I Dossier

Visualizza articoli per tag: Bibbia, Sacra Scrittura

La comparsa del monoteismo
in Israele
prima dell'esilio
di Andrè Lemaire


La religione dell’antico Israele era veramente monoteista fin dalle sue origini? Come si è passati da una secolare monolatria all’affermazione dell’incomparabilità del Dio d’Israele e della sua assoluta esclusività? La storia del monoteismo biblico non è una storia lineare. È la storia di tradizioni e influenze diverse, patriarcali, cananee, e un lungo processo di maturazione religiosa si ricompose in uno stupefacente lavoro di memoria e di scrittura. La monarchia e il rapporto con le altre nazioni, l’esilio babilonese, la cancellazione di qualsiasi rappresentazione divina hanno contribuito all’elaborazione dell’espressione monoteista di una fede originale.

Fede in un solo Dio, in un Dio unico, il monoteismo è considerato come uno dei fondamenti della tradizione giudeo-cristiana, che si radica nella storia dell'antico Israele. In realtà, i dizionari offrono spesso come esempio concreto di monoteismo il «monoteismo ebraico», citando talora i primi Comandamenti del Decalogo:

Io sono il Signore, tuo Dio...
Non avrai altri déi...
Non ti farai idolo né immagine alcuna.
Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai...

(Es 20,2-4; Dt 5,6-9);

o anche lo Šema' Israel:
Ascolta, Israele:
il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno solo
(Dt 6,4).

La religione dell'antico Israele era veramente monoteista sin dalle origini? Certi passi antichi della Bibbia sembrano indicare di no, dato che ammettono l’esistenza di altri dèi. Da un lato, certe tradizioni patriarcali attestano una certa pluralità di nomi di divinità (teonimi): El ‘Elyon (Gn 14,18-22; cf Nm 24,16; Dt 32,8…), El Roy (Gn 16,13-14), El Šadday (Gn 21,33: 28,3; 35,11... cf Nm 24,16...), El ‘Olam (Gn 21,33), El Betel (Gn 31,13), Pah)ad (Gn 31,42), Ba’al Berit (Gdc 8,33; 9,4), EI Berit (Gdc 9,46)…

D'altra parte, parecchi testi antichi presentano Yahwè, il dio d’Israele, come facente parte di un consesso di dèi, di un «pantheon», che presuppone l'esistenza di altri dèi, dunque di un certo politeismo. Così:

Dio si alza nell'assemblea divina,
giudica in mezzo agli dei
(Sal 82,1).

I cieli cantano le tue meraviglie.
Signore, la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano...

(Sal 89,6-8; cf anche Gb 1,6; 2,1; 38,7).

La monolatria dell'antica religione di Israele

Monoteista o politeista? La religione dell'antico Israele non si lascia imprigionare in questa alternativa perché essa non è in origine il frutto di una riflessione filosofica, di una concezione teorica del mondo divino, ma una religione pratica che si manifesta, in particolare, nel culto e nella morale. Nel contesto generale del politeismo dell'antico Vicino Oriente, la Bibbia pone l'accento sull'unicità e l'esclusivismo della divinità nazionale del popolo d'Israele, che non doveva rendere culto a nessun altro dio. È quello che viene definito monolatria, che afferma un legame particolare ed esclusivo tra il popolo ed una sola divinità. La monolatria dell'antica religione d'Israele suppone implicitamente anche una certa concezione politeista del mondo divino e si precisa un poco alla luce di un testo poetico antico del Deuteronomio (32,8) dove si afferma che Yahwè è il Dio d'Israele, ma si riconosce che le altre nazioni hanno altri dèi:

Quando l'Altissimo (Elyon) divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell'uomo,
egli stabili i confini delle genti
secondo il numero dei figli degli dèi.

Un tema simile è svolto in Mic 4,5:

Tutti gli altri popoli camminino pure
ognuno nel nome del suo dio,
noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro,
in eterno, sempre.

Secondo questa concezione, ogni popolo ha il suo proprio dio, la sua propria divinità nazionale. In realtà, secondo la tradizione biblica, Yahwè è chiaramente il dio mentre Israele è il popolo di Yahwè. Questo legame particolare ed esclusivo è splendidamente espresso dalle immagini dell'alleanza tra Yahwè e Israele. Ritorna nell'aggettivo «geloso» attribuito a Yahwè e il suo carattere esclusivo è sottolineato dalle numerose proibizioni imposte a Israele di «servire» divinità straniere. Il carattere monolatrico della religione dell'antico Israele risale probabilmente alle origini dello Yahwismo e all'uscita dall'Egitto. Secondo le più antiche tradizioni bibliche è Mosè, al quale Yahwè si manifesta, che la impone come unica divinità dei clan che lasciano l'Egitto, a cui rendere culto (Es 3,18; 5,1-3). Si ritrova in seguito questo carattere monolatrico chiaramente espresso dalle diverse tradizioni bibliche a proposito dell'alleanza di Sichem secondo le quali nuovi clan, legati probabilmente alla tradizione patriarcale dei «figli di Giacobbe», si sono riuniti ai «figli d'Israele», rinunciando alle loro divinità precedenti e scegliendo Yahwè come l'unica divinità della nuova confederazione israelita (Gs 24; ef Gn 35,2-5; Gs 8,30-35...). Verso la fine del II millennio, all'epoca di Davide, questa concezione religiosa si impose anche alla popolazione del nuovo regno di Giuda: Davide era un fervente yahwista che aveva assunto al suo servizio e protetto Abiatar, il discendente dei sacerdoti del santuario yahwista di Silo legato alla tradizione mosaica (cf I Sam 22,20-23).

Oltre alla persistenza di tradizioni religiose cananee, lo yahwismo monolatrico dell'epoca monarchica si scontrò più volte con forti influenze straniere. Così, sotto il regno di Acab (874-853 circa), il carattere esclusivo del culto di Yahwè in Israele fu particolarmente minacciato dalla diffusione del culto di Ba'al introdotto dalla moglie di Acab: Gezabele. figlia del re di Sidone (I Re 16,31-32). La dura reazione del profeta Elia si manifesta nello scontro del monte Carmelo: il popolo deve, di nuovo, scegliere il proprio Dio: Yahwè o Ba'al (2 Re 18,21). Il culto esclusivo ufficiale dì Yahwè sarà finalmente ristabilito in seguito al colpo di stato di Ieu nell'841 che eliminò Ba'al da Israele (2 Re 10,27). Nell'835, mettendo fine alla reggenza di Atalia, il colpo di stato del sacerdote Yehoyada ottenne lo stesso risultato a Gerusalemme. Si noterà che, in quest’epoca, una religione monolatrica abbastanza similare era apparentemente praticata da certi vicini di Israele, in particolare nel regno di Moab: Kamoš era riconosciuto come il dio di Moab (I Re 11,33) e Moab come il popolo di Kamoš (Nm 21,29; Ger 48,46). Secondo la stele di Meša, re di Moab (nel IX sec. a.C.), appartenere a Kamoš e appartenere a Moab è tutt'uno (linea 12) e l'espansione del territorio moabita si traduce nella sistetitatica distruzione dei santuari yahwisti, sostituiti da Santuari dedicati a Kamoš: essendo queste religioni entrambe monolatriche, il culto di Yahwè, citato più volte sulla stele, non può sussistere nel regno di Moab! L’importanza del culto di Kamoš è confermata dalle numerose citazioni di questo nome nell'onomastica moabita, attestata essenzialmente da sigilli o stampigliature.

La difficile affermazione di un'unica divinità

Nel secolo VII e in particolare durante il regno di Manasse (699-645 circa), la dominazione politica assiro-aramaica si manifesta attraverso la diffusione del culto degli astri, ben attestato grazie allo studio dei sigilli di quest’epoca e della Bibbia: il re Manasse in persona si prostrò davanti a tutta la milizia del cielo e la servì... Costruì altari a tutta la milizia del cielo nei due cortili del tempio (2 Re 21,3.5), Nonostante questo, con la decadenza del dominio assiro, in riforma di Giosia reagì con vigore contro l'espansione di questi culti e destituì i sacerdoti... che offrivano incenso a Ba’al, al sole e alla luna, alle stelle e a tutta la milizia del cielo (2 Re 23,5; cf Dt 4,19).

Così, la monolatria della religione israelita fu più volte messa in pericolo dalle influenze esterne legate all'evolversi del contesto internazionale. Il pericolo poteva venire anche da Israele stesso: due tendenze, legate allo sviluppo dei santuari tradizionali yahwisti. minacciarono il carattere esclusivo e unico del culto di Yahwè all'interno stesso del popolo d'Israele: l'eccessiva sacralizzazione di certi aspetti dei santuari tradizionali e la diversità stessa di questi santuari.

Le tradizioni israelitiche più antiche descrivono i santuari israeliti come costituiti fondamentalmente da un altare, da una stele e da un albero sacro. Le leggende patriarcali di fondazione di questi santuari mettono bene in luce questi tre aspetti: mentre Giacobbe alza una pietra come stele a Betel (Gn 28,19-22), Abramo piantò un tamerice in Bersabea (Gn 21,33) dove Isacco costruì in seguito un altare (Gn 26,25). Per riprendere l'esempio dell'alleanza in Sichem, il testo precisa, nella parte finale, che poi Giosuè... prese una grande pietra e la rizzò là, sotto il terebinto (cf Gn 12,6; 35,4; Gdc 9,6.36) che è nel santuario del Signore (Gs 24,26).

In modo abbastanza ovvio la stele e l'albero sacro si sono trovati a partecipare della potenza divina di Yahwè, ad essere tanto sacralizzati da diventare quasi di sostanza divina. Questo è ben dimostrato dalle iscrizioni paleoebraiche della prima metà dell'VIII sec. a.C. in cui l'ašerah, cioè l'albero sacro del santuario, è citata accanto a Yahwè nelle formule di benedizione:

Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Samaria e attraverso la sua Ašerah (Kuntillet 'Ajrud, Pithos 1);

Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Teman e la sua Ašerah (Pithos 2);

Sia benedetto Uriyahu attraverso Yahwè e la sua Ašerah (Khirbet el Qom 3).

Queste formule indicano che l'albero sacro (Ašerah) dei santuari yahwisti stava diventando, per gli Israeliti, una potenza sacra indipendente, di sostanza divina, uguale e rivale di Yahwè. Questa evoluzione provocò presto una vivace reazione da parte dei profeti (Am 3,14; Os 3,4; 4,12; 10,1-2; Mic 5,12-13) che sfociò nelle riforme religiose di Ezechia (2 Re 18,4) e di Giosia (2 Re 23,6), codificate nel Deuteronomio (16,21);

Non pianterai alcun palo sacro (Ašerah),
di qualunque specie di legno,
accanto all'altare del Signore tuo Dio,
che tu hai costruito;
non erigerai alcuna stele [masseba]
che il Signore tuo Dio ha in odio.

Le formule di benedizione di Kuntillet 'Ajrud che citano «Yahwè di Samaria» e «Yahwè di Teman» rivelano un'altra evoluzione che rischiava di portare ad una pluralità divina all'interno stesso di Israele: il legame della persona di Yahwè con i suoi diversi santuari e la sottolineatura di caratteri divini particolari in ciascuno di questi, col rischio di mettere a poco a poco in ombra il fatto che si trattava pur sempre della stessa persona divina. È un fenomeno abbastanza simile a quello che avviene nella tradizione cattolica nel culto della vergine Maria con i diversi appellativi «Madonna di Chartres», «Madonna di Lourdes», «Madonna di Fatima»… che, nella religiosità popolare, hanno talora la tendenza a diventare altrettante personalità distinte. Come per l'eccessiva importanza attribuita agli alberi sacri, questa evoluzione della religiosità popolare comportò una vivace reazione dei profeti che criticava l'eccessiva rivalutazione dei santuari locali (cf, per esempio, Am 4,4; 5,5) e portarono alla soppressione ufficiale di questi santuari al momento delle riforme di Ezechia (2 Re 18,4.22)e di Giosia (2 Re 23,8.15), soppressione nuovamente riaffermata nel Deuteronomio (12,2-5). Probabilmente è il proprio questa opposizione al culto yahwista dei diversi santuari che spiega l'insistenza del Deuteronomio sull'unicità della divinità nazionale: Yahwè è uno solo (6,4).

Il rifiuto delle immagini

Il ricordo di queste tendenze, di queste lotte e di queste riforme mostra con chiarezza che la monolatria dell’antico Israele non fu un’acquisizione antica, più o meno dimenticata, ma un principio ben vivo che porta, in un contesto del vicino Oriente spesso politeista, a una certa purificazione del concetto del Dio d'Israele. Questo approfondimento del concerto della divinità fu anche fortemente segnato da un altro aspetto dello yahwismo che sembra risalire alle sue origini: il suo aniconismo, cioè la proibizione, espressa nel Decalogo, di rappresentare la divinità nazionale con un'immagine o una rappresentazione scultorea. La ricerca contemporanea ha rivelato che questa caratteristica va collocata probabilmente in origine nel più generale contesto del culto delle stele, ben attestato nel culto semitico occidentale. Tuttavia, paradossalmente, nell'antico Israele, questo aniconismo fu teorizzato e sistematicizzato, conducendo alla fine persino al rifiuto del culto delle stele (Dt 16,21). Quest'ultimo aspetto della monolatria israelita ha potuto rivestire un ruolo importante nell'approfondimento verso la concezione di un Dio unico, universale trascendente. In realtà l'aniconismo ha, almeno in parte, alimentato la polemica contro gli dèi stranieri. Ciò appare già nel racconto della sosta dell'arca di Yahwè nel tempio di Dagon ad Ašdod (I Sam 5,2-5): la statua di Dagon è dapprima trovata in terra davanti all’arca, poi senza la testa e le mani. Attraverso questo racconto, Dagon non è solo messo in discussione in quanto dio straniero, inferiore a Yahwè. ma anche perché è rappresentato da una statua la cui mutilazione rivela l'impotenza.

L'impotenza degli dèi stranieri è spesso sottolineata dai profeti: sul monte Carmelo, Ba'al non è contestato solo perché è un dio straniero, fenicio, ma anche a causa della sua impotenza, come sottolinea Elia alludendo alla sua mitologia:

... egli è un dio! Forse è soprappensiero
oppure indaffarato o in viaggio;
caso mai fosse addormentato...
(1 Re 18,27).

Analogamente, una critica implicita dell'impotenza degli dèi stranieri è posta in bocca a Rabšaqeh, un inviato di Sennacherib presso Ezechia: Forse gli dèi delle nazioni hanno liberato ognuno il proprio paese dalla mano del re d'Assiria? Dove sono gli dèi di Amat e di Arpad? Dove sono gli dèi di Sefarvaim, di Ena e di Ivva?... Quali, mai, fra tutti gli dèi di quelle nazioni, hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Potrà forse il Signore liberare Gerusalemme dalla mia mano? (2 Re 18,33-35; cf 19,12-13).

Al contrario, la tradizione biblica sottolinea la potenza di Yahwè, capace di opporsi agli attacchi dei nemici (cf oltre, sotto Ezechia), o di usarli come strumento per punire Israele (Is 10,5-19). La potenza di Yahwè non si arresta dunque ai confini dell’antico Israele: Yahwè può esercitare la sua potenza anche sugli stranieri, e persino su re stranieri. È già in parte la storia della guarigione del generale arameo Naaman (IX sec.) che riconosce la straordinaria potenza del Dio d'Israele:

Ebbene, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele... Almeno sia concesso al mo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore... (2 Re 5, 15- 17). Si vede qui sorgere una tendenza verso l'espressione di un monoteismo universalistico.

Certi passaggi biblici del Deuteronomio (4,35.39; 32,39), della storia deuteronomista (2 Sam 7,22: 22,32) e di Geremia (2,11; 16,19-21) si spingono oltre in questa direzione, criticando le altre divinità ed affermando esplicitamente che Yahwè è il solo Dio, che domina l'universo. Tuttavia, con la maggior parte dei commentatori, si nota che tutti i passaggi sembrano appartenere ad uno strato redazionale tardivo, probabilmente esilico. Ricordiamo, ad esempio, Ger 2,11:

Ha mai un popolo cambiato dèi?
Eppure quelli non sono dèi!

in cui la sottolineatura che gli dèi delle altre nazioni non sono veramente dèi sembra una glossa aggiunta al testo originario.

In realtà, le prime chiare affermazioni del monoteismo israelita sembrano quelle del Deutero-Isaia, che risalgono probabilmente alla fine dell'Esilio, al 550-539 circa:

Prima di me non fu formato alcun dio,
né dopo ce ne sarà
(Is 43,10-11).

Io sono il primo e io l'ultimo;
fuori di me non vi sono dèi
(Is 44,6-8; cf 45,5-7.18.21-22).

Come l'autore di questi testi ha potuto operare il salto dalla secolare monolatria dell'antico Israele alla chiara affermazione del monoteismo? Se si presta fede al resto degli scritti di questo profeta dell'Esilio (cf in particolare Is 44,9-20; 45,20; 46,6-7...), questo sviluppo teologico si afferma a partire da una riflessione sull'impotenza degli altri dèi, specialmente di quelli rappresentati da immagini o statue. In realtà, posto a confronto con un contesto in cui le divinità dei signori dell'Impero neobabilonese erano rappresentati abitualmente da statue, il profeta le rifiuta d'istinto, partendo dalla tradizione aniconica israelitica.

Così, la riflessione sull'unicità di Yahwè è maturata nel corso di parecchi secoli e i profeti hanno dovuto all’inizio combattere per difendere il carattere monolatrico della religione israelita contro diversi influssi esterni e alcune tendenze della religione popolare. Anche se si scorgono alcuni annunci precedenti, è soprattutto l'approfondimento della tradizione aniconica nel contesto storico dell'Esilio babilonese che sembra aver reso possibile il passaggio dalla religione monolatrica delle origini mosaiche, che proclamava Yahwè come l'unico Dio d'Israele, ma che poco si curava dello statuto degli dèi di altri paesi, alla chiara affermazione del monoteismo ebraico secondo il quale Yahwè è il solo vero Dio, Signore dell’universo.

* Direttore del Dipartimento alla École Pratique des Hautes Études, sezione scienze storiche e filologiche

(da Il mondo della Bibbia n. 47)

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 23 Ottobre 2005 22:26

6. Come leggere la Bibbia (Rinaldo Fabris)

Il “genere letterario” è un modo specifico di parlare di una esperienza o di raccontare un evento che corrisponde alla mentalità, agli usi e costumi di una determinata epoca e cultura.

Pubblicato in Bibbia

Gesù nei Vangeli apocrifi
Un Cristo «così umile e così nobile»
di Rémi Gounelle
(Università di Losanna)



Il dibattito sulla natura di Gesù, che inizia già alla fine del I secolo, è presente in alcuni Vangeli apocrifi. La fede in Gesù come fonte della salvezza segna in profondità la rappresentazione che essi propongono circa la figura di Gesù: numerosi sono i testi che insistono sulla sua origine celeste e sulla sua divinità per spiegare come egli ha portato all’umanità la salvezza. Gli apocrifi riflettono lo stato della riflessione teologica sull’umanità e la divinità di Gesù dell’ambiente che li ha prodotti.

Tutti gli apocrifi cristiani che ci sono stati conservati non s'interessano all'identità di Gesù. Una parte di questi è dedicata alle avventure degli apostoli, messaggeri del Vangelo in lontane contrade, o ad altri protagonisti delle gesta cristiane, come Anna e Gioacchino (i genitori di Maria), Pilato, Erode o Maria Maddalena. Un certo numero, inoltre, di quelli che narrano l'infanzia o la morte di Gesù permangono talmente vaghi circa la sua identità che è difficile riportarli all'una o all'altra delle correnti che si sono confrontate su questo argomento. L'esempio più chiaro è costituito probabilmente dagli Atti di Pilato, composti in un'epoca in cui l'arianesimo era al centro dei dibattiti teologici: l'autore di questo racconto della passione e della risurrezione di Cristo non mirava a dire chi era Gesù, ma a dimostrare la conformità degli eventi che gli erano accaduti con le profezie dell'Antico Testamento; si limita dunque a designare Gesù ricorrendo al titolo di «figlio di Dio», ripreso dai Vangeli canonici, e non dice nulla dei suoi rapporti con il Padre. È pertanto estremamente difficile stabilire se l'autore degli Atti di Pilato era favorevole o contrario alle decisioni adottate dal Concilio di Nicea nel 325. Il silenzio di questo apocrifo sull'identità di Gesù non significa necessariamente che il suo autore ignorasse del tutto le vivaci polemiche del suo tempo. Poiché ha evitato gli argomenti che all'epoca erano in discussione, si può ben credere che ne avesse conoscenza, e che abbia preferito non affrontarli perché inutili allo scopo che si prefiggeva: indurre gli Ebrei a convertirsi al cristianesimo.

Un essere celeste

Un certo numero di apocrifi ha partecipato in modo più esplicito alla riflessione sulla natura di Gesù, che è iniziata sin dai primi tempi del cristianesimo. Così, nella parte più antica dell'Ascensione di Isaia (6-14), databile alla fine del I secolo, Gesù è rappresentato come «l 'Eletto il cui nome non è stato rivelato e di cui nessuno dei cieli può conoscere il nome» (8,7-10); questo «prediletto» (cf Mt 12,18) «scenderà [...] negli ultimi giorni»; sarà «chiamato Cristo dopo che sarà disceso e avrà assunto il vostro aspetto e si crederà che sia carne e uomo» (9,13). Egli scenderà, senza essere riconosciuto, di cielo in cielo sino alla terra; entrerà in Maria, di dove uscirà senza conoscere una vera nascita (10,11.16.18). Gesù dunque non è veramente un essere umano, ma un essere celeste, che ha indossato diverse identità - tra cui quella di uomo - per liberare l'umanità dal dominio delle potenze angeliche. Questo gioco di apparenze gli ha permesso di scendere incognito dai cieli, e di risalirvi come Signore vittorioso.

Rappresentazioni datate

Per quanto possa apparire sorprendente agli occhi del lettore moderno, questa rappresentazione di Gesù come essere celeste preesistente, la cui incarnazione è soltanto apparente, non è strana alla fine del I secolo o nel II, epoca in cui la dottrina della doppia natura non era stabilita.

Il fatto è che gli apocrifi non sono fuori del tempo: che i loro autori lo abbiano consapevolmente voluto oppure no, essi hanno riflettuto nelle loro opere gli interessi e le idee dei loro ambienti. L'accentuazione che numerosi apocrifi pongono sulla divinità o sull'origine celeste di Gesù si spiega in questo contesto: gli autori di questi apocrifi hanno cercato di comprendere come Gesù ha portato la salvezza agli uomini, e quale beneficio l'umanità ha tratto dalla sua venuta. Questa riflessione sulla salvezza li ha indotti a interessarsi più a quanto faceva di lui il Signore e il Salvatore che del carattere umano di Cristo.

Le soluzioni che hanno trovato riecheggiano la riflessione teologica del loro tempo: gli apocrifi più antichi, come l'Ascensione di Isaia, rappresentano la figura di Cristo in modo «arcaico», mentre i più recenti dipendono dai sistemi teologici più «elaborati» del loro tempo, articolando in maniera più o meno sottile divinità e umanità. Da questo punto di vista la letteratura apocrifa porta alla storia dei dogmi e delle idee soltanto testimonianze simili a quelle conservate nelle omelie, nei trattati e nelle liturgie, anche se permette, talora, di capire meglio una rappresentazione della natura di Cristo altrimenti poco conosciuta -è uno dei contributi dell'Ascensione di Isaia.

Il Signore e il Salvatore

Una rappresentazione particolarmente elaborata della natura di Gesù si trova nel racconto della discesa di Cristo agli inferi, aggiunta - probabilmente nel VI secolo - agli Atti di Pilato greci per formare il Vangelo di Nicodemo latino. Per l' autore di questo racconto, come per quello dell'Ascensione di Isaia, si tratta di determinare come l'umanità sia stata liberata dal potere della morte e di Satana.

L'autore dei cc. 17-27 del Vangelo di Nicodemo latino (recensione A) vede nella salvezza dell'umanità la conseguenza della «maestà divina» di Cristo e della sua onnipotenza (cf 18,1; 22,2; 26). Cristo, coeterno al Padre (18,1), è il «Re della Gloria» (21,1), un «Dio forte e possente, dotato di poteri anche nella sua umanità» (20,3), come dice il salmo 24(23),7-10. Divenuto uomo, ha potuto ingannare le potenze infernali: esse hanno creduto che egli fosse un uomo come gli altri, e hanno pensato di potersi impadronire di lui dopo la morte (20); ma significava dimenticare che, se Gesù «è potente nella sua umanità [perché opera miracoli] [...] è onnipotente nella sua divinità, e nessuno può resistere alla sua potenza» (20,2) Nel mondo degli inferi, Cristo ha vinto Satana e ha liberato l'umanità dal suo potere, ridandole la sua originaria libertà (22,1).

L'autore di questo racconto della discesa agli inferi si è preso cura di articolare in modo ortodosso le due nature - umana e divina - di Cristo: in quanto Dio, Cristo è incorruttibile; in quanto uomo, è corruttibile. Egli è di volta in volta «così grande e così piccolo, così umile e così nobile, di volta in volta soldato e generale, guerriero ammirabile sotto aspetto di schiavo, e Re della Gloria morto e vivente» (22,1).

Discorso di fede

Opera di credenti di altri tempi, gli apocrifi cristiani sono testi che testimoniano la fede dei loro autori, e dei loro lettori. La loro rappresentazione della figura di Gesù è al servizio di questa fede in un individuo che porta la salvezza. Per capire perché un apocrifo definisce in un certo modo l'identità di Gesù, è importante essere attenti al modo in cui concepisce la storia della salvezza, e il ruolo di Gesù in essa. Questa non è una particolarità degli apocrifi: la questione della salvezza dell'uomo è al centro delle controversie sull'identità di Gesù nei primi secoli della Chiesa, e modella le nostre rappresentazioni attuali, per quanto umanistiche possano essere.

Pubblicato in Bibbia

Abramo e Isacco:
modelli di amore e libertà
di Claudio Stercal




Nel Trattato dell'amore di Dio, pubblicato nel 1616, san Francesco di Sales (1567-1622) si propone di «ripresentare con semplicità e naturalezza, senza arte e ancor più senza finzioni, la storia della nascita, del progresso, della decadenza, delle operazioni, proprietà, vantaggi ed eccellenze dell'amore divino» (S. Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, prefazione).

A conclusione dell'opera offre Alcuni suggerimenti per il progresso dell'anima nel santo amore e tra questi una Esortazione al sacrificio del nostro libero arbitrio a Dio. Abramo «viva immagine dell'amore più forte e leale che si possa immaginare in qualsiasi creatura» (Ivi, 1, XII, c. X), è proposto tra i modelli più significativi di quel «santo amore». Il riferimento è, in particolare, ai suoi due grandi sacrifici: quello dei «più forti affetti naturali» (cf Gn 12,1-5) e la disponibilità al sacrificio del figlio Isacco (cf Gn 22).

Non senza l'intenzione di sorprendere il lettore, san Francesco di Sales mostra la sua ammirazione non solo per la «longanimità» di Abramo, ma anche e, forse, soprattutto, per la «magnanimità» del figlio Isacco: «È veramente una meraviglia, ma non così grande, vedere Abramo, già vecchio e molto sperimentato nella scienza di amare Dio, e fortificato dalla recente visione e parola divina, fare quest'ultimo sforzo di lealtà e di dilezione verso un Maestro, di cui aveva così spesso sentito e assaporato la soavità e la provvidenza; ma vedere Isacco, nella primavera della sua età, ancora novizio e principiante nell'arte di amare il suo Dio, offrirsi, sulla sola parola del padre, al coltello e al fuoco per diventare olocausto di obbedienza alla divina volontà, è cosa che sorpassa ogni ammirazione (Ivi).

Gli esempi di Abramo e Isacco sono, quindi, proposti per muovere non solo gli anziani, ma anche i giovani a donare a Dio non solo ciò che hanno, ma anche ciò che sono: «Signore Gesù, quando sarà mai che, dopo avervi sacrificato tutto quello che abbiamo, vi immoleremo tutto quello che siamo?», E con il linguaggio «sacrificale» e «immolazionista» - lontano dalla nostra sensibilità, ma ricco per i suoi riferimenti al sacrificio della croce e all'eucaristia - san Francesco precisa che per donare ciò che siamo dobbiamo donare la nostra libertà: «Quando vi offriremo in olocausto il nostro libero arbitrio, unico figlio del nostro spirito?». E proprio il dono dell'«unico figlio del nostro spirito» - bella espressione per indicare la nostra libertà -, lasciato «ardere» dall'amore per Gesù, ci consente di partecipare al suo sacrificio: «Quando lo legheremo [= il libero arbitrio] e stenderemo sul rogo della vostra Croce, delle vostre spine, della vostra lancia, affinché, come un agnellino, sia vittima gradita al vostro divino beneplacito, per morire e ardere a causa del fuoco e del col.tello del vostro santo amore?» (Ivi).

La simbologia «sacrificale» non deve impedire la lettura e la comprensione di questi testi. Il richiamo al sacrificio, infatti, non vuole proporre l'imitazione degli aspetti cruenti del dono di Isacco e di Gesù, ma vuole aiutare a coglierne e rinnovarne l'intenzione: un dono di amore, libero e totale.

In questa prospettiva si può comprendere anche il richiamo, certamente paradossale, ma significativo, alla schiavitù e alla morte: «II nostro libero arbitrio non è mai così libero come quando è schiavo della volontà di Dio, ne è mai così servo come quando serve alla nostra volontà: non ha mai tanta vita come quando muore a se stesso, ne mai tanta morte come quando vive per sé». L’obiettivo da perseguire non è, evidentemente, la ricerca della schiavitù e della morte, ma l'abbandono alla volontà e all'amore di Dio; solo questo renderà veramente vivi, liberi e felici, «più felici dei re»: «Rendiamoci schiavi della dilezione, i cui servi sono più felici dei re. E se mai la nostra anima volesse usare la propria libertà contro le nostre risoluzioni di servire Dio in eterno e senza riserve, allora, per amore di Dio, sacrifichiamo questo libero arbitrio e facciamolo morire a se, affinché viva in Dio» (Ivi).

Solo questa «schiavitù di amore» ci consentirà di «inabissare» il nostro libero arbitrio nel godimento della bontà di Dio e di superare, nella vita eterna, ogni tensione tra amore e libertà: la libertà sarà convertita in amore e l'amore in libertà, dolce e infinita. «Chi gli concederà [= al libero arbitrio] la libertà in questo mondo, l'avrà servo e schiavo nell'altro, e chi lo asservirà alla Croce in questo mondo, l'avrà libero nell'altro, dove, inabissato nel godimento della divina Bontà, la sua libertà si troverà convertita in amore e l'amore in libertà, ma libertà di dolcezza infinita; senza sforzo, senza fatica e senza alcuna ripugnanza, ameremo invariabilmente per sempre il Creatore e Salvatore delle nostre anime» (Ivi).


Pubblicato in Bibbia

Come Paolo abbandonò
la legge di Mosè
di Jérôme Murphy O’Connor *


Il modo in cui Paolo concepiva la Legge di Mosè non era senza contraddizioni e il suo atteggiamento nei confronti di questa è cambiato a più riprese. Si possono distinguere nell’evoluzione del pensiero almeno quattro periodi al termine dei quali egli abbandonò la Legge di Mosè: la giovinezza a Tarso; il soggiorno a Gerusalemme da fariseo; i primi anni da missionario cristiano quando rappresentava Antiochia e infine l’ultima parte della sua vita, dopo la rottura con Antiochia.

Studi recenti hanno mostrato che Paolo era un maestro della retorica classica. Rifiutava di ricorrere a queste competenze nella sua predicazione per ragioni di principio: «perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,5). Argomenti logici non potrebbero in realtà per lui costituire il fondamento della fede, ancorato nell’esperienza personale della grazia divina. Ma quando Paolo si accora, come in 2 Corinzi 10-13, la sua padronanza prudente si espande e le sue competenze appaiono alla luce del giorno: egli allora imita perfettamente le convenzioni della retorica! È chiaro che Paolo era un letterato. Non è impossibile che abbia seguito lunghi studi a Gerusalemme, ma più probabilmente li ha completati nella celebre scuola di Tarso. Paolo era dunque un ebreo che viveva in due universi distinti, appartenendo sia alla comunità ebraica, sia alla città pagana. Adolescente, il suo atteggiamento di fronte alla Legge era forse ambiguo. Alcuni elementi della Legge, in particolare le prescrizioni alimentari, avevano lo scopo di rendere difficile, se non impossibile, lo scambio con i Gentili, cioè con i pagani. In questa prospettiva, egli considerava forse la Legge come un peso. I suoi genitori erano prigionieri di guerra giunti dalla Galilea a Tarso, che avevano acquisito cittadinanza romana dopo essere stati emancipati dal loro status di schiavi. Questa situazione ha potuto rafforzare il loro impegno di obbedienza alla Legge per resistere all'assimilazione. L'osservanza conferiva loro un profondo senso di identità: essi facevano parte del popolo di Dio.

A Gerusalemme, una scrupolosa conoscenza dei comandamenti della Torà

L'impegno di Paolo di fronte alla Legge divenne più profondo e personale quando si unì ai farisei a Gerusalemme (Fil 3,5). I farisei superavano tutti gli altri ebrei nella conoscenza scrupolosa dei comandamenti (At 22,3; 26,5; G. Flavio, Antichità 17,41; Guerra 1,110; Vita 191 A), la sola via per loro della perfetta obbedienza. Paolo si adattò perfettamente al suo nuovo ambiente. «Superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14). Il tono di questa dichiarazione riflette la sufficienza di un vincente. Paolo aveva imbrigliato la sua feroce energia a favore di uno studio intenso della Legge, scritta e orale, ed eccelleva nel grado e qualità della sua osservanza. Certo, in teoria, l’elezione della grazia rimaneva preponderante, ma, in pratica, l'attenzione era tutta puntata su un’osservanza meticolosa di ciò che i farisei consideravano l'esatta interpretazione della Legge. Durante questo periodo, che durò più di dieci anni, Paolo era dunque un legalista ad oltranza. Nulla indica che egli abbia potuto in quel tempo sentirsi tormentato da qualche impossibilità a osservare la Legge.

L'incontro con i Gentili

La terza tappa della relazione di Paolo con la Legge si colloca tra la sua conversione e la sua discussione con Pietro ad Antiochia. Le parole seguenti traducono bene il suo atteggiamento durante questi vent'anni (circa 33-52 d.C.): «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. […] Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge […] per guadagnare coloro che sono senza legge» (1Cor 9,20-21). In compagnia degli ebrei, egli osservava le usanze ebraiche, come ad esempio le prescrizioni alimentari: ma tra i Gentili ignorava queste prescrizioni e mangiava liberamente come i Gentili. In altre parole, la Legge perdeva importanza. Paolo non si sentiva più legato dalle proibizioni che essa imponeva.

In che modo? Tutto ciò che si sa, è che la conversione ha convinto Paolo ad essere l'apostolo presso i Gentili di una missione liberata dalla Legge. Se essi non avevano bisogno di osservare la Legge per essere salvi, la Legge non costituiva un passaggio essenziale sulla via della salvezza. Accettando questa libertà, Paolo facilitò i contatti con i Gentili che egli voleva accostare a Cristo.

Ormai, la Legge aveva perduto per Paolo la sua importanza in termini di salvezza, ma continuava a riconoscervi un quadro di riferimento per l'identità ebraica. Perché, dopo tutto, gli ebrei formavano un popolo. Per questo permetteva agli ebrei convertiti delle sue diverse comunità di circoncidere i loro figli e di conservare le loro prescrizioni alimentari. Agli occhi di Paolo, si trattava in tal caso di costumanze puramente etniche, senza alcun valore religioso. Non vi era dunque alcun motivo per i Gentili di osservarle. Il fatto che due gruppi così diversi siano accostati nel seno di una medesima Chiesa richiedeva naturalmente molto tatto per garantire alla comunità un'unità effettiva. Condividendo un pasto con degli ebrei, i Gentili dovevano sottomettersi alle prescrizioni kasher; analogamente, quando erano invitati dai Gentili, gli ebrei dovevano affidarsi ai Gentili per quanto riguarda i pasti kasher serviti. Se Paolo sottolineò che la maggior parte delle concessioni spettava ai Gentili, non vi vide probabilmente che un'espressione della carità. I cristiani dovevano amare il prossimo, la norma essendo il sacrificio che Dio aveva fatto della sua persona (2Cor 5,15).

La questione di Antiochia

L'incidente di Antiochia mise fine a questa tolleranza e segnò l'inizio della quarta e ultima fase dell'atteggiamento di Paolo di fronte alla Legge. Giacomo era d'accordo con Paolo sul fatto che i Gentili non avessero bisogno di essere circoncisi (Gal 2,6): riconosceva che non era il momento di diluire l'identità ebraica circoncidendo i Gentili che non mostravano alcun interesse verso il giudaismo. L'antisemitismo guadagnava terreno ed era importante che ogni vero ebreo fosse solidale. Ed ogni abbandono di elementi dell'identità ebraica era in quel momento sentito come un tradimento... È il motivo per cui Giacomo insistette perché i giudeo-cristiani di Antiochia mostrassero un'osservanza molto più stretta verso la Legge ebraica (Gal 2,12). Questa posizione era gravida di conseguenze per i Gentili di Antiochia. Per mantenere l'unità della comunità, avrebbero dovuto veramente diventare ebrei. Avrebbero perduto allora la libertà del vangelo, garantita dall'Assemblea degli Apostoli e degli Anziani di Gerusalemme (Gal 2,10). Qui Paolo si vide obbligato a riconoscere che non si poteva più accettare il significato della Legge all'interno della comunità cristiana. Se si accordava il minimo diritto di cittadinanza alla Legge, ne sarebbe risultato inevitabilmente un formalismo che, in modo inesorabile, avrebbe allontanato sempre più Cristo dalla vita dei credenti. La sua esperienza personale di fariseo gli permetteva di comprendere fino a che punto la richiesta di un'osservanza perfetta poteva prevalere su ogni altra considerazione. Per la prima volta, Paolo vide nella Legge una pericolosa rivale per il Cristo. Da qui la sua trasformazione in «antinomico» (oppositore della Legge) radicale (Gal 5,1-12). Luca ha perfettamente ragione quando fa dire a Giacomo: «Tu [Paolo] vai insegnando a tutti i Giudei sparsi fra i pagani che abbandonino [la legge di] Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21).

Questa illuminazione portava Paolo a rimettere in discussione il valore della Legge di Mosè. Nella pratica della vita ebraica, questa Legge non era «la legge di Dio» che per il suo nome (Rm 7,22). In realtà, essa era «la legge del Peccato» (Rm 7,23 e 25). Paolo voleva dire così che il Peccato, cioè un falso sistema di valori sociali, si era impadronito e controllava la Legge. Un esempio ne era l'esagerata importanza attribuita alla Legge: se si pretendeva che fosse osservata da Dio stesso, che potevano allora offrire gli ebrei se non un'obbedienza totale e cieca («La giornata ha dodici ore; durante le prime tre, l'Onnipotente, benedetto sia il suo nome, si dedica alla Torà», B. Aboda Zara 3b)? La «pratica della Legge» (Gal 2,16), cioè i gesti richiesti dalla Legge, prevaleva su tutto. Ma, invece di guadagnare il favore di Dio, tutto ciò che si richiamava alla pratica della Legge incorreva in una maledizione (Gal 3,10).

L'antitesi della «Legge del Peccato» è la «Legge di Cristo» (Gal 6,2), la Legge come è assunta da Cristo Tutti questi molteplici precetti della «Legge del Peccato» (Gal 5,3) si trovano ridotti, nella Legge di Cristo, ad un solo comandamento che «enuncia» (logos e non entolê): «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14, citazione da Lv 19,18). Ma che cos'è il vero amore? Per Paolo si tratta dello stesso amore di cui Cristo avevo dato l'esempio sacrificando se stesso per la salvezza di ognuno: «Il Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La Legge è diventata il Cristo nel senso in cui è lui che articola, nel suo agire, la domanda fondamentale dell'amore. I comandamenti della Legge sono divenuti caduchi. Ne deriva che «Cristo è il termine della Legge» (Rm 10,4). Non è più la Legge che parla in nome di Dio, ma soltanto Cristo. Seguire Cristo obbliga ad un impegno totale che i precetti discrezionali della Legge, anche seguiti uno ad uno, non saprebbero mai chiedere.

L'opposizione di Paolo alla Legge andava ben oltre la semplice affermazione che essa era al gli fuori degli obiettivi dei cristiani. Ai suoi occhi, nessun precetto che obbligasse, qualunque fosse, non aveva spazio nella comunità cristiana. Paolo non richiama mai l'obbedienza alla legge, ai comandamenti o anche alla volontà di Dio. Egli cita due comandamenti di Cristo, uno che proibisce il divorzio (1Cor 7,10) e l'altra che obbliga i sacerdoti ad accettare un sostegno materiale della comunità (1Conr 9,14). Ora, egli ammette un divorzio (1Cor 7,15) ed insistette per guadagnarsi la vita con le sue mani (1Cor 9,15-18). Si sentiva libero di fare esattamente l'opposto di quello che domandava Gesù, rivelando in questo modo che i credenti non dovevano prendere alla lettera ciò che aveva l’apparenza di un comandamento. Se Paolo rifiutava di accordare alla Legge e ai comandamenti di Cristo una autorità coercitiva, non avrebbe potuto dare una forza coercitiva alle sue personali direttive. Egli scriveva a Filemone: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità» (Fm 8-9). Perché Paolo «prega» invece di «comandare»? Risponde: «Non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo» (14; cf 2Cor 9,7). L'opposizione tra costrizione e libertà è assoluta. Una stessa azione non può essere allo stesso tempo volontaria e obbligata.

Paolo non dà dunque mai un precetto imperativo in materia morale. Se gli capita di scivolare in un tono imperioso, si corregge subito: «Non lo dico come un ordine» (1Cor 7,6; 2Cor 8,8). Lt stia tecnica consiste nello spiegare ai suoi convertiti quello che egli farebbe in una data situazione e poi a lasciarli trovare da soli una risposta autentica sotto la direzione dello Spirito Santo. Se la Legge è il Cristo (Gal 6,2), Paolo, in ultima analisi, può soltanto dire: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).

* Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme

(da Il mondo della Bibbia n. 53)
Pubblicato in Bibbia
Martedì, 06 Settembre 2005 22:37

Come si è formata la Bibbia? (Gaetano Castello)

Come si è formata la Bibbia?
di Gaetano Castello

Grazie al crescente interesse per la Bibbia, sviluppatosi tra i cattolici soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II è ormai comunemente noto che essa si presenta, dal punto di vista letterario, più come una biblioteca che come un unico libro. Ciò è vero dal punto di vista storico e letterario senza nulla togliere all’unità della Sacra Scrittura come Parola di Dio, al principio unificante, che i credenti riconoscono nell’Inspirazione divina.

E in realtà i 73 libri che compongono la Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse, dalla creazione alla fine del tempo, sono stati composti in epoche molto diverse gli uni dagli altri, lungo un arco storico che copre oltre un millennio (dal X sec. a.C. al II d.C.).

La storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole di culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e trasmesse in forma orale. È quanto implicitamente afferma la Dei Verbum:

«nel suo grande amore Dio, progettando e preparando con sollecitudine la salvezza di tutto il genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo... egli si rivelò con parole ed azione al popolo, che s’era acquistato, come l’unico Dio vero e vivo, così che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza fra le genti (...). l’economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell’Antico Testamento...» (n.14).

Un lungo processo formativo

La formazione della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando si è abbandonata la semplice idea che suo unico autore fosse Mosè, il grande profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, come è verosimile nel mondo dell’Oriente antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è giunto, fu molto più laboriosa.

Sul processo di formazione scritta del Pentateuco il parere degli autori è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto dalla teoria cosiddetta di Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni. Secondo i due studiosi, che alla fine del secolo scorso svilupparono idee in parte già elaborate prima di loro, il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi e sull’esodo dall’Egitto. Il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore «Sacerdotale», uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI secolo a.C.. Il «Sacerdotale» fu autore di una storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi teologici compiuti già da altri israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a disposizione altri documenti composti molto tempo prima; il cosiddetto «Deuteronomista», l'«Elohista» e prima ancoralo «Jahvista».

Senza entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni ed incoerenze nel racconto del Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn 12-36)? C'è da dire che proprio a partire da queste domande la ricerca biblica mosse i suoi primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il consenso quasi universale che la teoria, a cui si è fatto cenno, trovò tra gli studiosi della Sacra Scrittura.

Lo sforzo è continuato e tutt'ora si cerca di correggere o integrare la teoria Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.

Analoghe osservazioni vennero fatte, naturalmente, anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si parla, ad esempio, di un primo, secondo e terzo Isaia, indicando sommariamente il fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39), la seconda dell'epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell' epoca post-esilica, VI - V sec. a.C. (capp. 56-66).

E, d'altra parte, è facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti infatti ebbero il compito di parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua riflessione sapienziale di cui libri come Giobbe, Proverbi, Sapienza, sono il risultato finale.

La formazione dei Vangeli

Non meno interessante è la storia della formazione del Nuovo Testamento avvenuta certamente in tempi più brevi ma non senza del periodi di elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti.

Limitando le nostre brevi osservazioni ai Vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della «storia delle forme» nata in Germania all'inizio del nostro secolo, a studiare il lavoro di composizione letteraria che dovette precedere l'ultima redazione dei Vangeli, quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri testi attuali. Le osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero le stesure scritteci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel processo compositivo.

Subito dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento della Risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole, i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente nelle prime liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni del Maestro, nonché racconti come il battesimo di Gesù, per chiarire il senso del sacramento. Così pure la celebrazione della Cena Eucaristica.

Le riunioni venivano accompagnate con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio.

L' annuncio cristiano all'esterno (kérygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede, espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù, il Messia atteso. La catechesi per la preparazione al Battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi illuminanti della vita di Gesù, letti, naturalmente, a partire dalla comprensione più profonda dei fatti all'indomani della Risurrezione. Tutto ciò costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi liturgica e catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli evangelisti.

Il primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell'annuncio kerygmatico della fede, tanto più necessario quanto più scandaloso appariva a giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Vangelo, il primo, Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e le altre fonti a loro disposizione, tra cui una fonte in cui vennero raccolti i «detti» di Gesù.

Ad un simile processo di formazione accenna,. pur senza entrare nelle problematiche scientifiche, il Concilio Vaticano Il al n. 19 della Dei Verbum:

«... Gli apostoli poi, dopo l'ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano. Egli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi, infatti, attingendo sia dalla propria memoria e dai propri ricordi sia dalla testimonianza di coloro che "fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola", scrissero con l'intenzione di farci conoscere la "verità" (cf Lc 1,2-4 ) degli insegnamenti sui quali siamo stati istruiti».

Anche per i Vangeli dunque, benché in un tempo molto più breve (dal 30 al 90 d.C;), il processo formativo è articolato.

Gli scritti che noi oggi abbiamo a disposizione, per l'Antico come per il Nuovo Testamento, sono perciò frutto di un lavoro che ha coinvolto uomini e generazioni impegnati in un cammino di fede in cui seppero distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita, la voce stessa di Dio. La rivelazione di Dio in «parole e gesti» coinvolse non primariamente degli scrittori, ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù. La fissazione della rivelazione in libri scritti attraversò dunque un processo di formazione lungo e articolato, finalizzato, nella volontà divina, a conservare nel tempo l'efficacia della sua Parola.

Tutto ciò lungi dal diminuire il carattere della Bibbia come Parola di Dio, fa riflettere sul «come» Dio entra in rapporto con l'uomo: non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita. Non consegnando all'uomo un «Libro Sacro» da lui confezionato; ma imprimendo un movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Sacra Scrittura, «luogo» privilegiato della divina rivelazione. Una conseguenza ulteriore, su cui rifletteremo in un approfondimento successivo, è il rapporto originario tra Sacra Scrittura e Tradizione che va considerato a partire dalla formazione stessa della Bibbia.

Pubblicato in Bibbia
Mercoledì, 31 Agosto 2005 21:29

5. Quadro dei libri biblici (Rinaldo Fabris)

La raccolta dei libri che attualmente formano la Bibbia ebraica e cristiana - Antico e Nuovo Testamento - si possono distribuire in grandi blocchi sulla base di alcuni criteri di carattere storico-cronologico, letterario e teologico.

Pubblicato in Bibbia

Marta e Maria di Betania
L'integralità incompiuta
di Lilia Sebastiani

 

Occupano un posto di rilievo tra le discepole di Gesù (chi scrive tenderebbe a collocarle subito dopo Maria di Magdala, se mai tali graduatorie fossero possibili), un posto di genere particolare, perché chiaramente non appartengono al gruppo itinerante, e tuttavia sono discepole a pieno titolo. Anche loro, come altre donne più vicine a Gesù, nella tradizione cristiana hanno subito un processo di stilizzazione deformante. Una sorte simile pur nella diversità è toccata a Maria di Magdala - la quale, del resto, per circa millecinquecento anni è stata identificata con Maria di Betania -; o a Giovanna moglie di Cusa, ricordata (quando poi qualcuno la ricordava) come una brava vedova dedita all'assistenza materiale degli uomini di Dio.

Dati evangelici

Marta e Maria di Betania sono ricordate da Luca (10,38-42) e, con intenzione teologica diversa, anche dal quarto evangelista (Gv 11,1-44; 12,1-8). Qui seguiremo il racconto di Luca, non però in modo esclusivo: quantunque infatti sia esegeticamente scorretto integrare un evangelista con un altro, sappiamo come, in una riflessione di ordine spirituale, affinità e differenze possono aprire orizzonti ulteriori di senso.

Secondo il quarto evangelista le due sorelle risiedono a Betania, che è praticamente un sobborgo di Gerusalemme. Se si disponesse solo della testimonianza di Luca, si sarebbe indotti invece a considerarle galilee, anche se ciò non viene specificato: l'episodio che le riguarda è collocato dall'evangelista all'inizio della sezione del viaggio verso Gerusalemme, che costituisce il fulcro anche teologico della narrazione lucana. Il quarto evangelista parla del loro fratello Lazzaro come di una persona cara a Gesù, quantunque l'unico protagonismo effettivo nella vicenda sia quello di Marta e Maria; Luca invece, che ignora Lazzaro, mostra le due sorelle come donne sole e, si direbbe, autonome (ma lo stesso vale per le altre discepole): un 'immagine abbastanza insolita nell'ambiente storico di Gesù.

La tradizione cristiana poi ha sempre attribuito alle due sorelle un ceto sociale ed economico elevato: non che ci siano indizi in proposito nella stringatissima narrazione di Luca, ma si supponeva che costituisse un onere non trascurabile accogliere in casa Gesù e tutto il gruppo dei discepoli che lo seguiva. Inoltre le donne di condizione elevata che si fanno seguaci di Gesù, mettendo anche i loro beni materiali al servizio della causa del Regno, costituiscono quasi un topos ricorrente nell'opera lucana (Vangelo e Atti), fin dalla pericope relativa alle discepole galilee (Lc 8,1-3).

Allora: in un villaggio di cui non si dice il nome, «una donna di nome Marta lo accolse...» (1). Marta è stata spesso considerata la maggiore delle due, la più autorevole, perché sua sembra l'iniziativa di ospitare, sue le responsabilità materiali connesse. Naturalmente questo non vuol dire nulla dal punto di vista storico, e l'evangelista non si dà molto pensiero della precisione ambientale e biografica di quanto racconta.

Importante è la differenza di atteggiamento delle due sorelle, che Luca interpreta o elabora, e comunque utilizza in funzione ecclesiale: Marta è tutta presa dai molti servizi («intorno al molto servire»: peri pollèn diakonìan), mentre Maria è seduta ai piedi di Gesù e intenta ad ascoltare la sua parola. Marta si lamenta dell'assoluta indifferenza della sorella nei confronti del proprio affannarsi, e Gesù le risponde che una sola cosa è necessaria, e Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta.

Maria, o l’ambigua predilezione

Per molti secoli Maria è stata vista come simbolo della vita spirituale. La spiritualità è la «parte buona», nei termini del vangelo di Luca, a patto che non venga resa sinonimo di non-concretezza, disimpegno, evanescenza, fuga (in alto o in fuori o in dentro); a patto che lo spirito non diventi il pretesto per separare, ritagliare, rifiutare... La mentalità religiosa patriarcale è costantemente esposta a questi rischi, e la consuetudine religiosa non aiuta la crescita della fede. Risultato, in questo caso: Maria di Betania è stata ristretta, irrigidita, dimenticata come discepola di Gesù, ciò che sempre avviene quando l'infinito di una persona viene limitato nel senso unico di un simbolo, quale che sia l'importanza del simbolo. Maria si trova così a essere un personaggio molto amato e rispettato e tuttavia evanescente, senza volto, senza carattere, senza autorevolezza..., attraente ma latitante, come lo Spirito.

Tra l'altro, abbiamo già accennato che nella tradizione d'Occidente è stata confusa con un'altra Maria anche più famosa di lei: Maria di Magdala, discepola prediletta e apostola della Risurrezione, ciononostante entrata nella tradizione cristiana e nell'immaginario religioso come peccatrice pentita. Sulla base dell'identità del nome, tanto diffuso in Israele in epoca neotestamentaria, e di qualche incertezza (sovrapposizione o fusione o sdoppiamento) in cui incorrono gli evangelisti, narrando tutti e quattro ma in diverso modo l'episodio in cui Gesù viene unto con olio profumato da una donna, per l'Occidente cristiano Maria di Betania diventò, almeno da Gregorio Magno in poi, Maria di Magdala «dopo la cura». Le eventuali isolate perplessità che si incontrano nella storia della tradizione a questo riguardo sono di ordine geografico - come faceva a essere «di Magdala», ovvero Galilea, una che era di Betania? - , e tanti predicatori attraverso i secoli sprecarono fiumi di non disinteressata eloquenza per commentare il preteso passaggio: peccatrice prima, poi contemplatrice-mistica («Quale stato, e quale stato!», esclamava Bossuet). Il passaggio sarebbe comunque meno strano di quanto sembri, perché ad accomunare peccatore e mistico vi è una certa idea di irregolarità, di extra-istituzionale, di fuori schema, che si accentua quando peccatore e mistico sono declinati al femminile.

Maria, dice Luca, «seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola». Questa notazione è sempre piaciuta molto nel corso di una tradizione cristiana tutta elaborata da uomini chierici: suona infatti così affettuosa e devota, così sottomessa... Tanto che, nell'impatto istintivo sul lettore-ascoltatore, il fatto di essere ai piedi, insomma l'abbassamento, finisce col predominare rispetto all'ascolto e alla Parola.

In realtà questa notazione affettuosa e devota costituisce nel suo contesto una trasgressiva novità. Stare «ai piedi di» qualcuno, nella lingua ebraica del tempo di Gesù, è espressione quasi tecnica che indica la situazione del discepolo rispetto al maestro, e qui Maria è riconosciuta come discepola - per di più con accenti solennemente positivi -, in un'epoca che escludeva le donne dallo studio della Legge, raccomandato invece e quasi prescritto a ogni uomo. Nella lingua ebraica e aramaica del tempo, la parola «discepolo» non aveva il femminile. Lo stesso Luca, che tra gli evangelisti è probabilmente il più aperto alle donne (anche perché scrive rivolgendosi a cristiani di cultura ellenistica e non provenienti dal giudaismo), alle donne accorda indirettamente il discepolato e l'apostolato, anche usando a loro riguardo certi termini chiave come «seguire» e «servire»; ma non usa nel suo vangelo il termine «discepola» (2).

In questo passo Gesù, lodando Maria che trascura i suoi doveri casalinghi, a preferenza della sorella che ad essi invece si immola, rigetta in modo solenne e definitivo gli schemi patriarcali, apre anche alle donne, nella logica del Regno, gli spazi dello studio e della riflessione spirituale.

«Maria, il silente sogno degli uomini, contiene dinamite», dice Elisabeth Moltmann-Wendel (3).

La sorella esemplare e squalificata

Nel vangelo di Luca, sia che questo fosse o non fosse esplicitamente nelle intenzioni dell'evangelista, Marta «tutta presa dai molti servizi» si conforma all'atteggiamento femminile tradizionale. Certo per noi sarebbe necessario distinguere tra femminile nel senso di «proprio delle donne» - per natura, quindi? - e femminile nel senso di «raccomandato alle donne», quindi culturalmente indotto.

Non vi è dubbio che, secondo l'evangelista, anche Marta ama moltissimo Gesù ed è felice della sua presenza; ma il suo amore e la sua gioia si esprimono col moltiplicare i servizi e preoccuparsi in primo luogo per questioni connesse con la vita materiale. Non si vorrebbe psicologizzare a oltranza, procedimento anacronistico e scorretto che i Vangeli non supportano quasi mai; eppure non possiamo fare a meno di rilevare che la frase di Marta - «Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata da sola a servire? Dille che mi aiuti...» -, quand'anche semplicemente fabbricata dall'evangelista allo scopo di creare un contesto all'importante detto di Gesù sull'unica cosa di cui c'è bisogno, rifletterebbe una costante del vissuto femminile. Sì, come tante altre donne qui Marta sembra compiere i suoi pretesi doveri domestici con efficienza e dedizione, ma anche con segreta sofferenza e comunque, a un certo punto, con insofferenza palese.

Non certo Marta donna del vangelo, ma il personaggio-Marta, il simbolo di Marta è una creazione della società patriarcale, con un fenomeno del tutto analogo a quello che si verifica per Maria: l'una e l'altra sorella sono ridotte a una sola dimensione e artificiosamente contrapposte. Tra l'altro contrapporre le donne l'una all'altra, creare o enfatizzare conflitti femminili - sempre intorno a un uomo, o a valori maschili, siano essi la fecondità fisica o il denaro o il potere o altro... - è un modo di neutralizzarne la possibile autorevolezza. Ispirano oggi tristi riflessioni certi dipinti sacri che, soprattutto dal Quattrocento in poi, raffigurano Marta vestita da ricca massaia (cioè, metà da signora e metà da domestica), sempre con qualche utensile domestico in mano e con grossi mazzi di chiavi alla cintura, illuminata da uno sguardo che molto ottimisticamente potremmo definire «corrucciato», se non proprio obliquo e invidioso.

Marta è stata patrona attraverso i secoli del personale di servizio domestico, soprattutto femminile, degli ospizi, degli infermieri e, più recentemente, delle collaboratrici domestiche dei preti. Ancora oggi in America si richiamano a santa Marta certi gruppi femminili ipertradizionalisti che vorrebbero per la donna l'esclusività del ruolo familiare e casalingo.

A partire dal tardo Medioevo Marta viene anche elogiata dai predicatori, che sviluppano la sua fisionomia prendendo in prestito i tratti della «donna perfetta» di cui si legge nel libro dei Proverbi (31,l0ss.). La cura della casa, i molti servizi, sono oggetto non solo di lode ma di raccomandazione, di imposizione: insieme alla maternità sembrano la vocazione femminile per eccellenza, a cui si sottraggono solo le vergini consacrate. Eppure nella tradizione che risale ai Padri della chiesa, a cui si rifanno più o meno direttamente tutti i predicatori successivi, le parole di Gesù relative all'unica cosa che conta, parole di solenne rivelazione, venivano caricate in senso sprezzante e de-qualificante, e andavano oltre la figura evangelica di Marta per ricadere su tutte le donne «normali»; anche se queste incorrevano nel biasimo più accorato quando rifiutavano il loro ruolo di addette alla vita materiale per cercare altre vie di realizzazione di sé.

Dai servizi al servizio

Il fatto è che i molti servizi (lo si vorrebbe dire senza man­care di rispetto alla generosità e all'abnegazione di tante donne che la storia ha dimenticato) non sono ancora «il servizio»: quello che è vocazione comune per uomini e donne se vogliono essere discepoli e discepole di Gesù «venuto per servire» (Mc 10,45), in mezzo ai suoi «come colui che serve» (Lc 22,26), quel servizio che non somiglia per niente a qualsivoglia servitù - ché anzi solo dopo essersi liberati dalle varie servitù vi si può giungere davvero.

Per ragioni non troppo misteriose, nella tradizione cristiana la pur dequalificata Marta di Luca veniva preferita a quella giovannea: infatti nel cap. 11 del quarto vangelo (racconto della risurrezione di Lazzaro), Marta non appare in faccende ma parla, eccome; è l'interlocutrice di Gesù, innegabilmente più importante della sorella, in un colloquio di grande spessore teologico che costituisce un evento progressivo di rivelazione ed è uno dei più lunghi colloqui che i vangeli ricordino (4).

Confrontandosi in un colloquio alla pari con Gesù, per di più in un momento drammatico, sia per lei (ha appena perduto il fratello) sia per Gesù (dinanzi a opposizioni accentuate e a un più deciso tentativo di eliminarlo, che sarà coronato da successo nel giro di pochi giorni), Marta, non più presa dai molti servizi, è ancora «attiva» in senso forte, in quanto si pone come soggetto e rivendica la parola. In questo senso è certo significativo, al di là del puro dettaglio narrativo, che sia Marta a mediare per sua sorella l'appello di Gesù (il quale rimane inespresso nel racconto giovanneo): «il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28).

La cultura patriarcale è stata sempre restia ad accordare alle donne «la parola». La parola, s'intende, autorevole e dialogica: ben altra cosa rispetto alla disimpegnata loquacità - alias chiacchiera -, che alle donne è stata invece sempre attribuita, fino a diventare un luogo comune, ingiusto spesso come tutti i luoghi comuni. Anche rivendicare la parola, e assumerla per comunicare, è un modo di esercitare il servizio; ma anche aprirsi all'ascolto della Parola è pane del servizio.

La «parte migliore»: considerazioni patristiche

L'interpretazione tradizionale di Marta e Maria come simbolo rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, che poi resterà dominante anche se in termini scritturistici è impropria, risale in sostanza a Basilio di Cesarea e viene poi ripresa, approfondita e consolidata da Gregorio Magno.

Basilio, nella raccolta di scritti comunemente conosciuta come Esercizio di ascesi, e in particolare nelle cosiddette Regole ampie, rispondendo a una domanda relativa alla mente non dissipata, afferma: «Quell'esercizio per piacere a Dio che è secondo il vangelo di Cristo, si attua per noi con l'allontanarci dalle cure mondane e con l'estraniarci assolutamente dalle distrazioni che causano affanno» Si ha qui una citazione implicita dell'episodio di Marta e Maria: il termine che indica le distrazioni affannose infatti è perispasmon, lo stesso adoperato in Lc 10,39 (5).

Anche in un altro punto delle stesse Regole, condannando le raffinatezze della mensa particolarmente sconvenienti per coloro che fanno esercizio di ascesi, Basilio squalifica e limita la figura di Marta, e in modo veramente un po' banale, come se la sollecitudine di lei fosse di ordine gastronomico.

In modo più significativo riprende il tema di Marta e Maria nelle Costituzioni asceticheAsketikài Diatàxeis) rivolte agli «asceti che vivono solitari oppure in comune». Proprio nel cap. I, dove si afferma che la preghiera dev'essere anteposta ad ogni altra occupazione, porta l'esempio evangelico delle sorelle di Betania, ammettendo che in tutt'e due vi era un desiderio buono – kalé prothymìa -, ma di diverso valore:

«L’una ristorava la parte visibile, ma l’altra rendeva servizio all'invisibile. Infatti non per questo scopo siamo venuti, sdraiarci su letti, nutrire il ventre..., ma siamo qui per pascerci con la parola di verità e la contemplazione dei divini misteri. Gesù in verità non disse a quella di smettere quanto aveva intrapreso; ma lodò questa per la sua attenzione.
Allora, stammi bene a sentire: per mezzo di due donne si intende parlare di due stati di vita, l'uno però inferiore, perché riguarda più il servizio corporale (quantunque molto utile anch'esso), l'altro migliore perché, innalzandosi alla contemplazione dei misteri, è più spirituale. Tu che mi ascolti, intendi queste cose nel senso spirituale e scegli delle due quella che vuoi».

Ricorda poi che rendere servizio agli altri, anche nelle necessità materiali, è un agire raccomandato da Cristo, e aggiunge:

«Se poi desideri servire, servi nel nome di Cristo. (...) Sia che tu accolga i forestieri, sia che ristori i mendicanti, sia che abbia pietà di chi soffre, sia che stenda la mano per aiuto a coloro che si trovano nel bisogno e nella sventura, sia che renda servizio agli ammalati, Cristo riceve tutte queste cose in se stesso».

Ma subito dopo questa sottolineatura quasi d'obbligo, torna con fervore al suo tema preferito:

«Se invece vuoi imitare Maria, la quale - lasciato il servizio del corpo - si innalza alla contemplazione delle meraviglie celesti, svolgi questa attività in modo avveduto [gnésiòs mètelthe to pràgma]. Lascia andare il corpo, abbandona la coltivazione dei campi e la preparazione e l'abbondanza delle vivande, e siediti ai piedi del Signore, ascolta la sua parola per diventare partecipe dei segreti delle cose divine. Infatti la contemplazione [theorìa] degli insegnamenti di Gesù supera il servizio reso al suo corpo. (...) Al primo posto è la parola spirituale, tutte le altre cose sono secondarie» (6) (traduzione nostra).

Sarà però Gregorio Magno, in diversi scritti e soprattutto nelle Homiliae in Hiezechielem, a codificare e consegnare ai secoli futuri la valenza simbolica delle due sorelle di Betania. Nella terza omelia del libro I, Marta e Maria esprimono le due scelte di vita possibili per un operaio della Parola, tra cui Gregorio si sente diviso: predicare (ciò che può essere di maggiore utilità per gli altri ma implica sempre un rischio di esteriorità e dissipazione), oppure meditare e pregare in solitudine?

«Due sono poi le forme di vita dei santi predicatori, cioè l'attiva e la contemplativa; ma l'attiva precede nel tempo la contemplativa, perché dall'operare il bene tende alla contemplazione. Quella contemplativa poi è superiore all'attiva quanto al merito, perché questa si affatica per l'utilità del lavoro presente, quella invece già assaggia nell'intimo sapore il riposo che verrà. (...) Lo esprimono bene nell'Evangelo quelle due donne, Marta e Maria. Marta infatti era occupata dai molti servizi; invece Maria sedeva ai piedi del Signore e ascoltava le sue parole. Dunque l'una era intenta al lavoro, l'altra alla contemplazione. L'una coltivava la vita attiva attraverso il servizio esteriore, l'altra quella contemplativa attraverso la tensione del cuore alla Parola. E quantunque l'attiva sia buona, tuttavia migliore è la contemplativa, perché quella viene meno insieme con la vita mortale, invece questa nella vita immortale cresce a maggiore pienezza. Perciò si dice: Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta. (...) Infatti, anche se realizziamo qualcosa di buono per mezzo della vita attiva, per mezzo della contemplativa voliamo alla nostalgia del cielo» (7) (traduzione nostra).

Nella seconda omelia del libro II l'argomentazione viene ripresa in termini quasi identici, all'inizio, ma poi con maggiore approfondimento.

«Ci hanno espresso bene entrambe queste forme di vita quelle due donne, Marta e Maria: di loro una era occupata dai molti servizi, l'altra invece sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la parola dalla sua bocca. E lamentandosi Marta di sua sorella perché trascurava di aiutarla, il Signore le rispose dicendo: Marta, ti affatichi e ti occupi di tante cose, ma una sola è necessaria. Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.che non le sarà tolta». Infatti la vita attiva viene meno insieme al corpo. Chi può offrire del pane all'affamato nella patria eterna, dove nessuno ha fame? Chi dar da bere all'assetato, dove nessuno ha sete? Chi seppellire un morto, dove non muore nessuno? La vita attiva ci viene tolta insieme al mondo presente, invece quella contemplativa viene iniziata qui per essere portata a compimento nella patria celeste; perché il fuoco dell'amore che qui comincia ad ardere, quando avrà visto colui che ama, divamperà con più forza. La vita contemplativa dunque non viene tolta, perché, una volta allontanata la luce del mondo presente, diviene perfetta» (8) (traduzione nostra). Ecco, la parte di Marta non viene biasimata, ma si loda quella di Maria. Infatti non è detto che Maria ha scelto «la parte buona», ma «la migliore», affinché anche la parte di Marta fosse giudicata buona. Perché poi la parte di Maria sia la migliore, si deduce quando viene detto: «

Di grande interesse il paragrafo successivo della stessa omelia, nel quale viene introdotta in funzione simbolica l'altra coppia di sorelle bibliche, Lia e Rachele:

«Tutt'e due queste forme di vita, come è stato detto anche prima di noi*, furono espresse in figura dalle due spose del beato Giacobbe, cioè Lia e Rachele».

Vi è un 'intuizione importante: così come avvenne a Giacobbe per volere di Dio, l'uomo di Dio deve prendere in moglie entrambe le sorelle,

«perché chiunque si rivolge al Signore aspira alla vita contemplativa, desidera la quiete della patria eterna, ma prima è necessario che nella notte della vita presente operi il bene che può, che sudi nella fatica, cioè che sposi Lia, affinché dopo, per “vedere il principio”**, si riposi nell'abbraccio di Rachele. Infatti Rachele aveva buona vista, ma era sterile, Lia invece aveva gli occhi malati, ma era feconda; Rachele era bella e infeconda, perché la vita contemplativa è affascinante nell'animo, ma, siccome desidera star quieta nel silenzio, non genera figli dalla predicazione» (9) (traduzione nostra).

Il parallelo tra Rachele contrapposta a Lia e Maria contrapposta a Marta appariva anche in una lettera indirizzata alla principessa Teoctisto (sorella dell'imperatore d'Oriente Maurizio): qui Gregorio esprime il proprio rammarico per essere stato strappato alla quiete della contemplazione dal servizio pontificale, da lui non ricercato e nemmeno desiderato, accettato però per obbedire a Dio.

«Ero innamorato del fascino della vita contemplativa, come di Rachele, sterile ma di buona vista, e bella (Gen 29); essa, quantunque nella sua inerzia generi meno figli, tuttavia vede la luce con più acutezza. Ma, non so per quale ragione, nella notte è stata fatta congiungere con me ha, cioè la vita attiva, feconda ma dagli occhi malati; Lia che ci vede di meno, anche se fa più figli. Mi affrettavo a sedere ai piedi del Signore con Maria, ad assorbire le parole della Sua bocca, ed ecco che sono sospinto con Marta a servire in ciò che è esteriore, a far fronte a tante cose (Lc 10,39 ss)» (10) (traduzione nostra).

Gregorio riprende il tema di Marta e Maria in un'altra lettera indirizzata a una nobildonna della corte di Bisanzio, ma in modo molto diverso: concentra l'attenzione su Maria, che però identifica (come anche in alcune omelie sui Vangeli) con l'anonima peccatrice Galilea e con Maria di Magdala. Ratifica con il suggello della sua autorità e del suo prestigio una confusione che ammiccava da tempo ma, dopo di lui, sarà stabile e indiscussa in Occidente per quasi quindici secoli. Nel commentare le parole di Gesù, «le sono rimessi i suoi molti peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47), aggiunge:

«Come poi le siano stati rimessi ci viene mostrato anche in ciò che avvenne dopo, perché sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la Parola dalla sua bocca (Lc 10,39). Infatti, rapita nella vita contemplativa, aveva ormai oltrepassato quella attiva che ancora conduceva Marta sua sorella (ivi, 40). Con grande slancio andò anche a cercare il Signore dopo che era stato sepolto» (11) (traduzione nostra).

Servizio di mensa, servizio della Parola

Occorre sempre tener presente che, come si accennava, il terzo evangelista, quando contrappone le figure così stilizzate delle due sorelle di Betania, non intende affatto ragguagliare sul loro temperamento - per noi irraggiungibile - o sulle loro abitudini. È probabile invece che abbia in mente due diversi tipi di convertito, due diversi tipi di impegno nella chiesa. Diciamo «convertito» e «impegno nella chiesa», sottolineando che non si tratta qui di decidersi per Dio o contro Dio, di dare o non dare l'assenso al messaggio di Gesù: le persone di cui si parla qui hanno già fatto un'opzione cristiana, anzi sono fedeli convinti e di prima linea, e forse proprio per questo la riflessione ecclesiale dell'evangelista risulta più delicata e complicata.

Una specie di illuminazione aggiuntiva, se non del tutto perspicua, potrebbe venirci dal cap. 6 degli Atti, là dove si parla dell'istituzione dei Sette (abitualmente chiamati «diaconi», benché nel testo il termine non si trovi).

Al di là della notazione sul malcontento dei cristiani ellenisti verso quelli provenienti dal giudaismo, qui ci interessano le parole dei Dodici: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (At 6,2). Evidentemente era un'antitesi ben presente alla mente di Luca e alla sua sollecitudine pastorale: non certo l'antitesi tra azione e contemplazione, che si sarebbe diffusa più tardi soprattutto per impulso monastico, ma quella tra servizio di mensa e servizio della Parola - quantunque sentiti l'uno e l'altro, e giustamente, come «servizio» (12). È evidente che Luca attribuisce un'importanza molto maggiore al servizio della Parola: oggi intuiamo che anche il concetto di «mensa» potrebbe e deve essere dilatato, ben oltre il senso puramente assistenzialistico.

Per sentirsi provocare a fondo dalle due sorelle di Betania, occorre affrancarsi il più possibile dall'antitesi tradizionale azione-contemplazione: in primo luogo, perché i due poli si tradiscono a vicenda se assolutizzati e non integrati; in secondo luogo, perché né Gesù né gli evangelisti pensavano in questi termini. La contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa è di remota origine classica, successivamente intrecciata con preoccupazioni ascetiche e contemptus mundi, ma rimane abbastanza estranea alla mentalità biblica.

Non si tratta nemmeno della moderna riedizione dell'antitesi in termini di preghiera/impegno, diffusa negli anni Sessanta e Settanta, assai meno oggi perché avvertita, pur nella generosità dei presupposti, come semplicistica e insoddisfacente. Si tratta piuttosto di due diverse linee di impegno: da un lato, quella che mette in primo piano l'annuncio del Vangelo e della vita nuova in Cristo, dall'altro, quella che privilegia l'assistenza caritativa e la sollecitudine nei confronti dei più deboli.

Le due sorelle sono state spesso lette anche, ed è giusto, come paradigma dell'ospitalità; e questa è una declinazione specifica dell'accoglienza. L'una e l'altra sorella hanno un atteggiamento e un intenzione di accoglienza: sono indiscutibilmente felici di accogliere Gesù in casa, ma differiscono nelle priorità. Marta tende soprattutto a fare qualcosa per lui, Maria ha intuito che c'è qualcosa di più: aprirsi al dono di Dio che viene attraverso lui. Ciò potrebbe riferirsi anche ai casi in cui l'ospite non è Gesù e la sua «parola» è tutta diversa, talvolta parola senza parole, talvolta senza nulla di affascinante, come è spesso il messaggio della povertà e del bisogno. Entrambi gli atteggiamenti (darsi da fare per l'altro affinché stia bene; aprirsi al dono recato dall'altro) hanno una loro intrinseca dignità, e il «fare qualcosa per» non è affatto inferiore: anzi m certi casi risulta urgente e non trascurabile.

Naturalmente né sul terzo né sul quarto vangelo ci si può appoggiare per capire qualcosa di più, biograficamente parlando, su Marta e Maria. Le lettura dei due passi che le riguardano, soprattutto di quello di Luca, nel corso dei secoli è stata alquanto ideologica. E gli stessi evangelisti sono un po' ideologici (inconsapevolmente?), nella trasmissione dei fatti e dei detti di Gesù e nella selezione dei materiali di cui dispongono; quanto meno, sono condizionati dai propri schemi mentali e da considerazioni di opportunità pastorale, tanto più quando si parla di donne.

L'uno e l'altro vangelo non riportano di Maria nemmeno una parola (13); forse non occorreva, e tuttavia di quella parola in qualche modo sentiamo oggi la mancanza.

Oggi sappiamo che azione e contemplazione non sono ambiti contrapposti che si escludono a vicenda, ma due accentuazioni nello stesso progetto di esistenza redenta: non tanto nel senso di «fare un po' tutt'e due le cose», ma nel senso unitario, più profondamente cristiano, di trasformare il mondo con la propria preghiera e di pregare con il proprio lavoro.

Azione e contemplazione sono strade di salvezza; non però al punto di non poter essere cammini perversi, quando agire e contemplare isolati e assolutizzati diventano modi opposti e pure affini di generare divisione e sospetto nell'esperienza umana. La contemplazione non vale più nulla se assomiglia a un'evasione; l'azione non vale più nulla se priva di anima, di profondità e di autocoscienza.

Lo stesso Gesù ha offerto anche in questo un esempio di magnifica integrazione: sarebbe difficile dire, senza forzature, se nella sua vicenda di uomo dominassero la dimensione attiva o quella contemplativa. E nella sequela autentica di Gesù, nel discepolato che egli può chiedere o accettare, le due dimensioni convergono.

Un commento spirituale senza parole

Nel chiostro di San Marco a Firenze, l'affresco del Beato Angelico che raffigura la preghiera di Gesù nel Getsemani rivela una scelta singolare e importante rispetto all'iconografia consueta. Come in tanti altri dipinti sullo stesso tema, Gesù è raffigurato in alto, isolato in una drammatica solitudine; nella parte centrale campeggiano le figure piuttosto pesanti (più per l'atteggiamento che per le dimensioni) di Pietro,

Giacomo e Giovanni, immersi nel sonno. Il fatto nuovo è che in primo piano nell'affresco si trovano Marta e Maria, inequivocabili perché i nomi sancta Maria e sancta Martha sono iscritti in cerchio nell'aureola. Proprio la presenza delle due sorelle, in quanto si discosta da ciò che narrano i Vangeli, è chiaramente intenzionale e trasmette un messaggio teologico più preciso.

Marta e Maria, in abito bigio di terziarie domenicane, sono separate e raccordate da un muro rispetto al resto della scena. Evidentemente l'artista vuole sottolineare che si tratta di una presenza spirituale: possono ben trovarsi a Betania, in casa loro, ma sono lì, e ben sveglie e presenti a quanto accade; invece i tre discepoli maschi sono riusciti a rimanere svegli poiché non comprendono. Sono sedute accanto, in atteggiamento consapevole, corrispondente ma non speculare, serio ma non drammatico, concentrato ma non intimistico. Maria è immersa nella lettura di un libro (ciò significa, secondo la convenzione pittorica del tempo, che sta meditando), mentre Marta fissa lo sguardo pieno di affetto e di attenzione sulla sorella che legge: nulla di più lontano da quella specie di rivalità velata - gelosia femminile, sotterranea lotta per la predilezione - che è stata fatta emergere dal vangelo di Luca. Qui Marta e Maria simboleggiano non solo il discepolato intrepido, fedele e veggente, ma anche l'integrale, riconciliata solidarietà in cui esso si incarna.

Note

1. «Nella sua casa» è aggiunta di alcuni codici antichi.

2. Lo usa invece, quantunque in modo più generico, nel libro degli Atti: «A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità...» (At 9,36).

3. E. MOLTMANN-WENDEL, Le donne che Gesù incontrò, Queriniana, Brescia 1989, p. 66.

4. Valutando a occhio, ovvero senza andare a contare le righe, abbiano l'impressione che in tutto l’insieme dei vangeli ci sia un solo colloquio più lungo di questo: quello con la Samaritana, nel cap. 4 dello stesso vangelo. Notiamo di passaggio che anche qui l'interlocutrice di Gesù è una donna, e per di più, sono diversi aspetti, irregolare.

5. He Màrtha de periespato peri pollen diakonian. C’è anche un riferimento a 1 Cor 7,35, in cui Paolo affermava che la vergine, a differenza della donna sposata, può servire il signore senza preoccupazioni (aperispàstôs).

6. PG XXXI, 1326-1327

7. GREGORIO MAGNO, In Hiezechielem I, hom. III, 9: Due autem sunt sanctorun praedicatorum vitae, activa scilicet, et contemplativa, sed activa prior est tempore quam contemplativa, quia ex bono opere tendit ad contemplationem. Contemplativa autem maior est merito quam activa, quia haec in usu praesentis operis labor, illa vero sapore intimo ventura iam requiem degustat. (...) Quod bene in Evangelio duae illae mulieres designant, Martha scilicet et Maria. Martha enim satagebat circa frequens ministerium; Maria autem sedebat ad pedes Domini et verba sua audiebat. Erat ergo una intenta operi, altera contemplationi. Una activae serviebat per exterius ministerium, altera contemplativae, qui ista cum mortali vita deficit, illa vero in immortali vita plenius excrescit. Unde dicitur: Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea (...) Nam etsi per activam boni aliquid agimus, ad caeleste tamen desiderium quam contemplativam volamus. (Corpus Christianorum – series Latina CXLII, Brepols, Turnholti MCMLXXXII, 37-38; cfr PL CX,809).

8. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 9: Bene has atrasque vitas duae illae mulieres signaverunt, Martha videlicet e Maria, quarum una satagebat circa frequens ministerium, alia vero sedebat ad pedes Domini et audiebat verbum de ore eius. Cumque contra sororem Martha quereretur quod se adiuvare negligeret, respondit Dominus dicens: Martha, occuparis et satagis circa multa, porro unum est necesarium. Maria autem optimum partem elegit, quae non auferetur ab ea. Ecce pars Marthae non reprebenditur, sed Maria laudatur. Neque enim bonam partemm elegisse Maram dicit, sed optimum, ut etiam pars Marthae iudicaretur bona. Quare autem pars Mariam sit optima, subinfertur, cum dicitur: Quae non auferetur ab ea. Activa enim vita cum corpore deficit. Quis enim in aeterna patria panem esaurienti porrigat, ubi nemo esurit? Quis potum tribuat sitienti, ubi nemo sitit? Quis mortuum sepeliat, ubi nemo moritur? Cum presenti ergo saeculo vita aufertur activa, contemplativa autem hic incipitur, ut in celesti patria perficiatur quia amoris ignis qui hic ardere inchoat, cum ipsum quem amat viderit, in amore ipsius amplius ignescet. Contemplativa ergo vita minime aufertur, quia subtracta saeculi luce perficitur. (CC-SL CXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

* [Citazione implicita da AGOSTINO, Contra Faustum manichaeum XXII, pp. 52 ss.].

** [Gregorio si riferisce all'etimologia corrente, accettata anche da Agostino, secondo cui il nome Rachele significa «principio di visione» e Lia “laboriosa”]

9. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 10: Has utrasqae vitas, sicur et ante nos dictum est,, duae beati Iacobi mulieres signaverunt, Lia videlicer et Rachel. (...) Quia videlicet omnis qui ad Dominum convertitur contemplativat vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit, sed prius necesse est ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ur postea ad videndum princium in Rachei amplexibus requiescat. Erat autem Rachel videns, et sterilis, Lia vero lippa, sed fecunda, Rachel pulchra et infecunda, quia contemplativa vita speciosa est in animo, sed dum quiescere in silentio appetit, filios non generat ex praedicatione... (CC-SLCXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

10. GREGORIO MAGNO, Epist. I ad Theoctistum, 5: ...Contemplativae vitae pulchritudinem velut Rachelem dilexi, sterilem, sed videntem e pulchram (Gen 29); quae etsi per quietem suam minus generat, lucem tamen subtilius, videt. Sed, quo iudicio nescio, Lia mihi in nocte coniuncta est, activa videlicet vita; feconda, sed lippa; minus videns, quamvis amplius parens. Sedere ad pedes Domini cum Maria festinavi, verba oris eius percipere; et ecce, cum Martha compellor in exterioribus ministrare, erga multa satagere (Lc 10,39 ss.). (CC - SL CXL, 6).

11. GREGORIO MAGNO, Epist. VII ad Gregoriam, 22: ... Quomodo antem fuerint dimissa, in hoc etiam monstratum est, quoci postmodum est secutum, quia ad pedes Domini sedebat et verbum ex ore illius audiebat (Lc 10,39). In contemplativa enim vita suspensa, iam activa transcenderat, quama adhuc Martha illius soror tenebat (ibid., 40). Sepultum quoque Dominun studiose conquisivit... (CC - SL CXL, 54).

12. Tra parentesi, stando al racconto di Luca, i Sette vengono eletti in modo specifico per il Servizio delle mense, ma forse le cose non stavano esattamente così: gli unici due, di quei sette di cui sappiamo qualcosa, vengono presentati (Stefano nei capp. 6-7, Filippo nei cap. 8) in atto di predicare, e degli altri servizi che pure potevano esercitare non viene detto nulla, evidentemente perché considerati meno caratterizzanti.

13. Vi è l'eccezione apparente di Gv 11,32 («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!») ma, qualunque che sia l'intenzione dell'evangelista, è semplice duplicato della frase attribuita a Marta (Gv 11,21).

(da Vita Monastica, n. 229, ottobre/dicembre 2004)


Pubblicato in Bibbia
Mercoledì, 24 Agosto 2005 02:09

Donne che incontrano Gesù (Stefania Cantore)

Donne che incontrano Gesù
di Stefania Cantore

Nel momento in cui il centurione vedendo il modo di spirare di Gesù riconosce: «Veramente questo uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39), viene anche ricordata la presenza delle donne:

«C'erano anche alcune donne che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando erano ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (Mc 15,40s).

Se, in Marco, la Buona Novella è sintetizzata nell'annuncio che l'uomo Gesù è il Cristo il Figlio di Dio (Mc 1,1), le donne mostrano di aver intuito fin dalla Galilea che quell'uomo era anche per loro (e non solo per gli uomini!) «buona novella», invito alla conversione, al ambio di mentalità per «vivere» nella sua luce (Mc 1,14s). Il loro seguire, servire Gesù, salire con lui a Gerusalemme ne sono il segno più chiaro proprio perché esse lo fanno, non su un imperativo-chiamata di Gesù, ma come conseguenza e risposta libera all'incontro con lui.

Infatti, alle donne Gesù non dice «seguimi» o «seguitemi», non chiede di servire ne lui ne altri, non dice esplicitamente come ai Dodici: «Saliamo a Gerusalemme» (Mc 10,32-34 e parr .), eppure le donne fanno tutto questo. Anche Luca nota la presenza di donne al seguito di Gesù:

« Egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8,1-3).

Restate con Gesù fino alla sua morte, le donne sono le prime testimoni e annunciatrici del Risorto.

Come mai delle donne hanno seguito Gesù fino ad assistere alla sua morte? Come l'hanno incontrato?

Benché meno numerosi di quelli con uomini, i vangeli ci tramandano molti incontri di Gesù con donne. Vediamone alcuni in cui la donna serve, loda, ascolta e profetizza.

La suocera di Pietro (Mc 1,29-31)
Dalla malattia al servizio di colui che serve

Il primo incontro di Gesù con una donna, nel vangelo secondo Marco, avviene di sabato, in casa, nell'ambiente della vita e della «liturgia» familiare in cui la donna, secondo la tradizione, esplica la sua attività più appropriata.

Dopo la Sinagoga, dove il suo insegnamento con autorità e la liberazione di un uomo dallo spirito impuro avevano suscitato stupore e interrogativi sulla sua identità, Gesù si reca a casa di Simone (Mc 1,29-31 ). Ora, qui, il sabato, il giorno donato da Dio, è «velato»: la suocera di Simone è a letto con la febbre, e non può assumere il suo compito ordinario. Aveva potuto accendere la lampada? preparare i pasti da consumare nella gioia?

Sono gli uomini, i primi quattro «chiamati» alla sequela, ad informare subito Gesù della malattia della donna.

E Gesù le si fa vicino, la fa alzare prendendola per mano. Non più ostacolata dalla febbre che la lascia, la donna «risorta», di nuovo in piedi, si mette a servire gli ospiti.

Se nulla si era detto della nuova vita dell'uomo liberato dallo spirito impuro nella sinagoga, di quella della suocera liberata dalla malattia si dice espressamente che viene dedicata al servizio. La vicinanza di Gesù, il prenderla per mano permettendole di rimettersi in piedi, portano solo, anche se in modo straordinario, al ricupero dello stato di salute, col conseguente ritorno al servizio abituale? Certo la quotidianità della sua vita di donna rimane esternamente la stessa, ma è attraversata da una pienezza nuova: liberata da Gesù, il suo servire è comprensione e partecipazione al Regno di Dio, che in lui si è fatto vicino (Mc 1,14-15).

Non poter celebrare il sabato era un po' come tornare al tempo della schiavitù, in cui il Dio liberatore e creatore non può essere «riconosciuto» e servito nella lode. Celebrare il sabato invece la faceva collaborare alla venuta del Messia, che ripristina la situazione di armonia con Dio e rinnova la creazione secondo il piano originario. Una antica credenza, diffusa già nel primo secolo.

« afferma che se tutto Israele osservasse in modo perfetto due sabati consecutivi, la redenzione dell'umanità sarebbe immediatamente effettuata. È quanto dire che l'osservanza perfetta di due sabati equivarrebbe all'avvento del Regno di Dio. Se poi, incapace d'un tale sforzo, Israele riuscisse ad osservarne uno solo senza alcuna negligenza, ciò sarebbe sufficiente per la venuta del Messia, annunciatore del Regno ».

Gesù celebra il sabato «senza negligenza» e la donna entra nella sua celebrazione, nel suo Regno caratterizzato dall'essere liberi (liberati) per il servizio.

Servire l'altro sostituisce il dominare l'altro, tipico della situazione di peccato e della «solitudine» che ne consegue. La relazione di aiuto reciproco, su piano paritario, di ogni essere umano, esemplificata nella alterità gioiosa della coppia delle «origini», viene ricuperata sotto forma del farsi prossimo nel servizio. Nel deserto delle sue tentazioni, sono gli angeli a servire Gesù; nel «primo sabato» della sua vita pubblica è la suocera di Simone a servire lui e i suoi chiamati; durante tutto il cammino dalla Galilea a Gerusalemme sono le donne a servirlo. Se il rapporto di servizio mette in luce un operare in funzione del benessere dell'altro, considerato più importante di se, Gesù sceglie proprio di operare da servo, sceglie di porsi come gli ultimi perché nessuno «sfugga» al suo servizio.

«Voi sapete (i dodici) che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, (...) chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).

In Marco, soggetti del servire sono solo gli angeli e le donne che servono Gesù (e coloro che stanno con lui) e Gesù stesso.

Entrare nel Regno di Dio fattosi presente in Gesù e portarne I'annuncio e la realtà, significa allora «servire» sia per coloro che già stanno servendo, sia per chi non è abituato a farlo. E servire significa veramente servire, fare qualcosa di utile per la vita dell'altro, un servire scelto non subito, un servire possibile solo da parte di chi è stato «liberato».

È il cambio di mentalità richiesto per entrare nel Regno. La suocera di Simone, servendo, lo accetta evi entra. È il servizio di sempre? Sì, ma è proprio quello che ora «serve» per la celebrazione del sabato definitivo iniziato da Gesù. Come donna libera, in piedi, essa offre tutto quello che può e sa fare, il suo servizio per la celebrazione di questo sabato.

La donna curva (Lc 13,10-17)
Dal ripiegamento alla lode di Dio

Siamo di sabato, in una sinagoga, durante il viaggio di salita verso Gerusalemme. Gesù sta insegnando. Tra i presenti alla preghiera vi è anche una donna venuta alla sinagoga benché malata da molti anni: è curva, piegata in due, nella assoluta impossibilità di assumere-ricuperare la posizione eretta (ha uno spirito di infermità). Nessuno, ne la donna, ne gli altri, ne il capo della sinagoga, fanno notare la limitazione che grava su questa persona.

Lo sguardo di Gesù raggiunge la donna e apre l'incontro.

Avendola vista, Gesù interrompe - o completa? - il suo insegnamento, col chiamarla a se, dirle «Donna, sei liberata dalla tua infermità» e imporle le mani. La donna è subito raddrizzata.

Ormai diritta, la donna è di nuovo in grado di entrare in relazione con gli altri nella posizione propria della persona umana. La donna, che vive in se stessa la ri-creazione del suo essere, lo legge come opera di Dio e risponde a Dio con la lode: pubblicamente, nella sinagoga «glorificava Dio».

Il capo della sinagoga, però, non legge affatto a sua volta l'avvenimento come opera di Dio, ma lo critica come contrario alla «realtà» del giorno di sabato. La donna, la guarigione, il cantico nuovo che da lei si leva a Dio proprio di sabato, non lo «toccano».

La reazione ufficiale a questo suo «incontro» con la donna è per Gesù l'occasione di proseguire il suo insegnamento, chiarendo qual è il modo giusto di vedere insieme e quella donna malata e il sabato. Nel giorno in cui si ricorda la liberazione del popolo dalla schiavitù, ha senso lasciare la donna «legata da satana», dimenticando così di considerarla come parte del popolo, nella sua dignità di «figlia di Abramo»?.

La donna fa parte di un popolo che nella storia ha il compito di testimoniare la realtà del Dio unico, del Dio liberatore dalla schiavitù: il popolo di Israele, i figli di Abramo, attualizzano la liberazione cessando da ogni lavoro per ricordare per sempre nella lode le grandi opere del Signore.

«lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile. (...) Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore tuo Dio ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno ne tu, ne tuo figlio, ne (...). Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt 5,6.12-15).

Se ricordare è rendere «presente» la propria situazione di schiavi resi liberi, la liberazione della donna dai legami di «satana» è la visibilità nell'oggi della forza liberante del Dio dell'esodo di cui si sta facendo memoria.

L 'insegnamento di Gesù nell'ambito della liturgia sinagogale del sabato, sfocia in una liberazione nuova in cui le parole sono la mano possente e il braccio di Dio. In Gesù le meraviglie dell'esodo si compiono di nuovo. Egli vede la donna curva nella sua vocazione profonda e originaria di figlia di Abramo e nella sua realtà attuale di persona fisicamente «ridotta», dove il limite fisico è legame schiavizzante, distorsione e opposizione al disegno creativo di Dio. Gesù libera la donna e la restituisce alla sua vocazione di figlia di Abramo. In lei «raddrizzata» la liturgia sinagogale di lode riacquista verità: è il segno vivente e visibile dell'operare di Dio in favore dell'oppresso. In lei, è veramente presente il popolo dei figli di Abramo che, cosciente della propria impossibilità a liberarsi, riconosce l'irrompere di Dio nella sua vita e lo loda per sempre. Ora, mentre gli avversari di Gesù si vergognano, tutti gli altri riconoscono con gioia «le meraviglie da lui compiute» (Lc 13,17).

La donna curva che di nulla può vantarsi, come donna e come inferma, diventa lode pura e continuata del Signore.

Maria di Betania (Lc e Gv)
Donna rimproverata, discepola e profetessa

Maria, con Marta sua sorella, è ricordata nel vangelo di Luca (10,38-42) e di Giovanni (11,1-12,11). Non si sa come le due sorelle abbiano incontrato per la prima volta Gesù e nessun tipo di guarigione è indicato all'inizio della loro conoscenza. In entrambi i vangeli, Marta e Maria appartengono già alla cerchia dei conoscenti-amici di Gesù.

In Luca, durante il cammino verso Gerusalemme Gesù viene accolto da Marta nella sua casa. In questa occasione, Maria sedendosi ai piedi di Gesù, si mette ad ascoltare la sua parola (Lc 10,38s).

Con la parabola del seminatore Gesù aveva già in precedenza invitato ad ascoltare «la parola con cuore buono e perfetto», a custodirla e produrre frutto, a fare attenzione al modo di ascoltare (Lc 8,15.18; cf Mt 7,24; Mc 6,47-49). Aveva anche dichiarato che il legame creato dall'ascolto era più importante del legame naturale: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).

In questa linea correggerà il «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte» con «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc Il,27s).

Gesù appartiene al popolo dell'ascolto, «Ascolta, Israele» (Dt 6,4ss), al popolo che si impegna a tradurre in azione la parola ascoltata: «Quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto, noi lo ascolteremo e lo faremo» (Dt 5,27). L 'attenzione amorosa verso I 'unico Dio, verso la sua parola ascoltata, messa in pratica, ripetuta di generazione in generazione, tramandata da maestro a discepolo è propria del credente israelita. La donna entrava in questa catena rendendola possibile (col mettere al mondo i figli), col curarne la sussistenza (degli adulti e dei piccoli) con il suo lavoro casalingo ed anche con l'introdurre alla fede i figli piccoli (la trasmissione della fede era poi affidata al padre e ai maestri).

Marta, accogliendo Gesù, si inserisce in questa catena secondo il modello abituale dell'azione casalinga della donna. Inoltre, riconoscendo probabilmente in Gesù un ospite di particolare importanza, si preoccupa di presentargli molte cose.

Maria, invece, ha un atteggiamento insolito che non si accorda con la tradizione. «Ricevendo» Gesù in modo nuovo, Maria mostra di vedere in lui un rabbi diverso dagli altri, con una parola sua. Per lei questo rabbi, con la sua parola, rinnova «l'ascolta, Israele» e, allora, sceglie di ascoltare la sua parola ed agire secondo questa parola-persona nuova. Maria, sedendosi ai suoi piedi, è consapevole di assumere liberamente nei confronti di Gesù la posizione e il compito di discepola.

La novità di Gesù crea la novità di Maria discepola. ..e la sostiene!

Marta, però, non approva affatto la sorella, ma rivolge la protesta non a lei, bensì a Gesù. Il rimprovero, a modo di leggero ricatto affettivo, è molto chiaro: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (Lc 10,40). Gesù è il «colpevole» che non si rende conto ne che la sua presenza comporta un gran lavoro supplementare, ne che Maria non compie il suo doveroso compito di donna ospitale. Secondo l'imperativo di Marta, Gesù dovrebbe autorevolmente rimettere Maria «al suo posto».

Maria non dice nulla: resta seduta ad ascoltare la parola di Gesù. Lascia al «Signore» la valutazione del suo agire e del rimprovero che le giunge indirettamente. Gesù non la «difende» in senso proprio. Nella risposta a Marta, egli dà la lettura giusta di ciò che sta avvenendo: con la sua venuta nella «nostra casa», una cosa sola è necessaria e «rimane»: ascoltarlo; non sono più necessarie molte cose, anzi queste sono dispersive, portano solo agitazione senza costruire, non servono più, appartengono al passato. La risposta rinvia chiaramente a una presa di posizione nei suoi confronti: ospitandolo ci si chiede quale sia la pietanza da lui preferita? chi si vuol servire servendo lui?

Maria sceglie un'unica cosa, il Signore, l'ascolto della sua parola, e si pone con tutta se stessa ai suoi piedi, al suo servizio senza disperdersi in altro/i.

Maria è riconosciuta, accettata e confermata «discepola» dal Maestro stesso e, quindi, autorizzata a vivere e trasmettere la parola ascoltata, il «messaggio» da lui ricevuto.

In Giovanni, Marta e Maria sono sorelle di Lazzaro di Betania, l'amico di Gesù (Gv 11,1). Marta, sapendo dell'arrivo di Gesù, si muove per andargli incontro. Ella è convinta che Gesù sarebbe stato in grado di guarire Lazzaro malato, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21), ma, nonostante la fede in lui, «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11,27), non «vede-spera» come egli possa ora farlo tornare in vita. Infatti, di fronte al comando di togliere la pietra del sepolcro di Lazzaro, Marta, molto realisticamente, avvertirà Gesù: «Signore, già manda cattivo odore, poi che è di quattro giorni» (Gv 11,38-39).

Maria, invece, anche se informata dell'arrivo di Gesù, non si muove, resta «seduta» in casa. Quando, però, la sorella le viene a dire che il Maestro la chiama, si alza in fretta per andare da lui. E a lui esprime la stessa convinzione di Marta, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,32). Ora, però, le parole escono cariche di lacrime da Maria che si è gettata ai piedi di Gesù.

Maria non chiede nulla, ma, piangendo, rende palpabile quanto sia per lei dolorosa la morte di Lazzaro. Con se stessa, pone tutta la propria sofferenza ai piedi di Gesù... è qui che ha ascoltato, è qui che parla, è qui il riferimento ultimo del suo essere.

«Gesù allora quando la vide piangere...» (Gv 11,33): il pianto di Maria, e il pianto di coloro che sono con lei, provoca Gesù che si commuove e piange a sua volta. «Paradossalmente», Maria induce Gesù ad attuare ciò che egli aveva già previsto, che la malattia fosse per la gloria di Dio e per la fede in lui (cf Gv 11,4.15). Ed ecco che Gesù, mostrando la gloria di Dio che in lui porta la vita anche nella morte, ridona la vita a Lazzaro... e toglie il motivo delle lacrime.

Il pianto, che mette in evidenza l'amore e il grido contro la distruzione e il distacco provocati dalla morte, non ha, dunque, l'ultima parola, bensì la vita e la mensa comune che la celebra.

Gesù torna a Betania, dove i suoi amici, con Lazzaro e le sorelle, offrono una cena a lui e ai suoi discepoli. Marta si dedica ancora al servizio, ma senza .preoccuparsi, dando così il suo apporto alla riuscita dell'incontro (Gv 12,1-2).

Maria coglie l'occasione della cena per esprimere la sua riconoscenza amorosa che diventa atto profetico. Maria non chiede nulla; con l'ungere di profumo i piedi del suo Signore, mostra in modo femminile la sua adesione piena, non contata, a colui che non calcolerà il dono di sé.

Ma il modo di agire di Maria ancora una volta sconvolge. Che Maria si avvicini a Gesù, che lo tocchi per bagnargli i piedi, che poi gli asciughi i piedi con i suoi stessi capelli (sciolti? !) non sembra creare difficoltà, ma che, per fare questo, usi un olio prezioso e, per di più, in grande quantità, questo, sì, crea scandalo!

Nel vangelo di Giovanni si fa interprete del disappunto proprio Giuda, il futuro traditore, «Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?» (Gv 12,5; cf Mt 26,6-13; Mc 14,3-9).

Maria non giustifica il proprio atto. È Gesù che la sostiene contro chi la critica: «Lasciala fare» (12,7). È di nuovo Gesù che mette in luce il valore profetico del gesto di Maria che, nello spirito del servizio-dono per amore, rimanda al dono della sua vita, alla sua morte e sepoltura. Come il profumo versato da Maria in grande quantità riempie tutta la casa, così il profumo della salvezza, «versato» da Gesù, invaderà la casa-mondo.

Non ha alcun senso di fronte a Gesù fare un calcolo di che cosa valga o no la pena di dargli; non ha alcun senso mettere la sua persona a confronto coi poveri in una gerarchia di precedenza di persone da «aiutare». Quando l'amore verso Gesù non viene mai manifestato in un dono eccezionale, probabilmente Gesù non è riconosciuto e amato come Signore e potrà essere lasciato ed anche tradito.

Maria riconduce tutto, a Gesù: lo ascolta, si muove secondo la sua chiamata, gli si apre nel dolore, gli offre tutto il prezioso profumo del suo amore. Come nel tempio la vedova aveva dato tutto a Dio (cf Mc 12,41-44), così Maria dà il suo tutto perché tutto in lei è rivolto a Gesù.

Col suo dono ricco (nardo) e umile insieme (ai suoi piedi) Maria è segno che rimanda a Gesù, amato e riconosciuto come Signore.

Aldilà del pianto
Annunciatrici del Vivente

«Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13) è la risposta di Maria di Magdala agli angeli che, dall'interno del sepolcro di Gesù, le chiedono «Donna, perché piangi?» (Gv 20,13). L 'assenza del suo Signore lascia nel pianto Maria di Magdala che, liberata da ogni sua malattia, aveva accompagnato Gesù dalla Galilea a Gerusalemme (cf Lc 8,1-3).

Nel «giardino» è la donna ora che vuol sapere dove è il suo Signore che «si nasconde». Maria rivela nel pianto il suo amore verso colui che è entrato come Signore nella sua vita: nulla può arrestare il suo pianto se non il Signore stesso, nulla e nessuno può ormai sostituire il Signore nonostante sia stato deposto. La donna non se ne va, non nasconde il suo dolore... e Gesù la chiama per nome... e nel giardino non c'è più ragione di piangere. Maria è di fronte al Signore e vorrebbe rimanere con lui: lo ama. Nel giardino, dalla terra che ha ricevuto il Signore della vita, dalle lacrime della donna, rinasce la vita.

Ma quel giardino « dell 'incontro » si deve allargare: «Va' dai miei fratelli» (Gv 20,17). Non c'è ombra di indugio in Maria: colei che, testimone del Risorto, può annunziare «lo ho visto il Signore», va subito a comunicare ai discepoli il compimento della salita di Gesù al Padre suo e loro (Gv 20,18).

La donna (le donne) che annunzia che il Signore è vivo, risorto, è colei che è stata vista e accolta come donna dal Signore stesso. Come persona malata o impura è stata guarita, come bimba morta è stata restituita alla vita di adulta, come vedova è stata consolata, come peccatrice è stata perdonata, ...come donna è stata accolta tra i servi del Regno, come donna è stata accolta tra i discepoli, come donna è stata accolta nelle sue espressioni d'amore.

Ri-creata, persona libera, porta Gesù ai fratelli come solo lei può portarlo, come donna.

(da Parole di Vita)

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 07 Agosto 2005 21:34

I farisei. Scheda storica (Mauro Orsatti)

I farisei
Scheda storica
di Mauro Orsatti


 


I semi remoti del fariseismo furono posti al tempo dell'esilio, allorché gli ebrei, privati del tempio e del suo culto, trovarono luce e conforto nella Legge. Più difficile stabilire con precisione un inizio storico: certo è che a partire dal secondo secolo a.C. un gruppo di laici, che faceva dello studio e dell'osservanza della Legge un ideale, si affaccia alla ribalta della vita pubblica di Israele e finisce per condizionarla. Accanto alla classe sacerdotale e all'aristocrazia si collocano anche questi pii che prendono il nome di farisei. Si fa derivare tale nome dall'ebraico parash (aramaico perash) con il senso di «separato». Non si sa esattamente da chi o da cosa fossero separati: se dal gruppo sacerdotale che osteggiavano per la sua commistione con il mondo politico o se da uno stato di impurità, per ottemperare alla Legge, secondo quanto esprime un commento rabbinico (Sifre) a Lv 11 ,44 - 45, dove compare lo stesso nome da cui deriva «fariseo»: «Come io sono separato (parush), così anche voi dovete essere separati (perushim)». Accettando tale interpretazione, la separazione avrebbe un significato che si avvicina molto a quello di santità

Dottrina e prassi

La caratteristica più vistosa della religiosità farisaica era - a detta di Giuseppe Flavio - il rigorismo legalistico che si traduceva in una stretta interpretazione della legge e in una scrupolosa osservanza della medesima. Dall'attenzione interpretativa nasce quel sistema conosciuto e tramandato come «tradizione dei padri»: si tratta di una normativa orale che ha lo stesso valore di quella scritta (cf Mc 7, 1-13), creando però il contraccolpo di un complicato sistema di osservanze, quei «pesanti fardelli» (Mt 23,4) che Gesù cita come capo di accusa.

Nel loro credo religioso figurava una fede incrollabile nella divina provvidenza che guida la storia, una prospettiva escatologica che includeva la certezza della risurrezione, la credenza nell'esistenza degli angeli (cf At 23,8) e la viva attesa del Messia. La loro dottrina si presentava molto più sostanziosa e più profonda di quella dei sadducei (cf Mc 12, 18-27).

Il ritratto poco lusinghiero dei farisei che compare nel Vangelo deve essere integrato con quello degli altri scritti del NT: ne viene un'immagine più veritiera. Basti citare due figure illustri: Gamaliele (cf At 5,34) e lo stesso Paolo che si definisce «fariseo quanto alla legge»

(FiI 3,5). Se superiamo un poco il confine del NT, incontriamo la nobile figura di Rabbi Aqiba, morto martire verso il 125 d.C. per non tradire la sua fede.

I farisei e il giudaismo

l gruppo dei farisei (6.000 persone al tempo di Gesù, secondo il numero riferito da Giuseppe Flavio) ha un duplice merito: il primo sta nell'aver cambiato un orientamento poco lusinghiero assunto al tempo dei Maccabei, richiedendo un impegno di fedeltà a Dio che si manifestava primariamente nella scrupolosa osservanza della Legge; un secondo merito sta nell'aver permesso al giudaismo di sopravvivere dopo la catastrofe del 70 d.C. allorché Gerusalemme viene distrutta, il popolo disperso e il mondo sacerdotale scompare. Forti del loro unico tesoro, la Legge, continuano l'amoroso studio che produrrà il suo primo frutto visibile nella raccolta della Mishna verso il 200 d.C. Si fissa così un'ancora che permette ai farisei di aggrapparsi e di sopravvivere; con loro continua il giudaismo che, passando per molte traversie, è giunto fino ai nostri giorni.

(da Il Mondo della Bibbia)

Pubblicato in Bibbia