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Il fallimento del progetto di Dio
Gn 3-11 e le «strutture di peccato»
di  Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione



Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.
Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.



1. Il peccato come scelta dell’uomo




Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.
L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).



2. L’istinto del «mangiare»




La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.
Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).
Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.
Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».
La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.
La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del  1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).
Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.
L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».



3. Il dilagare della violenza




Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.
La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).
Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.
Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):
Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)
La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).
È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.
La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:
Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).
La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.
La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.
Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).
AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.
L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).
Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).



4. Babele, la «porta del cielo»



Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).
La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.
Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-
la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.



Conclusione



Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).
Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.
Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.
Una campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

(da Parole di vita, 2, 2004)



Pubblicato in Bibbia

Letture diverse nel numero 150 di "Servitium"
Il problema della fedeltà alla parola.



È possibile rimanere fedeli alla Parola, evitando da una parte il rischio di dissolverla con interpretazioni radicali e, dall’altra, la possibilità di tradirla con una nefasta lettura fondamentalista? La domanda, oggi acuta più che mai, è affrontata in molti ponderosi libri per specialisti ma raramente in maniera concisa e nel contempo accurata. Ma è proprio quest’ultima la strada scelta da Servitium — Quaderni di ricerca spirituale nel numero 150 di novembre-dicembre 2003: che perciò rappresenta un punto di riferimento utile per chi voglia farsi un’idea sintetica sì, ma corretta, di una problematica che, pur nella diversità delle situazioni, tocca tutti i libri rivelati, a cominciare da quelli dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam.

Il numero tratta soprattutto della Bibbia, e il teologo Armido Rizzi sintetizza lo “status questionis” delle odierne interpretazioni di questo libro in campo cristiano: quella “fondamentalista” (che ignora la storicità del testo), quella “liberista” (che tenta di recuperare la “lontananza” del testo con l’interpretazione di esso), e quella ermeneutica “storico-critica” (che situando l’agiografo nei limiti del suo tempo, cerca di distinguere il messaggio profondo del testo dalle incrostazioni inevitabilmente legate alla cultura di chi scrisse il libro). Quest’ultima lettura, precisa Rizzi, “può essere detta (anche) laica: accoglie la Bibbia come parola di Dio e perciò con radicale disponibilità alla oboedentia fidei (obbedienza nella fede); ma sa che essa è anche interamente parola umana, parola di uomini in carne e ossa, che di Dio hanno avuto ed espresso un’esperienza eccezionale, destinata a fondare una comunità di fede, ma che l’hanno recepita ed espressa dentro il crogiolo di altre esperienze umane, di categorie mentali e moduli linguistici e conoscenze approssimative di un determinato tempo e spazio vitale, nonché dentro lo stesso loro impasto biografico di mentalità e di passioni”.

Dopo questa premessa generale, apporti diversi trattano questioni specifiche: Marinella Perroni, docente presso la facoltà teologica di sant’Anselmo a Roma, affronta la “lettura femminista della Bibbia”; don Cesare Bissoli, docente all’istituto di catechetica del Pontificio ateneo salesiano di Roma, a partire dalla Dei Verbum (la costituzione del concilio vaticano II sulla divina rivelazione) parla delle comunità cristiane a contatto con la Bibbia; P. Eugenio Costa, membro del gruppo di revisione della traduzione ufficiale della Bibbia voluta dalla Conferenza episcopale italiana, illustra il problema delle traduzioni, “tra le remore dell’ufficialità e le libere (quasi) invenzioni”; il gesuita Pino Stancari riflette sulla “lettura spirituale, quando lo scriba diventa discepolo del regno”; e Paolo Naso, direttore della rivista Confronti, su “Sognare l’Armagheddon”, la terza ondata del fondamentalismo cristiano nordamericano.

Oltre che su quelle cristiane, il numero di Servitium apre uno squarcio sulle interpretazioni ebraiche della Bibbia (Primo Testamento) e anche su quelle musulmane del Corano, dischiudendo problematiche in parte — per i nostri specialisti — nuove. Sul primo tema intervengono Alberto Mello, fratello della comunità di Bose ma residente a Gerusalemme, con “Libertà e fedeltà. La lettura ebraica della Scrittura”, e Marco Ballarini, docente di spiritualità e letteratura presso la facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, e ricercatore alla biblioteca Ambrosiana, con “Testo sacro e letteratura cristiana. Il Giobbe di Roth”. Sul secondo Paolo Branca, docente presso l’università Cattolica, con uno studio sui musulmani moderni e l’interpretazione del Corano.

(da Adista 31 gennaio 2004)


Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 12 Novembre 2004 00:43

Tra Bibbia e liturgia: i simboli

di Renato De Zan

La Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II al n. 24 afferma che "Massima è l’importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti si attingono le letture da spiegare poi nell’omelia e i salmi da cantare; dal suo afflato e dal suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i gesti liturgici (et ex ea significationem suam actiones et signa accipiunt).

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 12 Novembre 2004 00:13

Creazione dell'uomo e progetto di Dio

di Bruna Costacurta

Il libro della Genesi, nel delineare il senso dell’uomo e della storia nella loro radicale relazione con Dio, comincia la sua narrazione "dal principio", andando all’origine della realtà così da individuarne le componenti strutturali. Ne emerge la comprensione di un disegno originario di Dio che rappresenta la vera vocazione dell’umanità e segna il destino della storia.

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Sabato, 09 Ottobre 2004 19:51

Il tempio di Dio siete voi!

di Christian Grappe *

"Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi" (1 Cor 3,10-17): con queste parole, Paolo conclude un'argomentazione che lo ha portato, in un contesto polemico, a ritornare sulla fondazione della comunità di Corinto, servendosi di affermazioni suscettibili di essere applicate in conclusione alla fondazione di ogni comunità:

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Mercoledì, 08 Settembre 2004 23:27

L’incessante ricerca

di don Bruno Maggioni *

* biblista e teologo, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale

La prima domanda, che si legge nella Scrittura, è una domanda rivolta da Dio all'uomo: "Adamo; dove sei?" (Gn 3, 9). Dio cerca l'uomo e tocca all'uomo mostrarsi, rispondendo: eccomi, sono qui. Ma poi nella Scrittura si legge spesso anche la domanda dell'uomo a Dio: "Signore, dove sei?". Anche Dio risponde: "Eccomi". La ricerca è dunque duplice: Dio cerca l'uomo e l'uomo cerca Dio. È una ricerca incessante in ambedue le direzioni. Dio non cessa di mostrarsi all'uomo e continuamente ripete: sono qui. È questo il nome rivelato da Dio a Mosé. Ed è ancora questo il nome del Figlio di Dio fatto uomo: Emmanuele, Dio con noi. Ed è ancora il nome del Signore risorto, come si legge nel Vangelo di Matteo: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo". Il nome di Dio è sempre: io sono con voi.

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Giovedì, 02 Settembre 2004 21:56

"Cerco i miei fratelli..." (don Filippo Morlacchi)

Le seguenti note si basano su M.I. RUPNIK, Cerco i miei fratelli. Lectio divina su Giuseppe d'Egitto, Lipa, Roma 1998; e - in misura minore su C.M. MARTINI, Due pellegrini per la giustizia, Piemme, Casale Monferrato 1992.1 numeri di pagine tra parentesi si riferiscono al volume di Rupnik.

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di Sr. Germana Strola o.c. s.o.

Uno dei cardini fondamentali della liturgia monastica, fin dalle prime forme embrionali delle comunità anacoretiche o cenobitiche dell'Antico Egitto, è sempre stato la recita integrale del salterio: in esso, i monaci chiamati alla preghiera continua trovavano un'inesauribile fonte di ispirazione, l'alimento per un sempre nuovo approfondimento spirituale e il sostegno per una perseverante fedeltà. Specchiandosi in esso, quasi un'immagine privilegiata del mistero dell'uomo e di Cristo, come insegnava già S. Atanasio nella lettera a Marcellino, il monaco assume nella sua relazione con Dio tutto il travaglio dell'esistenza umana e sperimenta in se stesso la forza di una continua catarsi spirituale.

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Le parabole di Galilea
ovvero il sovvertimento quotidiano
di François Brossier


 


Di norma si considerano i Vangeli, e soprattutto i sinottici (Marco, Luca e Matteo), come una buona testimonianza sulla vita quotidiana di Galilea. È esatto. Tuttavia, uno sguardo più attento al contenuto delle parabole consente di costatare che Gesù non si accontenta di prendere degli esempi nella vita quotidiana dei suoi compaesani. Egli li trasforma in funzione dell'annuncio del Regno di Dio.


Il radicamento della predicazione di Gesù nella sua terra di Galilea è evidente quando si leggono i Vangeli sinottici.


UNA PREDICAZIONE BEN ANCORATA ALLA TERRA DI GALILEA


Il viaggiatore che passa da Nazaret e sulle alture della regione di Cafarnao vede quanto questa terra è ingrata; la parabola del seminatore (Mc 4,1-9) non gli appare inverosimile in questa regione: un suolo sassoso, rovi, sentieri, dovevano essere il vero ambiente dei coltivatori della Galilea. Le scene di pesca sono ispirate alla vita dei pescatori del lago di Tiberiade (Mt 13,47). Il lavoro delle vigne è osservato minuziosamente, dalla piantagione (Mt 12,1), alla potatura (Gv 15,2), alla vendemmia, e la fatica dei pastori è descritta con finezza (Gv 10,11-16). La vita quotidiana delle donne è descritta sovente: la donna impasta il pane (Mt13,33) lavora alla mola (Mt 24,41), spazza la casa (Lc 15,5).


L’INVEROSIMILE NELLE PARABOLE DI GESÙ


Se Gesù trova una fonte di ispirazione nella vita rurale di Galilea, sarebbe tuttavia errato pensare che egli si limiti ad attingervi alcune immagini per farsi meglio comprendere. Le sue parabole appartengono più al genere dell'enigma da decifrare clic alla similitudine. E chiaro che egli trasforma i fatti quotidiani in storie sovente inverosimili.


· La parabola del Seminatore.


Si può immaginare un seminatore galilaico che spreca il suo grano prezioso gettandolo sulla strada, sul suolo sassoso o tra i rovi? La portata della parabola (Mc 4,1-9) non risiede proprio nello scarto tra quello che fa in genere un agricoltore e quello che invece fa il Seminatore della parabola? Il contadino galilaico sta attento a non sprecare nulla, il Seminatore semina con prodigalità: il seme darà comunque un rendimento che in Galilea non si è mai visto. In questo senso la parabola è immagine del Regno annunciato da Gesù. Egli semina la parola nel vento; il terreno non è sempre favorevole, ma il successo della semina sarà completo.


· La pecorella perduta.


Non è forse inverosimile che un pastore abbandoni novantanove pecore sulla montagna per andare a cercarne una sola che si è perduta? Tuttavia è ciò che Gesù fa per i peccatori, seguendo l'esempio del Padre (Mt 18,10-14).


· Gli operai dell'ultima ora.


Che un proprietario assuma dei lavoratori per la sua vigna in più riprese è un fatto del tutto naturale. Ma che paghi lo stesso salario a quelli che hanno faticato tutto il giorno e a quelli che hanno lavorato soltanto un'ora è impensabile. Tuttavia è così che Dio si comporta con tutti gli uomini nel suo Regno (Mt 20,1-16).


· I vignaioli omicidi.


È forse immaginabile che dei vignaioli si ribellino contro il proprietario al punto di maltrattare ed uccidere i messi del padrone e addirittura suo figlio? Non siamo più nella vita quotidiana: Gesù ci descrive la storia del suo popolo e la sua propria storia; dopo i profeti martiri, Gesù stesso sarà messo a morte dai responsabili della vigna-Israele (Mt 21,33-46)


· Il banchetto nuziale.


Un re organizza un banchetto per le nozze di suo figlio e manda a cercare gli invitati, ma costoro uccidono i messi! Il re muove guerra agli invitati indegni e invita degli sconosciuti al pranzo, le cui portate sono ancora calde e non sono bruciate! Un racconto inverosimile, ma che permette di comprendere la storia di Gesù e della sua missione (Mi 22,1-14).


· Le dieci vergini.


Si è mai visto un matrimonio in cui lo sposo tarda tanto a venire che le damigelle d’onore si addormentano? Ma se Gesù è appunto lo sposo che tarda a venire, la lezione per i cristiani di tutti i tempi è ovviamente: "Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora" (Mt 25,13).


· L’amministratore scaltro


Chi non è stato turbato dall’elogio che Gesù sembra rivolgere all’amministratore. disonesto? Ma ciò che Gesù loda è lo spirito di iniziativa di questo intendente; costui trova nel poco tempo che gli rimane la soluzione che garantisce il suo avvenire (Lc 16 1-8) Cosi deve essere per i cristiani: la vita è breve, ma è il periodo che ci è dato per farci un tesoro nei cieli


· Il servo vigilante


Ancora una storia abbastanza curiosa, quella del padrone che ritorna dalle nozze e notte inoltrata e, trovando i suoi servitori ancora svegli, si mette un grembiule e li serve (Lc 12,36-38). Tuttavia Gesù ci dice che è così che Dio tratterà i suoi servitori vigilanti.


UNA CHIAVE DI LETTURA: L'ANNUNCIO DEL REGNO


Fonte di ispirazione della predicazione di Gesù in Galilea, la vita quotidiana evocata nelle parabole non può tuttavia servire come chiave di lettura del suo insegnamento. Ciò che è primario e viene a sovvenire questa realtà è la predicazione del Regno e la persona stessa di Gesù. Questo è il motivo per cui le parabole non possono apparire come delle piatte similitudini destinate ad essere comprese facilmente da persone semplici. Esse sono piuttosto degli enigmi che devono essere decifrati per intravedere la via aperta da Gesù.


Quando parlava in parabole, non sembra che l'obiettivo di Gesù fosse quello di insegnare,. di giustificare i suoi atti o di discutere con i suoi avversari, ma piuttosto quello di far scoprire a coloro che lo ascoltavano il Regno di Dio. Questo Regno non è per lui una nozione astratta, ma una realtà che viene. Rendendo attivi gli ascoltatori, dal momento che li costringe a decifrare degli "enigmi", le parabole fanno avvenire questo Regno di Dio in loro. Ciò costituisce appunto la loro forza e conserva loro una profonda attualità: esse fanno vacillare le concezioni che gli ascoltatori hanno della realtà e svelano loro possibilità alternative insospettato. Ogni nuova generazione, cigni comunità è chiamata a decifrare le parabola per scoprire nel proprio presente l'annuncio dell'avvento del Regno. Poiché l'opera di decifrazione non è mai terminata le parabole sono ben lontane dall'aver esaurito tutto il loro significato.


(tratto da Il mondo della bibbia n. 21)


 

Pubblicato in Bibbia

Galilea delle genti:
vocazione di un paese di frontiera
di Michel Berder



Il Vangelo di Matteo apre la presentazione della vita pubblica di Gesù con una notazione nella quale i termini geografici relativi alla Galilea sono particolarmente numerosi. Perché questa insistenza? E soprattutto perché l'evangelista si preoccupa di cercare nell’Antico Testamento un riferimento che illumini questo punto? Il fatto che il Messia scelga questo territorio per iniziare la sua predicazione ha dunque un significato particolare?


Gesù venuto per "adempiere le Scritture"


In Matteo 4,15-16 abbiamo una delle famose "citazioni dell’adempimento" di questo Vangelo. L’autore si sforza di cercare nella Scrittura degli elementi che possano aiutare a comprendere la portata e il significato degli atti e delle parole di Gesù. È l’unico degli evangelisti che offre una citazione scritturale a sostegno della presenza di Gesù in Galilea. Nei capitoli precedenti aveva già utilizzato questo procedimento. A proposito dell’annuncio a Giuseppe della nascita di Gesù, cita l’oracolo dell’Emmanuele che si trova in Isaia 7,14. vediamo poi i consiglieri di Erode tentare di determinare in base all’Antico testamento il luogo di nascita del Messia: Betlemme in Giudea (2,6).


Ma il testo che più si avvicina al nostro è senza dubbio il passo in cui l’evangelista ci mostra Giuseppe che si stabilisce in Galilea con Maria e Gesù: "Si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato il Nazareno" (2,22-23). Come in Matteo 4,15 troviamo l’indicazione di una relazione tra Gesù e la Galilea e questo fatto viene messo in rapporto con la letteratura profetica.


In Matteo 4,15-16, l’interpretazione del testo citato non pone gli stessi problemi. Si tratta di due versetti di Isaia: 8,23 e 9,1. questo oracolo annunciava, grazie all’avvento di un nuovo re, un’èra di luce e di gioia per un gruppo di religioni sprofondate nella miseria. Il profeta aveva in mente un situazione politica ben precisa. Si riferiva infatti alle religioni del nord del paese, segnate da una situazione di umiliazione. Molti storici ci invitano a riconoscere il questa lista i distretti colpiti dalle incursioni assire degli anni 734-732 a.C. (cf Re 15,29).



Un’interpretazione della Scrittura


Oracoli di questo genere, riportati da tutta la tradizione ebraica restano aperti ad altre interpretazioni, in funzione di situazioni nuove. È questa un’illustrazione di ciò che in ebraico è chiamato "midraš" una ricerca operata sulla scrittura per attualizzarla. Affermando che il testo di Isaia si adempie, Matteo si situa in una posizione analoga a quella del Cronista che presenta la deportazione del popolo di Gerusalemme a Babilonia dicendo: "attuandosi così la parola del Signore predetta per bocca di Geremia" (2 Cr 36,21). Ma l’originalità della rilettura proposta da Matteo sta nel fatto che tale rilettura è in funzione di ciò che Gesù rappresenta. È quello che alcuni autori chiamano un "midraš cristiano".


Una regione di frontiera per un Vangelo universale


Citando questo passo della Scrittura, l’evangelista fa notare che l’èra che si apre con la predicazione di Gesù concerne i pagani. Egli riconosce implicitamente l’aspetto paradossale della scelta di queste regioni come punto di partenza della missione di Cristo. Una presentazione tradizionale del Messia lo collocherebbe istintivamente nell’ambito di Gerusalemme e della Giudea (è ciò che presuppongono le reazioni riferite in Gv 7, 41-42 e 52). I territori menzionati in Matteo 4,15 sono noti come regioni di frontiera, in contatto con il paganesimo. La formula "Galilea delle genti" conserva qui tutta la sua forza evocativa. La parola ebraica galîl significa "contrada", "distretto", "circoscrizione" (vedi anche Gs 12,23). Ma il testo greco di Matteo utilizza il nome proprio "Galilea delle genti". La Settanta, in Isaia 8,23 parla di "Galilea degli stranieri" (come Gl 4,4 e 1 Mac 5,15) la menzione delle tenebre diventa, nel contesto del vangelo, un modo per caratterizzare la situazione spirituale di queste regioni che godono del privilegio della venuta di Gesù, il Cristo, l’Emmanuele.


Questa prospettiva universalistica è affermata con forza in tutto il Vangelo di Matteo. Pur avendo cura di far percepire le radici ebraiche di Gesù, Matteo rende manifesta la portata universale della Buona Notizia da lui annunciata nella genealogia del capitolo 1, egli sottolinea il posto occupato dalle donne straniere in Israele tra gli antenati di Gesù (come Rut). È ancora Matteo che racconta l’episodio dei Magi venuti dall’Oriente che simboleggiano la venerazione delle nazioni pagane. Queste caratteristiche potrebbero suggerire che uno degli obiettivi di Matteo sia quello di provocare un risveglio missionario nelle comunità alle quali si rivolge. Risveglio missionario basato sia su una riflessione intorno all’itinerario stesso di Gesù, sia su una rilettura della Scrittura.


Per tutte le genti la luce è sprta


Il riferimento al testo di Isaia si accompagna ad un’altra convinzione che attraversa tutto il Vangelo: un certo numero di caratteristiche di ciò che era atteso per la fine dei tempi si è già realizzato. Non è un caso che il nostro testo presenti molti punti in comune con la scena finale del Vangelo di Matteo. Gesù resuscitato raggiunge i discepoli in Galilea. Nella missione che affida loro parla delle genti ("fate miei discepoli da tutte le genti"). E colui che all’inizio del Vangelo era presentato come l’Emmanuele (= "Dio con noi"), annunciato da Isaia, promette solennemente: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi". Nel Vangelo di Matteo, la missione dei discepoli parte dunque dalla Galilea e va verso le nazioni; e questo in una dinamica contrassegnata da una presenza nuova del Risorto, fino alla fine della storia umana. Si tratta ancora di una rilettura originale di un tema ben noto della tradizione biblica: la riunione di tutte le genti nell’ultimo giorno. Quello che è radicalmente nuovo è che questa riunione si realizzerà grazie alla missione dei discepoli di Gesù risuscitato, per mezzo del battesimo "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).


Così, partendo da una semplice annotazione geografica, Matteo riesce a metterci in contatto con una delle realtà più misteriose del messaggio cristiano: ciò che è stato messo in gioco in Gesù di Nazaret, il Galileo, concerne gli uomini di tutti i paesi e di tutti i tempi. È per loto che "una grande luce" si è levata (Mt 4,16).


(da Il mondo della Bibbia n. 21)

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