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«Lo spirito del Signore è su di me» (Is 61)

di Claudio Doglio

L'ultima parte del libro di Isaia sembra organizzata come una antologia concentrica, che ha il proprio punto focale nei capitoli 60-62. Questi testi rappresentano il nucleo fondamentale della sezione e rispecchiano perfettamente la predicazione consolatoria e promissoria dell'anonimo profeta che i moderni hanno chiamato Terzo-Isaia: la sua struttura può essere così sinteticamente rappresentata:

60,1-22 annuncio della luce per la nuova Gerusalemme;
61,1-11 vocazione e missione del profeta;
62,1-12 promessa del nuovo splendore di Gerusalemme.

Il centro di questo poema centrale, dunque, è costituito dal capitolo 61, in cui l'autore parla di sé e della propria missione.

Un messia sacerdotale

L'orizzonte storico in cui si muove l'autore è quello della comunità giudaica, ritornata nella terra di Israele dopo l'esilio: l'interesse è centrato sulla città di Gerusalemme che si trova in uno stato pietoso, ma alla quale viene predetto un meraviglioso futuro. Il tempio sembra ancora abbattuto o in via di difficile ricostruzione; i rimpatriati sono in preda alla sfiducia e alle lotte intestine; devono per di più affrontare difficoltà morali e religiose, dal momento che alcuni Giudei si sono abbandonati all'idolatria ed i capi del popolo sono inetti ed indifferenti.

Gli ultimi capitoli del libro di Isaia non sono un'opera unitaria, ma una raccolta di materiale che proviene da epoche diverse, sono composti con stili e linguaggi differenti e riflettono il pensiero di varie correnti religiose e spirituali: è difficile, quindi, parlare di un personaggio storico ed identificarlo con l'autore di tutti questi capitoli. Eppure la relativa unità dell'insieme permette di immaginare una figura storica di profeta post-esilico che abbia, per lo meno, svolto un'opera letteraria di raccolta e di compilazione redazionale. In tal modo il Terzo-Isaia può essere immaginato come una guida spirituale dei rimpatriati, pastore di anime e poeta di rinnovamento: con la sua opera letteraria egli vuole innanzi tutto risollevare gli animi oppressi dallo scoraggiamento.

Le affinità di stile con Is 40-55 fanno pensare ad un discepolo del Secondo- Isaia, suo grande ammiratore e tutto pervaso dello spirito del nobile maestro. Ritornato in patria egli avrebbe voluto continuare l'opera del maestro e indicarne in concreto la realizzazione. I rimpatriati, infatti, erano in crisi di fede, perché le promesse del profeta esilico non si erano realizzate: la tentazione era quella di leggere la squallida situazione presente come una controprova della fedeltà di Dio e quindi di abbandonare con disprezzo l'alleanza. In questa pericolosa situazione diversi autori cercarono, nel giro di poco tempo, di dare una nuova interpretazione alle antiche promesse di salvezza, rifacendo i alle varie tradizioni del patrimonio religioso di Israele. Un redattore, che possiamo identificare con il nostro profeta, raccolse questi oracoli, sia orali si stesi per iscritto, disponendoli secondo un suo piano, con l'intento di incrementare la fiducia di Israele nella fedeltà divina e rilanciare l'impegno di adesione all'alleanza con Dio.

Al centro della raccolta, il profeta-redattore ha collocato il poema autobiografico, in cui celebra la propria vocazione e presenta la sua missione di consolatore. Dai particolari di questo testo l'autore si rivela un "messia" sacerdotale, cioè un sacerdote consacrato con 1'unzione, che ha vissuto il propri ruolo cultuale soprattutto come messaggero di pace col compito di predicar un nuovo, grande «giubileo», come anno di misericordia voluto dal Signore. Secondo Pierre Grelot, (1) troviamo in questo testo il riferimento alla prima consacrazione di un sommo sacerdote dopo l'esilio ed il rientro a Gerusalemme: con una ipotetica, ma attendibile ricostruzione storica (2) si può pensare all'unzione sacerdotale di Ioiachim, successore di Giosuè, nell' anno sabbatico 511/510.

Un poema artisticamente composto

Non si tratta di un racconto di vocazione, come per Is 6,1-13, ma piuttosto di un poema autobiografico di investitura e presentazione, simile al canto del Servo che si trova in Is 49,1-6: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato ... ». Il richiamo stilistico a quel testo può essere un indizio di collegamento teologico: il profeta del post-esilio sente di vivere nella propria persona la continuazione dell' antica e unica missione profetica; nella concreta situazione del suo tempo egli sperimenta la chiamata divina e comprende il ruolo e lo scopo a cui è chiamato. Con abilità di artista compone questo poema, per tratteggiare le linee essenziali della sua missione ed i contenuti fondamentali della sua predicazione. Un'analisi attenta del testo rivela una sapiente organizzazione letteraria degli argomenti ed aver chiara la struttura dell'insieme ci aiuta non poco a comprenderne il messaggio. (3)

L'intero poema si può facilmente dividere in due parti: la prima comprende i vv. 1-3 e descrive il senso della consacrazione, mentre la seconda parte coi vv. 4-11 delinea il contenuto della predicazione.

La prima parte, introdotta dall'evocazione dello Spirito divino, presenta due azioni del Signore strettamente congiunte e rivolte all'autore stesso (mi ha unto - mi ha mandato). Tutta l'attenzione è così incentrata sulla missione del profeta che viene descritta con una successione lineare di sette infiniti, i quali nell'originale ebraico hanno la stessa forma grammaticale, tale da richiamare un insieme completo e organico:

  1. a portare una buona notizia ai poveri,
  2. a fasciare i contriti di cuore,
  3. a proclamare la libertà ai detenuti ...
  4. a proclamare l'anno gradito al Signore, ...
  5. a consolare tutti gli afflitti,
  6. a rallegrare gli afflitti di Sion,
  7. a dare loro ...

Il settimo elemento, vertice dell'elenco, viene ampliato con un nuovo elenco dalla struttura ternaria che annuncia un profondo cambiamento, contrapponendo tre realtà negative ad altre tre realtà positive:

  1. corona invece di cenere,
  2. olio di letizia invece di lutto,
  3. abito di lode invece di spirito abbattuto.

Questa prima parte, inoltre, è segnata dall'inclusione con la parola spirito: «Lo Spirito del Signore Dio ... - uno spirito (4) abbattuto».

L'ultima espressione del v. 3 ha un ruolo strutturale di collegamento fra le due parti: conclude la prima, riprendendone alcuni elementi linguistici evidenti in ebraico, con la proclamazione del nome nuovo che verrà dato alla comunità fedele ed introduce la seconda, anticipandone il tema della giustizia e l'immagine vegetale del germoglio rigoglioso.

La struttura della seconda parte è più complessa ed elaborata. Innanzi tutto possiamo riconoscervi tre sezioni, distinte da quella centrale che si differenzia nettamente dalle altre, perché introduce direttamente un oracolo divino:

l a sezione: vv. 4-7 (la novità della ricostruzione);
2a sezione: v. 8 (l'oracolo divino di conferma);
3 a sezione: vv. 9-11 (la gioia della ri-creazione).

Alla brevità della sezione centrale si contrappongono le altre due, molto più sviluppate e strutturate in modo simmetrico. Infatti la prima e la terza sezione sono composte entrambe in modo concentrico, avendo al centro di ciascuna un elemento stilistico nettamente distinto e agli estremi degli interessanti collegamenti linguistici: nel primo caso la distinzione è determinata dal passaggio dalla terza alla seconda persona, per ritornare alla terza, con il collegamento dato dal concetto di eternità ('ôlam); nella terza sezione, invece, al centro si pone chiaramente l'oracolo in prima persona dell' autore stesso, che si differenzia dagli altri due brani collegati dal concetto di seme (zera '),

Cerchiamo di chiarire l'insieme con uno schema di struttura:

1 a sezione:

v. 4 (essi) «costruiranno rovine perenni ... »
vv. 5-6 (voi) «sarete chiamati sacerdoti del Signore ... »
v. 7 (essi) «avranno una gioia perenne»

2a sezione: v. 8 (centro: oracolo divino)

3 a sezione:

v. 9 (essi) «sarà conosciuto il loro seme ... »
v. 10 (io) «gioisco nel Signore ... »
v. 11 (essi) «come la terra fa germogliare i semi ... »

Anche se si tratta, come dicono alcuni studiosi, di una composizione redazionale in cui sono confluite diverse unità bisogna tuttavia riconoscere che il redattore ha saputo organizzare sapientemente questo materiale, dando all’insieme una forma artistica, capace di aiutare a comprendere l'insegnamento teologico.

«Il Signore mi ha unto»

Il poema inizia con un'espressione solenne e potente: «Lo Spirito del Signore Dio (è) su di me». L'autore parla di sé e non esita a presentarsi in stretta relazione con l'azione di Dio ed il suo spirito (ruach): la formula adoperata crea un collegamento tematico con i canti del Servo, ma si richiama anche la profezia pre-esilica, per risalire fino alle più arcaiche manifestazioni d profetismo nel mondo biblico. Nell'oracolo di investitura, che chiamiamo primo canto del Servo, il Signore presenta il suo eletto, dicendo: «Ho posto mio spirito su di lui» (Is 42,1); il profeta Michea si contrapponeva ai ciarlatani del suo tempo rivendicando per sé l'autentica rivelazione divina: «Mentre io sono pieno di forza con lo spirito del Signore, per annunziare a Giacobbe le sue colpe» (Mic 3,8). In linea con questi testi l'autore di Is 61 presenta stesso, proclamando solennemente di essere l'inviato di Dio e, quindi, implicitamente si distingue da altri e sostiene di essere portatore della parola divina, come aveva cantato Davide («Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua»: 2 Sam 23,2) e come si raccontava dell'antico Balaam («Allora lo spirito di Dio fu sopra di lui»: Nm 24,2).

Come può affermare questo con tanta sicurezza? Lo dice egli stesso: «Perché il Signore mi ha unto». L'autore, infatti, interpreta il dono dello Spirito con I categoria sacerdotale dell'unzione: egli è stato consacrato con l'olio e, quindi, risulta evidente che lo Spirito si sia posato su di lui. Se nell'antichità Israele l'unzione era caratteristica soprattutto del re, dopo la fine della monarchia divenne prerogativa esclusiva del sacerdozio e l'unzione del somm sacerdote era sentita come un evento «sacramentale» di grazia che segnava l'inizio di una funzione importantissima ed assomigliava all'intronizzazione del re (cf Es 29,7; 30,22-33). In ebraico si adopera il verbo mašach, che ha dato origine al termine messia, cioè «unto»: quello che era un titolo tipicamente regale, nel posi-esilio diviene attributo sacerdotale. «È dunque un messianismo sacerdotale quello che porta la speranza del popolo per dargli gioia, liberazione, conforto e giustizia. In quest'epoca travagliata in cui c'è tutto d rifare, l'unzione del sommo sacerdote è gravida dell'avvenire radioso promesso alla città e al popolo in funzione della loro alleanza». (5)

Secondo l'antica tradizione religiosa il compito principale del sacerdote israelita doveva essere quello di osservare la divina parola e custodire la sua alleanza per insegnare i decreti e la legge di Dio a Israele (cf Dt 33,10): fedele a tale compito, il sommo sacerdote, autore di questo poema, ha presentato stesso come investito dallo Spirito di Dio e consacrato profeta, cioè portavoce di Dio in quanto sacerdote, suo mediatore per realizzare concretamente quelle circostanze storiche il progetto divino di salvezza e di giustizia. Egli si è sentito intimamente investito di questa missione e così ha delineato il programma del suo pontificato.

«Mi ha mandato a portare una buona notizia»

Il profeta-sacerdote indice il grande giubileo. Secondo la tradizione sacerdotale, codificata in Lv 25, l'anno cinquantesimo, ancor di più dell'anno sabbatico, doveva essere caratterizzato dalla remissione dei debiti, dalla restituzione delle terre e dalla liberazione degli schiavi: probabilmente queste norme non furono mai osservate realmente nell'epoca monarchica e rimasero come un'indicazione ideale di giustizia. Dopo l'esilio, quando la terra perduta ritorna in possesso di Israele, il profeta-sacerdote riconosce come segno dei tempi l'intervento di Dio per fare davvero giustizia: a nome suo, quindi, proclama «l'anno gradito al Signore, un giorno di rivendicazione per il nostro Dio». Questo compito occupa proprio la posizione centrale dei sette infiniti che esprimono la missione dell’autore: l'anno gradito è spiegato con l'espressione giorno del Signore, divenuta nel linguaggio profetico un termine tecnico per indicare il momento escatologico, vertice della storia della salvezza, in cui Dio realizzerà finalmente le sue promesse, punendo i traditori e premiando i fedeli. In questo senso si parla di vendetta (in ebraico naqam): noi, però, potremmo usare, come termine corrispondente e più comprensibile, rivendicazione. Il profeta, cioè, annuncia che il Signore sta intervenendo per realizzare concretamente nella storia gli impegni dell'alleanza, rivendicando i propri diritti: chi si è messo contro di lui ne avrà un grave danno, mentre per chi gli è rimasto fedele si tratterà del momento buono della retribuzione.

Questa è la buona notizia che egli è incaricato di portare al popolo. Il verbo ebraico bisser, reso in greco dai LXX con euangelìzesthai, è entrato nella tradizione cristiana ad indicare il «vangelo», la buona notizia per eccellenza, cioè l'intervento salvi fico di Dio: l'antico autore, consacrato con l'unzione, ha espresso con questo verbo il suo compito di annunziare l'opera del Signore che cura, libera, consola e rallegra.

Destinatari della buona notizia sono i poveri (in ebraico: 'anawîm), i prigionieri, gli afflitti. Non si tratta dei deportati in Babilonia, ma di quelli che sono già rimpatriati; tuttavia non è chiaro se l'autore, adoperando le immagini del giubileo, intenda proclamare un concreto intervento socio-amministrativo a favore dei diseredati, oppure voglia annunciare con delle metafore che la presenza del Signore determinerà un profondo rinnovamento nella misera condizione del suo popolo. (6) Il riferimento ai contriti di cuore orienta verso questa seconda ipotesi: l'espressione, infatti, appartiene al linguaggio religioso dell'autentico pentimento e la ritroviamo, ad esempio, nel salmo Miserere: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore contrito e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 51,19). Il popolo degli esuli ritornati riconosce che alla radice della propria miseria c'è l'infedeltà all'alleanza ed il peccato che li tiene prigionieri; a chi ne prova un vivo dolore ed aspira all'autentica liberazione il profeta annuncia la buona notizia del cambiamento.

L'intervento di Dio che capovolge la situazione viene presentato con tre immagini poetiche di radicale sostituzione. La situazione presente è caratterizzata dalla cenere, il lutto e lo spirito abbattuto: tipici elementi di una liturgia penitenziale con cui il popolo ammette con dolore il proprio peccato. All'atteggiamento di chi riconosce la propria povertà Dio risponde con doni simbolici e liturgici, che caratterizzano la consacrazione sacerdotale: la corona, l'olio di letizia e l'abito di lode. (7) L'autore ha trasfigurato il rito della propria consacrazione come un simbolo capace di esprimere il rinnovamento di tu il popolo (8) ed è di notevole importanza l'inclusione letteraria che segna la p ma parte: allo Spirito di Dio dell'inizio si contrappone lo spirito umano abbattuto del finale. Il richiamo linguistico serve a creare un contrasto di immagini per sottolineare un messaggio teologico: «La parola del profeta scaturisce dallo spirito di Dio; perciò essa sviluppa la potenza che libera lo spirito umano dall'oppressione e lo innalza alla gioia della lode divina. Nella lode lo spirito dell'uomo sperimenta il giubileo dell'amore fedele e misericordioso del Signore e quindi riscopre le grandi possibilità della sua libertà». (9)

«Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore»

Ai poveri di Sion il profeta-sacerdote attribuisce un nome nuovo: «Querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria» (61,3b). Nel passato di Israele c'erano stati giardini idolatrici e culti cananei della fecondità caratterizzati da alberi sacri: ora il popolo stesso, perdonato e rinnovato, viene designato con le immagini vegetali. Il resto fedele di Israele è la stirpe, cioè il seme, che YHWH ha benedetto e sarà proprio quello il seme che il Signore farà germogliare come giustizia e lode al cospetto di tutte le nazioni. Gli Israeliti sono detti «alberi di giustizia», in quanto appartengono al Signore, che è il Giusto, e sono stati piantati da lui per rendere gloria a lui, cioè per mostrarne nel mondo la presenza potente e operante; sono il germoglio «legittimo» a cui il Signore darà fecondità con la sua benedizione. Questa serie di immagini apre la strada alla grande affermazione teologica che segna uno dei vertici della seconda parte: «Voi invece sacerdoti del Signore sarete chiamati, ministri del nostro Dio si dirà a voi» (61,6a). A chi è rivolta questa parola? Enigmatico, infatti, è il cambiamento dalla terza alla seconda persona. Grelot pensa che il sommo sacerdote restringa il discorso a Israele, rivolgendosi solo ai suoi colleghi sacerdoti; (10) ma, data l'assenza di indizi testuali che giustifichino il cambiamento di destinatari, si può ritenere che l'autore sacerdote intenda estendere al popolo intero le caratteristiche sacerdotali. Sembra infatti, descrivere un utopico cambiamento sociale: gli Israeliti lasceranno lavori agricoli e pastorali agli stranieri per svolgere solo compiti sacerdotali «Si suppone che i pagani convertiti al monoteismo riconoscano la preminenza spirituale degli Israeliti, equiparati per la loro intimità con YHWH ai sacerdoti» (11) ma probabilmente l'autore teologo vuol dire di più. Egli vede il popolo eletto come autentico mediatore fra Dio e il mondo intero; immagina che il compito di Israele sia quello di creare comunione fra gli stranieri e YHWH; annuncia che sarà il Signore stesso a far germogliare il seme di Israele perché tutti i popoli possano unirsi alla sua lode.

«Mi ha rivestito delle vesti di salvezza»

L'oracolo divino che l'autore introduce improvvisamente al v. 8 offre la garanzia di realizzazione ed avanza l'impegno che Dio si assume di stipulare un'alleanza eterna: sulla scia di Ger 31 ed Ez: 36, anche il nostro autore esprime la convinzione di un intervento futuro del Signore per stringere un nuovo e definitivo rapporto di amicizia e comunione con il suo popolo. Proprio la dimensione sacerdotale ne costituisce l'elemento portante ed il simbolo sponsale ne esprime la carica esistenziale.

L'altro vertice della seconda parte, infatti, riprende con le immagini dei paramenti sacerdotali il tema della consacrazione: il profeta irrompe nell'insieme delle promesse con un grido di giubilo personale e, nello stesso tempo, si fa voce dell'esultanza sponsale di tutto il popolo. Le «vesti di salvezza» ed il «manto di giustizia» sono simboli festivi della dignità sacerdotale e rimandano al rito solenne di investitura: ancora una volta l'autore ripropone la scena della propria consacrazione come chiave simbolica di lettura per la situazione presente. Nella sua persona, infatti, il popolo riscopre la propria condizione di «sposa per il Signore» e l'immagine liturgica dei paramenti sacri evoca le tanto desiderate nozze con YHWH, dopo i tremendi anni del tradimento e dell'abbandono.

«Il passaggio sfumato dalla proclamazione del messaggero alla descrizione della salvezza ci fa vedere come il profeta, prima di scrivere, abbia meditato sul suo compito e sul modo di descriverlo. Si tratta, per quanto ne sappiamo, dell'ultima volta che nella storia di Israele il profeta esprime con tanta libertà e sicurezza la certezza di essere inviato da Dio a portare un messaggio al suo popolo». (12)

«Oggi, questa profezia si è adempiuta!»

Questa antica teologia sacerdotale si ritrova in modo altamente significativo all'inizio del ministero pubblico di Gesù: nella sinagoga di Nazaret egli, leggendo il testo di Is 61, lo proclama realizzato nella propria persona (Lc 4,14-21). Se è vero che Isaia ha aiutato a comprendere il ruolo del Messia nella storia della salvezza, è altrettanto vero per noi cristiani che la vicenda di Gesù Cristo ha permesso di capire in pienezza le parole dell'antico profeta. La stessa presenza di Gesù, in quanto Figlio di Dio, inaugura l'anno di misericordia del Signore ed annuncia l'euangelion della salvezza. La sua missione è proprio quella di proclamare la beatitudine ai poveri, agli afflitti, ai puri di cuore: egli si presenta come colui che libera i prigionieri e perdona i peccatori, capovolgendo in modo radicale la condizione dell'uomo. In lui si realizza l'autentica mediazione sacerdotale e grazie a lui si celebrano le nozze dell'eterna comunione fra Dio e l'umanità. Nel suo sangue il Signore ha stipulato l'eterna alleanza con il suo popolo e lo ha costituito come «organismo sacerdotale», perché sia sacramento di salvezza per il mondo intero.

(da Parole di Vita, n. 6, 1999)




1) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI: la première consécration d'un grand-prètre», in Revue Biblique 97 (1990), 414-431.
2) La genealogia del sommo sacerdote Giosuè, ritornato da Babilonia col discendente davidico Zorobabele, si trova nel libro di Neemia (12,1-26).

3) Alcuni autori ritengono che il v. 10 sia fuori posto e lo spostano; penso tuttavia che l'insieme possa spiegarsi così com'è, senza bisogno di interventi di ristrutturazione. Il v. 7 risulta di difficile traduzione e si rende in genere a senso, giacché deve essersi verificato qualche corruzione nella trasmissione del testo: nella LXX ne manca metà! La traduzione che adopero è quella ufficiale italiana, ma con diversi ritocchi per rendere più fedelmente l'originale ebraico. 4) La traduzione italiana parla di «cuore», ma in ebraico c'è lo stesso termine ruach, cioè «spirito», che si trova all' inizio del v. 1.

5) H. CAZELLES, Il Messia della Bibbia, Roma 1981, p. 135.

6) «L’autore sta parlando di una restaurazione che deve avvenire in patria e che si apre al futuro. Essa comprende due elementi paralleli e complementari: all’interno deve trionfare la giustizia nelle relazioni civili, all’esterno devono cessare le ingiustizie e le oppressioni contro i giudei.» (L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 1984, p. 418)

7) Il termine ebraico tradotto con «corona» è pe'er, reso in greco con mitra, e designa un copricapo liturgico sacerdotale; inoltre offre un interessante gioco linguistico con la parola “cenere” che è 'eper. Lo stesso termine ritorna al v. 10 per indicare la corona simbolica dello sposo (non diadema!). L'espressione «olio di letizia» ricorre anche in Sal 45,8 per designare la consacrazione del re ed orienta ad un significato liturgico. Infine non si capisce perché il testo italiano parli di «canto di lode», quando l'ebraico adopera un termine che indica l'abito (in greco: katastolé, in latino: pallium).

8) Una scena simbolica di vestizione del sommo sacerdote Giosuè si trova nel libro del profeta Zaccaria (3,1-7), che con tale visione intende proprio significare il cambiamento della situazione dopo l'esilio.

9) G. ODASSO, «Isaia», in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 1789.

10) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI», p. 423: «La suite, dans le discours en vous, est evidedemment adressé aux membres du sacerdoce qui l’entourent».

11) S. VIRGULIN, Isaia, Roma 1977, p. 405.

12) C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, Brescia 1978, p. 438.


IL GIUBILEO

di Giuseppe Dell'Orto

Nel testo della vocazione di Terzo Isaia (Is 61,l-3a) si legge questa espressione letterale: «per proclamare ai detenuti l'amnistia e ai prigionieri la liberazione» (Is 61,l). Ora tale espressione trova un parallelo terminologico in Levitico 25,10: «Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete l'amnistia su tutto il paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».

Inoltre, l'anno di grazia del Signore (Is 61,2) si riferisce alla grazia dell'amnistia e alla istituzione del riscatto (ghe 'ullah). Dunque, il Terzo Isaia considera il Signore come il vero Go'el, il Redentore, che opera il riscatto con la stessa modalità con la quale era stato annunciato dall' anno giubilare.

È il testo di Levitico 25,8-55 quello che presenta dettagliatamente le norme e il senso dell'anno giubilare. Diciamo, subito, che il termine «Giubileo» viene fatto derivare dall'ebraico jobel (che compare 27 volte), che sta per «il corno dell'ariete»: nel decimo giorno del mese di Tishri - ossia nel giorno della espiazione - veniva proclamato l'anno giubilare mediante il suono del «corno dell'ariete».

Il termine, però, può essere spiegato anche diversamente. Non mancano Autori che, rifacendosi al verbo jbl (= restituire, mandar via), sostengono che jobel si riferisca semplicemente alla restituzione delle persone o delle cose. Su tale base si spiega anche la scelta della LXX di rendere sempre jobel con afesis, cioè «remissione, rinvio, liberazione».

Vi è anche un terzo modo di spiegare il termine: poiché uno dei motivi teologici principali del «Codice di Santità» (Lv 17,1-26,16) è rappresentato dal riconoscimento di JHWH come unico Signore, jobel sarebbe la sintesi di una breve professione di fede che riconosce JHWH (prefisso Jo-) come il Bahal (= bel), vale a dire come il vero Signore e padrone. Non a caso la legislazione dell'anno giubilare inizia e si conclude con l'affermazione «Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 25,17.55).

Il lungo brano di Lv 25,8-55 presenta sei microunità letterarie, così distribuite:

  1. data e celebrazione del giubileo (vv. 8-12)
  2. compravendita dei terreni (vv. 13-17)
  3. il riposo della terra (il maggese: vv. 18-22)
  4. il riscatto della terra (vv. 23-28)
  5. il riscatto delle case (vv. 29-34)
  6. il riscatto delle persone (vv. 35-55).

Al centro, dunque, della celebrazione dell'anno giubilare si trovano la persona, la famiglia e la terra con i loro diritti di sopravvivenza: appartengono al Signore e non possono diventare proprietà di nessun altro. Poiché l'anno giubilare è un anno «santo» (qadosh), attraverso la tutela delle persone e delle terre si diventa partecipi della santità di Dio, prima che mediante lo stesso culto riservato al Signore.

L'autore del libro del Levitico sembra dire che questa rappresenta la via principale per «diventare santi come Dio è santo» (Lv 19,2).

Edotta dalla disastrosa esperienza monarchica, quando fattori economici e sociali causarono gravi disordini e provocarono la catastrofe dell' esilio babilonese, la corrente sacerdotale del postesilio propose per il futuro un sistema ottimale, che si doveva realizzare in una società fraterna governata secondo il principio religioso, che Israele è unicamente servo di Dio.

Più che un testo legislativo di un'epoca passata, le prescrizioni giubilari sono un documento profetico avente una prospettiva escatologica.

I precetti dell'anno giubilare restarono in gran parte una prospettiva ideale, più una speranza che una realizzazione concreta, divenendo peraltro prophetia futuri, in quanto preannuncio della vera liberazione che sarebbe stata operata dal Messia.

Gesù, nella sinagoga di Nazaret, annuncerà l'«oggi» del compimento dell'«anno di grazia» (Lc 4,16-30).


Pubblicato in Bibbia
«Consolate il mio popolo» (Is 40,1-11)

di Benito Marconcini




Il Secondo Isaia inizia con un prologo solenne che, mentre segna uno stacco netto con la tematica e il linguaggio dei capitoli precedenti, racchiude in sintesi i grandi temi dei cc. 40-55 che dalle prime parole sono stati chiamati «Libro della consolazione». L'introduzione tende a convincere il popolo sulla fine dell'esilio e sull'imminente ritorno in patria, verità che le cinque parti del libro progressivamente e in modo organico cercano di dimostrare: (1) i numerosi imperativi «consolate», «parlate», «preparate», hanno l'obiettivo di vincere ogni dubbio e incertezza sul realizzarsi dell'evento. Predomina il tema della Parola (2) (dire, parlare, gridare, voce, rispondere, parola, liete notizie, annunziare) ripreso inclusivamente alla fine del libro (55,10-11). La Parola risuona in un orizzonte cosmico che ne rivela il dinamismo.

Essa infatti parte dal cielo (v. 1) scende nel deserto (v. 3) testimone di eventi meravigliosi (v. 4) e di episodi di debolezza (v. 6), è udita sul monte alto (v. 9), prolunga il suo effetto in Gerusalemme, dove il Signore sta guidando, con forza (v. 10) e come un pastore (v. 11) il suo popolo. Il brano si snoda in quattro parti: fine della schiavitù babilonese (vv. 1-2), attraversamento del deserto (vv. 3-5), riflessione sulla fragilità umana (vv. 6-8) pellegrinaggio verso Gerusalemme (vv. 9-11) sostenuto da una certezza: «Il Signore Dio viene con potenza». Seguiamo le quattro parti, introdotte da Dio e da tre voci imprecisate, con uno sguardo alla ripresa della tematica nei capitoli seguenti.

Consolate il mio popolo

Questo imperativo include tutti i valori espressi nel prologo: la consolazione comporta infatti l'attraversamento del deserto, la sicurezza del permanere della Parola anche dopo la distruzione del popolo e la necessità dell'annuncio a Sion sul ritorno del Signore. La completezza del discorso richiederebbe anche l'ordine di partire, rimandato alla fine: «Fuori, uscite di là, uscite da Babilonia, purificatevi» (52,11). Tra i due ordini sta la predicazione del profeta che nel partire vede l'inizio della consolazione. La mancata identificazione degli esecutori dell'ordine (chi deve consolare? I profeti? I sacerdoti? Gli spiriti celesti?) dà risalto al messaggio stesso.

Il verbo «consolare» supera il pronunciare parole di affetto e di solidarietà e comporta la trasformazione di una situazione: la morte diventa vita, il dolore gioia, la disperazione speranza e - come qui - l'esilio si apre al ritorno in patria. Soggetto della consolazione è infatti Dio, anche quando ad agire immediatamente sono i suoi inviati. «Consolare» assume così il significato anche di «avere misericordia». «Questa concezione spiccata si trova ovunque quando YHWH stesso è il consolatore, perché nel suo volgersi alla consolazione Dio rinnova la comunione di grazia con colui dal quale si era allontanato nell'ira» (Is 12,1). L'incoraggiamento e l'aiuto divino che rendono concreta la trasformazione della situazione ritorna più volte nel Secondo Isaia. «Consolare» (nhm), in parallelo con «aver pietà» (riham: 49,13), esprime la trasformazione del deserto in Eden, della steppa in giardino, l'improvvisa comparsa in Sion di giubilo, gioia, ringraziamento, lode (51,3), (3) la liberazione del popolo dalla paura degli uomini (51,12), la sottrazione a una schiavitù presente nel parallelo «consolare il popolo/riscattare (gā' al) Gerusalemme» (52,9). Il verbo assume anche il senso debole di compatire (51,19; 54,11), non mai disgiunto dall'amore divino (54,10). «Il v. 1 è in germe per forma e contenuto la buona notizia del Deuteroisaia». (4)

Questo è confermato dalla triplice motivazione presente nel resto del versetto che dà contenuto e consistenza alla consolazione. I rapporti tra Dio e il popolo, turbati dall' esilio, sono stati ristabiliti, come chiarifica l'espressione «mio popolo/vostro Dio», evocatrice della tradizionale formula del patto «voi siete il mio popolo e io sono il vostro Dio», usata anche da Geremia per annunciare la «nuova alleanza» (Ger 31,31-34), inclusiva anche del ritorno in patria (cf Ger 31,41; Ez 36,24.28). Il ritorno comporta la fine della schiavitù, cioè quel lavoro faticoso, quel servire stressante e continuo che è stato l'esilio conseguente al debito contratto con Dio. Questo parallelismo, cioè la qualifica dell'esilio come lavoro forzato e come debito, pone il Secondo Isaia in continuità con i profeti precedenti: c'è stata una colpa del popolo (cf 50,1), le cui conseguenze finiscono quando Dio decide di condonare il debito con un perdono incondizionato. È sempre l'iniziativa di Dio a produrre cambiamenti nella storia, come afferma l'espressione «doppio castigo» per qualificare l'esilio. Pur dovuto ai peccati, il tempo del lavoro forzato appare eccessivo all'amore di Dio, impegnato in prima persona. È alla città amata che Dio parla come si fa con la sposa, l'amico, il fratello rivolgendosi a quella sede dei pensieri, della volontà, dei sentimenti, della vita morale, a quella radice delle decisioni, all'io profondo di ciascuno, che è il cuore.

Attraverso il deserto alla libertà

L'uscita da Babilonia e l'ingresso in Gerusalemme sono separati dal deserto, il cui attraversamento costituisce l'inizio della consolazione. Il mediatore di questa è lasciato volutamente imprecisato per far risaltare l'efficacia della Parola che non ritorna a Dio senza aver compiuto il suo desiderio (cf 55,11): «Nel deserto preparate la via del Signore / tracciate nella steppa una strada al nostro Dio».

Il tema della via è ripreso dall'esperienza di Babilonia, dove splendidi itinerari univano i palazzi reali con il tempio ed erano luogo di esaltazione della divinità. Qui la strada del Signore (meglio che al Signore) è preparata nel deserto che assume un duplice senso, geografico e teologico. Esso indica gran parte del vasto territorio tra le due capitali da affrontare con decisione e senza paura, poiché il popolo avrà come guida Dio stesso, capace di infondere più sicurezza di quella sperimentata dai padri nell'attraversare il Mar Rosso.

Questa tematica del secondo esodo sarà ripresa più volte nella profezia, sia paragonando la via del mare con quella del deserto (43,16.19), sia insistendo sul deserto rinnovato e fiorente (41,19-20; 48,21; 49,10-11). Il deserto è pertanto l'ostacolo perenne che si frappone ogni volta che si tratta di uscire da una schiavitù per entrare nella libertà, come nell'abbandonare l'Egitto per raggiungere la terra, Babilonia per entrare in Gerusalemme, o - come avviene nel terzo esodo - nell'uscire da se stessi per entrare nelle vie di Dio. (5)

L'attraversamento del deserto non è solo un segno della potenza divina, ma anche una tappa della storia salvifica. Come già la liberazione dalla schiavitù meridionale, dall'Egitto, anche la sottrazione alla tirannide settentrionale, a Babilonia, rivela il Dio di un popolo apparentemente sconfitto come il Signore della storia, i cui fatti egli predice perché capace di realizzarli. «I primi fatti, ecco sono avvenuti e i nuovi io preannuncio, prima che spuntino io li faccio sentire» (42,9; cf 41,4-4). Chiunque potrà vedere lo splendore divino racchiuso in quella presenza raggiante detta gloria (40,6) e constatare la conduzione amorosa del popolo verso la città.

Parola di Dio e realtà umana a confronto

L'insistenza sull'efficacia della Parola («la bocca del Signore ha parlato») apre un confronto con la fragilità umana, con la sfiducia e la depressione della gente incapace ad aprirsi all'annuncio della novità. «Veramente il popolo è come l'erba» riconosce la voce che invita all'entusiasmo e rivela il profeta solidale con il popolo. Sembra infatti proprio Dio la causa di questa situazione, come il vento caldo del deserto («il soffio del Signore») fa appassire il fiore. Il vocabolo hesed (bellezza/splendore, v. 6) esprime lo scoraggiante ripiegamento dell'uomo, così come kabôd (gloria/magnificenza, v. 5) aveva tradotto il raggiante apparire di Dio. È possibile - si chiede il profeta - unire le due realtà, la potenza divina e il fallimento umano? La possibilità risiede nell'efficacia della Parola che dinanzi al ripiegarsi di ogni realtà umana perdura, o meglio sta in piedi, si erge, producendo nella storia quel miracolo constatato nella natura che fa passare il fiore dalla morte dell'inverno allo splendore della primavera. «La Parola è la forza efficace che crea un momento imprevedibilmente nuovo nella storia, che dona vita dove regnava la morte, che consola chi è nella disperazione, che reca la presenza e la potenza di Dio, che chiude il passato di colpe e di castigo aprendo un futuro nuovo». (6) È la Parola la sola realtà che «tiene» davanti allo sgretolarsi dei poteri umani, anche degli attuali dominatori: dinanzi ad essa svanisce la differenza tra chi ha il potere e chi ne è privo, per cui gli esuli sono invitati ad aggrapparsi alla sola forza capace di ricondurli in patria. È una tematica che il Secondo Isaia richiama costantemente in sfumature diverse (44,24-28; 45,23-24; 50,4; 51,16) specialmente con la frequente espressione «così dice il Signore» (43,1; 44,6; 49,8; 50,1).

Il vangelo di Gerusalemme

Dopo la voce, è direttamente Sion/Gerusalemme, nella figura di una donna, a trasmettere alle altre città di Giuda la lieta notizia, dopo averla ricevuta per prima. Il termine usato è della più grande importanza: biśśar (evangelizzare).

L'annuncio che Dio sta venendo alla testa del popolo, considerato un trofeo di guerra, è la buona notizia, è «vangelo», (7) è certezza del ritorno a Gerusalemme. Il popolo quasi scompare dietro all'avvento del Signore, ritenuto tanto sicuro da essere considerato come già realizzato. «L'inno di lode al quale viene invitata Sion nei vv. 9-11 corrisponde alla forma letteraria, di importanza determinante nella predicazione del Deuteroisaia, dell'oracolo di salvezza, nel quale la liberazione promessa viene annunziata al passato, così che si viene a dire che la svolta causata da Dio è già avvenuta (40,1-2). Per questo l'oracolo di salvezza risuona anche alla lettera nell'invito a non avere paura, alla fine del v. 9». (8)

Il volto di Dio presenta in questi ultimi versetti due aspetti diversi e complementari. Esprime fortezza e decisione: «Il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio» (v. 10). D'altra parte l'immagine del pastore presenta un volto pieno di tenerezza, attento alle necessità della singola persona con vocaboli toccanti: pascolare, radunare, agnellini, seno, piano piano, pecore madri. È un Dio che si fa vicino, per il quale il tutto esiste nel singolo, che si sente considerato nei propri bisogni, sostenuto e reso capace di camminare.

Conclusione

Is 40,1-11 è un prologo nel senso di introduzione e sintesi del Libro della consolazione sotto un quadruplice aspetto.

Letterariamente anticipa gran parte del vocabolario ripreso e sviluppato in tutti i capitoli, specialmente il linguaggio relativo alla Parola e fa largo uso dell'esortazione presente in modo particolare nei numerosi imperativi.

Teologicamente richiama un fatto, la presenza efficace del Signore nella storia, capace di superare ogni ostacolo, anche l'esilio definito con due categorie complementari, come duro servizio e conseguenza di un peccato: l'effetto prodotto dall'agire divino mediante la Parola è considerato «consolare» ed «evangelizzare». Il volto di Dio caratterizzato nei sedici capitoli con 23 titoli e 63 verbi riceve già qui una prima delineazione: è il Dio del patto, giusto e misericordioso, pieno di gloria e potenza, pastore forte e tenero, che ha scelto il suo popolo.

Da un punto di vista storico-salvifico questo prologo unisce, rileggendole, precedenti tradizioni come quelle relative all'alleanza, al deserto, alla Parola, alla teofania, a Sion/Gerusalemme, a Dio pastore (cf Ger 23; Ez 34) e prepara testi come le riflessioni sulla gloria divina, l'immagine di Dio pastore (cf Gv 10), la tematica della consolazione (cf il libro di Zaccaria), la concezione dell' evangelizzare.

Antropologicamente il prologo, con l'insistenza sull'efficacia della Parola, si rivolge ad ogni uomo che patisce una qualsiasi forma di esilio: oppressione politico-religiosa, esperienza della propria incapacità, difficoltà per un coerente cammino spirituale. L'uomo in ascolto della Parola è condotto a scegliere tra le apparenze ingigantite dalla propaganda e l'umile offerta di una Parola che nasconde la sua potenza nella povertà della fede e sfugge a evidenti verifiche umane, anche se quelle che offre sono sempre significative.

Per ritrovare qualcosa che assomigli a Is 40,1-11 bisognerà attendere il prologo giovanneo (Gv 1,1-18), introduzione e sintesi del quarto Vangelo.

(da Parole di Vita, 4, 1999)

Note

1) B. MARCONCINI, «La salvezza contemplata dal Secondo Isaia», in La Parola diventa preghiera. Parola, Spirito e Vita 25, EDB, pp. 53-57.

2) B. MARCONCINI, Il libro di Isaia 40-66 (Guide Spirituali all'Antico Testamento), Città Nuova, Roma 1996, pp. 33-39.

3) In 51,3 il verbo è tradotto nella Bibbia CEI ambedue le volte con «aver pietà» a differenza della più esatta e comune traduzione «consolare, confortare» e di quella più immediatamente comprensibile «mostrare bontà» de «La Bibbia in lingua corrente».

4) K. ELLIGER, Deuterojesaja (40,1-45,7) (BK.AT XI,1), Neukirchener Verlag, Neukirchen/Vluyn 1989, p. 13.

5) A. SPREAFICO, «Il terzo-esodo: schemi e immagini», in Rivista Biblica 28 (1980), pp. 129- 6) A. BONORA, Isaia 40-66. Israele: servo di Dio, popolo liberato (LoB 1,19), Queriniana, Brescia 1988, p. 32.

7) Il testo isaiano è tra i più importanti che hanno contribuito a dare il senso forte al termine «vangelo/evangelizzare» proprio degli scritti neotestamentari. Cf B. MARCONCINI, I Vangeli Sinottici. Formazione - Redazione - Teologia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1977, pp. 6-10. Il testo ebraico propende per una identificazione tra colei che annuncia e Sion/Gerusalemme, a differenza della traduzione CEI.

8) C. WESTERMANN, Isaia - Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978, p. 61.
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Venerdì, 23 Novembre 2007 00:53

Il buon uso di Giuda (Frédéric Lenoir)

Il buon uso di Giuda

di Frédéric Lenoir



Il Vangelo di Giuda è stato il best-seller internazionale di questa estate. (1) Destino straordinario per questo papiro copto strappato alle sabbie dopo diciassette secoli di oblio e di cui non si conosceva finora l’esistenza se non dall’opera di sant’Ireneo Contra hereticos (180). Si tratta dunque di una scoperta archeologica importante. (2) Tuttavia esso non apporta nessuna rivelazione sugli ultimi momenti della vita di Gesù e non è assolutamente possibile che questo libricino possa “agitare fortemente la Chiesa”, come proclama l’editore in quarta pagina di copertina.

Anzitutto perché l’autore di questo testo scritto alla metà del II secolo non è Giuda, ma un gruppo di gnostici che ha attribuito la paternità del racconto all’apostolo di Cristo per dargli più senso e autorità (procedimento frequente nell’Antichità). E poi perché, dopo la scoperta di Nag Hammadi (1945), che ha permesso di portare alla luce una vera biblioteca gnostica che comprende molti vangeli apocrifi, si conosce meglio la gnosi cristiana, e infine perché Il Vangelo di Giuda non porta alcuna luce nuova sul pensiero di quel movimento esoterico.

Il suo successo fulmineo, perfettamente orchestrato dal National Geografic che ha acquistato i diritti per tutto il mondo, non dipende soltanto dal suo titolo straordinario: “Il Vangelo di Giuda”. Associazione di parole stupefacente, impensabile, sovversiva. L’idea che colui che i quattro Vangeli canonici e la tradizione cristiana presentano da duemila anni come “il traditore”, “il cattivo”, “l’adepto di satana” che ha venduto Gesù per una manciata di soldi, abbia potuto scrivere un vangelo è intrigante. Che abbia voluto dire la sua versione degli avvenimenti per tentare di allontanare l’obbrobrio che pesa su di lui è anche formidabilmente romanzesca, quanto il fatto che questo vangelo perduto sia ritrovato dopo tanti secoli di dimenticanza.

In breve, anche quando non si conosce nulla del contenuto di questo libretto, non si può che essere affascinati da un simile titolo. Tanto più che, come ha ben rivelato il successo del Codice da Vinci, la nostra epoca dubita dei discorsi ufficiali delle istituzioni religiose sulle origini del cristianesimo e che la figura di Giuda, come quella della lunga lista delle vittime o degli avversari vinti dalla Chiesa cattolica, è riabilitata dall’arte e dalla letteratura contemporanea. Infatti come avrebbe potuto il Cristo compiere la sua opera di salvezza universale se non fosse stato consegnato da quel disgraziato? Il vangelo attribuito a Giuda cerca d’altronde di risolvere il paradosso facendo dire esplicitamente a Gesù che Giuda è il più grande degli apostoli, perché è lui che permetterà la sua morte: “Ma tu li superi tutti! Perché sacrificherai l’uomo che mi serve da involucro carnale” (56). Questa parola riassume bene il pensiero gnostico: il mondo, la materia, il corpo sono l’opera di un dio perverso (quello degli Ebrei e dell’Antico Testamento); lo scopo della vita spirituale consiste, mediante l’iniziazione segreta, in questo: che i rari eletti, che possiedono un’anima divina immortale, dono del Dio buono e inconoscibile, possano liberarla dalla prigione del loro corpo. È piuttosto divertente constatare che i nostri contemporanei, infatuati della tolleranza piuttosto materialisti, e che rimproverano al cristianesimo il disprezzo della carne, si appassionino per un testo nato da una corrente che a suo tempo fu condannata dalle autorità della Chiesa per il suo settarismo e perché considerava che l’universo materiale e il corpo fisico fossero un’abominazione.

1) L’Évangile de Judas, traduction et commentaire de R. Kaiser, M. Meyer et G. Wurst, Flammarion, 2006, 221 p., 15 €. Rodolphe Kasser, Marvin Meyer, Gregor Wurst, Bart D. Ehrman (a cura di), Il Vangelo di Giuda, Vercelli, National Geographic Society - White Star, 2006. È la versione italiana della traduzione "ufficiale" del testo, accompagnata da alcuni saggi.

2) Vedere Le monde des Religions, n° 18.
(da Le monde des religions 19, p. 5)
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Martedì, 20 Novembre 2007 00:00

Lezione Quattordicesima. Gesù Messia e Signore

Lezione Quattordicesima

GESÙ MESSIA E SIGNORE


1. Gesù Messia

Introduzione

1. Passando dalla riflessione dall’A.T. al N.T., ci collochiamo nella prospettiva storico-salvifica, come si è fatto per le lezioni precedenti.

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Lunedì, 12 Novembre 2007 23:24

I Salmi: la poesia della preghiera

I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese.

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Il fallimento del progetto di Dio

Gn 3-11 e le «strutture di peccato»

di Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione

Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.

Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.

1. Il peccato come scelta dell’uomo

Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.

L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).

2. L’istinto del «mangiare»

La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.

Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).

Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.

Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».

La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.

La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del 1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).

Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.

L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».

3. Il dilagare della violenza

Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.

La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).

Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.

Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):

Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)

La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).

È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.

La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:

Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).

La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.

La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.

Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).

AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.

L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).

Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).

4. Babele, la «porta del cielo»

Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).

La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.

Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-

la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.

Conclusione

Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).

Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.

Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.

Un campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

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Negli ambienti sacerdotali dei leviti viene prodotto il documento che sta alla base del Deuteronomio, in cui si prevede la centralizzazione del culto a Gerusalemme.

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Venerdì, 26 Ottobre 2007 00:50

Un vangelo copto di Giuda (Madeleine Scodello)

Un vangelo copto di Giuda

di Madeleine Scodello



Un vangelo apocrifo di recente pubblicazione fa di Giuda il contrario dell’apostolo traditore al quale i Vangeli canonici ci hanno abituati. Come ha potuto questo testo di ispirazione gnostica arrivare a un tale capovolgimento?

Si tratta di un manoscritto di una quindicina di foglietti di papiro, scritto in copto, la lingua parlata in Egitto nei primi secoli dell’era cristiana: il Vangelo di Giuda. Ritrovato nel Medio-Egitto (e non si sa esattamente dove) negli anni ’70 e in seguito inaccessibile, è stato ora messo a disposizione dei ricercatori. Il testo appartiene a un codice composto di quattro trattati di contenuto religioso, che risale al sec. IV (la datazione è confermata dall’analisi al carbonio 14), denominato “codice Tchacos”, dal nome dell’antiquario svizzero Frieda Tchacos, che lo acquistò nel 2000, dopo una serie di transazioni commerciali. Ma il codice aveva in precedenza subito gravi danni, dovuti in larga parte all’incuria dei venditori di antiquariato. Affidato da Frieda Tchacos per il restauro alla fondazione svizzera Maecenas, il prezioso codice ha trovato nuova vita grazie alla competenza degli specialisti, fra cui il professor Rodolphe Kasser, dell’università di Ginevra, che hanno proceduto alla difficilissima ricostruzione.

Generalmente le scoperte archeologiche e i ritrovamenti di testi molto antichi non sollecitano a tal punto l’attenzione del grande pubblico. Tuttavia la storia avventurosa di questo manoscritto si prestava bene a costruire un romanzo a effetto, in cui sono stati spesso confuse, se si legge la stampa internazionale, le peripezie moderne di un testo di grande valore con i danni che esso aveva certamente subito in tempi antichi.

Come catalizzatore ha agito il titolo del trattato. Un vangelo attribuito a Giuda, il traditore per eccellenza, conteneva in sé una contraddizione: il termine vangelo, in greco “buona notizia”, è inestricabilmente legato alla storia di Gesù, riferita dai quattro evangelisti, le cui opere costituiscono una parte del Nuovo Testamento. Ma come spiegare l’esistenza di un vangelo attribuito a colui che consegnò Gesù, rompendo il vincolo di fedeltà con lui e con la comunità degli apostoli?

Il Vangelo di Giuda evidentemente non è stato scritto da Giuda al tempo della vita di Cristo. È un apocrifo, cioè un testo che il suo autore, anonimo, ha attribuito a Giuda, per mettere il suo scritto sotto il patronato di una figura autorevole, anche se è quella di un personaggio negativo.Questo procedimento di attribuzione fittizia di un testo, già conosciuto nell’antichità greco-romana, è stato sovente impiegato da autori ebrei e cristiani che hanno attribuito i loro scritti a figure mitiche (Adamo, Set, Enoch) o a personaggi dell’ambiente di Gesù.

Ciò tuttavia non toglie nulla all’originalità del testo, né al suo interesse. Il Vangelo di Giuda appartiene con assoluta evidenza alla sfera d'influenza della gnosi. Alla fine del sec. II, Ireneo, vescovo di Lione e confutatore delle dottrine gnostiche, menziona un “vangelo di Giuda” che circolava in un gruppo di gnostici, detto “cainita”, che aveva in grande stima Caino (Contra haereses I, 31, 1). Questo vangelo era scritto sicuramente in greco, la lingua nella quale Ireneo aveva composto la sua opera polemica.

Il manoscritto copto del Vangelo di Giuda, più recente di due secoli, è la traduzione di un testo scritto in greco, attestata dalla presenza nel testo copto di termini tecnici teologici e filosofici. Il testo greco, perduto, deve essere stato composto durante il II secolo, come si può supporre dal contenuto del trattato. Si tratta allora di quello ricordato da Ireneo? L’ipotesi è verosimile, anche se i testi potevano subire modifiche e riscritture nel passare di mano in mano.

Il Vangelo di Giuda nel contesto dello gnosticismo

Il Vangelo di Giuda elabora una serie di temi e motivi gnostici, sia dal punto di vista della forma che da quello del contenuto.

Non è un vangelo nel senso che si dà ai vangeli canonici: narrazioni fatte da un apostolo, il cui scopo era di trasmettere il messaggio di Cristo e di raccontare gli eventi della sua vita. È invece un vangelo come lo intendono gli gnostici e nella tradizione di quelli che sono stati trovati a Nag Hammadi: vangeli che si focalizzano su un episodio, situato prima o dopo la Resurrezione, in cui Gesù rivela parole segrete ai suoi discepoli o, più spesso, a uno di essi. Tali parole cariche di mistero non possono essere rivelate che a un circolo ristretto di iniziati.

Nel Vangelo di Giuda l’insegnamento segreto di Cristo è inserito in un dialogo con i discepoli, tre giorni dopo la celebrazione della Pasqua, e che si prolunga per una settimana (33,1-4). Se le domande poste dai discepoli, e in particolare da Giuda, sono brevi, le risposte sono lunghe e costituiscono delle esposizioni dottrinali svolte bene e sulle quali dobbiamo ritornare per individuarne il contenuto.

I discepoli scelti dagli gnostici come depositari delle parole di Gesù non sono quelli che la tradizione della Chiesa ufficiale ha messo in valore. Sono invece delle figure relegate in secondo piano, come Filippo, Tommaso, Giacomo o Maria Maddalena, che ritrovano nella letteratura gnostica tutto il loro splendore.

La struttura dialogica non è propria solo a questo nuovo vangelo: la si ritrova a più riprese nella letteratura gnostica. Il Vangelo di Tommaso (Nag Hammadi, codice II, 2), la Sapienza di Gesù Cristo (Nag Hammadi, II, 4 e il papiro di Berlino 8502, 3), il Dialogo del Salvatore (Nag Hammadi, V, 3) o il Vangelo di Maria [Maddalena] (papiro di Berlino, 8502, 1) ne sono alcuni esempi. Il dialogo è anche presente in alcuni trattati di Nag Hammadi che hanno il titolo di “apocalisse” (in greco, “rivelazione”), per esempio le Prima Apocalisse e la Seconda Apocalisse di Giacomo.

Generalmente in questi dialoghi di rivelazione un discepolo si distingue sempre dagli altri ed è messo in evidenza per la sua comprensione del messaggio di Cristo, la sua capacità di porre domande giuste e poi di comprendere l’insegnamento. È il caso di Giuda nel vangelo omonimo. Le prime parole che rivolge a Gesù in forma di affermazione (“Io so chi tu sei e da dove sei venuto, Tu provieni dal regno immortale di Barbelo [entità femminile uscita da Dio in certi sistemi gnostici]” 35, 20-21) gli conquistano subito la considerazione del Cristo che gli risponde: “Allontanati dagli altri e ti dirò i misteri del Regno” (35, 23). A suo confronto gli altri apostoli non fanno bella figura, sono persino ripresi varie volte da Gesù, che rimprovera loro duramente la scarsa comprensione. Essi, anche se pensano di aderire alla verità rivelata dal Cristo, non si sono in verità distaccati dalle loro vecchie credenze e continuano a onorare il creatore del mondo, il demiurgo inferiore (34, 10-13). Se pretendono di conoscere chi è veramente Gesù, si ingannano, come lui stesso fa loro osservare con durezza: “Come mi conoscereste? Ve lo dico in verità, nessuna generazione di coloro che sono tra voi sarà in grado di conoscermi” (34,13-15). Gli apostoli saranno allora presi da collera, una collera che denota la loro schiavitù al demiurgo. La loro incapacità di “stare dritti” davanti al Signore (espressione che indica come l’uomo abitato dallo spirito è capace di elevarsi verso la conoscenza, di tenersi in una posizione eretta, grazie al suo intelletto, cosa che lo distingue dagli animali), contrasta con l’atteggiamento di Giuda che, solo, sta davanti a Gesù anche se non osa guardarlo negli occhi (35,23). Per questo sarà degno di ricevere la rivelazione dei misteri del regno.

Il Dio trascendente e il demiurgo

Il Vangelo di Giuda trasmette temi e motivi che si radicano nella dottrina gnostica e che possono ricevere luce da una lettura comparata con i testi di Nag Hammadi.La ricerca su questo nuovo trattato è ancora agli inizi, ma si possono indicare alcune linee di interpretazione.

La teologia del Vangelo di Giuda è costruita sull’opposizione fra il Dio trascendente e perfetto e un demiurgo, responsabile di una creazione difettosa, che egli ha realizzato imitando maldestramente il mondo divino. Il Dio trascendente è chiamato il Grande Spirito divino (47, 86). Il suo regno è senza limiti (ibid), eterno (45, 79), abitato da entità celesti da lui chiamate all’esistenza e da santi angeli (47,84-99). Le note sintetiche con le quali l’autore del vangelo descrive l’entità suprema trovano punti di confronto in trattati di Nag Hammadi, che presentano complesse esposizioni sulla trascendenza divina al modo della filosofia del medio platonismo, la corrente di pensiero che fiorì nel II secolo e che ha influenzato profondamente gli gnostici.

Subordinato al Grande Spirito invisibile si trova l’Autogenerato (46, 92). Adamas (48, 99), figura primordiale che preannuncia l’Adamo terrestre, si manifesta anch’esso, seguito da Set (48, 101), figura di riferimento, prototipo in certi ambienti gnostici di colui che possiede la conoscenza.

Il Dio supremo non ha svolto alcun compito nella creazione del mondo e dell’uomo. Il cosmo, chiamato anche “perdizione” (50,106), dipende da una entità chiamata El (51, 109), che chiama dodici angeli per regnare sul caos. Fra essi si distingue Nebro, “il ribelle” dal volto di fuoco e di sangue. Anche Saklas fa la sua apparizione. L’uno e l’altro sono accompagnati da accoliti che, pur se ricevono il nome di angeli, sono in realtà dei demoni.

Tutti i nomi trovano paralleli nei testi mitologici della gnosi o designano il demiurgo. Il nome El è con tutta evidenza un riferimento polemico al Dio della Bibbia (probabilmente una abbreviazione della parola ebraica Elohim che significa Dio; d’altronde “el” è il suffisso di divinità nei nomi degli angeli), al quale gli gnostici attribuiscono la creazione imperfetta del mondo.

A costui succede la creazione dell’uomo operata da Saklas e dai suoi angeli cattivi. Eva e Adamo vengono alla luce come creature legate alla catena della vita e delle generazioni (52,117-119). Questo tema centrale dell’antropologia gnostica, elaborato dettagliatamente da certi trattati di Nag Hammadi, è soltanto sfiorato nel Vangelo di Giuda, dato che probabilmente i suoi lettori conoscono altri opere che trattano l’argomento.

Adamo è sottomesso agli dei del caos che lo hanno creato. Tuttavia il Dio trascendente gli ha trasmesso, come anche ai suoi discendenti, la conoscenza, affinché gli “dei del caos e del mondo sotterraneo non abbiano potere su di lui” (54,126-128). L’autore del vangelo non si dilunga su questo punto, ma altri pensatori gnostici lo hanno fatto con dovizia. Anche nella decadenza della sua condizione umana, e pur essendo asservito ai suoi creatori, Adamo conserva una particella di conoscenza, che i suoi carcerieri non possono afferrare. Grazie ad essa egli potrà ritornare a Dio. Poiché lo spirito, l’anima vengono da altrove, il demiurgo si è limitato a fornire ad Adamo e ai suoi discendenti di un soffio di vita (53, 121-124)

Che ne è dunque del corpo? Il Vangelo di Giuda affronta tale problema in maniera sorprendente e drammatica, facendo sua la dottrina gnostica che concepisce il corpo come una prigione di tenebre nella quale lo spirito dell’uomo soffoca e, inebriato dal male e dalle seduzioni della carne, dimentica la sua vera origine. Il tema del corpo-prigione (di origine platonica) ha nutrito pagine e pagine della letteratura gnostica, di un pessimismo esacerbato ma di grande bellezza poetica.

Giuda o la fedeltà assoluta

Qui è posto in primo piano il corpo di Gesù, che può raggiungere la conoscenza suprema solo attraverso il suo annientamento. Così Gesù dice a Giuda: “Tu le sorpasserai tutte (intendiamo, le potenze negative dell’universo). Perché tu sacrificherai l’uomo che mi riveste” (56,136).. Si tratta del corpo carnale, dell'involucro, del vestito, secondo altre metafore correnti nei documenti gnostici, che, su invito espresso di Gesù, Giuda deve sacrificare. Così l’atto del tradimento supremo di Giuda nei confronti di Gesù è riletto, in una sconvolgente re-interpretazione, come l'atto di fedeltà assoluta del discepolo più amato a causa della sua capacità di conoscenza.

Sotto questa interpretazione troviamo la teoria del Cristo come entità divina pre-esistente. Il Cristo è un essere celeste che, secondo certi gnostici, non ha rivestito che un corpo apparente, e dunque non ha potuto soffrire la sua Passione. La sua uccisione, le sue sofferenze sulla croce non sono state che una finta di fronte alle potenze dominatrici del mondo, per convincerle di aver avuto causa vinta (temi elaborati per esempio nell'Apocalisse di Pietro di Nag Hammadi).

Nel Vangelo di Giuda, tuttavia, la prospettiva è un po' diversa: Gesù, come ogni individuo ha un corpo di carne che gli appartiene durante il periodo di vita sulla terra. Il suo ritorno al mondo divino avrà luogo dopo che avrà lasciato questo peso che gli è fondamentalmente estraneo.Giuda è il mezzo mediante il quale questa liberazione si realizza. Siamo qui ben lontani dall'atto di tradimento in cambio di un po' di denaro che ci viene narrato nei Vangeli canonici. Qui la consegna da parte di Giuda è una messa in scena decisa dallo stesso Gesù, cosciente, secondo il trattato, del peso di maledizione che peserà allora sulle spalle di Giuda : “Tu sarai maledetto dalle altre generazioni” (46,83). Maledetto agli occhi del mondo, ma Giuda riceve però una ricompensa immediata per la sua fedeltà: Gesù lo invita ad alzare gli occhi e a contemplare una nube di luce circondata di stelle. La stella più splendente è quella dell'apostolo (57,141-144).

Come spiegare questo rovesciamento totale della figura di Giuda in rapporto alla tradizione evangelica in un testo del II secolo, tradotto, e dunque letto, nel IV secolo dagli gnostici stabilitisi in Egitto? In alcuni estratti trasmessi dai Padri della Chiesa certi gnostici tendevano a rivalutare figure considerate come negative dalla Bibbia, fra cui Caino e gli abitanti delle città maledette, Sodoma e Gomorra. Ciò si spiega con il rifiuto della figura del demiurgo, divenuto ai loro occhi un dio cattivo, al quale questi personaggi, individui e collettività, avevano disobbedito.

Da questo punto di vista Giuda diventa dunque il simbolo di una resistenza esacerbata contro la Grande Chiesa che presto trionferà delle dissidenze nate nel suo seno.

(da Le monde des religions, 18, pp. 6-10)

Ricercatrice al CNS, Parigi IV - Sorbonne, dottore in lettere dell'università di Torino.

Ultimo libro pubblicato: Femme, gnose et manichéisme. De l'espace mythique au territoire du réel (éditions Brill, 2005)

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Lunedì, 22 Ottobre 2007 22:00

Lezione Tredicesima. La sapienza in Israele

Lezione Tredicesima

LA SAPIENZA IN ISRAELE

 

 

Introduzione

La riflessione teologica sulla storia della salvezza è il filo conduttore del nostro corso e deve necessariamente partire dalla considerazione degli interventi di Dio nel tessuto degli avvenimenti umani distribuiti nello spazio e nel tempo. L’esegesi veterotestamentaria presenta Israele come il popolo della storia e Jahwé come il Dio della storia.

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Lunedì, 22 Ottobre 2007 21:41

Il nuovo esodo (Tiziano Lorenzin)

Il nuovo esodo

di Tiziano Lorenzin

È opinione predominante in campo esegetico che il filo conduttore della predicazione del Deutero Isaia sia la teologia del secondo esodo, anche se da qualcuno in questi ultimi anni si è sollevato qualche serio dubbio sulla presenza di questo tema nel profeta. (2)

L'esodo fu l'esperienza fondamentale sulla quale fu edificato il popolo di Israele. Non è solo un fatto avvenuto una volta per tutte, ma possiede un valore paradigmatico in quanto rivela le linee essenziali dell'azione salvifica del Dio d'Israele: egli è colui che «fa uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù» (Es 20,2). Questo evento storico diventò il simbolo dominante nel pensiero ebraico del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita.

Il posto del tema dell'esodo nella tradizione e la condizione di perdita della libertà d'Israele a Babilonia resero inevitabile il confronto con l'analoga situazione dei tempi primitivi in Egitto. Tuttavia l'esilio non significò per il popolo semplicemente una ripetizione delle sofferenze d'Egitto: esso comportò anche una profonda crisi di fede. Questa fu provocata da un fatto davanti gli occhi di tutti: il centro del potere mondiale non sembrava più nelle mani di JHWH, ma di un uomo, Ciro. Il Dio d'Israele inoltre pareva aver subito una sconfitta umiliante per opera del dio di Babilonia, Marduk. Le domande che nascevano erano queste: È possibile per un Dio nazionale continuare a vivere, quando il suo popolo è privo di qualsiasi "potere? È possibile mantenere con questo Dio un'alleanza che impegna tutta la vita?

Nel Deutero Isaia a livello letterario possiamo osservare una ripresa dello schema base dell'esodo: uscire, luogo intermedio/cammino, entrare. Si esce dall'Egitto o da Babilonia, si cammina attraverso il deserto, si entra nella terra di Canaan o a Gerusalemme. (3) È uno schema che nei vari testi subisce diverse riletture.

1. Lettura dei testi

Cerchiamo ora di individuare la presenza dello schema dell'esodo in alcuni testi del Deutero Isaia facendone emergere le novità: sostituzioni, esclusioni, sottolineature, ampliamenti.

1.1. Is 40,3-5: la via del Signore nel deserto

3 Una voce grida:
«Nel deserto preparate
la via del Signore (derek yhwh),
appianate nella steppa
la strada per il nostro Dio.
4 Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
5 Allora si rivelerà la gloria (k'bôd) del Signore
e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato».

Nel deserto, tappa intermedia nel primo esodo, si prepara la «via del Signore» (derek yhwh), che viene. La gloria del Signore, presente nel Mar Rosso (Es 14,17), nella manna (Es 16,10), sul Sinai (Es 24,16), ad Aronne e agli israeliti (Es 16,10), ora è visibile da ogni uomo nel deserto.

1.2. Is 41,17-20: il deserto trasformato

17 I miseri e i poveri cercano acqua (mayim) ma non ce n'è,
la loro lingua è riarsa per la sete (sāmā');
io, il Signore, li ascolterò; .
io, Dio di Israele, non li abbandonerò.
18 farò scaturire fiumi su brulle colline,
fontane in mezzo alle valli;
cambierò il deserto in un lago d'acqua,
la terra arida in sorgenti.
19 Pianterò cedri nel deserto,
acacie, mirti e ulivi;
porrò nella steppa cipressi,
olmi insieme con abeti;
20 perché vedano e sappiano,
considerino e comprendano a un tempo
che questo ha fatto la mano del Signore,
lo ha creato (berā’āh) il Santo di Israele.

Il testo allude all'esperienza della sete nel deserto, considerato dall'autore come «terra arida» ('eres sîyâ) in 18b e «steppa» (‘ărābâ) in 19b. La risposta divina è una meravigliosa trasformazione della situazione: una nuova creazione. Il deserto si cambia in regione abitabile e in un nuovo paradiso terrestre con i suoi quattro corsi d'acqua (fiumi, fontane, lago, sorgenti) e con sette specie di alberi pregiati. Conseguenza di quest'azione storica è la risposta della fede espressa nei quattro verbi «vedere, sapere, considerare e comprendere». Nel testo non si accenna ad alcun movimento, al cammino, all'attraversare, né si parla di fuggitivi, ma di miseri e poveri.

1.3. Is 43,16-21: «Non ricordate più le cose passate»

16 Così dice il Signore che offrì una strada (derek) nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti
17 che fece uscire (carri e cavalli),
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti.
18 Non ricordate ('al tizkerû) più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
19 Ecco, faccio una cosa nuova ('ōśeh hădāsâ):proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?Aprirò anche nel deserto una strada (bammidbār derek),immetterò fiumi nella steppa.20 Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
21 Il popolo che io ho plasmato (yāsartî) per me
celebrerà le mie lodi.

Il ricordo dell'antica liberazione (una strada attraverso il mare e il deserto, fornito miracolosamente d'acqua) illumina quella presente. Diversamente però dall'antico esodo, Dio è «colui che fa uscire» (hammôsî’) non gli Israeliti ma gli Egiziani verso la loro rovina: la loro strada terminò bruscamente in mezzo alle acque (v. 17). Il deserto irrigato è un anticipo della terra promessa. Il futuro esodo sarà superiore al primo: una cosa nuova fatta dal Signore. All'antico popolo mormoratore subentrerà il popolo della lode, che cammina per il suo «sentiero» (netîbâ) (Is 43,16): (4) è un popolo nuovo creato da Dio.

1.4. Is 48,20-21: uscita da Babilonia

20 Uscite (se'û) da Babilonia,
fuggite dai Caldei;
annunziatelo con voce di gioia,
diffondetelo,
fatelo giungere fino all'estremità della terra.
Dite: «Il Signore ha riscattato (gā' al)
il suo servo ('abdô) Giacobbe».
21 Non soffrono la sete .
mentre li conduce per deserti;
acqua (māyim) dalla roccia (sûr) egli fa scaturire per essi;
spacca la roccia,
sgorgano le acque.

È presente il tema dell'uscita da Babilonia e dalla terra dei Caldei. L'ordine di uscire, dato nel primo esodo dal Faraone (Es 12,31), ora è pronunciato da Dio stesso. È una fuga nella «gioia». L'azione di Dio è ancora una atto di redenzione (gā' al, cf Es 6,6) dei suoi servi (cf Lv 25,42.55; 26,13; Dt 32,36.43), di Giacobbe (cf Dt 9,27). Il loro cammino attraverso luoghi desertici sarà protetto dal Signore, che come allora avrà cura del suo popolo, donandogli l'acqua. La risposta a questo avvenimento sarà la lode della comunità. A questo coro è invitato anche tutto il mondo.

1.5. ls 49,9-10: il Signore pastore del suo popolo

9 per dire ai prigionieri: Uscite (se'û),
e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori.
Essi pascoleranno lungo tutte le strade (derākîm),
e su ogni altura troveranno pascoli.10 Non soffriranno né fame sete
e non li colpirà né l'arsura né il sole,
perché colui che ha pietà di loro li guiderà,
li condurrà alle sorgenti di acqua.

Il profeta parla in nome di Dio. Il popolo è invitato ad uscire. Il viaggio di ritorno è descritto come quello dell'uomo pio sotto la protezione del Signore in Sal 77,21 e 78,52: non mancherà né cibo, né bevanda, né ombra per difendersi dal sole come nel primo esodo.

1.6. Is 51,9-10: una strada attraverso il mare

9 Svegliatì ('ûrî), svegliati, rivestiti di forza,
o braccio (zerôa ') del Signore.
Svegliati come nei giorni antichi,
come tra le generazioni passate.
Non hai tu forse fatto a pezzi Raab,
non hai trafitto il drago?
10 Forse non hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso
e non hai fatto delle profondità del mare una strada (derek),
perché vi passassero i redenti (la'ăbōr ge’ûlîm)?

È una supplica della comunità in cui si invita Dio a svegliarsi come un eroe e a ricordare il passaggio del Mar Rosso nell'esodo, descritto come un'attualizzazione del mito cosmologico della vittoria del Signore sopra il mostro del mare (cf Sal 74,13; 89,10-11). Vi è una relazione tra il motivo della creazione e il passaggio del mare: l'atto di potenza sulla storia è associato al potere sulla natura. Una strada per i redenti attraversa il mare: il dragone è trafitto definitivamente.

1.7. Is 52,9-12: una carovana in cammino sicuro verso Gerusalemme

9 Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
10 Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
11 Fuori, fuori, uscite (se'û) di là!
Non toccate niente d'impuro.
Uscite da essa, purificatevi,
voi che portate gli arredi del Signore!
12 Voi non dovrete uscire in fretta (behippāzôn)né andarvene come uno che fugge,perché davanti a voi cammina (hōlēk) il Signore,
il Dio di Israele chiude la vosta carovana.

In un inno conclusivo le rovine di Gerusalemme si uniscono al coro di lode davanti all'intervento concreto di Dio: il suo «santo braccio» (vv. 9-10). Viene quindi dato l'ordine di partenza (vv. 11-12). Il profeta parla nel nome del Signore. Anche qui il linguaggio richiama quello dell'esodo, con alcune variazioni. Gli Israeliti non devono prendere niente da Babilonia, eccetto gli arredi sacri, mentre i loro antenati presero doni dagli Egiziani (Es 12,31-36). Non devono uscire come i loro padri «in fretta» (behippāzôn): un termine che in tutto l'AT appare solo qui e nei due racconti della pasqua in Es 12,11 e in Dt 16,3. Dio però proteggerà come un tempo la colonna degli israeliti, aprendo davanti a loro il cammino e difendendolo alle spalle (cf Es 14,19): un viaggio fatto in pace e in sicurezza.

2. La riattualizzazione della tradizione dell'esodo

Nei testi esaminati in nessun passo troviamo uno svolgimento completo del tema dell'esodo: uscita, cammino, entrata.

L'antica uscita dall'Egitto è riattualizzata nell'uscita dalla terra di deportazione, da Babilonia (Is 48,20; 52,11). Non sarà più una uscita «in fretta», come quella dall'Egitto: non sarà una fuga. Allora si portarono via oggetti impuri, donati loro dagli egiziani, ora tutto quello che è impuro viene lasciato oltre i confini della terra santa, che non dovrà mai più essere contaminata: portano solo gli arredi sacri (Is 52,11-12).

Nel deserto che separa Babilonia dalla Siria il Signore si aprirà una via, rivestita di splendore. Davanti e alle spalle della colonna dei prigionieri riscattati non ci sarà come un tempo una nube di giorno e un fuoco di notte, ma egli stesso. Questa via nel deserto diventa il luogo della rivelazione del liberatore: la sua gloria si manifesta a tutto il mondo (Is 40,5). Il deserto è trasformato in un nuovo giardino terrestre: un anticipo della terra promessa (Is(Is 51,9b). Il tempo del deserto non sarà un cammino di stenti, segnato dalla fame e dalla sete: cibo e acqua si troveranno ovunque (Is 49,9-10) perché guida del popolo sarà il Signore. 41,18-19),frutto della vittoria di Dio sulla morte

L'esodo terminerà non più nella terra, ma nella città di Gerusalemme, le cui rovine riprenderanno a vivere con la presenza di una comunità che offrirà a Dio un culto purificato dai compromessi con gli idoli dei popoli pagani (Is 52,9-12). Solo là sarà possibile la liturgia del nuovo Giacobbe: una comunità riscattata, diventata la famiglia del Signore (Is 48,20).

Questo annuncio di un nuovo esodo viene a rispondere ai dubbi profondi che turbavano la fede del popolo in esilio: dopo la rottura dell'antica alleanza sarà ancora possibile un legame con Dio? Ci potrà essere ancora qualcosa di nuovo? Geremia e Ezechiele l'avevano fatto intravedere (Ger 31,31-34; Ez 36,22-38). L'esodo è il nuovo atto di grazia, una nuova creazione come quella del cuore nuovo, che prepara una nuova alleanza. L'evento che apre la strada ad un rapporto con Dio così straordinario, supera addirittura in forza l'atto che ha costituito il popolo d'Israele: l'antico esodo (/s 43,18). È un popolo nuovo che esce da questa esperienza.

Il secondo esodo allora, prima ancora d'essere un movimento di ritorno geografico, è un camminare per il sentiero (netîbâ) (Is 43,16) di Dio, non più con cuore mormoratore, ma ricolmo di gratitudine (Is 43,21). Un popolo paralizzato dal dubbio sull'amore di Dio non potrà mai mettersi in cammino: il suo cuore deve essere prima liberato dalla schiavitù più profonda, la pretesa di conoscere meglio di lui la strada del ritorno (cf Is 40,2). Vedendo e considerando la nuova azione salvifica, gli si riapriranno gli occhi della fede (Is 43,19). Saprà e comprenderà chi sia veramente il suo Dio (Is 41,20): non è solo un liberatore ma anche un redentore (gō’ēl), che mantiene con la comunità d'Israele rapporti familiari; il creatore del mondo è anche il creatore del nuovo popolo.

3. Conclusione

Nonostante qualche incertezza, la maggioranza degli esegeti vede il tema del nuovo esodo nei testi sopra elencati. Lo schema: uscita, tempo intermedio (deserto), dono della terra, presente nella tradizione dell'esodo non si trova mai al completo nei testi esaminati, tuttavia è evidente nell'insieme che ogni singolo momento presuppone gli altri due. Le novità più evidenti del nuovo esodo rispetto all'antico sono la liberazione non solo da una schiavitù politica, ma anche da quella più profonda: il dubbio che il Signore fosse realmente Dio e che perciò la sofferenza dell'esilio non avesse nessun senso, e in secondo luogo l'anticipo dell'esperienza della terra promessa nel deserto: quando il Signore è presente anche la croce più pesante diventa gloriosa. Il paradiso (la vita eterna) è anticipato nella presente esperienza del Dio vicino.

(da Parole di Vita, n.4, 1999)

Note

1) Cf 1. BLENKINSOPP, «La tradition de l'Exode dans le Second-Isaie, 40-55», in Concilium (F) 20 (1966) 41-48; W. ZIMMERLI, Rivelazione di Dio. Una teologia dell'Antico Testamento (Teologia 25), Jaca Book, Milano 1975, pp. 175-185; C. WESTERMANN, Isaia - Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978; C. WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo (deutero-isaia) (Bibbia-Oggi: strumenti per vivere la parola), Gribaudi, Torino 1980; L. ALONSO SCHÖKEL, I Profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1984, pp. 293-384; A. SPREAFICO, Esodo: Memoria e promessa. Interpretazioni profetiche, EDB, Bologna 1985, pp. 13-16; A. BONORA, Isaia 40-66. Israele: servo di Dio liberato, Queriniana, Brescia 1988; B. MARCONCINI, «Rilettura e profezia dell'esodo nel Secondo-Isaia», in Parola Spirito e Vita 24 (1991) 17-29.

2) Cf J. M. VINCENT, Studien zur literarischen Eigenart und zur geistigen Heimat von Jesaia. Kap. 40-55 (BET 5), Frankfurt/M. 1977; H. SIMIAN-YOFRE, «Exodo en Deuteroisaias», in Biblica 61 (1980) 530-553.

3) Cf L. ALONSO SCHÖKEL, Salvezza e Liberazione: l'Esodo, EDB, Bologna 1997.

4) «Sentiero» (n'tîbâ) in parallelo con «strada» (derek) nell' AT ha senso etico, più che fisico. Ct H. SIMIAN-YOFRE, «Exodo en Deuteroisaias», 542.
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