e soprattutto i salmisti useranno una simile forza di pressione perché Dio intervenga a liberarli.

Ma più frequente è il caso contrario: Dio si serve dell'Esodo e dell'alleanza per ribadire a un popolo infedele e sordo gli impegni del patto ma ancor più per presentare le sue garanzie e vantare un'autorità nata dai suoi comportamenti storici e per fondare promesse future. «lo sono Colui che ti ha fatto uscire dall'Egitto...» diviene in bocca a Dio una sorte di autopresentazione, di «captatio benevolentiae», di prova di un impegno senza paragoni. La frase è sparsa un po' in tutta la Bibbia.

Riferimenti all'Esodo fungono anche come motivazione in molti testi legislativi. Il caso più noto è il prologo storico che lega l'Esodo ei Dieci Comandamenti (Es 20,2 e D t 5,6) ma anche tutti i codici importanti sono inseriti nella stessa cornice storica e da essa traggono la loro validità. Su di essa possono essere basate anche prescrizioni singole, come quella sul trattamento degli schiavi in Es 21,1-11.

L'Esodo è il soggetto di insegnamento storico e sapienziale, catechetico e spirituale più ripetuto. Dal «credo storico» di D t 26,5-11 alla grande catechesi di Sap 19, passando per Salmi a sfondo storico e sapienziale (Sal 78, 105, 106, 135) per finire alla lode prorompente da quelli del piccolo e grande Hallel (Sal 114-118 e 136).

b) Il nuovo Esodo

I profeti e l'Esodo

Nei profeti - anche se fanno scarsi riferimenti alla figura stessa di Mosè - domina ancora il riferimento all'Esodo, pur essendo presenti tanti altri riferimenti: ai patriarchi, alle tradizioni di Davide e alle visioni su Gerusalemme e soprattutto ai fatti loro contemporanei. Il Dio nel nome di cui parlano è fortemente quello dell'Esodo ma anche la loro stessa funzione di messaggeri ha senso solo nel quadro dell'alleanza. Sono inviati a difendere le prerogative divine presso la controparte, a salvaguardare i suoi diritti, a far ascoltare la sua voce. In una progressione che pare inarrestabile, Dio richiama il popolo agli impegni dell'alleanza, gli contesta la ripetuta infedeltà e, inascoltato, denuncia l'ostentazione e ne minaccia la distruzione. I testi acquistano lo stile prima dell'accusa e poi della sentenza di colpevolezza e dell'ingiunzione del castigo. Celebre e commovente è l'improperio di Mic 6,1-8 (vedi anche Ger 2,1-10 e moltissimi altri testi). Così il tema dell'esodo si drammatizza e da schema di salvezza si trasforma in elemento di rivendicazione, di accusa e di castigo. In forza del quadro rigido dell'alleanza, l'anti-esodo del popolo porta all'anti-esodo di Dio. Veramente il tema dell'esodo pervade e permea tutta la vita di Israele e ne detta tutti i possibili esiti: da una garanzia continua di protezione e di salvezza a un motivo ineludibile di condanna e distruzione. Di esodo si vive e si muore. L'esodo va aggiornato, reinventato, rivissuto come nuovo evento di purificazione e di salvezza.

La necessità di un nuovo esodo: Osea

Osea riprende le antiche tradizioni ma anche le innova profondamente. Riferimenti al primo esodo si trovano sparsi ovunque nel suo libro (9,3; 12,10; 13,4-6...) ma sono sviluppati in due testi principali, Os 2,5-24 e Il,1-11. In essi il profeta legge le tre fasi dell'Esodo come tre età della vita del popolo: l'uscita è la sua nascita, il deserto si identifica col tempo della sua giovinezza; l'ingresso nella terra è l'inizio dell'età adulta e la vita in essa è l'esperienza di un rapporto di matrimonio. L'infedeltà del popolo-sposa lo mette presto in crisi e demolisce le soglie che separano i tre momenti tanto da renderli circolari: Israele va riportato nel deserto, legato a un nuovo patto d'amore e rigenerato di nuovo. Qui l'Esodo viene smontato da un anti-esodo che genera, però, un nuovo esodo. Esso non consiste più nella costituzione di un nuovo popolo e nella dote di una legge che ne sorregga l' esistenza ma nel tentativo incredibile di toccare il cuore della gente, di intavolare un rapporto profondo per cui la conoscenza di Dio vale più dei sacrifici e l'amore più di qualsiasi altra cosa (cf 6,6). Qui l'amore di Dio per Israele non fa più violenza al faraone o ai suoi nemici e nemmeno si scarica contro il popolo trasgressore; qui Dio fa violenza solo a se stesso per essere e rimanere solo amore. Qui l'Esodo è soprattutto davanti più che alle spalle, un progetto ambizioso in cui pare piuttosto Dio costretto a uscire dai suoi diritti e dalle sue giuste rivendicazioni. Ci si domanda se questo messaggio possa ancora chiamarsi «esodo» o non qualcosa di molto nuovo, un nuovo inizio più che una ripresa, un tema migliore piuttosto che l'approfondimento dell'altro. In ogni modo i contatti linguistici e tematici sono evidenti per cui il nuovo Esodo è certo in tensione ma anche in continuazione del primo Esodo.

La nuova alleanza

Fallite le riforme e iniziato l'esilio, Israele deve registrare la perdita della terra e la fine del quadro originale dell'alleanza. Geremia ed Ezechiele intravedono la necessità e la possibilità di una nuova alleanza. Essa dovrà permettere la rottura della prima e una nuova volontà di salvezza e porre a Babilonia il punto fisico di partenza. Dovrà prevedere la rigenerazione profonda del popolo come spazio intermedio e il punto di arrivo sarà rappresentato da una vera e propria conversione al cuore. Dio prescinderà da ogni rivendicazione di pura giustizia e scriverà nel cuore degli Israeliti la sua legge e la sua alleanza. La conoscenza di essa sarà così profonda come la sua esigenza (Ger 31,31-34).

Anche Ezechiele insiste sulla purificazione e la trasformazione del cuore e ne indica l'agente: lo Spirito. Esso sarà la novità e il garante del rinnovamento e la forza di una inedita capacità di fedeltà del singolo ebreo, ormai costituito come nuovo soggetto al posto del re o della nazione (Ez 36,24-28 e altrove). La vita e la storia del popolo intero ripartirà, come morti risorgeranno, come ossa aride rivivranno nella forza dello spirito (cap. 37). Il primo Esodo stesso sarà re interpretato e rilanciato in base alla forza efficace dello spirito (Is 63,10-14).

Esperienza del nuovo Esodo: il secondo Isaia

Già Geremia (16,14; 23,7-8) aveva parlato del ritorno dalla dispersione babilonese come un intervento di Dio paragonabile all'uscita dall'Egitto e del nuovo esodo che soppianta il primo, ma è soprattutto il profeta anonimo della seconda parte del libro di Isaia che dall'interno e forse dalla stessa Babilonia legge i nuovi fatti in questa luce. Egli ricorda l'Esodo dall'Egitto (43,16ss; 51,10; ...), è quasi lo stesso profeta a sciogliere i lacci e a dare il via alla marcia di ritorno (48,20; 52,11-12; 55,12-13) ed è lui a insistere come nessun altro sul tema del deserto, che diviene luogo di trasformazione e di esperienza della guida amorevole e potente di Dio (35,1-10; 40,14; 41,17-20; 43,19ss). Lo strumento è il re medio Ciro (45,1ss; ...). Il punto d'arrivo non è più genericamente la Terra ma Gerusalemme. La città amata conosce una profonda trasformazione con il progredire del cammino degli esuli verso di essa. È perdonata, consolata ed evangelizzata (40,1ss; 52,7ss), è ascoltata e vendicata (51,17ss), resa di nuovo feconda e piena di figli e figlie (49,17-26; 54,1-3), ricostruita sulla giustizia e dotata di ogni bene (54,11-17), resa sposa e amata (49,14-15 e 54,4-8). Tutti gli elementi sono ripresi e profondamente rinnovati, come il profeta stesso dice con enfasi in 43,18-19, cf 48,6-8 ecc.

In una nuova luce appaiono soprattutto i due protagonisti dell'esodo, di ogni esodo: Dio e il popolo. Dio non è più solo il Dio dei Padri e della nazione, il Dio liberatore è alleato: è il Creatore, l'eterno, il Signore universale di tutta la storia e di tutti i popoli. Dalla forza del suo Nome scaturiscono tutte le sue parole e i suoi gesti di salvezza. Gli idoli sono una mera caricatura davanti a Lui. Dalla sua grandezza deriva anche la sua giustizia e il suo soccorso, che vengono a identificarsi dopo che Israele con l' esilio ha ampiamente scontato le sue iniquità. Il profeta della assoluta trascendenza di Dio è anche il profeta più positivo per il popolo, quasi che onnipotenza e misericordia coincidano. Ancora esistono requisitorie ed accuse verso il popolo di «ciechi» (42,18-25;43,22-26; ...) ma si fanno sempre più frequenti le dichiarazioni di perdono e di amore (40,27-31; 44,1-5; 49,14-16; ...) e l'invito pressante e spesso ribadito: «Non temere»! (41,14; 43,1.5; ...). Il pericolo non è più la ribellione e l'infedeltà ma la sfiducia e l' autodenigrazione. E qui si innesta il contributo più straordinario di questo profeta: anche la sofferenza viene redenta! Sono i famosi canti del Servo che illuminano di luce nuova questi oracoli di salvezza. Il dibattito sulla sua identificazione non è approdato ancora a conclusioni sicure ma tutto avviene come se il Servo potesse identificarsi prima con tutto il popolo e la storia delle sue sofferenze ma poi, là dove non si può più pretendere tanto dal popolo, pare divenire un individuo che subentra per osare, agire, soffrire e morire per tutto il popolo.

Senso nuovo dell'Esodo

La lezione dei profeti rimane indimenticabile. L'Esodo è conosciuto, ripreso, utilizzato ma anche riattualizzato, ripensato e spinto ai limiti e, forse, oltre le sue possibilità. Viene arricchito di una più profonda rivelazione di Dio e di una nuova antropologia, di nuove sfide e nuove promesse. Il ruolo e la persona di Dio è ancor più profondamente rivelato e si assiste a un movimento notevole di personalizzazione, democratizzazione e spiritualizzazione del partner umano. Lo spirito di Dio e dell'uomo vengono radicamente coinvolti in questa conversione al cuore prospettata dai profeti del nuovo esodo.

c) Attualità dell'esodo

La forte ispirazione che ha prolungato l'esistenza dell'esodo per tutta la storia d'Israele rimane valida anche per cristiani di oggi come per quelli di ieri e non è difficile trovare sue risonanze anche in tante culture e movimenti al di fuori della tradizione ebraico-cristiana. Questa permanente forza dell'esodo è legata alla figura di Cristo ma anche al suo radicamento profondo nella natura dell'uomo e nei rapporti sociali.

I Vangeli e l'esodo

Il Nuovo Testamento vi si riferisce innumerevoli volte sia come evento che come figura, sia per esprimere il Cristo che per descrivere la vita cristiana. Il termine «esodo» appare in Lc 9,31, nella Trasfigurazione, come indicazione della morte e risurrezione del Signore a Gerusalemme. Nei vari episodi evangelici si trovano citazioni e riferimenti ai singoli eventi antichi, come, ad es., al serpente di bronzo in Gv 3,14, al Giordano nel quadro del Battesimo di Gesù. Per le Tentazioni, mentre in Marco si fa riferimento ad Adamo per mostrare Gesù uomo nuovo, in Matteo e Luca si attribuiscono a Gesù le stesse tentazioni della generazione del deserto e alla sua vittoria il significato dell'inizio di un nuovo popolo di Dio. Chiaro è il richiamo al rito dell' alleanza sul Sinai nella istituzione dell'Eucaristia come «sangue della alleanza» (Mc 14,24 e paralleli). Si scorge l'influsso dell'esodo sulla struttura e le tematiche di intere sezioni come la sezione del viaggio in Luca o i vangeli dell'infanzia di Matteo. Ma se si scava a fondo sono moltissimi i passaggi e le sezioni in cui è possibile scoprire un riferimento diretto o indiretto, un' allusione o almeno una eco della epopea di liberazione dall'Egitto e della sua grande letteratura.

Molto significativa è la presenza del tema dell'esodo nella composizione globale dei singoli vangeli. In Matteo è notevole la presentazione di Gesù come nuovo Mosè e del vangelo come nuova Torah con i cinque grandi discorsi. Il Vangelo di Luca, oltre ad essere centrato sul grande viaggio, fa di Gerusalemme la meta di arrivo, come nel secondo esodo. Ma è soprattutto nel Vangelo di Giovanni che l' esodo fornisce temi e termini per mostrare in Gesù il compimento della storia della salvezza. Programmaticamente già nel Prologo la mediazione di Gesù viene accostata a quella di Mosè (1,17). Il tema dell'agnello che chiude l'intera opera in una grande inclusione (1,29.36 e 19,36) e il riferimento alla manna domina tutto il grande discorso sul «pane di vita». Ma questo Vangelo osa anche di più: la rivelazione di Dio al roveto ardente viene ripresa da Gesù e attribuita a se stesso in modo che Lui stesso prende ora non più soltanto il posto di Mosè ma quello del Dio dell'Esodo (8,24.28; 10,30; 14,30s ...). Egli è l'unico condottiero (8,12 e 10,4 ...) ma anche l'unico Salvatore (3,17; 4,42; 5,22-24; 12,47).

Non solo il quarto Vangelo ma tutto il Nuovo Testamento riprende l'esodo per illustrare la figura di Gesù Cristo ma si servono di Cristo per dare un senso nuovo all'esodo. Con la Pasqua, si radicalizzano i termini e le azioni dell'uscire-entrare e attraversare. Il punto di partenza non è più una regione dell'Ovest o dell'Est o del Nord o del Sud ma è la morte, la nostra condizione di peccato e di schiavitù; il punto di arrivo non è più la terra d'Israele o Gerusalemme ma cieli nuovi e terra nuova. Gesù non è più impegnato a vincere eserciti o il faraone ma Satana e ogni altro potere che incide negativamente sulla nostra condizione. Il senso di una redenzione totale è dato dall'attraversamento degli inferi e dalla apertura dei sepolcri per cui Egli è il Signore della morte e della vita e ha ogni potere in cielo e terra. Questo esodo radicale è in se stesso universale. Non riguarda più solo un popolo o una razza ma tutta l'umanità, non in modo automatico ma attraverso l'adesione libera della fede. C'è un'altra novità: il Dio liberatore è anche colui che è stato liberato; Colui, da cui proviene il comandamento e ogni autorità, è stato punito per tutte le trasgressioni! Non ci poteva essere avvicinamento più grande fra Dio e l'uomo. Il grande rinnovamento del partner umano dell'alleanza tanto sottolineato nel secondo esodo è ora decisamente e definitivamente iniziato.

L'Esodo e la vita cristiana

Paolo, la lettera agli Ebrei ma anche i Vangeli disegnano per i cristiani un tracciato di condotta, di relazioni e di mete calcate spesso sull'esodo come esperienza e come norma. Nel Battesimo avviene l'uscita attraverso le acque che inizia il cammino e costituisce un nuovo popolo. L'Eucaristia è la Pasqua cibo per il cammino e anticipo del festa di arrivo. Ma tutta la vita del singolo e del popolo cristiano rimane sotto il segno del cammino e dell'attesa del traguardo finale. È l'Apocalisse che più ha tematizzato questo aspetto e ha descritto le vie e le lotte della storia ispirandosi spesso all'antico percorso dall'Egitto alla terra promessa.

Il Nuovo Testamento insiste molte volte sulla problematica della Legge e della liberazione e purificazione del cuore. Lo Spirito Santo viene sempre più spesso menzionato come agente di queste trasformazioni personali e storiche, come già aveva profetizzato Ezechiele per il nuovo esodo. La continuità e la novità cristiana anche in questo settore sono comprensibili solo se confrontate continuamente con la Torah di Mosè e la liberazione dall'Egitto e i grandi approfondimenti profetici. Il cristiano vive perché si muove dietro al suo Mosè, si muove perché ha una meta alta e lontana da raggiungere, per raggiungerla attraversa le prove e i pericoli di deserti dalle mille forme. Il cristiano vive e spera ancora sotto il segno dell'esodo.

Il radicamento antropologico dell'Esodo

Se l'Esodo è rimasto così a lungo permanente e incisivo lo si deve anche al suo radicamento profondo nella vita e nella esperienza umana universale. Nella Bibbia «entrare e uscire» definisce la polarità che contiene tutta l'esperienza umana: per Mosè (Dt 31,23), per Giosuè (Gs 14,11), per Davide (1 Sam 18,14), per ogni uomo (Sal 121,8), per Paolo (At 9,28) e anche per il discepolo che per Gesù Porta del gregge può entrare ed uscire (Gv 10,9). È la polarità che indica l'uscita dal seno materno con tutti i rischi e le possibilità che dischiude. È legata alla crisi adolescenziale dove ritornano i grandi temi del nuovo esodo: il passaggio dall'eteronomia all'autonomia. L'età adulta consiste nel far sgorgare dal di dentro ciò che nell'infanzia ci viene imposto dal di fuori. Ma Osea ha mostrato come proprio l'età adulta può fallire la sua risorsa principale: il rapporto amoroso e religioso. Per cui bisogna rinascere spesso e la vita è un esodo continuo e ripercorrere tappe mai definitivamente superate.

L'esodo fornisce archetipi e modelli soprattutto alla dinamica della libertà. Come il popolo d'Israele è sempre possibile recedere verso la schiavitù protetta e rifiutare il costo di un vero cammino di liberazione. Anche la legge e la fedeltà forniscono infiniti spunti comuni fra vicende antiche e storiche e i drammi comuni delle singole persone umane. Il deserto è ancora uno spazio vitale di grande attualità in un mondo occupato da troppe cose e dai nostri rifiuti. Anche i tempi intermedi (studi, fidanzamento, ricerca di lavoro, permanenza nella famiglia di origine...), se da una parte si riempiono subito di contenuti propri, dall' altra tendono ad allungarsi enormemente e a trasformare la vita in un' attesa. La Terra è di nuovo un dato e un dono da valorizzare e custodire ma anche una risorsa di produzione e un compito di giustizia.

Esodo come emancipazione sociale

Mai l'Esodo ha smesso di essere ispirazione di rivendicazioni di giustizia e di promozione sociale per popoli, classi e individui. Alcuni movimenti si sono esplicitamente richiamati alla Bibbia e alcuni riformatori si sono paragonati a Mosè, soprattutto nell'ambito della cultura afro-americana. E complesso decidersi su quanto influsso Marx abbia subito dalle sue radici ebraiche ma esso è innegabile. Nel nostro tempo, a partire dagli anni '60 e '70 è nata una cultura della liberazione basata su grandi cambiamenti sociali e ispirata da una vera riscoperta dell'esodo. Movimenti, progetti politici, manifesti culturali hanno arricchito profondamente la comprensione dell'antico Esodo e la sua rilevante attualità. Basta qui segnalare alcuni nomi e casi. La teologia della speranza di J. Moltmann si presenta formalmente come una riscoperta dell'escatologia ma soprattutto del dinamismo storico dell'esodo. La teologia della liberazione è il fenomeno più ampiamente condiviso e ha acceso le speranze di un continente intero.

Ma anche il femminismo, la riscoperta di -culture e teologie alternative si inseriscono nello stesso filone tracciato dall' esodo e radicalizzato dalla prassi di Cristo e dalla sua vittoria sulla morte.

Tanti movimenti presentano una innegabile ambiguità e tendono ad applicare il primo Esodo cancellando talora gli approfondimenti e i progressi rappresentati dal nuovo esodo profetico e dal Vangelo. L'emancipazione sociale non può non essere parte di un progetto più globale e radicale.

Conclusione

L'Esodo disegna un lungo percorso biblico che giunge fino a noi, intatto nella sua validità. In questo percorso abbiamo notato una persistente continuità dello schema iniziale, dovuta a fattori notevoli: la grandezza dei primi eventi, le conseguenze storiche che hanno prodotto, le strutture sociali e i riti ma anche l'innesto profondo dei significati dell'esodo nella vita del popolo d'Israele e di tutta l'umanità, della società in genere e dell'uomo in quanto tale. Abbiamo notato anche una grande variabilità e creatività dello stesso schema. Ha saputo costituirsi come figura nella narrazione, fissarsi come quadro di riferimento nei rapporti contrastati della alleanza e rigenerarsi negli eventi dell'esilio per le grandi voci profetiche che lo hanno interpretato. Il Vangelo si innesta in questa fedeltà creativa e radicalizza i suoi temi e le sue dimensioni. In questo intrecciarsi di continuità e novità tre nodi ci sembrano notevoli:

* Il Dio biblico è legato alla storia e ai suoi processi e la storia è una storia di libertà. Il Dio biblico non rimane chiuso nella rete del mito ma è attivo nelle vicissitudini umane, accetta il confronto con le altre forze in campo, si schiera contro ogni oppressione e imperialismo, segue i ritmi e i percorsi della storia, non si sostituisce ma rafforza la responsabilità dei soggetti umani. Guida la storia dal di dentro evi disegna sovranamente un piano senza svuotarla anzi riempiendola. La stabilità della categoria «esodo» fonda e mostra la continuità della storia della salvezza: tutte le generazioni vengono unite e confrontate con la presenza di Dio e della sua costante spinta verso la libertà. La ripetitività dell'esodo prova che la libertà non viene mai raggiunta e che quello della libertà è un percorso di liberazione. Qui sta il vero realismo biblico: i bisogni, le schiavitù e il male non viene negato o escluso ma diviene il punto di partenza del piano di Dio e di ogni cammino umano.

* L'Esodo non è solo un nodo nella catena degli eventi storici ne un mero passaggio fra uno spazio socio-politico negativo a uno positivo. È ancor più la rivelazione di due soggetti e la costruzione della loro relazione. Il secondo esodo esplicita ciò che era già inteso dal primo: Dio si rivela come Liberatore e familiare e Padre e spinge l'uomo a raggiungere le profondità e la purificazione del suo cuore. Ciò significa che l' esodo non è un caso della storia ma si radica sull'essere stesso di Dio e dell'umanità. La presenza attiva e personale di Dio e il coinvolgimento della natura stessa dell'uomo assicurano la vera permanenza dell'esodo attraverso i tempi. Dio guida l'uomo a raggiungere la sua libertà e lo chiama a divenire suo alleato, suo congiunto. Nella figura cristiana del Verbo fatto carne si raggiunge il vertice di questo movimento. L'esodo è un cammino verso la libertà perché è un cammino verso la «conoscenza» e la comunione con Dio.

* Queste trasformazioni in senso personale aprono il dibattito secolare sul ruolo della legge all'interno dell'alleanza. La Torah è molto più che legge e la legge è ciò che estende alla vita l'impegno dell'alleanza. Ma già i profeti affermano che la legge deve essere interiorizzata e che lo Spirito rende la legge possibile e la rende vita. Qui non c'è differenza fra Antico e Nuovo Testamento, fra interpretazione ebraica e cristiana. Essa sorge dal diverso modo di collegare spirito e legge. Per l' ebraismo lo Spirito rimane legato alla legge e in qualche modo in funzione di essa, per il Nuovo Testamento lo Spirito prende il posto della Legge e la legge è in funzione di esso. In ogni modo, l'ultimo approdo dell'esodo è la scoperta dello Spirito. Esso è lo snodo di tutti i nodi: la forza incisiva negli eventi, il principio unificatore dei tempi, l'esigenza della conoscenza invece dei sacrifici e dell'interiorità del cuore, la relazione personale fra i soggetti, la suprema rivelazione di Dio come comunione. Con lo Spirito si compie e si dissolve l'esodo e tutta la storia viene confrontata con le assolute profondità del mistero di Dio e dell'uomo.

(da Parole di vita, 4, 97)

Pubblicato in Bibbia
Sabato, 11 Agosto 2007 01:52

L'esilio babilonese (Luca Mazzinghi)

L'esilio babilonese

di Luca Mazzinghi

L'orizzonte storico della seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55) è costituito dalla catastrofe dell'esilio a Babilonia degli abitanti di Gerusalemme; è agli esiliati, infatti, che questi capitoli si rivolgono. La storia dell'esilio ha radici lontane: già il regno del Nord ha conosciuto l'esilio, come si è visto nei numeri precedenti, dopo la distruzione di Samaria da parte degli assiri nel 721. Nel regno del Sud, in Giudea, il re Ezechia ha evitato per poco una sorte analoga (cf gli episodi relativi alla guerra siro-efraimita e all'invasione di Sennacherib). Il regno di Manasse (687-640 ca.), figlio di Ezechia, trascorse senza troppi sussulti; Manasse, vassallo dell'Assiria, riuscì a conservare la pace e un minimo di indipendenza, pur a prezzo di tributi e di un compromesso di carattere anche religioso; il giudizio che il testo di 1 Re 21,1-18 darà del suo regno è, proprio per questo motivo, molto negativo. Dopo il brevissimo regno del figlio Amon, i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme riuscirono a porre sul trono il giovanissimo Giosia - di appena otto anni! -, uno dei figli di Amon, creando così le condizioni per una grande opera di riforma religiosa di carattere fortemente monoteista, sullo spirito del libro del Deuteronomio. La composizione di questo libro (o almeno dei cc. 12-26), iniziata probabilmente sotto Ezechia, viene completata proprio sotto il regno di Giosia, sotto il quale iniziano anche ad essere scritti i testi che poi diventeranno i libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e dei Re.

Ma proprio negli anni della maturità di Giosia, verso il 612, un brusco cambiamento nel panorama internazionale ebbe gravi riflessi sulla storia di Israele: l'Assiria scompare improvvisamente dalla scena, la sua capitale, la grande città di Ninive, viene distrutta sotto i colpi del nuovo astro nascente, l'impero neobabilonese. Del crollo dell'Assiria cerca di avvantaggiarsi l'Egitto, che, sotto la guida del faraone Necao, inizia una avanzata verso nord; in questa campagna condotta attraverso la regione palestinese il re Giosia viene ucciso, nel tentativo, probabilmente, di contrastare l'avanzata del faraone. La morte del re giusto sarà un episodio che segnerà profondamente gli Israeliti. Siamo nel 609 a.c. e gli anni che seguiranno saranno anni di grande confusione e di veloce declino per il regno di Giuda, eventi che la Bibbia ci descrive negli ultimi capitoli del secondo libro dei Re e, soprattutto, nel libro del profeta Geremia, contemporaneo di questi fatti.

Dopo l'uccisione di Giosia, il faraone Necao nominò un re di suo gradimento, il debole Ioiakim, che, pochi anni dopo, sarà pronto a cambiare bandiera, quando, nel 605, Necao verrà sconfitto dal re babilonese Nabucodonosor; nel 598 lo stesso Nabucodonosor assedia e conquista Gerusalemme nel corso di un periodo molto confuso; nell'assedio il re Ioiakim muore e il figlio Ioiachin viene deportato a Babilonia, dove resterà a lungo; con lui viene deportata una piccola parte della popolazione, in particolare nobili e artigiani. Gerusalemme, tuttavia, non viene distrutta e su di essa Nabucodonosor nomina un nuovo re, Sedecia, un altro dei figli di Giosia. La politica debole e vacillante di Sedecia ci è nota dai cc. 32-38 di Geremia; in seguito a una doppia ribellione contro Babilonia, Nabucodonosor ritorna nella regione e, verso la metà di luglio del 586, distrugge Gerusalemme, dopo due anni di assedio; Sedecia viene catturato, i suoi figli uccisi ed egli, dopo essere stato accecato, è condotto prigioniero a Babilonia, questa volta insieme a una parte considerevole della popolazione. Il libro delle Lamentazioni descrive in modo drammatico l'accaduto e l'impatto che la sorte di Gerusalemme ebbe sul popolo d'Israele.

Dopo la doppia deportazione e la distruzione di Gerusalemme, nella Giudea restarono soltanto le classi più povere della popolazione; l'economia, in un paese devastato dalla guerra, fu ridotta a pura economia di sussistenza. Le autorità di Babilonia nominarono una sorta di viceré, il governatore Godolia; invano il profeta Geremia invitò i superstiti rimasti in patria a sottomettersi all'autorità di questo Godolia; una banda di ribelli lo uccise, provocando, sembra, una terza deportazione da parte dei Babilonesi e fuggendo poi in Egitto, dove fu trascinato lo stesso Geremia. Con la morte di Godolia, la Giudea diventa, politicamente parlando, una delle tante province dell'impero babilonese, perdendo anche quella parvenza di autonomia rimastale. Una parte della popolazione, tuttavia, non si mosse dalla Giudea e forse almeno una parte di Gerusalemme fu di nuovo abitata, pur essendo le mura e il Tempio distrutti; la politica dei Babilonesi fu in realtà meno dura di quella che, in passato, avevano avuto gli Assiri. Sarà proprio questa parte di popolazione rimasta in patria a creare problemi, quando, molti anni più tardi, gli esiliati inizieranno a far ritorno a Gerusalemme. Ma l'attenzione dovrà ora trasferirsi a Babilonia, e, in particolare, alla vita degli esiliati; in questo modo sarà più facile comprendere il messaggio del Deuteroisaia.

(da Parole di Vita, n. 4, 1999)

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Lezione Undicesima

IL LEGAME STORICO-SALVIFICO
TRA IL CULTO EBRAICO E LA LITURGIA CRISTIANA

 


Introduzione

1. I riti del culto ebraico, stabiliti nell’A.T., avevano nell’intenzione di Dio che li aveva ordinati, il preciso scopo di operare la salvezza. Nella nuova alleanza i riti sacramentali sono segni dotati di una triplice dimensione: hanno un valore dimostrativo di una realtà spirituale presente, un valore rimemorativo di una realtà passata, ed un valore preannunciativo di una realtà futura. S. Tommaso applica a tutti i segni rituali dell’antica alleanza questo principio dei sacramenti cristiani.

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Venerdì, 22 Giugno 2007 02:50

Maestri da non imitare (Karin Heller)

Maestri da non imitare

di Karin Heller

Mc 7,1-23

Allora
si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da
Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo
con le mani immonde, cioè non lavate - i fari sei infatti e tutti i
Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito,
attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non
mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose
per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame
- quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non
si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con
mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi,
ipocriti, come sta scritto:

Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.

Trascurando
il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E
aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio,
per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.
Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: È Korban,
cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli
permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così
la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose
simili ne fate molte».

Chiamata
di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene:
non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo;
sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

Quando
entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul
significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così
privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal
di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel
ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli
alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall'uomo, questo sì
contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini,
escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri,
cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di
dentro e contaminano l'uomo».

(Marco 7,1-23)


Per
colui che non vive in un ambiente ebraico o che gli è estraneo,
l'incontro di Gesù con i farisei conservato da Marco (cf anche Mt 15,1-9 e Lc11,38) sembra emergere da un'altra epoca. Tutte queste controversie non
sono superate? Perché riportare simili discussioni, quando la
maggioranza dei cristiani è uscita dalle nazioni pagane alle quali non
è stato imposto il giogo che né i padri né coloro che sono nati ebrei
sono stati in grado di portare (At 15,10)?

Ma
per colui che crede, la Scrittura non è un cimelio del passato, un
monumento ai morti davanti al quale ci si inchina periodicamente con
rispetto: è una parola viva, la parola nella quale Dio vuole
comunicarsi a noi lungo i secoli. Ciò significa che certi eventi, e più
particolarmente i diversi incontri che si trovano a dovizia nella
Bibbia, sono inseparabili dalla rivelazione cristiana. Questa
rivelazione svanirebbe, se questi incontri non esistessero. Quindi,
nell'evento dell'incontro di Gesù con i farisei accaduto duemila anni
fa, c'è una rivelazione, una verità di Dio per l'uomo, per gli uomini
di ogni epoca. Anche per noi, uomini alle soglie del duemila. Qual è
questa verità?

La rivelazione di un male profondo

All'epoca
di Gesù, i farisei erano maestri di tutti quelli che avevano scoperto
nella Legge del Signore una lampada per i loro passi, una dolcezza più
grande di quella del miele, un tesoro più desiderabile di quello
dell'oro fino (SalAt 22,3). Allora, dove sarebbe il
«male» a voler vivere in tutto conformemente alla Legge del Signore in
cui l'uomo si compiace meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?118,105 e 19,11). San Paolo stesso era stato formato alla loro scuola,
quella di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge (At22,3). Allora, dove sarebbe il «male» a voler vivere in tutto
conformemente alla Legge del Signore in cui l'uomo si compiace
meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?

Nel
passato di Marco che studiamo, la discussione tra Gesù e i fari sei
scoppia a causa dei discepoli che prendono il cibo con «mani immonde»,
cioè non lavate fino al gomito secondo la tradizione degli antichi (Mc7,1-3). A prima vista, il dibattito potrebbe sembrare una discussione
tra genitori preoccupati di inculcare ai loro figli un «saper vivere»
secondo lo stile degli antenati e i figli che non se ne curano o non ne
vedono la necessità.

Invece
l'incidente rivela un disagio più profondo di quello di un conflitto
tra generazioni. Rivela, in effetti, che I 'unità del doppio
comandamento dell' amore di Dio e del prossimo è frantumata. E, cosa
forse ancora più grave, i trasgressori coltivano l'illusione di essere
a posto in coscienza.

Gesù
denuncia l'incongruenza di tale comportamento con due citazioni
bibliche. Comincia citando Isaia: «Questo popolo mi onora con le
labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7, 6-7).
Questa citazione mette in rilievo un divario tra il culto a Dio, cioè
il comandamento dell'amore di Dio, e l'insegnamento che si allontana
dalla Parola di Dio, fino a sostituirla con la tradizione degli uomini.
Così il popolo pratica un culto che ha tutte le apparenze di un «vero»
servizio di Dio, mentre invece la sua vita quotidiana non è più
regolata secondo i precetti del Signore, bensì secondo le convenienze
di ciascuno. Il culto serve a tacitare la coscienza e il comandamento
dell'amore di Dio è usato per dissimulare il disprezzo verso il
prossimo. Poi Gesù cita Mosè, che insegna con l'autorità di Dio: «Onora
tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a
morte» (Mc 7,10). A questo punto, Gesù mette in rilievo
l'ambiguità circa il comandamento dell'amore del prossimo che, nel caso
presente, interessa il padre e la madre. I genitori sono esposti ad
un'esistenza miserabile, se non alla morte, perché i figli hanno preso
il pretesto di dichiarare «offerta sacra» (korbàn in aramaico) i beni destinati al sostentamento di padre e madre (Mc7,11-13). Era una subdola scappatoia per evitare l'aiuto agli altri,
con il pretesto di una causa religiosa. Quando l'uomo mette davanti
«l'amore di Dio» senza curarsi del prossimo, produce una mostruosità.
L'assurdità di questo gesto diventa ancora più evidente sapendo che i
templi dell'epoca, e quindi anche il Tempio di Gerusalemme, avevano,
oltre alla loro specifica funzione religiosa, anche quella di essere un
centro finanziario; erano l'equivalente delle nostre banche. Quindi, in
questo senso «l'offerta sacra» non era un obolo per realizzare una
buona opera, ma costituiva ciò che chiameremmo oggi un investimento
finanziario.

Una rivelazione dell'identità di Gesù

Dopo
questa dimostrazione, Gesù ritorna al problema iniziale, quello che
aveva causato la sua viva reazione: perché i suoi discepoli non si
comportano secondo la tradizione degli antichi e prendono il cibo con
«mani immonde»? L'insegnamento di Gesù è comprensibile soltanto in
considerazione di ciò che Dio ha creato e voluto all'origine, quando ha
messo l'uomo e la donna all'interno di una creazione integralmente
buona (Gn 1). Infatti, all'origine non ci sono elementi puri o
impuri. Non c' è nulla che potrebbe insozzare l'uomo dal di fuori.
L'esterno, cioè la creazione; e l'interno dell'uomo sono omogenei. Non
c'è possibilità di conflitto tra loro quando l'uomo rimane unito a Dio
mediante il comandamento divino, che insegna come comportarsi nel
sistema complesso della creazione. Quando l'unità è spezzata dal
peccato, il cuore dell'uomo è diviso, il suo interno non corrisponde
più all'esterno: ciò si manifesta attraverso i perversi disegni
prodotti dal cuore dell'uomo.

Quanto
a Gesù, Lui è venuto nel mondo per riprendere il progetto originario
che Dio creatore aveva preparato per il primo Adamo. Ristabilisce in se
stesso il rapporto frantumato tra interno ed esterno, tra il cuore
dell'uomo e la creazione, affrontando il caos del deserto, vivendo con
le fiere, sostenendo la tentazione di Satana (Mc 1,12-13). In se
stesso, figlio dell'Uomo e Verbo eterno, realizza l'unione perfetta con
il Padre. È da questa unità che vede il mondo; è ancora da questa
prospettiva che giudica il comportamento dei fari sei e lo ritiene
inaccettabile.

La verità dell'incontro

Come
già notato, l'incontro tra Gesù e i farisei si colloca nella logica di
una rivelazione. Questa rivelazione non «cade dal cielo» come un
aerolito estraneo al nostro universo, ma si realizza attraverso parole
ed azioni molto precise, quelle di Gesù e dei farisei. Parole ed azioni
di entrambi sono l'espressione esteriore non dissociabile dal loro
stato interiore.

Nel
caso dei farisei c'è omogeneità tra il cuore e le azioni, entrambi
ugualmente corrotti. E tale corruzione rende la guarigione difficile,
se non impossibile. Sarà infatti molto improbabile trovare un punto di
accordo con loro che si considerano giusti. Gesù ha dichiarato di
essere venuto per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17). Potrà
verificarsi un incontro fruttuoso tra Gesù e i farisei ? Come potranno
cambiare, educandosi alla logica del donare senza la pretesa del
contraccambio? Nel presente caso, siamo di fronte a una parte che non
vuole comunicare con Gesù.

In
effetti, incontrare Gesù significa incontrare il Verbo eterno di Dio
venuto nella carne; solo Lui può favorire il cambiamento e solo in Lui
è data agli uomini la vita che esiste dall'eternità tra il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo. Quindi, incontrare Gesù significa per l'uomo
la possibilità inaudita di accedere alla guarigione del cuore grazie al
dono dello Spirito, di ritrovare l'unità originale tra interno ed
esterno voluta dal Padre, di entrare nella vita beata della
risurrezione. Viceversa, fallire quest'incontro significa fallire la
VITA come Dio la promette, la dà e la realizza dall' eternità nel
Figlio suo Gesù.

I discepoli uniti per grazia di Gesù

Quanto
ai discepoli di Gesù, devono ricevere una doppia rivelazione
dall'incontro del loro Maestro con i farisei. Dapprima: possono
prendere il cibo senza essersi lavate le mani, perché il loro Maestro
lo autorizza. Infatti, in ragione della presenza di Gesù, anche loro
sono già mondi per la Parola che egli ha annunciato, secondo
l'espressione di san Giovanni (Gv 15,3). Dovranno però essere
attenti e ricordare che anch'essi corrono sempre il rischio di
diventare farisei, annullando il comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo e sostituendolo con precetti e tradizioni umane.

Se
l' incontro tra Gesù e i fari sei prende molto spazio nei Vangeli, è
giustamente perché anche noi siamo permanentemente esposti a diventare
«vecchi» fari sei forti delle nostre tradizioni di 2000, 200, 50 o 3
anni. Come era già il caso al tempo di Gesù, siamo anche noi esposti
ogni giorno al pericolo di annullare la Parola di Dio (Mc 7,9.13), il comandamento divino, per mettere al suo posto i nostri gusti, le nostre convenienze, i nostri desideri personali.

Grazie
al Vangelo, che è Buona Notizia, sappiamo come dobbiamo comportarci per
vivere correttamente il duplice comandamento dell' amore di Dio e
dell'amore del prossimo. A loro modo, anche i farisei ci rendono un
grande servizio, se non altro perché ci insegnano come non dobbiamo
comportarci.

Pubblicato in Bibbia

La costruzione della torre di Babele è legata, nell'immaginario, alla confusione delle lingue e alla dispersione dei popoli. Dio avrebbe punito la creatività degli uomini e il loro sforzo collettivo? Strano mito! E ancor più strano racconto, in cui abbondano tanto i giochi di parole che le precisazioni tecniche sull'architettura mesopotamica. Per comprendere meglio il testo di Genesi 11,1-9, bisogna situarlo nel ciclo della storia primaria.

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