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Martedì, 29 Agosto 2006 23:55

I poveri nella Bibbia (Jean-Paul Guetny)

I poveri occupano un posto importante nella Bibbia, dal profeta Amos a Matteo: Dio ha per essi uno sguardo particolare. Egli ha con loro una relazione privilegiata. E, secondo san Paolo, bisogna scoprire in essi l’immagine di Cristo che si è fatto povero.

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Martedì, 01 Agosto 2006 02:50

Lezione Terza. Abramo, padre dei credenti

Lezione Terza
Abramo, padre dei credenti





Introduzione

Il canone della messa romana, dopo la consacrazione del pane e del vino, invoca la benevolenza divina sull’offerta della Chiesa, come si manifestò nel sacrificio di Isacco: «sacrificium patriarchae nostri Abrahae».

Isacco è figura di Cristo (1) . Abramo è il padre: non solo delle generazioni successive, Isacco e Giacobbe; ancora secoli più tardi si dirà di lui in Israele «nostro padre Abramo». Non a caso gli si attribuisce il nome di padre. Le figure del periodo più antico sono legate agli avvenimenti decisivi e fondamentali della storia d’Israele: ad esse si dà il nome di padri, patriarchi. Ma Abramo emerge dal gruppo dei patriarchi come padre di Israele nel vero senso della parola.

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È abbastanza frequente definire i salmi come il libro dei canti e delle preghiere del secondo tempio. Certamente questa dimensione liturgica è presente nel libro biblico; tuttavia nessuna testimonianza afferma che questi leviti cantori del tempio abbiano cantato tutti i salmi del Salterio. Il numero dei salmi usati nella liturgia è relativamente ristretto.

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L'esperienza di liberazione dei figli di Giacobbe o Israele dall'Egitto sta al centro del «credo» biblico riportato nel libro del Deuteronomio nella preghiera del padre di famiglia nel giorno del ringraziamento.

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Nella Chiesa corinzia era proprio l'ostentazione a incentivare la frequente contrapposizione tra i membri della comunità. Nella seconda lettera Paolo si sofferma ancora su questo atteggiamento umano che non corrisponde alla prospettiva del vangelo.

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L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *


Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…

Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.

Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.

Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio

I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).

In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.

Condizioni propizie alla fede monoteista

Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.

L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.

Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).

Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo

La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.

La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

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Lezione Seconda
Fede, teologia, storia della salvezza



1. La fede in rapporto alla teologia


Se consideriamo la teologia come atto dell’uomo, essa può essere indicata con l’espressione classica di intellectus fidei, intelligenza della fede. La teologia in questo senso soggettivo suppone la fede e la luce della fede: essa nasce quando la fede, mediante un movimento di appropriazione e di riflessione intellettuale, muove verso una conoscenza delle cose credute (fides quaerens intellectum), senza cessare per questo di essere fede. 

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Teologia ufficiale e religione popolare
di Thomas Römer *



La maggior parte dei testi dell'Antico Testamento proviene da un piccolo numero di intellettuali che tentarono, durante e dopo l'esilio babilonese, di riformulare la fede yahwista. Facendo questo, non si curarono affatto delle preoccupazioni degli «Ebrei medi», la maggior parte dei quali era rimasta in Palestina.

La distinzione tra «religione ufficiale» e «religione popolare» si è imposta da tempo alla sociologia della religione. Per conoscere la religione popolate ebraica di allora, lo storico deve leggere l’Antico Testamento tra le righe e prendere in considerazione documenti extrabiblici.

Lo studio dei nomi propri

I nomi che i genitori scelgono per i loro bambini sono un buon indicatore della religione popolare. Nell’antichità, questi nomi sono quasi tutti teofori, fanno cioè riferimento ad una divinità di cui essi esprimono un'attitudine, un'azione, o un augurio che gli si indirizza. L'Antico Testamento ha conservato, accanto a nomi teofori yahwisti (come Gionata: «YHWH ha dato»), numerosissimi nomi propri che si riferiscono a diverse divinità: Išba’al («Uomo di Ba'al»), Elqana («El ha creato»), Abram («Il Padre [l'antenato divinizzato] è innalzato»). Questi nomi non sono affatto un residuo dell' età arcaica. I testi biblici ed extrabiblici mostrano come nomi propri ebraici formati a partire da nomi di dèi stranieri sono ancora di moda nel periodo babilonese o persiano: Mardocheo («Che appartiene a Marduk»), Šinusur («Che Sin [Dio lunare] protegga»).

I teologi che hanno edito la Bibbia hanno mantenuto questi nomi che erano troppo diffusi e di cui certi elementi teofori (specialmente «El» e «Ab») potevano essere identificati con Yahwè. In alcuni casi, tuttavia, si è tentata una sorta di censura. Nei libri di Samuele, gli ultimi redattori hanno sostituito ad alcuni nomi in «Ba’al» la terminazione in «bošet»,: così Išba’al è diventato Išbošet («Uomo della vergogna»).

Le pratiche politeiste in epoca babilonese e persiana

Una grande parte della popolazione ebraica non deportata resta apparentemente attaccata alle pratiche politeiste. Parecchi testi che adottano la prospettiva della Golah (gli esuli a babilonia) criticano queste pratiche. Ezechiele (cap. 8) ci informa che, durante l'epoca babilonese, si celebrava a Gerusalemme il culto di Tammuz, un dio mesopotamico molto popolare la cui morte e resurrezione garantivano la fertilità del paese. Secondo lui, gli abitanti di Gerusalemme giustificavano le loro pratiche religiose col fatto che Yahwè avrebbe abbandonato il paese. Allo stesso modo, il culto di una dea chiamata la «regina del Cielo» era ancora molto diffuso al momento dell'esilio; si trattava di un culto familiare in cui le donne avevano il ruolo centrale. Il cap. 44 del libro di Geremia critica severamente questa venerazione.

I destinatari della critica per più si oppongono alla proibizione del loro culto:

«Anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto... nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (vv. 17-18).

Bisogna dedurne che l'abolizione del culto della Regina del cielo (probabilmente la dea Ašerah) era ancora in piena discussione nel giudaismo dei secoli VI e V a.C. Un'interessante testimonianza della sopravvivenza di una religiosità popolare ci proviene dai documenti della comunità ebraica insediata ad Elefantina, un'isola situata sul Nilo nel sud dell’Egitto, che ospitava una guarnigione militare in epoca persiana. In questa comunità che aveva il suo proprio tempio, si è continuato ad associare a Yahwè (Yaho) una dea. Così, si prestava giuramento «per Yaho il dio, per il tempio, e per l'Anat di Yaho».

Altri dèi vi erano parimenti venerati sotto i nomi di Ašam-Betel e di Haram-Betel. A dispetto di queste pratiche che dovettero fortemente dispiacere alla nascente ortodossia di Gerusalemme e di Babilonia, gli Ebrei di Elefantina intrattenevano numerosi scambi epistolari con le autorità religiose di Gerusalemme. Sembra anche che pagassero un’imposta ecclesiastica.

Tra rifiuto e integrazione

Come si doveva gestire il permanere di una religiosità popolare a carattere politeista nel momento in cui gli artefici del giudaismo postesilico avevano ratificato nella Torâ la venerazione del solo Yahwè e l'osservanza dei suoi precetti? Erano possibili due atteggiamenti: la condanna della religione popolare, oppure la sua integrazione nel sistema della teologia ufficiale. Come ci accingiamo ad esaminare a proposito del culto degli antenati defunti, entrambi gli atteggiamenti hanno trovato codificazione nella Bibbia.

Il culto dei morti giuoca un ruolo importante nella maggior parte delle religioni dell'umanità. È così anche per le religioni del Vicino Oriente antico. Consistevano nel portare cibo o altre offerte ai defunti per mantenere la continuità tra le generazioni e per ottenere prosperità e protezione. Così certe tombe, specialmente quella di un antenato del clan o della tribù, rivestivano un carattere sacrale. Isaia (65,4) parla di persone che visitano i sepolcri durante la notte, cosa che attesta la pratica di un culto dei morti in epoca persiana. I redattori del Deuteronomio hanno reagito a questa pratica proibendola. I riti di lutto sono dichiarati illeciti (Dt 14,1), come l'offerta di cibo a un morto (26,14).

Di fronte a questa pedagogia repressiva, i redattori sacerdotali adottano una diversa strategia. Essi cercano di integrare la religiosità popolare nella fede yahwista dando alla prima un nuovo senso. In Gn 23, un autore di ambiente sacerdotale riferisce l'acquisto della tomba di Abramo, che era senza dubbio oggetto di culto. Descrivendo l'acquisto di questa tomba come un banale atto immobiliare la pietà popolare è da un lato presa seriamente, dall'altro è contemporaneamente trasformata. Poiché Dio non interviene in alcun momento in questa storia, il lettore è invitato a comprendere che se i gesti e i riti legati agli antenati sono importanti, le tombe patriarcali non hanno, in sé, alcun valore sacrale.

L'atteggiamento della teologia ufficiale nei confronti della religiosità popolare oscilla tra rifiuto e «recupero». Questo doppio atteggiamento si vede ancora, anche ai nostri giorni, nelle tre religioni monoteiste.

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

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Sabato, 03 Giugno 2006 21:10

Pentecoste

Pentecoste



Il risorto Signore–Dio, il pastore agnello, la vite, l’asceso è contemplato nella pentecoste come colui che invia il Consolatore-Spirito di verità. Spirito che la liturgia dispone ad accostare ripercorrendo, senza sovrapporle, la pluralità delle esperienze neotestamentarie: lucana, paolina, giovannea.

Il giorno della cinquantina. La chiave principale di lettura del brano degli Atti è il riferimento alla festa giudaica della pentecoste. Non a caso.

Originariamente essa veniva celebrata sette settimane dopo la pasqua come momento conclusivo dei lavori di raccolta e di mietitura delle messi. Si ringraziava Dio del dono del pane. Da qui la denominazione di festa delle settimane (hag shabu’ot). A partire con certezza dal secondo secolo a.C. Il cinquantesimo giorno diventa anche “festa delle alleanze (hag schebu’ot), specificatamente di quella cosmica con Noè, di quella patriarcale con Abramo, di quella sinaitica con Mosè.

Con particolare riferimento a quest’ultima, al punto che pentecoste diventa “il giorno in cui ci fu data la Torah”, giorno in cui, dirà Filone, “le dieci parole il Padre dell’universo le ha proclamate mentre la nazione era adunata, uomini e donne insieme”.Un insieme, prosegue la tradizione ebraica, caratterizzato da un “cuore solo” e dalla preghiera unanime: “pregavano Dio affinché dopo averlo accolto con favore, desse a Mosè un dono che li facesse vivere felici”. La legge appunto, data tra “tuoni,lampi, suono del corno e monte fumante (Es 20,18). Una legge, continua l’insegnamento rabbinico, a destinazione universale: “La voce di Dio appena pronunciata si ripartì in settanta voci, in settanta lingue, cosicché tutti i popoli la capirono e ogni popolo udì la voce nella propria lingua”,ma venne meno, ad eccezione di Israele (Atti 2/1-11).

Luca volutamente inserisce la pentecoste cristiana in quella giudaica a voler sottolineare una continuità di storia di salvezza. Il datore del pane e della legge oggi porta a compimento la serie dei suoi doni mediante uno spirito che scende e si posa, simile a lingua di fuoco, su uomini e donne “assidui e concordi nella preghiera” (At. 1,14); tutti insieme, come al Sinai, in attesa del dono promesso dal risorto (Lc 24,49), sorgente di vita nuova nella letizia (At 2,42-47), uno spirito dato nel fragore del tuono e del vento.

Oggi, proclama l’autore degli Atti, nasce l’alleanza nello Spirito, a destinazione particolare e universale. Il nucleo dei circa centoventi (Atti 1,15) riempiti di Pneuma è chiaramente giudaico, e con questo Luca precisa che è in Gerusalemme, proprio in quel luogo, che il Padre nello Spirito fa emergere la prima comunità post-pasquale del Figlio. E giudei, per nascita o per conversione (At 2,5,11,14) sono anche gli spettatori sorpresi dal fragore e sbigottiti dinanzi al fenomeno del “parlare in altre lingue”.

Nel medesimo tempo il testo indugia non casualmente, sulla diversità delle lingue, sull’elenco dei popoli e sul fatto che questi giudei osservanti provengono da ogni nazione che è sotto il cielo. A voler adombrare che ciò che accade in Gerusalemme è solo l’inizio di un cammino che vedrà coinvolti l’intera Giudea, la Samaria e gli estremi confini della terra (At 1,8). La sorpresa in Gerusalemme, è l’iniziazione degli apostoli alla molteplicità delle lingue, evento pneumatico reso necessario per poter narrare in forma comprensibile le grandi opere di Dio.

“E’ chiaro, scrive un esegeta contemporaneo, l’insegnamento: tocca alla chiesa assumere tutte le lingue dei degli uomini e tutte le culture di cui tali lingue sono l’espressione e il veicolo. Essa non deve condurre gli uomini a capire il suo linguaggio, ma parlare ad essi nel loro linguaggio. La sua vocazione universale le vieta di identificarsi con qualsiasi cultura particolare.

Il frutto dello Spirito (Galati 5/16-25). Il brano paolino fa parte della parentesi che l’apostolo rivolge ai cristiani della Galazia “chiamati a libertà. Perché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13). Paolo ha davanti a sé il quadro comunitario oscillante tra amore e mordersi a vicenda (Gal 5,15). Lo giudica invitando i battezzati a prendere coscienza della loro verità umana, verificabile dal comportamento:

- Se distruttori del dover essere comunitario pervertendo l’amore umano, il culto divino, la comunione ecclesiale e la dignità personale attraverso l’impurità la magia e l’idolatria, la divisione e gli eccessi della tavola (TOB), costoro devono sapersi creature “secondo la carne”. Espressione che in Paolo indica l’assoluta autosufficienza che si contrappone al dono di Dio in Gesù Cristo, lo Spirito Santo. L’io e il proprio desiderio sono il signore che orienta il pensare e l’esistere, nonostante il permanere nel contesto ecclesiale. Questo tipo di credente, anche se dice di tendere al bene, a una vita morale, di fatto finisce per produrre opere di morte e di disgregazione. Diventa trasmettitore di energie negative.

- Se liberi per una diaconia al fratello edificando la comunità con atteggiamenti positivi, cifra di un amore che si fa gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, mitezza e dominio di sé, costoro devono sapersi posseduti dallo Spirito perché camminano in esso adempiendone il frutto: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25). E uomo spirituale è colui che è reso libero dall’io, dai suoi desideri e da ogni legge esteriore per diventare dimora di uno spirito accolto e non contristato, guida che dischiude l’essere a un esistere il cui frutto concreto è una vita libera per amare.

Spirito, proseguono le brevi pericopi evangeliche tratte dai discorsi di addio di Giovanni, che svolgerà un compito di testimonianza e di guida alla verità (Gv 15,26-27; 16,12-15).

- Di testimonianza (Gv 15,26-27. Davanti all’ostilità presente e futura nei confronti di Gesù, di Dio suo Padre e dei discepoli, ostilità fatta di odioe di argomentazioni dotte (Gv 15,18-25; 16,1-4-7-15), gli amici di Gesù rischiano il dubbio, lo scoramento, la defezione. Ma essi non devono e non dovranno temere perché lo Spirito che procede dal Padre sarà inviato dal risorto glorificato quale consolatore e difensore nelle loro coscienze della ragione di Gesù e del suo messaggio. Nel processo del mondo a Gesù lo Spirito è l’avvocato difensore che testimonia a suo favore convincendo i discepoli della giustezza della sua causa. Tema che l’evangelista porterà a compimento in Giovanni 16,8-11.

- Di guida alla verità (Gv 16, 12-15). Gesù è esplicito nel dire che è in rapporto alla verità un “adesso” e un “quando”. L’adesso è il tempo storico di Gesù. Egli, che tutto ha ricevuto dal Padre, tutto ha detto ai suoi (Gv 15,15); ma questi sono al momento incapaci di coglierne fino in fondo il senso e le esigenze. Incapacità che sarà tolta “quando verrà lo Spirito di verità”, il quale non si discosterà dall’insegnamento di Gesù ma lo riprenderà conducendo i discepoli sulla strada della sua piena intelligenza. Lo Spirito diventerà per essi esegeta del mistero e del messaggio del Figlio e, conseguentemente, del Padre. Lo Spirito diventerà per essi guida al cuore della verità, annunciatore di una rivelazione restata fino allora non pienamente chiara. Sarà infine annunciatore, di “cose future”. “Spirito di profezia” (Ap 19,10), egli inizierà i suoi a saper leggere la storia alla luce di Gesù e del suo messaggio.

Conclusione. La molteplicità delle testimonianze converge nel rendere trasparente alla coscienza personale ed ecclesiale l’opera di Dio per l’uomo. Il Padre invia il Figlio, il Figlio invia lo Spirito, lo Spirito accolto genera un singolare modo di essere uomini. La sua presenza creatrice apre ad un esistere libero e agapico, nella gioia, pronto ad accogliere ogni lingua per comunicarvi la bellezza del dono di Dio; la sua presenza consolatrice e persuasiva conserva saldi nei giorni della prova; la sua presenza magistrale inizia ad una conoscenza piena di Gesù e della sua parola; la sua presenza profetica, rende capaci di leggere gli eventi con gli occhi di Dio; infine la sua presenza taumaturgica, chiara nella sequenza Veni sancte Spiritus, smaschera e guarisce la nostra incapacità di fare il bene e le nostre nevrosi attraverso la meditazione della Parola, il consiglio, l’aiuto psicologico. Nell’esperienza cristiana tutto è opera dello Spirito inviato, appunto, a “rinnovare la faccia della terra” (Sal 104).


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«Fateci posto nei vostri cuori» 2Cor 6-7
di Karin Heller


Da qualche anno, sia la Chiesa cattolica in Europa sia quella nel continente americano si trovano di fronte a una crisi grave e seria. Sugli schermi della televisione, come pure presso altri mass media, sono presentati al grande pubblico comportamenti scandalosi che scuotono vescovi, sacerdoti e l' intero popolo cristiano. Un approccio sbrigativo della situazione tende a dividere i protagonisti in due categorie: le vittime e «i responsabili». Le vittime sono innanzitutto i bambini di ambo i sessi e le donne; i responsabili sono i sacerdoti e i vescovi che hanno agito o taciuto a diversi livelli.

In questo contesto intendiamo commentare i cc. 6 e 7 della seconda lettera ai Corinzi. Il titolo scelto per la nostra riflessione permette di intuire che i problemi posti da questi misfatti non possono essere risolti semplicemente con la detenzione degli uni e con il riconoscimento pubblico del torto subito degli altri. Sappiamo dalla psicologia moderna che ferite di questo genere lasciano impronte indelebili nell' esistenza delle vittime nonché in quella di coloro che sono alI' origine di tali abusi. La giustizia umana svolge una funzione preziosa, ma non basta. Chiediamo di essere aiutati anche dalla parola di Dio, come la troviamo nelle due lettere alla comunità di Corinto.

Tale comunità non è certo un modello esemplare di vita nella gioia e nella pace. Dobbiamo avere il coraggio di non idealizzare la vita delle prime comunità cristiane e leggere sino in fondo le realtà quotidiane dei nostri antenati nella fede. Malgrado le diversità di cultura, di epoca, di contesto storico, politico e religioso, la vita di queste comunità era animata da difficoltà e da scandali che rispecchiano a diversi livelli le realtà delle comunità di oggi.

Il cuore di Corinto batte nel porto, anzi, essa è la «città regina dei due mari». La posizione geografica favoriva una ricca attività economica e quindi finanziaria. Anche la presenza dei templi pagani contribuiva alla ricchezza della città. Infatti la prostituzione sacra prosperava grazie a uomini e donne che si tenevano a disposizione dei passanti e pensavano di rendere onore alle divinità. Fra queste l'Afrodite Pandèmos o Venere popolare, la dea dell'amore, riscuoteva grande successo. Intale contesto, si comprendono le difficoltà di Paolo per l' evangelizzazione. Senza voler paragonare la situazione incontrata da Paolo con quella di oggi, il testo che commentiamo può illuminare i nostri dibattiti poiché mette in luce realtà fondamentali e comuni alle due situazioni. Esse sono in particolare il rapporto fra la comunità e i suoi capi, il tema del fare un posto nel cuore e quello della consolazione.

Pastore e comunità cristiana: verso quale rapporto?

Il tema del rapporto fra l' apostolo e la comunità copre i sette primi capitoli della lettera. Il problema posto coinvolge Paolo stesso, altri pastori chiamati «superapostoli» (2Cor 11,5) e i fedeli. Costoro, volendo abbracciare la sapienza del mondo, rigettano il mistero pasquale (1Cor 1,17-3,4). Ne viene una divisione della comunità (1Cor 1,11-17) ed è messa in dubbio l'autorità di Paolo (2Cor 11 ). La situazione richiama un tema di attualità, quello del rapporto fra pastori e comunità cristiana: è un rapporto sempre da costruire, da mantenere e da rinforzare. Nella seconda lettera ai Corinzi questo rapporto è preso e ripreso a partire dal tema della riconciliazione. E stupendo il fatto di poter scoprire il posto centrale di questa tematica nell' argomentazione paolina. Questo fatto sottolinea fortemente che i buoni rapporti non sono dati per scontati. Essi sono il frutto di lunghi e penosi sforzi che consistono nel superare le distanze fra gli uni e gli altri, create da opinioni diverse, ferite, colpi bassi, maldicenze, cecità e sordità spirituali.

Per curare questa malattia che consuma la comunità, Paolo indica come rimedio la riconciliazione. Essa è inscindibile dalla persona di Gesù Cristo e dalla fede in lui. Solo lui è capace di esercitare il ministero della riconciliazione, avvicinando gli uni agli altri per mezzo della sua morte sulla croce in vista di un popolo solo (Ef 2,14-18). Perciò Paolo stesso, i pastori, capi della comunità, e tutti i fedeli sono permanentemente chiamati a fare memoria di Gesù.

Il c. 6 presenta in particolare la dimensione esistenziale di questo ministero. Per Paolo, l'autenticità di esso si riconosce grazie a una serie di prove subite nella propria carne. La lista è particolarmente lunga: «...in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza, nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fati- che, nelle veglie, nei digiuni...». La lista può sconvolgere i lettori. Non ha forse molto a che fare con l'idea di riconciliazione presente nella nostra mente. Difatti, quante volte essa appare legata all'immagine di uno che alla fine accetta di perdere la faccia, mentre l' altro celebra la propria magnanimità. Oppure l' immagine della riconciliazione si riduce a quella di un' assoluzione data in maniera sbrigativa e distratta in un angolo oscuro di una chiesa.

La pagina di Paolo mette invece in risalto un processo di riconciliazione progressivo, mai concluso definitivamente, e sempre da riprendere. Il ministero di riconciliazione impegna lungo la vita colui che ne è il ministro, nonché colui che ne è il beneficiario. Senza dubbio, Paolo parla e agisce partendo dal fatto che egli stesso è dapprima stato riconciliato da Dio con Dio e con se stesso (Gal 2,19-20). Egli esercita il ministero della riconciliazione radicato in Cristo, «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Non c' è motivo per Paolo di essere orgoglioso o di considerarsi superiore agli altri. Paolo è costantemente cosciente di ciò che Cristo ha fatto per lui quando egli stesso era peccatore.

È solo questo che spinge l'apostolo a superare le ferite ricevute dai responsabili e dai fedeli della comunità di Corinto. Seguendo Cristo, Paolo è venuto per servire e salvare uomini peccatori. Configurato a Cristo sconosciuto, afflitto, punito, povero, moribondo (6,9-10) e malgrado ciò che è accaduto, Paolo non cessa di offrire il soccorso del ministero della riconciliazione ai corinzi mentre egli stesso è bisognoso, perchè cerca un segno di compassione da parte della comunità di Corinto: «Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Il nostro cuore si è tutto aperto

I vv. 11-13 del c. 6 costituiscono una sorta di vertice rispetto al difficile rapporto fra Paolo e i cristiani di Corinto. Solo in questo passo si incontra l'espressione «corinzi» con la quale Paolo interpella direttamente i protagonisti. In questo modo, l' apostolo passa da un'esposizione quasi teologica del tema della riconciliazione a un modo di parlare intimo, presentato in tono confidenziale.

Il contenuto è guidato da due realtà fondamentali della vita umana che rappresentano pure i temi chiave della Bibbia. Si tratta da un lato del tema della bocca, organo indispensabile di comunicazione per mezzo della parola, e dall'altro di quello del cuore. Quest'ultimo è «il concetto antropologico più usato dell' Antico Testamento»; esso è «la sede dell'attività dell'intelligenza e della volontà. Il leb o lebab (cuore ) è la persona capace di riflessione e di scelta, la persona interiore».

Proprio in questo senso devono essere intese le parole di Paolo. Il suo cuore, capace di riflessione e di scelta, è tutto aperto a favore dei corinzi. Quest' apertura impliica che non c'è posto nel suo cuore per l'ambiguità e la menzogna. Perciò dichiara: «La nostra bocca vi ha parlato francamente» (6,1.1). Inoltre, il cuore di Paolo è paragonato a uno spazio aperto dove i corinzi non possono sentirsi allo stretto. In altre parole, nel suo cuore, c'è posto per tutti. Questa interpretazione è appoggiata sul senso stesso della parola greca choreo (far posto) che significa «far spazio sufficiente per contenere»; l'idea di Paolo è quella di «far spazio sufficiente per contenere tutti». Anche i corinzi devono aprirsi e a loro Paolo chiede: «Aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Segue una breve esortazione (cf. 6,14- 7,1) circa una scelta radicale da fare. Paolo afferma che c'è una fondamentale incompatibilità tra Cristo e Beliar. Quest'ultimo nome può essere identificato con beliyya ' al, una forza malvagia, cattiva, personificata, com'è attestato dal Primo Testamento. 2Cor 6,14-15 è l'unico passo nel Nuovo Testamento dove ricorre questo nome. Esso, sempre associato alle tenebre, sottolinea un legame forte con le forze della morte. Inoltre, l'apostolo mette in risalto .l'incompatibilità fra il tempio di Dio e gli idoli, e afferma un impossibile collaborazione tra un fedele e un infedele (6,15- .16). C'è un legame forte tra queste affermazioni paoline e l'esortazione deuteronomista di scegliere fra la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, il bene e il male (D t 30,15-20).

Per questo motivo, la riflessione di Paolo si colloca nella linea della letteratura sapienziale che privilegia le tematiche della scelta radicale, dell'orecchio che ascolta (Pr 22,17-18), del figlio che accoglie dal padre insegnamenti di sapienza (Pr .1,8; 5,1-2), della bocca degli stolti e della lingua dei saggi (Pr 15,1-5), della sorte diversa degli empi e dei giusti (Sap 1-3). Nel contempo, le riflessioni sapienziali mettono in risalto il tema del popolo in cammino guidato dalla presenza di Dio per mezzo del santuario (Sap 10,15-19,22). Paolo riprende tutte queste tematiche quando ricorda ai corinzi che essi sono il tempio del Dio vivente, osservazione che introduce una serie di citazioni del Primo Testamento (6,16-18). Il tema del tempio a sua volta lo conduce a insistere sulla purificazione «da ogni macchia della carne e dello spirito» (7, l), per accedere a un rapporto intimo con Dio com' è quello fra un padre e un figlio, un padre e una figlia (6,17-18).

Alla fine dell'esortazione è ripreso il tema della bocca e del cuore. L'appello al cuore come sede di riflessione, di intelligenza e di volontà è la cerniera dell'intera argomentazione di Paolo. Di nuovo, il testo mette in risalto la franchezza con la quale Paolo ha parlato (7,4 ). L'apostolo esclude ogni condotta ingiusta verso la comunità e trova ragioni per vantarsi dei corinzi (7,2.4 ). Nell' atteggiamento di Paolo si trovano tracce del volto di Dio sposo che parla al cuore della sposa (Os, 2,16). Difatti, le affermazioni di Paolo evocano le parole di uno sposo che dice alla sposa: «Tu sei nel mio cuore "per morire insieme e insieme vivere» (7,3). Quindi, il problema ultimo di questa pagina paolina è alla fine quello dell'amore, l'unico capace di fare un posto autentico all' altro poiché attinge alla mutua comprensione, alla comunione di pensiero.

Dio unico consolatore per mezzo degli uomini

Il tema della consolazione è senza dubbio una tematica centrale dell'intera lettera. Si può addirittura affermare che 2Cor 1 è il grande capitolo consolatorio del Nuovo Testamento. Nel testo che commentiamo, il tema della consolazione si articola in modo seguente: è Dio che consola; lo fa con la venuta di Tito da Paolo; Tito porta con se la consolazione che ha ricevuto dai corinzi (7,6-7). La consolazione divina avviene, quindi, per mezzo degli uomini. Questa tematica non è nuova. Essa caratterizza difatti le attese messianiche secondo le quali uno dei nomi del Messia sarà Menachem, cioè Consolatore. Di conseguenza, la consolazione ricevuta da Paolo non è un qualsiasi «conforto», perchè egli si sente destinatario di un'azione divina, la cui caratteristica è quella di essere efficace.

Tutto ciò ci conduce a una riflessione sulla peculiarità del concetto biblico di consolazione. Il significato di base del termine greco parakaleo è «chiamare vicino a se». Per estensione, significa chiedere consiglio o aiuto, esortare, ammonire, consolare. Il sostantivo parakletos può essere tradotto con avvocato, difensore, intercessore. Questi termini evocano una situazione difficile, qualche volta disperata, dove si rischia addirittura la vita. Ne abbiamo un esempio tipico nel libro di Daniele. Susanna è condannata a morte con l'accusa di adulterio. Sul cammino verso l'esecuzione trova in Daniele un difensore, avvocato, che farà luce sulla condotta malvagia dei due accusatori. Egli farà condannare i due malfattori mentre Susanna è riconosciuta innocente (Dn 13).

Il passo appena citato ci introduce nel cuore stesso della consolazione com' è intesa dalla Bibbia. Il punto di partenza è il problema di una persona innocente che subisce un'ingiustizia. La persona si rivolge a Dio come suo avvocato. Dice, difatti, Susanna a Dio: «lo muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me». Il Signore allora «ascoltò la sua voce» e «suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele» (Dn 13,43-45). L'intera azione di Daniele è condotta sotto la guida del santo spirito di Dio.

Questa tradizione è mantenuta nel Nuovo Testamento dove lo Spirito consolatore è dato a Gesù nel momento del battesimo (M t 3,16-17 e par.). Il Vangelo secondo Giovanni tramanda la rivelazione data a Giovanni Battista: «L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo» (Gv 1,33). In Gesù è quindi data la consolazione permanente per mezzo dello Spirito. Da qui si capisce che il Nuovo Testamento attribuisce sia a Gesù sia allo Spirito di Dio il titolo di paracletos (Gv 16,5-15; 1Gv 2,1).

L' esperienza dei discepoli descritta da Gesù nel Vangelo secondo Giovanni corrisponde alI' esperienza di Paolo avversato dalla comunità di Corinto. Paolo è sicuro di non aver fatto nessun torto ai cristiani di Corinto. Egli si dichiara innocente: «A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato» (2Cor 7,2). Perciò «Dio che consola gli afflitti» non lo ha abbandonato. Di fatto Paolo si sente consolato e passa dalla tristezza alla gioia: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia» (2Cor 7,4). Concretamente è Tito che reca consolazione a Paolo. Portandogli buone notizie della comunità.

E la comunità stessa diventa fonte di consolazione. Tito stesso ha ricevuto dai corinzi la consolazione (2Cor 7,7). Costoro si erano rattristati a motivo della lettera inviata da Paolo (2Cor 7,8). Però tale scritto aveva generato in loro una tristezza «secondo Dio», cioè un salutare pentimento. Ed è proprio questo che consola Paolo, che può ora contare decisamente sulla comunità: «Mi rallegro perchè posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7,16).

Conclusione

Come abbiamo accennato nell'introduzione, queste pagine di Paolo sono istruttive per la situazione tragica nella quale si trovano molte comunità del vecchio e del nuovo continente. Questi insegnamenti possono essere riassunti nel modo seguente.

I rapporti fra pastori e comunità sono sempre da costruire, da mantenere, da rafforzare. Si tratta di un processo lungo, progressivo e spesso anche difficile. Pastori e fedeli non sono mai come li abbiamo sognati, desiderati, voluti e anche idealizzati. La realtà della vita in comune comporta sempre la tentazione del culto della persona: «"lo sono di Paolo", "lo invece sono di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!"» (1Cor 1,12). Si tratta della tentazione tipica dell'idolatria. Il problema è proprio quello di perdere di vista «il tem- pio di Dio», perchè si vede solo con gli occhiali degli idoli. Sappiamo dall'esperienza umana, nonché dalla psicologia moderna che l'idolo può innescare un effetto disastroso quando suscita una delusione. Dall' amore appassionato si passa allora all' odio che fomenta violenza e distruzione.

Per combattere questa tentazione, occorre guardare a Cristo che ci ha inviato lo Spirito dal Padre e ha dato alla Chiesa una struttura contro la quale «le porte degli inferi non prevarranno» (M t 16,18). Ciò significa che i membri della Chiesa si devono confrontare con le forze della morte nei suoi vari aspetti. Nel contempo però, non mancherà mai ai pastori e ai fedeli la consolazione che viene da Dio solo. Se talvolta capita di essere profondamente delusi dal comportamento scandaloso di un membro della comunità, si potrà trovare, nello stesso tempo, una persona sulla quale risplende una traccia del Volto divino che consola.

La sfida fondamentale della vita cristiana è, infine, quella dell'apertura del cuore, come indicato dal titolo della presente riflessione. Tale apertura o chiusura si identifica con il grande mistero interiore degli uomini. Costoro si lasceranno toccare dagli eventi avvenuti a un uomo inviato da Dio Padre, venuto in mezzo alla nostra situazione di peccato, di ingiustizia e di giudizio? Acconsentiranno questi uomini, a una lunga, laboriosa e anche penosa attività come quella di Maria, Madre di Gesù, che serbava «tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51)? Potranno un giorno sperimentare, come i discepoli di Emmaus, il cuore che «ardeva nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino» (Lc 24,32)? Infine, potranno sostenere la domanda del Risorto: «Perchè siete turbati e perchè sorgono dubbi nel vostro cuore» (Lc 24,38)?

(da Parole di vita, 6, 2002)

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