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Il discorso di Stefano
e la sua morte (At 7)

di Carlo Ghidelli


È risaputo che gli Atti degli Apostoli Luca li ha arricchiti di numerosi di­scorsi, tutti abbastanza lunghi e variamente articolati: essi costituiscono una sezione assai importante del libro, anche dal punto di vista quantitati­vo; non è lecito ignorarli se si vuole cogliere il disegno teologico generale di Luca.

La funzione dei discorsi nel libro degli Atti è nota a tutti: con essi Luca ci of­fre una interpretazione teologica di un evento storico particolare: la discesa dello Spirito, la guarigione dello storpio, la conversione di Cornelio e della sua famiglia, la conversione di Paolo, il Concilio di Gerusalemme, ecc.

Tra i discorsi cui abbiamo accennato ce n'è uno, quello di Stefano appunto, che si caratterizza in un modo del tutto singolare: anzitutto perché è il più lungo di tutti, e poi anche perché è tutto infarcito di citazioni veterotestamen­tarie. Ma le caratteristiche di questo discorso sono ben altre e vale la pena esplicitarle. In esso Stefano ripercorre le tappe principali della storia della salvezza (da Abramo a Giuseppe, da Mosè a Giosuè, da Davide e Salomone Gesù) e ne offre una rilettura teologica; d'altro canto, Stefano intesse una ve­ra e propria autodifesa, in riferimento ad alcune accuse relative alla Legge al Tempio (cf 6,11-14) per il quale subirà il martirio.

Per cogliere in pienezza il messaggio del discorso di Stefano, è assai utile considerare prima alcune notizie relative al personaggio e alla sua presenza nella Chiesa di Gerusalemme (cap. 6) e poi il modo col quale Luca riferisce della morte di lui (cf 7,54-60). Sono due sezioni narrative che fanno da corni­ce letteraria al discorso stesso; nello stesso tempo ci offrono il contesto stori­co dentro il quale il discorso è nato e vuole essere compreso.

La figura di Stefano è una delle più significative del Nuovo Testamento e lo è - lo dobbiamo dire esplicitamente - per il suo riferimento a Cristo Gesù. Come Gesù si è definito il «servo» per eccellenza (cf Lc 22,27), così Stefa­no è il primo dei sette aiutanti degli apostoli, addetti appunto al servizio (cf At 6,3). Come Gesù fu pieno di Spirito Santo (cf Lc 4,1.14; 10,21) per l'eser­cizio della sua missione, così Stefano è detto pieno di fede e di Spirito San­to (cf At 6,5) in funzione di ciò che va dicendo e testimoniando con la sua morte. Come Gesù è stato il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46), sulla scia dei martiri dell'Antico Testamento (cf 2 Mac 7,1-41), così Stefano coro­na la sua esistenza terrena con il martirio (cf At 7,51-54) e sarà chiamato il protomartire.

Stefano, uno dei «sette»

Come si diceva, le notizie storiche riferite da Luca nel capitolo 6 degli Atti so­no assai illuminanti per l'interpretazione del discorso di Stefano.

Anzitutto per i tratti della personalità di Stefano che Luca mette a fuoco con tutta chiarezza. Di lui, come degli altri sei, si dice che «era pieno di Spirito Santo e di sapienza» (6,3). Solo di lui si aggiunge che «era pieno di fede e di Spirito Santo» (6,5): nello stesso è posto in cima alla lista dei sette. Fede, Sa­pienza e Spirito Santo sono gli agenti divini che operavano in Stefano; sono altrettanti doni che Stefano ha ricevuto da Dio, nella luce e nella grazia del mistero pasquale; sono forse una chiave di lettura del discorso stesso.

Esso infatti è una lettura teologico-sapienziale della storia di Israele in fun­zione epifanica: la storia infatti, quando è interpretata con la lampada della fe­de, diventa epifania di Dio e delle sue intenzioni salvifiche. È la fede, solo la fede, che aiuta a riconoscere negli anfratti della storia una linea retta, conti­nua, ascendente, sulla quale si scagliarono gli interventi salvifici di Dio. È la fede che permette di intravedere la Sapienza di Dio anche nelle gesta, spesso insipienti, degli uomini. È la fede che educa all'ascolto della Parola di Dio che si nasconde sotto l'involucro delle parole umane. È la fede che ci dona il sesto senso per percepire la presenza dello Spirito Santo nei meandri della storia umana che, di primo acchito, sembrerebbe caratterizzata solo dalla pre­senza del peccato e del male.

Il capitolo 6 degli Atti ci informa anche sui motivi per i quali Stefano è stato dapprima arrestato e poi lapidato. Sostanzialmente sono due, ribaditi con in­sistenza: «Noi lo abbiamo sentito bestemmiare contro Mosè e contro Dio […]. Costui continua a parlare contro questo luogo santo, il tempio, e contro la Legge» (6,11.13). Ma, al di là di Stefano, i suoi accusatori mirano a colpire ancora una volta Gesù. Infatti proseguono con queste parole: «Lo abbiamo sen­tito dire che quel Gesù, il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le tradizioni che ci ha dato Mosè» (6,14).

Nulla di più sacro della Legge, nulla di più venerando del Tempio: per Mo­sè, per Gesù e per Stefano. Ma a condizione che ambedue, la Legge e il Tempio, siano considerati, non in se stessi, isolati e quasi ipostatizzati, ma dentro il progetto di Dio, nella sequenza dei tempi (dall'Antico al Nuovo Testamento) e dei modi (dal tipo all'antitipo), secondo i ritmi di una rivela­zione progressiva, che sottende una istanza pedagogica. Chi non entra in questa logica finisce col precludere a se stesso ogni possibilità di compren­sione di ciò che, per mezzo della Legge e del Tempio, Dio voleva rivelare; fi­nisce col fermare il corso dei tempi e non riesce più a riconoscere «il tempo» (kairós) di Dio, il giorno della salvezza; finisce col materializzare e cosifica­re istituzioni che, secondo la mente, hanno la funzione di annunciare e pre­parare (e di rimandare a) realtà e persone future, il cui avvento realizza in pienezza il significato di quelle.

Questa dinamica va tenuta presente quando si considera il rapporto tra l'An­tico e il Nuovo Testamento, quando nella luce della nuova alleanza si vuole ricuperare il senso (nella duplice accezione di significato e di orientamento) dell'antica. L'errore degli accusatori di Stefano consiste proprio in questo. Del resto Stefano non inventa nulla di nuovo, ma si manifesta come un fedele discepolo di Gesù che i Vangeli presentano appunto come maestro anche sotto questo profilo. Si veda, per limitarci all'opera lucana, Lc 16,16, un tesi fondamentale per questa problematica. (2)

Infine, il capitolo 6 degli Atti ci sollecita a stabilire un confronto tipologico tra Stefano e Mosè. Infatti di Stefano, si dice che i presenti «puntarono gli occhi ­su di lui e videro il suo volto raggiante come quello di un angelo» (6,15), cer­tamente per la gloria di Dio che rifletteva sul suo volto (cf 7,55s), proprio co­me Mosè che discendendo dal monte Sinai aveva il volto splendente (cf Es 34,29-35 e 2 Cor 3,7-18). Questo rapporto tipologico (il tipo è Mosè, l'antiti­po è Stefano) si rivela perciò come il metodo esegetico fondamentale per in­terpretare non solo il discorso di Stefano, ma tutta la sua storia. La sua perso­na, prima ancora che le sue parole, richiede di essere valutata al di là della sua consistenza storico-esistenziale per relazionarla ad una realtà superiore (un mistero) a fronte della quale Stefano si pone come segno, come simbolo e come rimando.

La dinamica del discorso

Alla luce delle osservazioni fatte è possibile definire il genere letterario de discorso di Stefano? Ci sono elementi sufficientemente chiari per caratteriz­zarlo in modo inequivocabile? La risposta a questi interrogativi la vogliamo chiedere solo al testo, così come Luca l'ha scritto e tramandato.

A prima vista, considerando l'incipit, del discorso, sembrerebbe che quella Stefano sia una espressione piana e lineare delle principali vicende storiche Israele, per se stesse interessanti e significative: «fratelli e padri, ascoltatemi!» (7,2). I due vocativi non lasciano trasparire alcuna vis polemica. Ma le cose non stanno proprio così. Per sapere se c'è un filo rosso all'interno di queste memorie, un filo che le collega fra di loro e le orienta verso uno sbocco fina­le, occorre analizzare attentamente il discorso che Stefano avrebbe proclama­to pochi istanti prima di subire il martirio. Dico «avrebbe proclamato», non per negare il fatto storico, ma per alludere al genere letterario adottato da Lu­ca e che non è lecito passare sotto silenzio. È un genere ben noto alla lettera­tura antica, sia profana che sacra. Per quanto attiene la Bibbia basti ricordar il discorso di Mosè prima della sua morte (cf Dt 33,1-34,12) o i cosiddetti ­discorsi di addio di Gesù (cf Gv 13-17) e il discorso di commiato di Paolo agli anziani di Efeso (cf At 20,17-38).

Particolarmente illuminante e istruttivo risulta il discorso della madre dei set­te fratelli Maccabei con il quale ella esorta i suoi figli ad affrontare con fede e con coraggio la prova del martirio (cf 2 Mac 7,20-29). Una vera e propria madre-coraggio, la cui fede si traduce in lucida chiaroveggenza e si comuni­ca ai figli in termini di coraggiosa testimonianza. È questo il dettaglio degno di essere sottolineato: l'accusa di Stefano risulta particolarmente pungente ed efficace per questa luce che si sprigiona non tanto dalle sue parole, quanto dalla parola di Dio scritta, da lui riletta e interpretata. In questa luce la requi­sitoria contro Israele che ha sempre resistito allo Spirito (che parlava attra­verso Mosè e per mezzo dei profeti, cf 7,52) e contro coloro che accusano e stanno per condannare a morte Stefano e oppongono resistenza allo Spirito Santo (che parla attraverso Gesù e per mezzo di colui che stanno uccidendo), non è propriamente la requisitoria di Stefano, quanto quella di Dio. Questo discorso si pone in perfetta sintonia con quelli di molti profeti (cf Ez 33,23-­34,16; Os 2,4-15; Am 2,6-3,2): Stefano parla sorretto da un autentico spirito profetico.

Tornando all'analisi del discorso di Stefano, possiamo fare i seguenti rilievi di critica letteraria. Anzitutto: l'arco di storia considerato va dalla vocazione di Abramo (Gn 12,1ss) alla missione di Salomone (1 Re 6,1-14). Ciò che risulta evidente fin dall'inizio è che Stefano va considerando alcuni momenti crucia­li della storia del popolo eletto. Elenchiamoli:

a) Il Dio della gloria chiama Abramo e gli ordina di andare verso la terra, ma non gli dà alcuna proprietà in quel paese; gli promette di darlo in possesso al­la sua discendenza dopo di lui, ma questa sarà pellegrina in terra straniera (7,2-7).

b) Anche Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe, per gelosia è venduto dai fratelli e va schiavo in Egitto, terra-granaio ma pur sempre terra straniera, do­ve si reca lo stesso Giacobbe (7,8-16).

c) L'Egitto costituisce ancora un teatro della vicenda di Mosè (7,17-29) e non è più solo paese straniero, ma anche terra di persecuzione e di afflizione. 

d) Mosè dà inizio alla sua missione liberatrice: egli porta la salvezza (v. 25), è capo e liberatore (v. 35), opera segni e prodigi (v. 36), è posto tra Dio e gli uomini (v. 38) ma essi non compresero (v. 25), gli contestano ogni superiorità (v. 27); Mosè è costretto a fuggire in un'altra terra straniera, a Madian (v. 29).

e) Finalmente inizia la missione liberatrice di Mosè (7,30-43) con la teofania del roveto ardente e l'investitura da parte di JHWH (v. 34), e si delinea la frui­zione della terra promessa al termine dei quarant'anni passati nel deserto (v. 36), ma «i nostri padri - continua Stefano - non vollero dargli ascolto, lo respinsero e si volsero in cuor loro verso l'Egitto» (v. 39). La terra rimane promessa: il popolo eletto preferisce l'Egitto con le sue idolatrie.

f) Posto di fronte alla scelta idolatrica di Israele JHWH «si ritrasse da loro e li abbandonò al culto dell'esercito del cielo» (v. 42), ed ecco che per loro, se­condo la parola del profeta Amos, si delinea la deportazione al di là di Babi­lonia (v. 43): l'avventura del popolo eletto - per una terra tutta sua, nella qua­le scorre latte e miele - continua in terre straniere, luogo di solitudine e di af­flizione.

g) Dopo l'amara esperienza dell'Egitto e la prospettiva della Babilonia, ecco il periodo storico del deserto: nella sua continua itineranza Israele si costrui­sce «la tenda della testimonianza» come segno della presenza di JHWH che protegge e difende il suo popolo (v. 44). Ma non poterono stabilirla in un luo­go: «se la portarono con sé nella conquista dei popoli», cioè di battaglia in battaglia, ancora lontani dalla pace (shalom), frutto della piena comunione con il Signore.

h) Tutto questo fino ai tempi di Davide e di Salomone: il primo «domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe», mentre il secondo «gli edi­ficò una casa» (vv. 45-47). Ma - aggiunge subito Stefano - «l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48) e a conferma della sua af­fermazione riporta la profezia di Is 66,1-2.

Abbiamo messo a fuoco ben otto momenti cruciali della storia di Israele, tut­ti caratterizzati dalla stessa problematica: Israele è scelto come popolo per una terra, la terra promessa; egli è il felice destinatario di questa te scelta dal suo Dio; ne è il titolare, potremmo dire. Ma la sua storia si snoda terre straniere: è un destino ben strano, quello di Israele, ma induce a pensare per comprendere, a riflettere per accettare il disegno divino soggiacente Parimenti Israele ha sempre desiderato un luogo, una città nella quale elevare una casa per JHWH: sintomatica, a questo proposito, la variante di 7,7 dove citando Gn 15,13-14 al posto di «mi adoreranno su questa montagna», Stefano dice «in questo luogo», cioè Gerusalemme e il tempio. Ma, come abbiamo già rilevato, alla fine Stefano affermerà solennemente che Dio «non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo» (7,48).

Rileviamo ora altro dato letterario. Il fatto che la parte centrale del discorso Stefano - che è anche la sezione più articolata - sia dedicata alla figura e al­la missione di Mosè fa nascere un sospetto, che vale la pena di coltivare. Il sospetto consiste in questo: Stefano non ha forse privilegiato questo periodo della storia di Israele proprio per la sua estrema drammaticità, che è contras­segnata dalla schiavitù dell'Egitto, dalla persecuzione del Faraone e dall'ido­latria? Certo vi si inseriscono anche la grande liberazione, l'epopea dell'eso­do e il dono della rivelazione, ma il dramma rimane in tutto il suo spessore. Innegabilmente vi è un dramma nel grande dramma: ed è l'ostinazione di Israele a non comprendere, la resistenza di Israele alla vera conversione a Dio, il rifiuto di Israele all'ascolto della parola di Mosè, quindi, all' acco­glienza della parola di Dio.

A ben considerare, si evidenzia un duplice contrasto nel corso della vicenda di Mosè: da un lato, la vocazione e la missione di Mosè e il primo «ma»: «m essi non compresero» (v. 25); dall'altro l'inizio dell'azione liberatrice di Mo­sè e il secondo «ma»: «Ma i nostri padri non vollero dargli ascolto, lo respin­sero ... » (v. 39).

Alla fine emerge un altro grande contrasto, di segno opposto: sono i padri Davide e Salomone a realizzare il progetto di dare una casa a JHWH, «ma l'Altissimo - dichiara Stefano con pari fermezza e chiarezza - non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48). Su questi grandi contrasti, che rag­giungono il loro climax nell'ultimo, sta ancorata la requisitoria di Stefano, la quale pertanto desume tutta la sua validità e la sua forza da una rilettura teologico-sapienziale dell'Antico Testamento.

Con le ultime battute del discorso (7,51.53), se mai ce ne fosse bisogno, l'in­tenzione di Stefano si manifesta ancor più chiaramente. Egli denuncia nei suoi avversari una duplice malattia spirituale: la sclerocardia e la otoporosi. Infatti essi hanno il cuore insensibile e gli orecchi sordi. (3) Fuori metafora, gli accusatori di Stefano, in perfetta linea con i loro padri, stanno opponendo re­sistenza allo Spirito Santo per l'ennesima volta. Essi non resistono a Stefano, ma allo Spirito Santo: sta qui il loro vero dramma, tanto più grave quanto meno essi se ne avvedono.

«Come i vostri padri, così anche voi»: in questa espressione, così brachilogi­ca ed icastica, c'è tutta la vis polemica del discorso di Stefano; in essa co­gliamo pure l'epilogo drastico e inappellabile della sua rilettura biblica. Ste­fano, in altri termini, ci invita a considerare come nella Bibbia alla historia salutis si intrecci sempre anche una historia peccati. Egli ci offre una sicura chiave ermeneutica di tutto ciò che nella Bibbia sta scritto per la nostra istruzione (cf Rm 15,4), per ammonimento nostro (cf 1 Cor 10,11), essendo stata ispirata «per insegnare convincere, correggere e formare alla giustizia» (2 Tm 3,16). Stefano ci offre un metodo serio e applicato per mettere in atto una lec­tio divina che non si limiti ad essere un esercizio accademico o una ricerca astratta, ma che porti decisamente all'actio, cioè al discernimento fattivo e al­la conversione.

È già questa una pista di ricerca per l'attualizzazione del messaggio che si sprigiona dal discorso di Stefano: non basta infatti l'avere ricevuto la legge, sia pure per mano degli angeli (v. 53); occorre osservarla. (4)

A questo punto è più che evidente il genere letterario del discorso di Stefa­no: si tratta di una diatriba serrata e costringente, nella quale Stefano impe­gna non il suo ingegno personale o la sua capacità strategica. Si tratta di una requisitoria puntuale e motivata, nella quale Stefano esprime non un parere personale o una motivazione razionale, ma l'insegnamento costante e pe­rennemente valido della parola profetica. Si tratta, a ben considerare, di una lunga e amara lamentazione, nella quale Stefano dà sfogo non ad una sua valutazione, ma all'amarezza di Dio. Si tratta dunque di un caloroso e vi­goroso appello - anche se realisticamente non si può pensare che Stefano avrebbe potuto sfuggire al loro proposito omicida -, nel quale Stefano non esprime una sua previsione sullo sviluppo della vicenda, ma l'invito di Dio stesso.

Una morte pasquale

Nella morte di una persona si manifesta sempre la sua verità, come spesso l'esistenza terrena ne cela il valore profondo. Se questo è vero di noi, lo è an­che - e a maggiore ragione - di Stefano. Non solo la morte di lui, come di ogni martire, è il suo vero dies natalis, ma sulla scia di Gesù - che per Luca è il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46) - è anche il suo dies paschalis. Ecco gli elementi che caratterizzano la morte di Stefano:

- «Fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù alla sua destra» (v. 55s): vedere la gloria non è altro che entrare in comunione definitiva con Dio. Ciò significa che il morire per Stefano coincide con il suo entrare nella vita che non ha termine. Il martire raggiunge la meta tanto desiderata. Vedere Gesù, il Figlio dell'uomo, che sta alla destra di Dio non è solo una professione di fede nella divinità di Gesù di Nazaret, ma è anche espressione di speranza che già si realizza nell'incontro con il Salvatore. Il martirio acco­muna i due - Gesù e Stefano - nella condivisione della gloria di Dio. Il Padre.

- «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (v. 59): come Gesù morì in un gesto di totale abbandono al Padre (cf Lc 23,46), così Stefano muore affidandosi to­talmente a Gesù il Signore. In questa descrizione lucana della morte di Stefa­no possiamo rilevare non solo una chiara volontà di presentare il primo mar­tirio come imitazione della morte di Gesù, ma anche quella di caratterizzare il martirio come il momento dell'incontro definitivo tra il discepolo e il Mae­stro, tra il servo e il Signore, tra il salvato e il Salvatore. Qui fa capolino la di­mensione mistica del martirio.

- «Signore, non imputare loro questo peccato» (v. 60): come Gesù morendo ha invocato perdono dal Padre per i suoi persecutori (cf Lc 23,34), così Stefano muore chiedendo a Gesù, il Signore, di non considerare il peccato che i suoi avversari stanno per commettere. Ancora una volta, Luca non intende solo ribadire il fatto che la morte di Stefano si realizza sul modello della mor­te di Gesù, ma vuole esprimere anche il fatto della partecipazione del primo martire all'opera redentrice del Salvatore. Il perdono è la via ordinaria per es­sere riammessi alla condivisione del dono che è la salvezza: chi muore per­donando dimostra di essere martire in pienezza e con questa preghiera mani­festa di essere in piena sintonia - sarebbe meglio dire sim-patia - con il suo Signore.

Una morte come quella che abbiamo or ora considerato costituisce, forse, il miglior commento al discorso di Stefano che abbiamo precedentemente ana­lizzato.

Alcuni rilievi conclusivi

Ci sono alcune perle, in questo discorso lungo e apparentemente anodino, che vorrei cogliere e proporre alla comune attenzione: serviranno ad apprezzare l'arte - ad un tempo narrativa e discorsiva - di Luca e quindi a valorizzare l'opera.

a) Anzitutto il chiaro nesso tra diaconia e martyria, tra servizio e martirio: non c'è dubbio che Luca ha valuto affidare alla comunità cristiana primitiva un chiaro messaggio e lo ha fatto presentando Stefano come il modello di questa armoniosa sintesi. Chi si mette alla scuola del Vangelo e vuole perse­verare in essa, sa che non è possibile separare martirio e servizio: ogni mini­stero, se è concepito nel suo profondo dinamismo pasquale come espressione del sacrificio gradito a Dio, è, a suo modo, martirio quotidiano, trasmette una testimonianza forte ed efficace. Chi è fedele a questa spiritualità diaconale viene sempre più assimilato a Cristo Gesù, il servo per eccellenza (cf Lc 22,27) e il martire per antonomasia (cf Ap 1,5) e comprende di essere chia­mato non ad essere servito, ma a servire (cf Mt 20,28), non a sistemarsi nella Chiesa, ma ad essere inviato.

b) In secondo luogo il rapporto tra istituzione ed avvenimento, un rapporto che illumina anche la nostra storia. È ricorrente infatti la tentazione di fissare in un certo tempo e in un certo luogo un messaggio di liberazione che di sua natura supera ogni epoca ed ogni territorio. È assai diffuso il pericolo di vo­ler privatizzare un dono che di sua natura è di destinazione universale. Stefa­no si sente investito di questo compito: dilatare gli spazi della carità rompen­do i vincoli del particolarismo; agire gli orizzonti della vera fede superando le chiusure di una mentalità nazionalistica; rilanciare i tempi di Dio facendo esplodere quelli degli uomini. Ogni volta che fissiamo una istituzione sia pure religiosa, sottraendola al di­namismo della storia della salvezza e piegando la alle nostre miopie persona­li - Dio non voglia alle nostre logiche di occupazione e di estromissione - noi ci opponiamo al metodo pedagogico divino, noi mortifichiamo l'avvenimen­to e lo condizioniamo alle nostre strategie umane, noi pretendiamo di ferma­re la storia e finiamo col resistere allo Spirito di Dio, che è sorgente e dono di libertà, pagata a prezzo di sangue.

c) Viene poi la relazione tra evangelizzazione e polemica: il discorso di Ste­fano sta a dimostrare che c'è modo e modo di fare polemica, di entrare in po­lemica con qualcuno. C'è infatti una polemica - non solo verbale - che tende all'autodifesa e questa, ancorché legittima, non ha alcuna funzione sociale, non serve alla crescita della comunità. C'è anche una polemica - non solo in­dividuale - che tende all'affermazione di un principio o al recupero dell'ono­re e questa, pur essa legittima e doverosa, non sempre ha una ricaduta eccle­siale. Ma c'è anche una polemica che tende alla difesa della verità e come ta­le supera ogni orizzonte egoistico, e si pone - costi quello che costi - a servi­zio, degli altri, perché a tutti sia possibile vedere e giudicare, fino a discerne­re il vero dal falso, il bene dal male. Se è necessario - cioè se, come nel ca­so di Stefano, le circostanze lo impongono - la polemica si rivolge diretta­mente agli interlocutori allo scopo non di umiliare o di separare, ma solo per risvegliare la coscienza di fronte alla novità di Cristo e quindi per sollecitare alla conversione. Allora la polemica si trasforma in testimonianza la quale sulla scia di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5), può implicare un vero e proprio martirio, fino al­la effusione del sangue. (5)

d) Infine torna conto riflettere sul rapporto tra Stefano e Saulo (cf At 8,1-4; 22,4; 26,9-11): non c'è alcun dubbio che la conversione di Saulo (At 9,lss) sta in relazione con il martirio di Stefano, dato che egli stesso - quando sta per difendersi di fronte ai tribunali pagani - fa esplicito riferimento alla furia con la quale egli perseguitava la Chiesa e suoi rappresentanti. Si inaugura così una catena di testimoni di Cristo, nella luce della Pasqua e della pentecoste: veramente il sangue dei martiri diventa seme di cristiani. La Chiesa nasce an­che in grazia del sangue dei testimoni di Cristo: il sangue di Stefano, insieme a quello di Cristo (cf Lc 22,44), provoca la conversione di Saulo che si perfe­zionerà essa pure con la grazia del martirio (cf At 20,22): «Alzati e mettiti in piedi - gli disse il Signore nel momento della sua conversione -; io ti sono apparso per costituirti ministro e testimone (martyr) di quelle cose che hai vi­sto di me e di quelle per cui ti apparirò» (At 26,15).

Note

1) Stefano la qualificherà come «parole di vita» al v. 38.
2) «Secondo Luca - si legge nel commento della TOB -, a differenza di At 11,12, Giovanni il Battista appartiene ancora all'AT. È un tempo ormai finito».

3) Ricordiamo, en passant, che anche Gesù aveva rivolto ai suoi avversari l'accusa della scle­rocardia e ai suoi discepoli quella della cardioporosi (cf Mt 19,8 e Mc 6,52; 8,17).

4) Proprio come - secondo l'insistenza tipicamente lucana - aveva affermato Gesù: «II seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfet­to, lo custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). E subito dopo, di rincalzo: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21; cf anche 11,28).
5) In questa luce, At 20,28 può essere tradotto così: «Lo Spirito Santo vi ha costituito come ve­scovi per essere pastori della Chiesa di Dio, che egli si è acquistato con il sangue del suo fi­glio».

(da Parole di vita, 2, 1998)



Pubblicato in Bibbia
Mercoledì, 19 Marzo 2008 00:39

L’origine della pasqua (Giuseppe Dell’Orto)

La Pasqua, festa centrale per Israele, ha un divenire storico assai complesso e in vari punti ancora oscuro. Ciò è dovuto alle varie santificazioni che si sono sovrapposte lungo i secoli.

Pubblicato in Bibbia
Mercoledì, 19 Marzo 2008 00:26

La Passione nei quattro Vangeli (Michel Berder)

La Passione nei quattro Vangeli

di Michel Berder

 

 

 

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù. Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli, la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21). Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca.

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca, la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo.

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

* Professore al Seminario interdiocesano di Vannes e al SIET di Bretagne-Mayenne

(da Il mondo della Bibbia, n. 32)

Pubblicato in Bibbia
Mercoledì, 12 Marzo 2008 00:42

Teologia dell'Antico Testamento. 1. Introduzione

A proposito dell’Antico Testamento è normale che ci si chieda se, nella varietà del suo formarsi per una lunga serie di secoli e attraverso situazioni storiche, politiche e sociali quanto mai diverse, esso conservi – e come – una sua unità.

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Paolo e Gesù: una stessa religione?

di Michel Quesnel

Paolo sarebbe il vero fondatore del cristianesimo? La domanda è provocatoria, ma non sciocca, e neppure nuova. Molti storici delle origini cristiane l’hanno posta da un secolo e mezzo, e continua ad esserlo da autori contemporanei.

Come tutte le parole in «esimo» il termine «cristianesimo» suggerisce un sistema, ovvero un'ideologia di cui Paolo sarebbe il padre, più di Gesù. Sulla base della testimonianza evangelica, si concorda in realtà nel riconoscere in quest’ultima un pensiero spoglio di qualsiasi ambizione sistematica, il che non è certo il caso dì Paolo, che molti considerano il più grande teologo del I secolo. Vuol dire che Gesù non era teologo? Indipendentemente da ogni questione cronologica, lo scarto che separa Gesù da Paolo è considerevole. Molte cose oppongono i due uomini. Se Paolo sì riferisce costantemente a colui che considera il suo Signore, lo fa in termini che non consentono di riconoscere spontaneamente il profeta itinerante di Galilea quale lo presentano i vangeli. Questo porta a domandarsi in quale misura egli si collega alla tradizione di cui Gesù è la fonte e se la religione dei due si può sovrapporre. Effettivamente, la filiazione che va dall'uno all’altro, se esiste, passa attraverso giri tortuosi. È bene precisare in quale misura Paolo riprenda la tradizione che deriva da Gesù, e ricostruire, per quanto possibile, l'itinerario che condusse l'apostolo a riformulare il messaggio di colui che, a suo dire, gli ha affidato la missione.

Quale immagine paolina di Gesù?

Le differenze tra la persona di Gesù rappresentata nei vangeli e il Figlio di Dio cui si riferisce Paolo nelle sue lettere saltano agli occhi. Numerosi storici e teologi del XIX secolo, appartenenti alla corrente del Protestantesimo liberale, le hanno ampiamente sottolineate: la persona di Gesù secondo Paolo è talmente divina che le rimane ben poco di umano. Alfred Loisy, simbolo del pensiero modernista nel cattolicesimo francese, scriveva nel 1914: «Il Gesù al quale Paolo si è convertito non è il predicatore del Regno di Dio». Con presupposti diversi ma conclusioni abbastanza simili sui rapporti tra Gesù e la prima generazione cristiana, Rudolf Bultmann poneva, nel suo Gesù pubblicato nel 1926, una opposizione famosa in il Cristo della fede, in altri termini detto il Risorto, divenuto oggetto della predicazione della Chiesa primitiva e il Gesù della storia, profeta e predicatore itinerante del Regno di Dio, la cui vita terrestre va interamente collocata nella sfera del giudaismo. È raro che Paolo designi Gesù col suo solo nome. Più generalmente usa per nominarlo un titolo composto: «Gesù Cristo», o «il Signore Gesù Cristo». Il nome stesso rimane spesso nella penna per lasciare spazio ai soli titoli «Cristo» e «Signore» che sono sufficienti per indicare il riferimento a Cristo nel discorso. Perché proprio di discorso si tratta in Paolo, un discorso di cui Gesù è il centro, ma costruito su concetti filosofici e teologici ispirati al mondo greco, estranei alla predicazione storica di Gesù e molto spesso assenti dai testi evangelici. È stato inoltre sottolineato da lungo tempo che le allusioni fatte da Paolo alla vita terrena di Gesù sono assai scarse. Solo il racconto della Cena (1 Cor 11,23-25) e il ricordo di alcuni comandamenti risalenti al Signore (ad esempio 1 Cor 7.10-11; 9,14) possono essere incisi in parallelo con avvenimenti o parole evangeliche precedenti la Passione. Il resto è molto generico. Si può sapere da Paolo che Gesù è «nato da donna e sottomesso alla Legge» (Gal 4,4), «disceso secondo la carne dalla stirpe di Davide» (Rm 1,3), e che tutto si concluse con la sua morte sulla croce. Ma nelle lettere paoline non si trova alcuna allusione ai miracoli, alle parabole o a tanti altri episodi della vita di Gesù. Grazie alla penna di Paolo entrano nel pensiero cristiano numerosi concetti entrati in seguito nel vocabolario teologico della Chiesa: redenzione, giustificazione, coscienza, libertà: queste parole abbondano nelle lettere paoline mentre si cercherebbero invano nei vangeli. È a partire da queste, o da altre parole simili che si è formulato il dogma cristiano. Esse sono diventate le pietre di un discorso coerente che si elaborò progressivamente nel corso dei primi secoli e che primi concili consacrarono nel corso di dibattiti spesso accesi.

Ora l'idea stessa di strutturare la fede attraverso il dogma è estranea al giudaismo che non possiede nè corpo né dottrine nè magistero, e Gesù non sembra averne avuto il progetto. Numerosi maestri ebrei ritengono che l'elaborazione in un dogma sia un tradimento al procedimento della Bibbia. Il loro insegnamento fatto di richiami all'intervento di Dio nella storia di haggada (racconto di esempi edificanti) e di halakha (riflessioni sul come osservare i precetti), appartiene ad un altro modo di procedere. Si comprende come Paolo, padre della teologia dogmatica cristiana, sia allora particolarmente malvisto nel giudaismo, mentre Gesù è spesso considerato in modo nettamente più benevolo. Vi è inoltre un punto sul quale Paolo prende grande distanza rispetto al giudaismo e nello stesso tempo rispetto a Gesù, e che rende la sua posizione particolarmente critica agli occhi degli ebrei, e cioè l'osservanza dei comandamenti della Torà. Paolo dichiara che essa non ha più ragion d'essere. Gesù, certo, aveva criticato l'interpretazione formalista della Legge fatta da alcuni maestri del suo tempo, ma non vi si è mai sottratto: Paolo,. al contrario, su questo punto è molto radicale.

Dal maestro al discepolo

Le differenze che si sono appena rilevate possono spiegarsi in diversi modi. La prima spiegazione è semplicemente cronologica. La missione terrena di Gesù si svolse negli anni 27-30 della nostra era. La più antica lettera di Paolo, che è anche lo scritto più antico di tutto il Nuovo Testamento, è generalmente datata all'anno 50. Quanto ai vangeli, il primo redatto nella sua forma canonica è probabilmente quello di Marco, che la maggior parte dei biblisti data all'incirca all’anno 70. Vent'anni separano la vita di Gesù dalla scrittura delle lettere di Paolo, e bisogna ancora attendere altri venti anni per giungere alla redazione da un vangelo conosciuto. Paolo è il primo testimone delle redazioni che risalgono a Gesù. Ma queste non sono conoscibili in forma di racconto che attraverso scritti che sono loro posteriori. Questa situazione di intreccio temporale implica che alcune originalità di pensiero che il lettore sarebbe tentato di attribuire a Paolo possono essere dovute ad altri. Paolo forse non è l'inventore dei termine «giustificazione» e «redenzione» che si trovano per la prima volta in un testo di cui egli è il firmatario. Egli stesso può averli ripresi da tradizioni anteriori, inconoscibili perché non hanno lasciato tracce scritte. Bisogna in realtà guardarsi dal confondere le parole attribuite a Gesù nei vangeli con le sue ipsissima verba. Farlo sarebbe dimenticare che gli evangelisti sono, proprio come Paolo, teologi, e che danno di Gesù un ritratto condizionato dal loro proprio progetto pedagogico, storico e teologico.

Un’altra spiegazione delle differenze rilevate tra le lettere di Paolo e i vangeli deriva dal fatto che si tratta di opere appartenenti a generi letterari diversi: i vangeli sono teologia sotto forma di racconto, mentre Paolo scrive di teologia in forma epistolare. Là dove Paolo parla di «redenzione» Marco e Matteo scrivono: «Il Figlio dell'uomo è venuto a dare la sua vita per la salvezza di molti» (Mc 10,45; Mt 20,28). I termini sono diversi, ma il concetto teologico è lo stesso. Ad ogni i forma letteraria corrisponde un tipo di lessico. Confrontare il pensiero di Paolo con quello di Gesù limitandosi ad accostare parola a parola sarebbe dunque un cattivo metodo per un duplice motivo. Il primo è che un tale procedimento potrebbe con fondere arbitrariamente le formule evangeliche con quelle di Gesù stesso. Il secondo consisterebbe nel non tenere conto della differenza di forma tra i due tipi di opera letteraria.

A leggere Paolo da vicino, ci si rende conto che egli valorizza un buon numero di tradizioni risalenti a Gesù di cui tengono conto anche gli evangelisti. Si è già citata l'ultima Cena così come i loghia sul divorzio e la mercede dei missionari. Si possono aggiungere le parole sulla seconda venuta, il puro e l'impuro, l'uso del termine Abba per rivolgersi a Dio, parecchi insegnamenti etici e sul Regno, le critiche rivolte ai capi religiosi di Gerusalemme, le parole sul primo dei comandamenti, l'accoglienza dei piccoli e dei poveri, il perdono ai peccatori...

Un itinerario originale

Gesù non aveva, o quasi, lasciato la terra ebraica, Paolo, al contrario, fu martirizzato a Roma dopo avere solcato terre e mari. Il modo di vivere condiziona il pensiero, ed è dunque normale che i due uomini non abbiano detto le stesse cose, e questo tanto più perché uno è scrittore, l'altro no. Si tratta allora di una differenza essenziale e persino, come è stato preteso, di un'infedeltà?

L’originalità del pensiero paolino rispetto a quello di Gesù può essere compresa a partire dall'itinerario dell'apostolo, dalle sue origini sino alla morte. Esso comporta numerose rotture, delle fasi, si potrebbe dire, per riprendere un termine di moda. Se non se ne tiene conto, si rischia di non comprendere la relazione tra Paolo e Gesù, e neppure il pensiero di Paolo stesso. Mentre Gesù era galileo, provincia ebraica aperta alle influenze esterne, ma facente parte del territorio ebraico, Paolo è un ebreo della diaspora, nato a Tarso in Cilicia. Che abbia fatto o no studi a Gerusalemme - la questione è controversa - il greco era la sua lingua materna, e la Bibbia di cui si è alimentata la sua fede di bambino e poi di adolescente è la Settanta. L'uomo è alla frontiera delle due culture, l'ebraica e la greca. Forse aveva letto Filone, il celebre filosofo alessandrino; è certo, in ogni caso. che aveva una formazione intellettuale di buon livello. Probabilmente si recò più volte a Gerusalemme in pellegrinaggio durante l'infanzia, ma vi sono ottime probabilità che non vi abbia mai incontrato Gesù che, da parte sua, non vi soggiornava che periodicamente. La sua prima relazione con Gesù, lo confessa nelle sue lettere, fu di perseguitarne i discepoli (Gal 1,13.23). É impossibile conoscere con certezza il motivo di questa persecuzione, ma le poche righe autobiografiche della lettera ai Galati permettono di supporre che le libertà che la giovane Chiesa si prendeva riguardo la Legge ebraica, di cui Paolo era un rigoroso zelante, non erano prive di peso (Gal 1,14).

La grande svolta della sua vita è la via di Damasco. Là egli vide il Signore Gesù (1 Cor 9,1) e, situazione del tutto eccezionale, egli fece di questa visione l'ultima manifestazione del Risorto (1 Cor 15,8). Ultimo della lista dei beneficiari delle apparizioni, egli si designa come l'ektrôma, termine greco mal reso dalla parola italiana «aborto» e che più precisantente significa «figlio non vitale di una madre morta di parto». È dunque proprio l'ultimo, molto dopo tutti gli altri, e dopo di lui non ce ne saranno più: la matrice è come spezzata. È una situazione eccezionale, egli ne è ben consapevole. Che egli abbia agli inizi trovato del sospetto da parte degli altri apostoli è del tutto normale.

predicatore della Risurrezione in Arabia Petrea dove rimase tre anni (Gal 1,17-18), poi, dopo una breve visita a Gerusalemme dove incontrò alcuni apostoli (Gal 1,18-19), ripartì spontaneamente verso nord in direzione della sua terra natale, stabilendosi principalmente ad Antiochia e a Tarso.

Nella diffusione del vangelo, Antiochia è un punto cardine. Là, secondo Luca, storicamente debole su questo punto, i missionari osarono indirizzarsi per la prima volta a Greci (non ebrei), al punto che fu necessario inventare un nome per designare questo gruppo religioso di nuovo genere: i christianoi, o «cristiani» (At 11,26). In una lista arcaica di cinque «profeti e discepoli» legati alla Chiesa di Antiochia ritrascritta dagli Atti degli Apostoli, Barnaba è nominato per primo, Paolo per ultimo (At 13,1). È ancora un responsabile di secondo rango, ma la sua prospettiva si confonde con quella della Chiesa di Antiochia nel suo insieme: la Buona Novella della Risurrezione di Gesù è talmente importante per l'insieme del mondo abitato che vale la pena che sia predicata a dei Greci. Questo non può che creare delle difficoltà di coabitazione tra cristiani ebrei, osservanti da sempre la Torà, e cristiani di origine pagana, ma è meglio affrontarle che limitare la predicazione ai soli ebrei. Arrivati a questo punto dell'evoluzione di Paolo, ci si rende conto che è stata superata una distanza considerevole rispetto al modo di agire di Gesù, che non aveva incontrato Greci e Romani che in modo occasionale, all'interno del territorio ebraici. Essa è stata superata non da un uomo, ma da un gruppo, di cui Paolo fa parte, e di cui non è il capofila. L’evoluzione avvenuta dopo la Pentecoste e, a maggior ragione, dopo Gesù, è considerevole. Non accettarla, avrebbe limitato la diffusione del vangelo al mando ebraico, contesto che una parte significativa dei missionari considerava come troppo ristretto, rispetta a ciò che rappresentava nel disegno universale di Dio.

La logica missionaria

La logica missionaria praticata ad Antiochia implicava che non ci si limitasse alla provincia romana di Siria. Bisognava estendere la diffusione nell'insieme del mondo allora conosciuto, il mondo mediterraneo. Incaricati di Antiochia, Barnaba e Paolo partirono per Cipro, patria in Barnaba, la Panfilia e la Cilicia. Il capo della missione era, nulla di più normale, Barnaba. All'inizio del primo viaggio missionario di Paolo, Barnaba è sempre nominato per primo (At 13,2.4). Si poneva nel frattempo una nuova questione, che fu all'origine di una nuova rottura: di predicare il vangelo ai Greci, tutti gli Antiocheni sembravano condividerlo. Ma come farli vivere una volta convertiti? Bisognava integrarli nella Chiesa ebrea, cosa che comportava di far loro rispettare la Torà con le sue regole alimentari e la circoncisione? Mai un Greco avrebbe accettato questo di buon grado. Si poteva ammettere che la fede in Gesù era l’unica esigenza necessaria alla salvezza e che i cristiani di origine pagana non dovevano essere sottomessi alla legge? Dibattuto ad Antiochia e a Gerusalemme, questo problema era così vivo che un vero accordo non fu trovato, malgrado il racconto accomodante che Luca fa dell'Assemblea di Gerusalemme (At 15,1-35). Ad Antiochia, Paolo si urtò così persone del seguito di Giacomo, sostenitori dell'imposizione dei comandamenti della Torà a tutti (Gal 2,12), entrò in aperto conflitto con Pietro, che aveva apparentemente avuto difficoltà a collocarsi tra due posizioni estreme (Gal 2,11-14). Egli stesso era dell'idea di andare fino in fondo alla logica missionaria che aveva colto nei primi tempi del suo soggiorno ad Antiochia: guadagnare pagani a Cristo comportava di non imporre nessuno dei precetti della Torà; che i giudeo-cristiani continuassero ad osservarli se, in coscienza, non potevano fare diversamente (Rm 14); ma la Legge non era per loro di alcuna utilità in ordine alla salvezza.

Tale è la posizione cui giunse Paolo, che la espresse con chiarezza nella lettera ai Romani dopo averne gettato le fondamenta nella lettera ai Galati. Così facendo, egli creò davvero un'opera originale e si trovò abbastanza isolato nella Chiesa, seguito soltanto da alcuni discepoli che aveva egli stesso formato. Egli aveva lasciato molto indietro la Chiesa di Antiochia. Così, quando si recò ad Antiochia per l'ultima volta (At 18,23), si comprende che non poté farvi che un soggiorno breve. La Chiesa locale preferiva in realtà non offrire l'ospitalità troppo a lungo a questo personaggio ingombrante che là dove passava seminava zizzania. Essa non gli diede più incarichi. Egli partì rapidamente per il suo terzo viaggio missionario, probabilmente con sollievo di parecchi.

Verso una predicazione universale

Per diverse ragioni tra cui non ultima la presa di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70, col conseguente indebolimento del giudeo-cristianesimo, la storia darà ragione a Paolo. Non senza difficoltà e rotture. Il più grave danno che ne derivò fu che il cristianesimo perse in parte le sue radici ebraiche. Ma prese una dimensione universale che né il conservatorismo di Giacomo, né la posizione più moderata di Pietro avrebbero potuto assicurargli.

Così si spiegano in gran parte le differenze tra Paolo e Gesù, specialmente se si parla dell’ultimo Paolo, l'autore delle grandi epistole. In ogni modo, essi non avevano affatto la stessa religione. La religione di Gesù era incontestabilmente il giudaismo. Quella di Paolo si evolse; ebreo di origine, ebreo rimase. Ma il suo itinerario si confonde con i passi che fece il ramo cristiano del giudaismo per costituirsi progressivamente in una religione nuova ben presto chiamata cristiana. E gli ultimi cristiani che egli portò a Gesù furono dispensati dall'applicare la legge e pur considerando l'Antico Testamento come fondamento della loro fede.

Dire se una tale evoluzione è un tradimento del messaggio di Gesù o se, al contrario, essa è la via della vera fedeltà non riguarda la competenza dello storico. Esistono fedeltà allo spirito che prendono le loro distanze dalla lettera: «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 Cor 3,6). In questo versetto c'è una chiave di volta per la comprensione sia della sua persona sia del suo pensiero.

* Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, 53)

Pubblicato in Bibbia
Paolo e la creazione di un mondo nuovo

di François Vouga *




L’attualità dell’apostolo Paolo è paradossale. L’occidente cristiano non finisce mai di regolare i suoi conti con colui che tuttavia considera come suo fondatore. La lettura stessa delle sue lettere è stata utilizzata fino al fraintendimento delle vere intenzioni di Paolo. Al punto che i valori in nome dei quali talora lo si rifiuta, sono proprio quelli che egli stesso ha introdotto nel pensiero religioso, filosofico, politico e sociale dell’occidente. Paolo crea nella storia la possibilità di una predicazione universale e inventa un concetto moderno dell’io, soggetto libero e responsabile, in una società aperta, universalista e pluralista.

Nella discussione che intraprende circa le tesi di Louis Dumont sull’individuo, Jean-Pierre Vernant si allinea a Michel Foucault per proporre una distinzione operativa tra tre termini: l’individuo, che corrisponde alla valorizzazione di singole figure nel loro contesto sociale il soggetto, che caratterizza l’individuo che si esprime in prima persona e a proprio nome, e l'io, che designa la persona consapevole della propria interiorità e della propria unità. A ciascuna di queste diverse tappe corrisponde la comparsa di un nuovo genere letterario. Alla scoperta dell'individuo, il genere della biografia, a quella del soggetto, l'autobiografia, e a quella dell'io le confessioni e i diari personali. Classicamente si associa la scoperta dell'individuo alla lirica greca e quella dell'io alle Confessioni di sant'Agostino. In realtà, essa appare già in Paolo, non solo nei racconti autobiografici (Rm 7; Gal 1-2) e nelle sue riflessioni sull’apostolato (1Cor 1-4; 2 Cor 2-7 e 10-13), ma soprattutto, e fondamentalmente, nell'elaborazione e nei presupposti della sua teologia della giustizia (Rm 1-3; Gal 1-2). Questa scoperta dell’«io» come soggetto personale e come elemento costitutivo di ogni essere umano deriva da un esperienza personale, esperienza che è una rivelazione di Dio. Dio si è rivelato a Paolo come un Dio altro e questa rivelazione fa nascere una nuova identità dell'essere umano (Gal 2,10). Il riconoscimento di un altro come di un «io», e quindi come di un «tu», si pone come fondamento per una nuova forma di società, sconosciuta al giudaismo come al mondo greco-romano, caratterizzata contemporaneamente dal suo universalismo e dal suo pluralismo. La novità di questa società non consiste, ovviamente, nè nell'universalismo, che domina il mondo ellenistico e romano, nè nel pluralismo, che è un'acquisizione tanto per l’antichità greca quanto per il giudaismo, ma nell'associazione dei due. Una nuova comprensione della persona umana, risultato di una singolare rivelazione di Dio, fonda una nuova società, universalista e pluralista.

Conservatore o progressista?

Se si rimprovera sempre a Paolo il suo conservatorismo, è soprattutto per quello che è creduto il suo atteggiamento verso le donne nelle comunità. Si dimentica allora che la famosa ingiunzione che ordina alle donne di tacere nelle assemblee (1 Cor 14,33b-36) è stata aggiunta in occasione dell'edizione delle lettere di Paolo per preparare l'insegnamento di 1 Tm 2,8, e che questa aggiunta non ha altra motivazione che di correggere le consegne che lo stesso Paolo dà in ICor 11,2-16. L'apostolo è convinto che le donne abbiano, nelle celebrazioni cristiane, gli stessi diritti e le stesse libertà degli uomini - convinzione progressista se raffrontata alla maggioranza delle chiese del XX secolo. Egli ordina loro, per questioni di pudore, di non partecipare alla liturgia a capo scoperto.

Se si rimprovera parimenti all'apostolo dì essere autoritario, è da una parte per il fatto che egli dà se stesso come esempio, e dall'altra per la determinazione con la quale organizza le sue comunità. Ma le chiese di nuova fondazione non hanno altro punto di riferimento di fede cercata e vissuta che quella del loro fondatore, e soltanto una grande capacità di discernimento teologico permette di preservarle dal conformismo, cioè dall'adeguarsi al mondo antico circostante. Il rimprovero fatto a Paolo di essere settario è dovuto in gran parte all'intransigenza che egli dimostra verso qualche suo collega. È il caso in particolare della lettera ai Galati e della seconda ai Corinzi, in cui egli rimprovera loro di annunciare un vangelo diverso da quello di Dio che lui stesso ha predicato. Ma qual era la posta del dibattito? Poiché alcuni cercavano di restaurare l'antico ordine e le linee di divisione abolite dal vangelo, lo scenario rappresentato nella lettera ai Galati come pure nella seconda lettera ai Corinzi oppone la società aperta ai suoi nemici totalitari.

La scoperta dell'io e di una società aperta

Questi rimproveri di conservatorismo, di autoritarismo e di settarismo attirano paradossalmente l’attenzione su ciò che costituisce la forza e la novità dell'apostolo. Un avvenimento imprevedibile intervenuto nella sua vita induce Paolo non solo a rinunciare di colpo a tutto ciò che costituiva, sino a quel momento, la sua convinzione fondamentale, ma anche a sviluppare una visione di Dio e della persona, diverse da quelle del giudaismo e dell'ellenismo, e a metterle in pratica nelle comunità che egli ha creato. Per Paolo, la giustizia di Dio consiste nel riconoscere ogni persona per se stessa, indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, e a suscitare in essa la consapevolezza di esistere come soggetto. Nella storia dell'occidente, ancor prima di sant'Agostino, Paolo inventa il concetto moderno dell'io, riflettendo su se stesso come individuo e soggetto responsabile della propria storia personale. Non si conosce alcun movimento missionario, nella storia della Chiesa antica, che abbia messo al lavoro così tanti collaboratori di così diversi orizzonti come la missione paolina. Paolo non lavora mai solo, ma sempre in collaborazione con partner autonomi. Collaboratori regolari, come Timoteo, associati occasionali, che hanno i loro propri progetti missionari, come Apollo (1 Cor 16,12), Prisca o Aquila. Altri ancora gli sono indirizzati o lo raggiungono per un tempo limitato o per attività particolari (come Tito, incaricato della colletta, 2 Cor 7,5-9,15).

Paolo è proprio l'inventore di quella che Karl Popper ha chiamato la «società aperta». La sua visione di Dio e della persona lo induce a fondare comunità nelle quali non ci sono più né giudeo nè greco, nè schiavo né libero, né maschio nè femmina (Gal 3,28). La vita politica e intellettuale greca forgia la sua identità prendendo le distanze dalla barbarie, mentre il giudaismo è fondato sulla certezza dell'elezione e di un'Alleanza che lo separano dai pagani. Dire che non c'è più né ebreo né greco, significa dichiarare finite le diverse forme di aggregazione di cui si servono i gruppi sociali per sottolineare la loro identità. Dire che non c’è più schiavo nè libero, significa denunciare il residuo di segregazione su cui si fonda l'ideologia universalista dell’impero romano. Dire che non c'è più uomo né donna, significa prendere le distanze dalle scuole filosofiche o dalle società locali, che ammettono solo membri maschi, ma significa anche porre in evidenza il pluralismo dell’universalismo paolino. Il fatto che non esista più distinzione fra uomo e donna non significa che non sussistano differenze: vi sono pure ebrei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne, ma tutti sono riconosciuti come persone uniche. Questo universalismo pluralista si distingue dalle differenti forme, correnti, di universalismo centralista, che escludeva le persone e i movimenti non adepti del pensiero universale, sul modello del sincretismo internazionale del mondo ellenistico. L'universalismo pluralista di Paolo distingue anche forme diverse, non meno correnti, di pluralismo segregazionista fornito dalla concezione veterotestamentaria del popolo d'Israele.

Un racconto di rottura fondante e strutturante

Paolo ha affermato l'esistenza, in ogni individuo, di una persona indipendente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, ha inventato il concetto moderno dell' «io». La verità di cui era portatore ha dato forma, nei grandi centri urbani dell'impero romano, a comunità universaliste e pluraliste. Ma di dove gli vengono queste conoscenze? L’apostolo non ha ricevuto né appreso nulla dagli uomini (Gal 1,10-12), risponde dapprima Paolo. Primia affermazione: egli non deve niente a nessuno. In particolare, egli non deve nulla alla tradizione degli apostoli e dei testimoni di Gesù, i discepoli di Galilea non hanno nulla da insegnargli e, se egli si reca a Gerusalemme dopo due anni di attività missionaria in Arabia (Ga 1,17), è soltanto per conoscere Pietro (Gal 1,18). Se egli non deve nulla ai discepoli di Galilea, non si attende neppure da loro alcuna legittimazione. Il suo evangelo non ne ha bisogno, è il vangelo di Dio. È da Dio che egli trae la sua autorità, e la verità che egli deve portare agli uomini è una rivelazione di Dio (Gal 1,10-12.l5-17). Un individuo si pone come soggetto in prima persona di fronte alla tradizione ebraica e di fronte al mondo greco. La sua vocazione, elemento fondante, è portatrice della verità del vangelo di Dio.

Ma quali sono questo avvenimento e questo incontro che sono fondamento della chiamata dell'apostolo? La lettera ai Filippesi parla di un progresso nella conoscenza e di un'acquisizione di un nuovo stato di coscienza, inaugurato dalla comprensione di Gesù (Fil 3,4-11). Secondo la lettera ai Galati, Dio ha rivelato il suo Figlio all'apostolo (Gal 1,12-16). In I Cor 9,l e 15,8, Paolo riferisce di aver visto il Risorto e che il Risorto gli si è manifestato. Il contesto autobiografico della lettera ai Galati (Gal 1,13-2,21) descrive con maggiori particolari le ripercussioni di questo evento: il persecutore della Chiesa diventa apostolo dei pagani, perché nessuno è giustificato dalle opere della Legge (Gal 1,13-14.16-17; 2,16), e le comunità di Giudea, che non lo avevano ancora mai visto e che non lo conoscevano che di fama, rendono gloria a Dio per il successo della sua missione (Gal 1,21-23). Questo racconto ci permette di cogliere dal punto di vista teologico la frattura che dà forma alla storia personale dell’apostolo. Per Paolo il fariseo, Gesù non poteva essere che un trasgressore della Legge ed un maestro eretico, condannato alla crocifissione e maledetto da Dio. Come Paolo ha conosciuto la storia di Gesù? In due modi: da un lato, i cristiani di Siria che egli perseguita quando si prendono a loro volta delle libertà nei confronti della legge ebraica si richiamano a Gesù; dall'altra, egli conosce Gesù attraverso la propaganda farisaica di cui trova l'eco nelle proposte critiche di Luca 7,33-35. Un crapulone ed un beone che mangia con i pubblicani e i peccatori. La visione o rivelazione del Risorto pone Paolo dinanzi ad un dilemma radicale: o la Legge è veramente rivelazione di Dio, come ha avuto la certezza sino a quel momento, ed è allora giusto che Gesù sia stato condannato e maledetto, oppure il crocifisso è il Figlio di Dio - o è rivelato da Dio come suo Figlio - e allora Dio non può essere il Dio della Legge. La rivelazione di Dio e l'apparizione del Risorto non pongono semplicemente Paolo dinanzi ad un'alternativa, ma Dio prende posizione e risolve il dilemma. Egli rivela il Figlio, si manifesta Padre del Crocifisso. Tutto ciò che segue deriva da questo fondamentale incontro.

La giustizia di Dio, fondamento del rispetto della persona

«Dalle opere della Legge non sarà giustificato nessuno» (Gal 2,16). Questa formulazione paolina è stata molto offuscata dalle discussioni che ha sollevato. Dapprima nella lettera di Giacomo (Gc 2,14-26), poi nei dibattiti della Riforma e della Controriforma. Tra «la giustificazione attraverso le opere della Legge» e «la giustificazione attraverso la fede in Gesù Cristo», Paolo non contrappone fede e opere, ma Gesù Cristo e Legge. E ciò che Paolo designa con «giustificazione attraverso le opere della Legge» non è né un tentativo di autogiustificazione davanti a Dio - è evidente, per un ebreo, che solo Dio giustifica - né un tentativo di meritare la propria giustificazione attraverso qualche opera o qualsivoglia merito. «Le opere della Legge», nella discussione condotta dalla letteratura, designano la circoncisione come marchio simbolico dell’identità ebraica e dell'appartenenza al popolo eletto. «Giustificato attraverso le opere della Legge» significa di conseguenza riconosciuto e considerato da Dio. Ma «giustificato attraverso la fede in Gesù Cristo» significa riconosciuto e amato da Dio in quanto persona, indipendentemente dalle sue appartenenze e dalle sue qualità. Si ama una persona per le sue qualità, o indipendentemente dalle sue qualità? Domanderà Blaise Pascal. Tale è esattamente la domanda suscitata dall'evento capitato nella vita dell'apostolo.

La Croce, proclamazione dell'uomo senza qualità

La definizione della Croce di Paolo, come manifestazione di Dio nel doppio evento della morte e della risurrezione di Gesù, trasforma il soggetto in una creatura nuova (Gal 6,13). La Croce lo autorizza e lo invita a prendere coscienza del sé e della sua identità individuale. Essa riconosce e crea la persona indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze. Ora, attraverso questa trasformazione, attraverso le distinzioni che essa opera e attraverso l'essere nuovo cui la Croce dà vita, essa fa dell'essere umano un «io» libero di cercare e di ricevere il senso della sua esistenza, capace di decidere, di scegliere il proprio Dio e di scegliere se stesso, in quanto soggetto responsabile. La morte di Gesù rivela la possibilità di questa trasformazione la cui universalità non è sottoposta a condizioni: «Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge divenendo per noi maledizione, perché è scritto [nella Legge]: “L'appeso è una maledizione di Dio” dichiara l'apostolo. Cristo è l'uomo nuovo e nostra liberazione. Egli è diventato, lasciandosi crocifiggere, l'uomo senza qualità per eccellenza. Uomo senza qualità che Dio ha risuscitato e rivelato come suo Figlio perché Dio non è un Dio che riconosce e ama l'essere umano per le sue qualità, le sue origini, le sue appartenenze o le sue lealtà. Se Dio, come Paolo ne ha fatto esperienza, non è il Dio della Legge, ma il Dio del Crocifisso, trasgressore della Legge, che mangiava con i pubblicani e i peccatori, allora la buona notizia della giustizia di Dio non è legata all'elezione e alla Legge, ma è destinata ad ogni persona che sia pronta ad intenderla e a metterla in pratica.

La fede come fiducia

Si comprende ora ciò che Paolo intenda con l’espressione ambigua «fede di Gesù Cristo» o «fede in Gesù Cristo». Non è certamente questione di reintrodurre attraverso l'espediente di una professione di fede cristologica un criterio di appartenenza che qualifichi la persona. Se così fosse, Cristo sarebbe proprio morto invano, e il mondo antico non sarebbe stato sostituito che da un mondo nuovo dello stesso ordine. Ciò che fa nascere la creatura nuova, è in primo luogo la giustificazione attraverso la fede «di» Gesù Cristo. Ciò che costituisce l'essere nuovo, il soggetto in prima persona, consapevole della propria identità in ragione dell'amore e dell'incondizionata riconoscenza di Dio, è la stessa confidenza che vi era in Gesù Cristo quando mangiava con i pubblicani e i peccatori, e affermava di rendere in questo modo presente il Regno di Dio. Questa fiducia fondatrice di Colui che Dio ha rivelato come suo Figlio fonda ormai la fiducia dei figli di Dio. Così, l'affermazione secondo la quale nessuno sarà giustificato. «se non dalla fede in Cristo» (Gal 2,16) non significa nient'altro che questo: il Dio di Paolo ci chiama a vivere della fiducia nella fiducia, ed questa che crea il soggetto responsabile della Promessa. Essa fonda il riconoscimento del prossimo come soggetto in prima persona e come un altro «io», cioè come un «tu». La responsabilità e la grazia di questo riconoscimento reciproco fondano la creazione di una società nuova, universalista e pluralista.

* Professore di Nuovo Testamento, Kirchlische Hochshule Bethel si Bielefeld (Germania)

(da Il mondo della Bibbia, 53)

Pubblicato in Bibbia
Sabato, 23 Febbraio 2008 00:05

17. Profeti e profetismo (Rinaldo Fabris)

Il termine italiano “profeta” trascrive il vocabolo greco prophétes, che significa “colui che parla davanti” o “al posto di qualcuno”.

Pubblicato in Bibbia
Martedì, 19 Febbraio 2008 01:15

Per entrare nel mondo biblico

Per entrare nel mondo biblico



I volumi proposti ubbidiscono ad una duplice attenzione: offrire semplici strumenti di lavoro che aiutino il lettore ad entrare correttamente ed attivamente nel mondo biblico; proporre, quindi, qualche esemplificazione di come si legge un testo biblico. La complessità degli studi biblici e la necessità di strumenti concretamente fruibili, personalmente e comunitariamente, orientano la nostra scelta su testi che, un lettore medio, può utilmente utilizzare per sé e a vantaggio di altri.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci all’Antico Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Il volume è un ideale punto di partenza per chi voglia iniziare un primo viaggio nel mondo dell’ Antico Testamento. Dall’iniziale domanda (Cosa possiamo trovare nell’Antico Testamento?), l’Autore propone un breve ma stimolante itinerario: come orientarsi, la storia di Dio e del suo popolo, le fondamenta, Dio nella storia, il portavoce di Dio, poesia e sapienza, l’Antico Testamento alla prova, come leggere l’Antico Testamento. Il volume è destinato a chiunque voglia disporre di una guida facile, puntuale e aggiornata, alle narrazioni, ai personaggi e alla storia veterotestamentaria.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci al Nuovo Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Con la stessa prospettiva e metodologia del precedente volume, l’Autore propone al lettore di iniziare il suo viaggio all’interno del Nuovo Testamento a partire dal vangelo di Luca. Si sofferma quindi sulla questione sinottica, sugli Atti degli Apostoli, sulle lettere di Paolo, sul libro dell'Apocalisse. Due brevi capitoletti sottolineano l'attualità del messaggio del Nuovo Testamento. Valido strumento per chi vuole iniziare una prima lettura del Nuovo Testamento.

Gérard Rossé, Come leggere i vangeli. È storia vera?, Città Nuova, Roma 1995,. pp. 64.

Spesso – afferma l’Autore – sottolineiamo talmente la dimensione attualizzante dei testi dei vangeli da dimenticare la necessità di una comprensione più «scientifica» del vangelo, indispensabile per acquistare una giusta intelligenza delle parole di Gesù, del senso del suo messaggio e del suo comportamento originali. Alla luce di questa fondamentale attenzione, l’Autore, dopo aver delineato brevemente chi sono i quattro evangelisti, offre alcune preziose chiavi di accesso ai vangeli.

Innanzitutto, si sofferma sul modo di narrare degli evangelisti; quindi, richiama l’attenzione sulla necessità di avere presente il contesto di ogni brano; poi, si sofferma sulle tre tappe che hanno condotto alla formazione dei vangeli e sugli elementi che sono entrati in gioco; si sofferma ancora sul rapporto testi-storia nelle narrazioni evangeliche; offre, infine, una pista di lettura del vangelo di Giovanni. Uno strumento di lavoro utilissimo personalmente e per lavorare in gruppo.

AA.Vv., Leggere la Bibbia con i ragazzi. Nella scuola di religione e nella catechesi, Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 342.

È una originale introduzione alla Bibbia. Nel volume, infatti, noi troviamo: notizie riguardanti l’autore; annotazioni rapide e precise che spiegano il significato del titolo e del contenuto; un breve schema e una lista di personaggi principali che aiutano a vedere, in sintesi, il contenuto dei singoli libri; tavole cronologiche che indicano la sequenza degli avvenimenti unitamente a cartine e mappe che lo collocano nel loro contesto geografico; agili «riassunti» di ogni libro biblico che hanno la funzione di evidenziare la collocazione delle varie sezioni che lo compongono; richiami alle scoperte archeologiche che aiutano a comprendere usanze e tradizioni ai tempi biblici; numerose e utilissime illustrazioni che «visualizzano» gli eventi storici e danno vivacità ad ogni pagina; un abbondante ed esauriente «vocabolarietto» che aiuta a comprendere parole un po' desuete, concetti religiosi non sempre facili, usi e costumi che sono lontani dalla cultura e dalla tradizione di oggi.

Utile tanto sul versante catechistico quanto su quello scolastico. Una vera miniera di informazioni e possibilità di lavoro.

Vincenzo Giorgio – Rinaldo PaGANELLI, Il catechista incontra la Bibbia(Coli. Educatori e catechisti), EDB, Bologna 1995, pp. 288.

«Agli occhi di molti – affermano gli Autori – la Bibbia continua ad essere un mondo lontano, un "libro difficile”. Inoltre, troppo a lungo e troppo sovente, ancor oggi, Bibbia e catechesi sono state e sono separate nella teoria e nella pratica, tendendo a calcare vie diverse quando, invece, dovrebbero percorrere un medesimo tragitto».

Per questo gli Autori descrivono nei diversi capitoli, il rapporto tra Bibbia e catechesi, individua linee di teologia biblica e pastorale, propone metodologie adeguate affinché la Bibbia sia sempre fonte di catechesi. Nel volume sono presentate brevi sintesi di ermeneutica, narratologia, esegesi; ad esse sono affiancate proposte di esercizi per entrare nella costruzione del testo e per utilizzarlo adeguatamente nella catechesi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, Leggere la Bibbia: una parola di vita(Coll. «La tua parola è vita», 1), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1994, pp. 112.

La collana biblica «La tua parola è vita» si apre con questo primo volume. In esso si percorre il cammino della spiritualità biblica della Tradizione ecclesiale in cui occupa un posto centrale la Lectio Divina. Questa ha avuto la sua origine all’interno dell’esperienza monacale ma può essere oggi riattualizzata e diventare forma di vita di ogni credente.

Il volume affronta, inizialmente, il tema «la lettura della Bibbia sorgente di preghiera» (Considerazioni generali sulla Lectio Divina; I quattro gradi della Lectio Divina; Come fare la Lectio Divina? Il metodo). Poi, delinea tracce e sussidi per i gruppi biblici. Quindi propone cinque itinerari esemplificativi fondati sulla tematica dell’Esodo riletta in diversi testi biblici. Vengono proposte, complessivamente, cinque tracce di lavoro veramente significative. L’ Appendice monografica («La visione globale della Bibbia: rileggere il passato alla luce del presente») offre un prezioso contributo per una visione globale della Bibbia in cui i vari avvenimenti ricevono una corretta spiegazione ed un’adeguata interpretazione.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La formazione del popolo di Dio(Coll. «La tua parola è vita», 2), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 192.

Questo secondo volume si colloca nella stessa prospettiva del precedente e insiste su di una prospettiva: quella comunitaria. Esso propone, pertanto, un itinerario che guida il popolo a diventare popolo di Dio. Con questa attenzione di fondo, sono accostati il libro del Genesi, dell'Esodo, del Deuteronomio, di Giosuè, dei Giudici. Ogni capitolo premette una breve introduzione, la storia della formazione del libro, alcune chiavi di lettura. Un’Appendice, infine, offre un significativo itinerario per comprendere e vivere correttamente il rapporto tra Bibbia e formazione cristiana.

Nel suo insieme, il volume offre al lettore sedici tracce di lavoro per entrare nel mondo di questi libri biblici e da essi lasciarsi interpellare. Una lettura che – attraverso la comprensione dei testi – si apre alla preghiera per una rinnovata comprensione dell’oggi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La lettura profetica della storia(Coll. «La tua parola è vita», 3), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 246.

Il terzo volume affronta una tappa ulteriore: la testimonianza profetica. Dopo una breve introduzione sui libri profetici, sull’identità dei profeti e la loro funzione nel popolo di Dio, il volume propone cinque blocchi di lavoro. Nel primo blocco (La profezia nei libri storici. Da Samuele a Elia) sono offerte sei proposte di lavoro; nel secondo (da Elia all’ Esilio), cinque proposte di itinerari; nel terzo (I profeti durante l’Esilio) il lettore dispone di altre cinque tracce di lavoro per comprendere tematiche e figure di profeti; nel quarto (La profezia dopo l’Esilio) abbiamo tre tracce di lavoro sul terzo Isaia, su Aggeo, su Zaccaria e Gioele.

Nell’ultimo blocco (la profezia alle soglie del Nuovo Testamento) quattro tracce: il profeta Daniele, la profetessa Anna, il profeta Giovanni Battista, il profeta Gesù. Due allegati («Storiografia degli ultimi secoli dell'Antico Testamento» e «Linea del tempo») concludono il volume. I tre volumi, apparsi finora in lingua italiana, sono una affascinante iniziazione alla Bibbia sullo schema della Lectio Divina. Sono, anche, un pressante invito al singolo credente a riscoprire una categoria spesso tanto proclamata quanto poco attuata: quella di «popolo di Dio».

Franco Mosconi, «Oggi si è adempiuta questa scrittura»(Coll. Quaderni di Camaldoli, 4), EDB, Bologna 1995, pp. 152.

I testi proposti nel volume sono esempi di lettura sapienziale e attualizzante dei Vangeli e non solo dei Vangeli. Sono una vera Lectio Divina, un meditare davanti a Dio, una meditazione fatta con familiarità orante, nella profonda convinzione che per la Bibbia il credente è propriamente l'uomo che si apre all'ascolto, che accoglie la Parola di Dio e risponde. Ascolto, comprensione, interiorizzazione, risposta-preghiera: questo l’itinerario seguito. Il volume propone un’educazione all’ascolto del testo; un ascolto che richiede pazienza e perseveranza: dare spazio e tempo alla Parola di Dio, lasciandola vivere e lavorare dentro di noi.

In questa prospettiva, l'Autore si sofferma su: la trilogia lucana (battesimo, genealogia, tentazione di Gesù); Gesù compimento delle profezie (Lc 4,14-30), «Costituì Dodici» (Mc 3,.13-19); Tu sei il Cristo (Mt 16,13-28); Il mistero di Maria (Gu 2,1-12: 19,25-27); I di-scepoli di Emmaus (Lc 24,13-35); L’esperienza cristiana di S. Paolo (At 22,3-16; Fil 3,3-16); Capisaldi della vita cristiana in Paolo (Fil 3,4-14: Cor; Eb; Gai); Il cieco di Gerico (Mc 10,46-52); Le parabole della misericordia (Le 15,1-31).

(da Parole di Vita, 3, 1996)

Pubblicato in Bibbia
La terza apparizione di Gesù (Gv 21,1-14)

di Gabriella Grossi

Il racconto si apre con una frase che definisce il contenuto del racconto: si tratta di una manifestazione di Gesù (ephanérosen); si precisa che è successiva ad altre («di nuovo»), è diretta ai discepoli e avviene sul mare di Tiberiade. Ci accorgiamo, però, che già dalle prime battute il racconto suscita molti interrogativi. Si dice che Gesù si manifesta di nuovo, rispetto alle apparizioni narrate nel c. 20? Queste però non sono definite come tali. Si afferma che egli si manifestò dopo queste cose (meta tauta). Quali? È un modo per legare il capitolo a ciò che precede? Si ha l’impressione che, con questo racconto, il narratore voglia riunire i fili importanti che sono stati intercettati lungo il grande racconto del Vangelo.

Nella sua posizione di onnisciente, il narratore non solo racchiude la trama del racconto che segue sotto l’azione del manifestarsi, ma ne dà anche la modalità: «Si manifestò così». Alla fine del racconto viene annotato con più accuratezza che essa è la terza (triton ephaneróthe).

La menzione del lago di Tiberiade richiama al lettore la moltiplicazione dei pani e all’approssimarsi della festa di Pasqua (6,1-15): un richiamo che viene focalizzato ancora meglio alla fine del racconto (21,13 = 6,11).

La manifestazione riguarda l’incontro di Gesù con i discepoli, la cui modalità viene rivelata per prima dal discepolo amato. È lui infatti che, dopo la pesca, riconosce Gesù come il Signore e lo rivela a Simon Pietro (21,7); pure gli altri arriveranno alla stessa conclusione, anche se non in modo così esplicito (21,12). Essa raggiunge il culmine con i gesti di Gesù che evocano l’eucaristia (21,13). L’occasione di un tale riconoscimento è una pesca fallimentare di un gruppo di discepoli, presentato all’inizio.

Possiamo allora dividere il racconto in due sequenze:

a) presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

b) manifestazione di Gesù risorto fallimentare (21,2-3);

- attraverso la pesca prodigiosa (vv. 4-8)

- attraverso il pasto in comune (vv. 9-13)

Presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

Il primo personaggio che forma il gruppo dei discepoli che si trova insieme è Simon Pietro e ciò è indice del ruolo preminente che giocherà nell’intero racconto (cf. anche la seconda parte, 21,15-23). Dopo il rinnegamento (18,25-27), Pietro era riapparso nella corsa verso il sepolcro, trovato vuoto da Maria di Magdala, insieme al discepolo che Gesù amava (20,1-10), dove, però, si dice solo che arrivò dopo l’altro discepolo e entrò nel sepolcro e vide i teli e il sudario (20,6-7). In realtà il lettore aspetta che si dica qualcosa di lui, visto il ruolo che assumerà nella Chiesa, com’è attestato da tutti i racconti del Nuovo Testamento.

Accanto a lui sono indicati Tommaso il Gemello e Natanaele di Cana di Galilea. Sembra che il narratore, con la menzione di questi due discepoli, voglia raccordarsi all’inizio del vangelo, ma anche alla fine. Tommaso, infatti, è il protagonista del racconto dell’apparizione nel Cenacolo otto giorni dopo la risurrezione, dove egli confessa Gesù risorto come suo Signore e suo Dio (cf. 20,28). È una professione di fede che, per sua densità, è da porre sullo stesso piano del prologo dove il narratore ci fa contemplare il Verbo fatto carne, come colui che era rivolto verso il Padre, che era Dio lui stesso (1,1), ma essa richiama anche la confessione di fede di Natanaele: «Rabbi tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (1,49).

Di Natanaele si specifica, a differenza della sua prima comparsa nel Vangelo (1,45-51), il suo paese d’origine, Cana. Ora il lettore sa che proprio in questa cittadina egli dà inizio ai segni e manifesta (phaneróo) LA SUA GLORIA (2,11). A Cana, con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù anticipa la sua ora (cf. 2,4), cioè la rivelazione piena del mistero della sua persona di Messia e Figlio di Dio che si compirà con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, ossia con la sua morte, risurrezione e dono dello Spirito (19,28-30). Cana è presentata, di nuovo, dal narratore come il luogo dove Gesù fece il secondo segno (4,54), che pose l’accento sul passaggio dalla morte alla vita del figlio del funzionario regio (4,49-50).

Segue l’indicazione di due coppie di altri discepoli: i figli di Zebedeo, menzionati per la prima volta nel Vangelo, e due altri dei discepoli di Gesù. Questi ultimi richiamano ancora la scena iniziale del racconto:

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!» (1,35).

Il numero dei discepoli che si trovano insieme è così di sette. L’essere insieme e il numero che si ricava dalla somma dei discepoli menzionati, ha certamente, per il narratore, un valore simbolico. Si tratta dell’immagine della comunità post-pasquale che vive tra le due venute del figlio dell’uomo (21,22), chiamata di nuovo a confermare la sua vocazione di discepola dietro al suo Signore e Dio.

Il racconto, infatti, più che essere la testimonianza del ritorno dei discepoli al loro mestiere (in questo caso solo di Simon Pietro, e non secondo la testificazione del quarto Vangelo), vuol essere la conferma della loro vocazione. Se la missione del figlio dell’uomo si compie con il suo innalzamento, anche la vocazione dei suoi discepoli trova compimento in questa pagina. La cosa riguarda soprattutto Pietro che verrà confermato dal Risorto dopo lo smarrimento dovuto al peccato.

Inoltre, si può affermare che se Cristo vive, anche la sequela dei suoi continua e, proprio grazie alle loro azioni, il Risorto si renderà predente nella sua Chiesa. In questo il racconto di Giovanni è affine alla finale di Marco (16,1-8) dove risuona l’annuncio dell’angelo alle donne di portare la bella notizia della risurrezione di Gesù ai suoi fratelli e che egli li avrebbe preceduti in Galilea (Mc 16,8). Per il secondo evangelista, dalla Galilea parte la comunità post-pasquale per ripercorrere il cammino di Gesù dell’annuncio del regno, ma ormai con gli occhi illuminati dalla Pasqua.

Simon Pietro si distingue per l’iniziativa che prende: «Vado a pescare». Gli altri lo seguono, ma in quella notte non prendono nulla.

Manifestazione di Gesù, risorto dai morti (21,4-13)

La pesca, mai evocata sinora nel racconto di Giovanni, ha una valenza simbolica. Con essa il narratore vuole alludere all’attività apostolica che ora è consegnata alla comunità: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). Essa esce per andare a lavorare nel campo del mondo (cf. 4,35), simboleggiato dal mare, «realtà cosmica minacciosa». Ma il loro lavoro non dà alcun frutto.

La notte si rivela sterile (cf. 6,16; 13,30), poiché solo la presenza di Gesù-luce permette di compiere le sue opere: quelle di aprire gli occhi ai ciechi, cioè di illuminare gli uomini sul progetto di Dio (cf. 9,6). Senza Gesù la comunità sperimenta la sua impotenza e la sua sterilità, perché senza di lui non può far nulla. (cf. 15,5)

La pesca prodigiosa

Sul far del mattino Gesù sta (éste) sulla riva. È la presenza del Risorto, come quella al Cenacolo (éste) in mezzo ai suoi discepoli (20,19.26). Gesù si rende presente alla sua comunità che sperimenta la notte nella pretesa di andare da sola a compiere l’opera del Padre, ma essi non sanno (ou mentoi édeisan) che è Gesù. È la stessa ignoranza riscontrata in Maria di Magdala che non riconosce il Risorto che le parla (20,14 ouk édei). Anche qui la dinamica è la stessa, giacché c’è un elemento che porterà a riconoscere il Risorto: lì il sentirsi chiamare per nome (20,16), qui il prodigio della pesca.

L’iniziativa è di Gesù, come nel racconto di Maria di Magdala (20,15). Egli si rivolge ai suoi discepoli con un appellativo affettuoso, «figlioli» (paidìa); il rimando alla similitudine della donna che è nella gioia quando ha partorito un bambino (paidìon), è chiaro (cf. 16,21). Essi sono nati dalla risurrezione e non sono lasciati orfani, perché Gesù è tornato a loro (cf. 14,18).

La sua richiesta rimanda a quella fatta alla samaritana («Dammi da bere»: 4,7), ma egli chiede per donare; infatti anche qui sarà lui a offrire l’alimento (21,9.13). Lo chiede per sé? La missione è qualcosa di vitale per la Chiesa e si può paragonare al cibo di cui si nutriva Gesù:

Mio cibo è che io faccio la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera (4,34).

La domanda rende consapevole la comunità del suo fallimento e della sua incapacità di unire la sua opera a quella di Gesù (prosphágion = in aggiunta al pane . La loro risposta secca («no!») è il segno della delusione al venire meno del loro programma.

La presenza di Gesù è l’inizio di un cambiamento della situazione. Infatti l’interesse della condizione attuale dei discepoli da parte di Gesù non è per lasciare le cose come stanno, cioè la comunità nella sua delusione e tristezza, ma per imprimervi una svolta radicale (cf. 5,5). Occorre però l’obbedienza da parte dei suoi. L’invito-comando è legato a una promessa. La parola di Gesù si rivela efficace e l’obbedienza ad essa è condizione perché la promessa possa compiersi.

Il frutto apostolico è un segno della sua presenza, ma chi la rivela è il discepolo che Gesù amava. Egli lega l’effetto della parola di Gesù al suo essere (éste) sulla riva e ciò lo porta a confessare: «È il Signore!». La sua confessione dice due cose al lettore: egli fa parte del numero dei discepoli che sono a pesca; egli si rivolge a Pietro per rivelargli il Signore. Nella comunità continua la presenza e la funzione di colui che è il testimone per eccellenza della vicenda di Gesù. È lui, grazie all’esperienza dell’essere amato, che per primo riconosce il Signore e lo comunica a Simon Pietro. Come la parola di Gesù ha prodotto un effetto, così pure la confessione del discepolo prediletto fa reagire Pietro che ascolta la rivelazione. Egli si cinge la sopravveste e si getta in mare. Colui a cui il Signore darà la cura del suo greggio (21,15ss) è prima di tutto quelli che si sottomette alla sua signoria.

Il cingersi la sopravveste (diazónnymi), perché era nudo, potrebbe richiamare il cingersi di Gesù dell’asciugamano, prima di lavare i piedi ai discepoli (13,4). Pietro assume la sua realtà di discepoli, come Gesù aveva assunto la natura di servo (cf. Fil 2,6ss.), e sfida la morte – si getta in mare – per andare incontro a colui che riconosce come suo Signore attraverso la testimonianza del discepolo amato.

Il narratore, però, non segue Simon Pietro fino all’incontro con il Signore, anzi esso sembra volutamente rimandato, ma torna indietro dagli altri discepoli che con il loro gesto di trascinare la rete colma di pesci partecipano all’evento che manifesta il Signore.

Il pasto comune

Appena approdati a terra, il loro sguardo, messo in risalto dal narratore, è attirato dalla brace e dal cibo preparato: pesce posto sul fuoco e pane. Sono altri segni di manifestazione, come quelli dati il mattino di Pasqua, la tomba vuota alla Maddalena e i teli e il sudario ai due che corsero. Pesce sul fuoco e pane rimandato in modo discreto al gesto supremo del suo amore, reso presente nei segni eucaristici. A questo cibo già preparato Gesù chiede che si unisca del pesce appena pescato, simbolo dei discepoli che come Gesù si donano. C’è un intrecciarsi del pesce frutto del lavoro e quello preparato.

Non ha senso mangiare con Gesù se non si contribuisce a prepararlo, ma ciò che si porta non si ha senza di lui.

La richiesta fatta da Gesù trova pronto di nuovo Pietro che sale e trae fino a terra la rete colma di 153 grossi pesci.

Non si specifica dove sale Pietro. Non si può immaginare sulla barca, perché per questo gesto il narratore aveva già usato il verbo em-báino e soprattutto perché, stando su una barca, non si può tirare a riva una rete piena. Qui il verbo ana-báino (andare-su) indica piuttosto il risalire di Pietro dall’acqua. In fondo il lettore lo ha lasciato lì. Il suo rimontare dal mare potrebbe indicare il cambiamento dopo il rinnegamento (è ciò che sarà messo in evidenza nella seconda parte del capitolo). È lui comunque che tira (helkyo) la rete a terra. Anche questa volta non ci viene detto nulla circa il compimento del comando di Gesù; ciò che viene sottolineato invece è il gesto di Pietro che trae la rete a terra, il numero dei pesci pescati, la loro qualità e la situazione della rete, che nonostante la grande quantità di pesci, non si lacerò.

Il numero costituisce ancora un rebus nella spiegazione del testo. Dall’insieme esso potrebbe indicare la quantità e l’universalità della missione della Chiesa; la rete invece è il simbolo della sua unità. La diversità e l’universalità non è a scapito della sua unità che rimane come qualcosa che non dipende dalla diversità; nonostante i pesci siano molti e grandi, la rete non si spezza (eschìsthe). La sua integrità rimanda a quella della tunica inconsutile che non fu spezzata dai soldati (mè schìsomen), ma tirata a sorte (cf. 19,23-24). L’unità della Chiesa non si spezza, perché essa è il frutto del dono di Gesù, anche se oggi appare, nella sua visibilità, lacerata.

La presenza di Gesù culmina con l’eucaristia. Gesù invita tutti a mangiare. Egli non è il padrone intransigente che chiede conto del lavoro svolto, ma è colui che accoglie i discepoli come amici alla sua mensa (cf. 15,14-15). Ora sanno che è Gesù, perciò non hanno bisogno di fare domande. La pesca, i segni del pane e del pesce e l’invito a mensa li hanno portati a riconoscere colui che prima non sapevano chi fosse (21,4). Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza è avvenuto grazie al prodigio della pesca e ai segni eucaristici sulla riva. La certezza non è evidenza. Il mistero rimane; la fede è una componente importante; quella fede che i discepoli hanno fin dal primo incontro (cf. 2,11) e che troviamo nella prima conclusione del vangelo:

Perché crediate… e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31)

Conclusione

Gesù viene, prende il pane e lo dà loro e così pure il pesce. A differenza delle apparizioni nel Cenacolo (20,19ss. 26ss.) e delle azioni della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,11) qui i verbi sono al presente. Si tratta del continuo venire di Gesù nella comunità. Il Risorto viene mediante l’eucaristia. Questa è espressa con i gesti che caratterizzano quelli della moltiplicazione dei pani (6,11).

Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti (21,14).

Si torna all’inizio del racconto: quanto è stato narrato costituisce la terza manifestazione, cioè quella definitiva. Essa è legata ormai all’attività apostolica della comunità, in obbedienza alla parola del Risorto e ai segni del suo amore supremo per noi (cf. 15,13).

Pubblicato in Bibbia

Le apparizioni «ufficiali» del Risorto
al gruppo apostolico (Gv 20, 19-31)

di Rita Pellegrini





L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.

Pubblicato in Bibbia

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