La terza apparizione di Gesù (Gv 21,1-14)
di Gabriella Grossi
Il racconto si apre con una frase che definisce il contenuto del racconto: si tratta di una manifestazione di Gesù (ephanérosen); si precisa che è successiva ad altre («di nuovo»), è diretta ai discepoli e avviene sul mare di Tiberiade. Ci accorgiamo, però, che già dalle prime battute il racconto suscita molti interrogativi. Si dice che Gesù si manifesta di nuovo, rispetto alle apparizioni narrate nel c. 20? Queste però non sono definite come tali. Si afferma che egli si manifestò dopo queste cose (meta tauta). Quali? È un modo per legare il capitolo a ciò che precede? Si ha l’impressione che, con questo racconto, il narratore voglia riunire i fili importanti che sono stati intercettati lungo il grande racconto del Vangelo.
Nella sua posizione di onnisciente, il narratore non solo racchiude la trama del racconto che segue sotto l’azione del manifestarsi, ma ne dà anche la modalità: «Si manifestò così». Alla fine del racconto viene annotato con più accuratezza che essa è la terza (triton ephaneróthe).
La menzione del lago di Tiberiade richiama al lettore la moltiplicazione dei pani e all’approssimarsi della festa di Pasqua (6,1-15): un richiamo che viene focalizzato ancora meglio alla fine del racconto (21,13 = 6,11).
La manifestazione riguarda l’incontro di Gesù con i discepoli, la cui modalità viene rivelata per prima dal discepolo amato. È lui infatti che, dopo la pesca, riconosce Gesù come il Signore e lo rivela a Simon Pietro (21,7); pure gli altri arriveranno alla stessa conclusione, anche se non in modo così esplicito (21,12). Essa raggiunge il culmine con i gesti di Gesù che evocano l’eucaristia (21,13). L’occasione di un tale riconoscimento è una pesca fallimentare di un gruppo di discepoli, presentato all’inizio.
Possiamo allora dividere il racconto in due sequenze:
a) presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)
b) manifestazione di Gesù risorto fallimentare (21,2-3);
- attraverso la pesca prodigiosa (vv. 4-8)
- attraverso il pasto in comune (vv. 9-13)
Presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)
Il primo personaggio che forma il gruppo dei discepoli che si trova insieme è Simon Pietro e ciò è indice del ruolo preminente che giocherà nell’intero racconto (cf. anche la seconda parte, 21,15-23). Dopo il rinnegamento (18,25-27), Pietro era riapparso nella corsa verso il sepolcro, trovato vuoto da Maria di Magdala, insieme al discepolo che Gesù amava (20,1-10), dove, però, si dice solo che arrivò dopo l’altro discepolo e entrò nel sepolcro e vide i teli e il sudario (20,6-7). In realtà il lettore aspetta che si dica qualcosa di lui, visto il ruolo che assumerà nella Chiesa, com’è attestato da tutti i racconti del Nuovo Testamento.
Accanto a lui sono indicati Tommaso il Gemello e Natanaele di Cana di Galilea. Sembra che il narratore, con la menzione di questi due discepoli, voglia raccordarsi all’inizio del vangelo, ma anche alla fine. Tommaso, infatti, è il protagonista del racconto dell’apparizione nel Cenacolo otto giorni dopo la risurrezione, dove egli confessa Gesù risorto come suo Signore e suo Dio (cf. 20,28). È una professione di fede che, per sua densità, è da porre sullo stesso piano del prologo dove il narratore ci fa contemplare il Verbo fatto carne, come colui che era rivolto verso il Padre, che era Dio lui stesso (1,1), ma essa richiama anche la confessione di fede di Natanaele: «Rabbi tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (1,49).
Di Natanaele si specifica, a differenza della sua prima comparsa nel Vangelo (1,45-51), il suo paese d’origine, Cana. Ora il lettore sa che proprio in questa cittadina egli dà inizio ai segni e manifesta (phaneróo) LA SUA GLORIA (2,11). A Cana, con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù anticipa la sua ora (cf. 2,4), cioè la rivelazione piena del mistero della sua persona di Messia e Figlio di Dio che si compirà con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, ossia con la sua morte, risurrezione e dono dello Spirito (19,28-30). Cana è presentata, di nuovo, dal narratore come il luogo dove Gesù fece il secondo segno (4,54), che pose l’accento sul passaggio dalla morte alla vita del figlio del funzionario regio (4,49-50).
Segue l’indicazione di due coppie di altri discepoli: i figli di Zebedeo, menzionati per la prima volta nel Vangelo, e due altri dei discepoli di Gesù. Questi ultimi richiamano ancora la scena iniziale del racconto:
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!» (1,35).
Il numero dei discepoli che si trovano insieme è così di sette. L’essere insieme e il numero che si ricava dalla somma dei discepoli menzionati, ha certamente, per il narratore, un valore simbolico. Si tratta dell’immagine della comunità post-pasquale che vive tra le due venute del figlio dell’uomo (21,22), chiamata di nuovo a confermare la sua vocazione di discepola dietro al suo Signore e Dio.
Il racconto, infatti, più che essere la testimonianza del ritorno dei discepoli al loro mestiere (in questo caso solo di Simon Pietro, e non secondo la testificazione del quarto Vangelo), vuol essere la conferma della loro vocazione. Se la missione del figlio dell’uomo si compie con il suo innalzamento, anche la vocazione dei suoi discepoli trova compimento in questa pagina. La cosa riguarda soprattutto Pietro che verrà confermato dal Risorto dopo lo smarrimento dovuto al peccato.
Inoltre, si può affermare che se Cristo vive, anche la sequela dei suoi continua e, proprio grazie alle loro azioni, il Risorto si renderà predente nella sua Chiesa. In questo il racconto di Giovanni è affine alla finale di Marco (16,1-8) dove risuona l’annuncio dell’angelo alle donne di portare la bella notizia della risurrezione di Gesù ai suoi fratelli e che egli li avrebbe preceduti in Galilea (Mc 16,8). Per il secondo evangelista, dalla Galilea parte la comunità post-pasquale per ripercorrere il cammino di Gesù dell’annuncio del regno, ma ormai con gli occhi illuminati dalla Pasqua.
Simon Pietro si distingue per l’iniziativa che prende: «Vado a pescare». Gli altri lo seguono, ma in quella notte non prendono nulla.
Manifestazione di Gesù, risorto dai morti (21,4-13)
La pesca, mai evocata sinora nel racconto di Giovanni, ha una valenza simbolica. Con essa il narratore vuole alludere all’attività apostolica che ora è consegnata alla comunità: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). Essa esce per andare a lavorare nel campo del mondo (cf. 4,35), simboleggiato dal mare, «realtà cosmica minacciosa». Ma il loro lavoro non dà alcun frutto.
La notte si rivela sterile (cf. 6,16; 13,30), poiché solo la presenza di Gesù-luce permette di compiere le sue opere: quelle di aprire gli occhi ai ciechi, cioè di illuminare gli uomini sul progetto di Dio (cf. 9,6). Senza Gesù la comunità sperimenta la sua impotenza e la sua sterilità, perché senza di lui non può far nulla. (cf. 15,5)
La pesca prodigiosa
Sul far del mattino Gesù sta (éste) sulla riva. È la presenza del Risorto, come quella al Cenacolo (éste) in mezzo ai suoi discepoli (20,19.26). Gesù si rende presente alla sua comunità che sperimenta la notte nella pretesa di andare da sola a compiere l’opera del Padre, ma essi non sanno (ou mentoi édeisan) che è Gesù. È la stessa ignoranza riscontrata in Maria di Magdala che non riconosce il Risorto che le parla (20,14 ouk édei). Anche qui la dinamica è la stessa, giacché c’è un elemento che porterà a riconoscere il Risorto: lì il sentirsi chiamare per nome (20,16), qui il prodigio della pesca.
L’iniziativa è di Gesù, come nel racconto di Maria di Magdala (20,15). Egli si rivolge ai suoi discepoli con un appellativo affettuoso, «figlioli» (paidìa); il rimando alla similitudine della donna che è nella gioia quando ha partorito un bambino (paidìon), è chiaro (cf. 16,21). Essi sono nati dalla risurrezione e non sono lasciati orfani, perché Gesù è tornato a loro (cf. 14,18).
La sua richiesta rimanda a quella fatta alla samaritana («Dammi da bere»: 4,7), ma egli chiede per donare; infatti anche qui sarà lui a offrire l’alimento (21,9.13). Lo chiede per sé? La missione è qualcosa di vitale per la Chiesa e si può paragonare al cibo di cui si nutriva Gesù:
Mio cibo è che io faccio la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera (4,34).
La domanda rende consapevole la comunità del suo fallimento e della sua incapacità di unire la sua opera a quella di Gesù (prosphágion = in aggiunta al pane . La loro risposta secca («no!») è il segno della delusione al venire meno del loro programma.
La presenza di Gesù è l’inizio di un cambiamento della situazione. Infatti l’interesse della condizione attuale dei discepoli da parte di Gesù non è per lasciare le cose come stanno, cioè la comunità nella sua delusione e tristezza, ma per imprimervi una svolta radicale (cf. 5,5). Occorre però l’obbedienza da parte dei suoi. L’invito-comando è legato a una promessa. La parola di Gesù si rivela efficace e l’obbedienza ad essa è condizione perché la promessa possa compiersi.
Il frutto apostolico è un segno della sua presenza, ma chi la rivela è il discepolo che Gesù amava. Egli lega l’effetto della parola di Gesù al suo essere (éste) sulla riva e ciò lo porta a confessare: «È il Signore!». La sua confessione dice due cose al lettore: egli fa parte del numero dei discepoli che sono a pesca; egli si rivolge a Pietro per rivelargli il Signore. Nella comunità continua la presenza e la funzione di colui che è il testimone per eccellenza della vicenda di Gesù. È lui, grazie all’esperienza dell’essere amato, che per primo riconosce il Signore e lo comunica a Simon Pietro. Come la parola di Gesù ha prodotto un effetto, così pure la confessione del discepolo prediletto fa reagire Pietro che ascolta la rivelazione. Egli si cinge la sopravveste e si getta in mare. Colui a cui il Signore darà la cura del suo greggio (21,15ss) è prima di tutto quelli che si sottomette alla sua signoria.
Il cingersi la sopravveste (diazónnymi), perché era nudo, potrebbe richiamare il cingersi di Gesù dell’asciugamano, prima di lavare i piedi ai discepoli (13,4). Pietro assume la sua realtà di discepoli, come Gesù aveva assunto la natura di servo (cf. Fil 2,6ss.), e sfida la morte – si getta in mare – per andare incontro a colui che riconosce come suo Signore attraverso la testimonianza del discepolo amato.
Il narratore, però, non segue Simon Pietro fino all’incontro con il Signore, anzi esso sembra volutamente rimandato, ma torna indietro dagli altri discepoli che con il loro gesto di trascinare la rete colma di pesci partecipano all’evento che manifesta il Signore.
Il pasto comune
Appena approdati a terra, il loro sguardo, messo in risalto dal narratore, è attirato dalla brace e dal cibo preparato: pesce posto sul fuoco e pane. Sono altri segni di manifestazione, come quelli dati il mattino di Pasqua, la tomba vuota alla Maddalena e i teli e il sudario ai due che corsero. Pesce sul fuoco e pane rimandato in modo discreto al gesto supremo del suo amore, reso presente nei segni eucaristici. A questo cibo già preparato Gesù chiede che si unisca del pesce appena pescato, simbolo dei discepoli che come Gesù si donano. C’è un intrecciarsi del pesce frutto del lavoro e quello preparato.
Non ha senso mangiare con Gesù se non si contribuisce a prepararlo, ma ciò che si porta non si ha senza di lui.
La richiesta fatta da Gesù trova pronto di nuovo Pietro che sale e trae fino a terra la rete colma di 153 grossi pesci.
Non si specifica dove sale Pietro. Non si può immaginare sulla barca, perché per questo gesto il narratore aveva già usato il verbo em-báino e soprattutto perché, stando su una barca, non si può tirare a riva una rete piena. Qui il verbo ana-báino (andare-su) indica piuttosto il risalire di Pietro dall’acqua. In fondo il lettore lo ha lasciato lì. Il suo rimontare dal mare potrebbe indicare il cambiamento dopo il rinnegamento (è ciò che sarà messo in evidenza nella seconda parte del capitolo). È lui comunque che tira (helkyo) la rete a terra. Anche questa volta non ci viene detto nulla circa il compimento del comando di Gesù; ciò che viene sottolineato invece è il gesto di Pietro che trae la rete a terra, il numero dei pesci pescati, la loro qualità e la situazione della rete, che nonostante la grande quantità di pesci, non si lacerò.
Il numero costituisce ancora un rebus nella spiegazione del testo. Dall’insieme esso potrebbe indicare la quantità e l’universalità della missione della Chiesa; la rete invece è il simbolo della sua unità. La diversità e l’universalità non è a scapito della sua unità che rimane come qualcosa che non dipende dalla diversità; nonostante i pesci siano molti e grandi, la rete non si spezza (eschìsthe). La sua integrità rimanda a quella della tunica inconsutile che non fu spezzata dai soldati (mè schìsomen), ma tirata a sorte (cf. 19,23-24). L’unità della Chiesa non si spezza, perché essa è il frutto del dono di Gesù, anche se oggi appare, nella sua visibilità, lacerata.
La presenza di Gesù culmina con l’eucaristia. Gesù invita tutti a mangiare. Egli non è il padrone intransigente che chiede conto del lavoro svolto, ma è colui che accoglie i discepoli come amici alla sua mensa (cf. 15,14-15). Ora sanno che è Gesù, perciò non hanno bisogno di fare domande. La pesca, i segni del pane e del pesce e l’invito a mensa li hanno portati a riconoscere colui che prima non sapevano chi fosse (21,4). Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza è avvenuto grazie al prodigio della pesca e ai segni eucaristici sulla riva. La certezza non è evidenza. Il mistero rimane; la fede è una componente importante; quella fede che i discepoli hanno fin dal primo incontro (cf. 2,11) e che troviamo nella prima conclusione del vangelo:
Perché crediate… e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31)
Conclusione
Gesù viene, prende il pane e lo dà loro e così pure il pesce. A differenza delle apparizioni nel Cenacolo (20,19ss. 26ss.) e delle azioni della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,11) qui i verbi sono al presente. Si tratta del continuo venire di Gesù nella comunità. Il Risorto viene mediante l’eucaristia. Questa è espressa con i gesti che caratterizzano quelli della moltiplicazione dei pani (6,11).
Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti (21,14).
Si torna all’inizio del racconto: quanto è stato narrato costituisce la terza manifestazione, cioè quella definitiva. Essa è legata ormai all’attività apostolica della comunità, in obbedienza alla parola del Risorto e ai segni del suo amore supremo per noi (cf. 15,13).