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Mercoledì, 17 Maggio 2006 02:03

Carismi e ministeri (1Cor 12-14) (Giacomo Lorusso)

Carismi e ministeri (1Cor 12-14)
di Giacomo Lorusso


Dio chiama l'intera umanità alla salvezza mediante la Chiesa. E per renderla capace di adempiere la propria missione, l' arricchisce con dei doni: i carismi. La comunità di Corinto aveva bisogno di una parola di chiarimento da parte dell' Apostolo circa la cooperazione dei diversi charìsmata, poiché motivo di contrapposizione e di sterili confronti. Nei cc. 12-14 della sua prima lettera Paolo riflette sulla loro natura e articolazione, alla luce del confronto tra glossolalia e profezia. Il suo intento è di far risaltare la specificità di ognuno nel contesto della multiforme azione carismatica dello Spirito, che caratterizza il dinamismo di crescita e sviluppo della Chiesa.

La sezione si articola in tre parti: 1Cor 12,1-30; 12,31-13,13; 14,1-40. In 12,1-30 Paolo sottolinea l'origine pneumatica dei carismi, al servizio dell'unità della Chiesa, mentre in 12,31-13,13 presenta la condizione per un'autentica esperienza carismatica: la carità. La carità, infatti, è l' anima dei carismi, feconda la loro azione ed è sin d'ora partecipazione alla comunione divina. La fede e la speranza sostanziano la carità con la conoscenza parziale - già nel tempo - del Dio amore, stabilendo la ragionevolezza della carità. In 14,1-40 Paolo sviluppa il rapporto tra glossolalia e profezia: la reciprocità dei due carismi, la singolarità e la specificità di ognuno, la loro cooperazione per l' attuarsi della missione della Chiesa.

I carismi e i doni dello Spirito

Il c. 12 ha un codice semantico che lo struttura: il rapporto tra «uno» e «molti». Rispettivamente «uno» qualifica lo Spirito, Cristo, il corpo umano, il corpo di Cristo; «molti» i carismi, le membra del corpo umano e quelle del corpo di Cristo.

Nell'introduzione (vv. 1-3) Paolo dichiara che il suo scopo è quello di colmare l'ignoranza di chi nel passato «seguiva» gli idoli «afoni». A differenza di questi, infatti, il Signore «parla» attraverso i suoi, donando la possibilità di pronunziare il proprio nome e dirlo al mondo, grazie alI' azione dello Spirito Santo. L'accento è sul parlare, sulle condizioni di possibilità del pregare e proclamare il nome di Gesù Cristo.

Alla luce di tale affermazione si capisce come i diversi carismi siano elargiti in vista dell'evangelizzazione, per l'opera dell'unico Pneuma. Nei vv. 4-11 Paolo descrive la meravigliosa sinfonia che si sprigiona dai diversi carismi, voce dell'unico Spirito. In apertura abbiamo tre periodi paralleli, ciascuno dei quali associa la persona divina alla molteplicità degli effetti che ne manifestano I' azione:

- lo stesso Spirito - distribuzione di carismi
- lo stesso Signore - distribuzione dei ministeri
- lo stesso Dio che opera - distribuzione di ciò che è messo in opera ogni cosa in tutti

Non vi è distinzione tra carismi, ministeri e operazioni divine: ritenere di possedere un carisma oppure un ministero in forma esclusivamente personale senza guardarlo nella sua matrice di dono e operazione divina annulla la capacità del carisma o ministero di essere ciò per cui Dio lo ha elargito: dono di salvezza e di comunione con Dio per se e per gli altri. La dimensione personale ( «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito» ) si coniuga con la dimensione unitaria del soggetto e attore della pluriforme grazia elargita a tutta la Chiesa ( «tutte queste cose opera I 'unico e medesimo Spirito» ).

L'accento va sulla ripartizione dei doni all'interno della Chiesa, più che sulla diversità. L’apostolo adopera charìsmata e non pneumatikà, sottolineando la dimensione gratuita del dono (chàrisma è dono concreto di «grazia» ), più che la semplice manifestazione spirituale. Nessuno ha I' esclusiva dei carismi né in termini di quantità né di qualità. Né possono esistere carismi che abbiano un' origine diversa da quella indicata, giacchè gli idoli sono muti e inanimati. L' azione divina (v. 6: due volte energéõ) è sottolineata dall'affermazione «a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito in vista di ciò che giova» (v. 7), e dalla ripresa del verbo energéõ, «operare», al v. 11. Il dono è messo in opera in vista dell'utilità salvifica (symphéron) per il singolo e per la comunità, ed è ripartito secondo i criteri della liberalità divina ( «ripartisce a ciascuno in particolare come vuole» ). Il tema della ripartizione equa e generosa dei doni è enfatizzata dalla struttura dei vv. 8-10:

-ad uno parola di sapienza                                    per mezzo dello Spirito
-ma ad un altro parola di conoscenza                  secondo lo stesso Spirito
-ad un altro fede                                                      nello stesso Spirito
-ma ad un altro carismi di guarigioni                    nell'unico Spirito
-ma ad un altro operazioni di cose prodigiose
-ma ad un altro profezie
-ad un altro discernimento di spiriti
-ad un altro generi dei modi parlare in lingua
-ma ad un altro interpretazione dei modi di parlare in lingua

Sei su nove sono inerenti al tema del parlare, tre alla dimensione operativa ( «fede» taumaturgica, «guarigioni», «cose prodigiose» ). E tutti sono al servizio dell'unica rivelazione: l'efficacia e la ricchezza dello Spirito che anima la Chiesa.

Descritta la ripartizione dei doni, nei vv. 12-27 Paolo esamina il rapporto di appartenenza vitale che sussiste tra le membra/carismi nel corpo ecclesiale. L'interrogativo di fondo è se vi sia una priorità d'importanza tra i carismi e in che senso si possa parlare di reciprocità.

La metafora del corpo

Ciò sottintende che la Chiesa sia il corpo di Cristo («Così anche è Cristo») e che Cristo stesso abbia un corpo formato da molte membra. Infatti dall’ espressione «così anche Cristo» si passa a «infatti in un solo Spirito noi tutti m vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Non bisogna tuttavia dimenticare che si è nel corpo di Cristo solo se si è «in Cristo» (Rm 12,5). Il binomio unità-pluralità è dichiarato nelle due direzioni: l'unico corpo è costituito da molte membra - le molte membra costituiscono l'unico corpo.

Cristo è la realtà totale della Chiesa, nata dallo Spirito nel battesimo (12,13): «...e in un solo Spirito noi tutti in vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Per l'azione dello Spirito, nel battesimo, è generato il corpo che appartiene a Cristo. La complessità della Chiesa è esemplificata attraverso le categorie giudei-greci, schiavi-Iiberi, differenti per cultura e stato sociale, relazioni che presuppongono diversità ma che trovano nel dono dello Spirito una unità perfetta. In 1Cor 6,11 leggiamo: «...ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati mediante il nome del Signore Gesù Cristo e per mezzo dello Spirito del nostro Dio». Il motivo del dissetare il popolo da parte di Dio (cf. Es 15,22) è ripreso in 1Cor 10,4: «Tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano infatti da una roccia spirituale che seguiva; ora la roccia era il Cristo». Il corpo della Chiesa è frutto dell'agire creativo dello Spirito, della sua linfa spirituale di cui ci si disseta.

I vv. 14-20 rilevano il tema della pluralità del corpo che non solo ha molte membra ma è molte membra. Le membra sono il corpo, non solo appartengono al corpo; l'essere del corpo implica l'essere corpo. Il brano si contraddistingue per lo schema «non è I ma è» (negativa + affermativa), che sottolinea l'aspetto della pluralità, grado d'importanza e specificità di ruolo di ciascuno. La distinzione e la relazionalità delle membra tra loro manifestano la realtà del corpo: «Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato?» (v. 17). Non un membro da solo, ma l’insieme delle membra nella loro articolazione e reciprocità del corpo. L'unità, infatti, contrasterebbe con la dimensione corporale. Al v. 18 si fa risalire tale meravigliosa armonia alla benevolenza divina che ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le membra «come ha voluto». Senza tale disegno il corpo non potrebbe sussistere. La preferenza data a un solo membro entra in contraddizione con il principio stesso dell'entità «corpo».

I vv. 21-26 pongono l'accento sugli essenziali rapporti che intercorrono tra le membra: «aver bisogno» e «andare incontro al bisogno altrui». Le categorie impiegate sono: proteggere quelle che hanno bisogno di attenzione e rispetto, necessità dell' aiuto reciproco (merimnân = cura/preoccupazione), compartecipazione e solidarietà nelle varie vicende sia positive sia negative che li riguardano. La menzione dell' opera divina richiama la matrice provvidenziale di tale cooperazione (Dio «ha mischiato / unito» ) che esclude ogni velleità di cammini solitari e autonomi (schisma = strappo / divisione).

Paolo ha inserito nel discorso sulle membra due termini altrove adoperati per i comportamenti personali: merimnân e schisma. un accenno ai rischi che il perseguire una logica diversa da quella presente tra le membra del corpo umano determinerebbe nel corpo ecclesiale (cf. 1,10ss e 11,18). Il «debole» che ha bisogno di aiuto è I' asthênes che nei cc. 8-10 qualifica la coscienza del credente, scandalizzato dalla superficialità e controtestimonianza dei «forti», che si nutrono delle carni immolate agli idoli. Ma anche il «più forte» ha bisogno dell'aiuto del «più debole» (vv. 23-24). Il maggiore onore riservato ai «deboli» onora e nobilita anche i «forti»; perciò i carismi e ministeri umanamente meno appariscenti («vili», «indecenti») sono più necessari per il vivere ecclesiale. Tale discorso è ribadito dall' accostamento di merimnân al pronome reciproco allêlôn («l'un l'altro») e dalla successiva esemplificazione della condivisione del dolore o della gioia da parte di tutte le membra (v. 26).

AI v. 27 Paolo fa un'affermazione di identità che riassume le conclusioni del discorso sin qui svolto: i corinzi sono corpo di Cristo e sue «membra», perciò quanto illustrato dalla metafora delle «membra» del corpo umano vale a maggior ragione per i battezzati..

Definiti i rapporti che devono intercorrere all'interno del corpo di Cristo che è la Chiesa, nei vv. 28-30 Paolo pone l'accento sull'operato divino che, come già affermato circa il corpo fisico (vv. 18.25), ha costituito (étheto, v. 18) la Chiesa come tale, articolata in varie «membra», diversi ministeri e carismi. Non vi è appiattimento e uniformità ma organica complessità, poiché non tutti sono apostoli o profeti o maestri, ecc., per la «sovrana fantasia» dello Spirito.

AI v. 28 abbiamo tre portatori di carismi e non la fiera indicazione dei carismi, seguiti da «miracoli» e da altri quattro charìsmata. I primi tre ricordano I' elenco di Ef 4,11 : «Egli ha dato gli apostoli, i profeti, gli annunciatori del Vangelo, i pastori e maestri». Il nostro brano è l'unico a includere I' apostolicità (cf. le espressioni paoline «la grazia a me data» dell'apostolato di 1Cor 3,10; GaI 2,9). Con didàskalos s'intende colui che fornisce un insegnamento pratico e parenetico con riferimento all'interpretazione delle Scritture (cf. 1Cor 4,17; Rm 12,7; 15,4): si passa da colui che pone le fondamenta della vita di fede, al profeta delle parole dello Spirito, all'interprete e catecheta della Parola. Dei carismi alcuni sono una novità rispetto ai vv. 8-10: «Prestazioni di soccorso» come attività più tecnico-organizzativa (antilêmpseis) e «capacità di guidare» la comunità (kybernêseis). Abbiamo anche in questo caso, coerentemente con il resto della sezione, la sottolineatura del tema del «parlare»: i ministeri di «apostoli, profeti, maestri» e il «dono delle lingue», linea ripresa subito dopo nelle domande retoriche, dove cinque su sette riguardano il campo del linguaggio (apostoli, profeti, maestri, parlare in lingue, discernimento).

Se al v. 28 si distingueva tra ministeri e carismi, nei vv. 29-30 si elencano soggetti qualificati da carismi. S' inserisce la dimensione personale e quindi implicitamente la categoria dell' arbitrio umano nel servire i carismi e I' edificazione della Chiesa.

Il primato della profezia sulla glossolalia

Anziché rispondere alla domanda su quale dei ministeri sia il «migliore», «più ragguardevole», Paolo indica la via per diventare «ragguardevoli» nella Chiesa: la carità (12,31b-13,13).

Dopo aver celebrato la «via» della carità per diventare «grandi» nel presente e nell'eternità, confutata la «via» della presunzione e del vanto, alla luce del principio della complementarietà e varietà dei doni elargiti dallo Spirito nel «giardino» di Dio che è la Chiesa, nel c.14 l' Apostolo può affrontare la questione delle finalità e del corretto esercizio dei carismi della profezia e glossolalia, per l' edificazione dell' unico corpo di Cristo.

I due carismi sono esaminati nei mutui rapporti, nella loro individualità e alla luce della più generale vita della Chiesa. Il confronto di valore si articola nel modo seguente:

a) la glossolalia inferiore alla profezia (utilità interna): 14,2-5;

b ) insufficienza della glossolalia: 14,6-19;

a') la glossolalia inferiore alla profezia (utilità esterna): 14,20-25.

Sul piano personale la glossolalia è un dono perchè lode al Dio inesprimibile, ma a livello comunitario necessita di chi la interpreti, a differenza del carisma della profezia, che non ne ha bisogno.

Dopo un versetto di transizione ( 14,26), Paolo definisce le regole che devono essere osservate sia dai glossolali sia dai profeti (14,27-33.36-40), unitamente a un' esortazione a evitare nella concreta comunità di Corinto ogni tipo di confusione durante le celebrazioni comunitarie; di qui l'invito alle donne a non chiedere spiegazioni durante gli incontri, ma in casa ai propri mariti (14,33b- 35), poiché tutto deve essere fatto con ordine (katà tàxin) e convenientemente (euschêmònôs).

Conclusioni

I carismi sono eccellenti doni dello Spirito per la crescita della fede personale e comunitaria, e richiedono discernimento e docilità. Tra di essi non è possibile stabilire una gerarchia di onore, poiché sono finalizzati alla reciproca edificazione nel corpo di Cristo. Questo quadro rende vano ogni tipo di rivendicazione tra glossolalia e profezia, giacché il Dio professato è un Dio che parla e rende capaci di parlare efficacemente, a condizione che si viva nella logica dell’amore.

(da Parole di vita, 3, 2002)

Pubblicato in Bibbia

Lezione Prima
MYSTERIUM SALUTIS E GLI STUDI TEOLOGICI



I venti secoli della teologia cristiana si possono raggruppare intorno a quattro grandi prospettive:

1. L’ideale gnostico-sapienziale della teologia (fino al IV sec.)

Il fine che persegue la gnosi (= conoscenza) è di risolvere, non tanto in modo speculativo, quanto concreto e globale, il problema umano totale.

Il mezzo essenziale a questo scopo è una. “conoscenza” superiore delle cose e dell’uomo. Questa conoscenza è di natura religiosa. La conoscenza gnostica suppone l'accordo di tutta la vita, al quale ci si prepara con la purificazione morale e ascetica.

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Mosè, ritratto di un legislatore
di Jacques Briend *



Fornire un ritratto di Mosè è un’opera rischiosa: non possediamo per crearlo che i soli elementi fornitici dalla Bibbia. Già vent’anni fa, R. Martin-Achard, un grande specialista dell’Antico Testamento, scriveva: «Esistono tanti ritratti di Mosè quanti sono gli autori che gli hanno dedicato uno studio». Può lo storico tracciarne una figura più obiettiva dopo aver esaminato tutti i testi che parlano di Mosè? Non è sicuro, perché è difficile ritrovare i momenti qualificanti di un’esistenza che una ricca tradizione ci presenta sotto molteplici prospettive.

Se non si considera il nome stesso di Mosè, che è molto probabilmente di origine egizia, si conoscono poche cose sul personaggio e sull'inizio della sua esistenza. Certamente si potrebbe citare qui il capitolo 2 del libro dell'Esodo che rievoca brevemente la sua infanzia e la sua adozione da parte della figlia del Faraone (Es 2,1-10). Un tale racconto non fa che tradurre secondo le categorie di pensiero degli antichi il singolare destino di Mosè e il ruolo della provvidenza divina, oltre al fatto che l'esposizione si modella su racconti dell'infanzia come quello di Sargon di Akkad, re mesopotamico (2334-2279 a.C.) che la madre aveva affidato al fiume in una cesta di vimini.

Il seguito del testo biblico (Es 2,11-22) ci mostra un Mosè cresciuto e che prende iniziative a favore dei suoi fratelli di razza, ma questo cambia presto bruscamente. Mosè è costretto a lasciare l'Egitto e a fuggire in Madian, una terra straniera, nella quale si sposa. In violento contrasto con questa sua volontà di insediarsi come capo, il capitolo 3 dell’Esodo narra come, a partire dall'episodio del roveto ardente, Dio scelga Mosè per far uscire il popolo ebreo dall'Egitto, perché Dio ha inteso il grido del suo popolo. Mosè riceve da Dio una missione e nello stesso tempo si interroga per sapere come il popolo accetterà di seguirlo. Di fronte al progetto di Dio, Mosè è dapprima sensibile alle difficoltà e alle obiezioni che gli verranno da parte del popolo.

Capo del popolo e intercessore

In realtà, a più riprese, l'autorità di Mosè si scontra con le proteste e le lamentazioni del popolo per tutta la durata del cammino nel deserto. Nonostante l'uscita dall'Egitto che testimonia la potenza del suo Dio, la contestazione sembra aggravarsi, si diffonde. A partire da Es 15,22, il popolo mormora contro Mosè perché non ha acqua da bere e Mosè invoca Dio; poco più tardi Mosè ed Aronne sono accusati di avere trascinato gli Israeliti nel deserto per farli morire di fame (Es 16,3). Un'altra volta, in Es 17, 1-7, Mosè è accusato di far morire il popolo di sete. La situazione è così grave che Mosè invoca Dio e dice anche che il popolo ha intenzione di lapidarlo. Questa contestazione si ritrova anche nel libro dei Numeri che descrive la prosecuzione della marcia nel deserto, interrotta dopo Es 19. In questi racconti, Mosè si fa il portavoce del popolo presso Dio. A più riprese, quando la situazione è particolarmente grave, egli assume il ruolo di intercessore. È il ruolo che esercita in occasione dell’episodio dell’adorazione del vitello d'oro (Es 32). Mosè riceve i rimproveri di Dio e si sforza di placare la collera divina con una preghiera molto argomentata. In primo luogo, egli ricorda a Dio l'evento dell'uscita dall'Egitto in cui si è manifestata la sua potenza, e che Egli non può rinnegare, poi evoca, in caso di una punizione radicale, la reazione degli anziani: che cosa penseranno di questo Dio che fa morire coloro che ha fatto uscire dal paese d'Egitto? Infine si richiama alle promesse fatte da Dio ai patriarchi (Es 32,11-14); e Dio rinuncia a castigare il popolo.

Mosè interviene dunque presso Dio in favore del popolo e, pur riconoscendo la colpa del popolo, rimane solidale con coloro che Dio gli ha affidato: egli domanda a Dio di perdonare il peccato del popolo; se Dio non lo farà, esige che Dio lo faccia morire, anche se lui, Mosè, non ha partecipato alla costruzione del vitello d'oro (Es 32,32). Questo ruolo di intercessore - che i racconti gli attribuiscono con grande continuità - Mosè lo trova pesante da sopportare e non esita a dirlo a Dio. L'esempio più chiaro ci è dato quando il popolo nel deserto si lamenta di non avere carne da mangiare e di nutrirsi solamente della manna (Nm 11,49). Mosè sente il pianto del popolo e dichiara a Dio: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io, perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo?... Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto...!» (Nm 11,11-15). Sbalorditiva la richiesta di Mosè che non esita a dichiarare che Dio stesso deve occuparsi personalmente di questo popolo! Attraverso le parole e le immagini usate, Dio è agli occhi di Mosè la madre del popolo e spetta a lui nutrirlo. Un intervento così forte di Mosè è raro; non ha paralleli, ma rivela la vivacità del dialogo posto sulle labbra di Mosè.

Mosè, il legislatore

Per Mosè, Dio rimane il vero capo del popolo, cosa che non toglie nulla all'autorità che gli è propria e che è grande. La prova migliore è che Mosè è l’uomo dell'Alleanza e l'uomo della Legge. Solo Mosè sale, chiamato da Dio, sulla montagna (Es 19) ed è lui che legge al popolo il rotolo dell'Alleanza e gli comunica tutte le parole dette da Dio (Es 24,3-8); è sempre lui che prende il sangue dei tori per versarne una metà sull'altare che rappresenta Dio e l'altra metà sul popolo dicendo: «Questo è il sangue dell'Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole». Se si mette da parte il Decalogo, in cui Dio si rivolge direttamente al popolo (Es 20, 1-2), le leggi sono trasmesse da Mosè ai figli di Israele (Es 20,22; Lv 1,1; Nm 36,13; Dt 28,69). Da un capo all'altro della Torà, Mosè è colui che trasmette le parole dell'Alleanza o le parole della Legge. Queste parole concernono tutti i campi dell'esistenza, compreso quello del culto e della sua organizzazione, benché Mosè non sia sacerdote. Questo denota come, in un certo senso, Mosè prevalga su Aronne, il capostipite del sacerdozio israelita. In ogni caso, la tradizione iconografica presenta Mosè come colui che riceve da Dio la Legge.

Mosè, intimo di Dio

Al di là di tutto quello che si può dire su Mosè e sul ruolo che assume nella nascita del popolo di Israele, bisogna insistere sui suoi legami con Dio, che la tradizione ha tramandato in maniere diverse. In Es 33,7-11, si scopre un Mosè che entra nella Tenda del convegno per consultarvi Dio. Il testo insiste sul fallo che Dio «parlava con Mosè», gli «parlava faccia a faccia, come un uomo parla con un altro». Quando Miriam ed Aronne criticano Mosè a proposito del suo matrimonio con una donna etiope, il testo non dice nulla della reazione di Mosè, ma fornisce dapprima la riflessione di un redattore: «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3). Poi viene la reazione di Dio nella Tenda del convegno alla presenza di Mosè, Aronne e Miriam in un brano che merita di essere riportato per intero: «Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca io parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l'immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?» (Nm 12,6-8). Che cosa si può aggiungere ad una tale descrizione? Mosè è «l'uomo di Dio» (Dt 33,1) nel senso più completo dell'espressione; egli è più che un profeta, anche se spesso ha ricevuto questo titolo (Os 12,14; Dt 18,18). Alla fine del libro del Deuteronomio, dopo aver ricordato la morte di Mosè, si afferma con forza: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). Si ha in questa affermazione come la traccia della statura di questo Mosè di cui è difficile fare un ritratto.

* Esegeta dell’Antico Testamento, Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

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Venerdì, 21 Aprile 2006 22:27

L’uomo delle beatitudini (Santi Grasso)

Le beatitudini evangeliche affondano le loro radici religioso-spirituali nelle proclamazioni di esultanza che si ritrovano nella tradizione biblica, sia testi storici che profetici, ma particolarmente nei sapienziali e nei salmi.

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I dieci comandamenti di Gesù
di Daniel Marguerat *



Si contrappone generalmente Gesù alla Legge. L’apostolo Paolo, che afferma «Cristo è la fine della Legge», non per nulla rientra in questa immagine. Gesù non è venuto a porre fine al regno di Mosè, e, con lui, al regno della Legge, di cui i Dieci comandamenti sono come la sintesi? Per comprendere la rilettura delle Dieci Parole da parte di Gesù, bisogna cominciare con il demolire questa immagine. Gesù non ha mai rinnegato la Torâ né sconfessato il Decalogo. Come ogni ebreo, egli lo considerava come il depositario della santa volontà di Dio. Il Vangelo di Matteo ne dà testimonianza: Gesù rimproverò anche ai suoi contemporanei di misconoscere la forza di queste parole (Mt 5, 21-48).


Di dove viene allora l'ambiguità? Cominciamo dal punto da cui è iniziata la polemica con i Farisei: la questione del sabato. La conoscenza più fine e sfumata che abbiamo del giudaismo nel I secolo ci permette oggi di dire che Gesù ha raramente violato la prescrizione del sabato. Quando guarisce un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6) o una donna inferma (Lc 13,10-17) o un idropico (14, 1-6), scegliere per questo un giorno di sabato è da parte di Gesù un gesto di deliberata provocazione. Ma salvare una vita faceva parte delle eccezioni alla regola del riposo sabbatico. E quando Gesù esprime questa idea profondamente ebraica che il sabato è fatto per il bene dell'uomo (Mc 2,27; Mekhilta Esodo 31,13), non può che incontrare l’approvazione dei suoi interlocutori. Tra le evidenti trasgressioni del riposo sabbatico, in compenso, figura il gesto dei discepoli che raccolgono qua e là delle spighe nel campo di grano (Mc 2,23-28).

Le scappatoie

I Farisei sapevano bene che la regola del riposo necessitava di eccezioni, che la vita aveva le sue emergenze, e il loro spirito pragmatico li induceva ad adottare delle astuzie. Un esempio: la regola sabbatica non autorizzava, secondo Ger 17,19-27, l'introduzione di pesi attraverso le porte. Ai Farisei non piaceva, perché impediva agli amici di mangiare insieme in giorno di sabato; essi stabilirono il principio dell'eruvin (fusione): un portale chiudeva la porta comune di più case vicine, cosicché ciascuna fosse considerata come parte di uno spazio unico; i pasti comuni diventavano allora leciti! La Torà ci tramanda che i Sadducei disapprovavano formalmente questo metodo, che, secondo loro, legalizzava la trasgressione premeditata e ripetuta del sabato (Eruvin 6, 2).

L'esempio dell'eruvin mostra che, al tempo di Gesù, era aperto un dibattito sul quarto comandamento. Non tutti i gruppi sostenevano lo stesso rigore. Gesù, a sua volta, propone la sua chiave d'interpretazione. Allora, perché ha suscitato scandalo? Si capisce così che la sua pratica più liberale non ha colpito che i più rigidi, o quelli più pii di lui. Ma, soprattutto, a differenza dei Farisei, l'uomo di Nazaret non regolamenta nulla. Egli afferma un dato di fatto: il sabato deve servire alla vita, prima di tutto. Ecco perché sceglie espressamente il sabato per guarire, non per eliminare la regola del riposo, ma per mostrare qual è la finalità di questo tempo che l'uomo deve «considerare come sacro».

La rivendicazione dell'uomo

Gesù ha reinterpretato il sesto comandamento [il quinto nella tradizione cattolica], quello dell'omicidio. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).

L'approfondimento è impressionante: l'interdizione dettata all'individuo di farsi giustizia da solo (tale è il senso del sesto comandamento) non riguarda più soltanto la vita dell'altro, ma il suo onore. Nessuno ignora ormai che gli insulti, anche banali, portano in sé la morte. La mancanza di rispetto diventa omicidio. Dipende da ciascuno di noi, e dal suo linguaggio, che l'altro sia, o cessi di essere, un uomo.

Anche in questo caso, l'interpretazione proposta da Gesù non è inedita nel suo tempo. Si possono leggere, dalla parte dei rabbini, espressioni che testimoniano quella stessa interiorizzazione del comandamento: «Colui che odia il suo prossimo, ecco, appartiene agli omicidi» (Derek Eretz 10).

Gesù sviluppa dunque una potenzialità che non era estranea al giudaismo. Però bisogna vedere che egli procede con un radicalismo ed una profondità inediti. Gesù in realtà non codifica i casi nei quali si applica o non si applica la proibizione di attentare alla vita degli altri. Dio affida alla responsabilità di ciascuno l'umanità e la vita degli altri, senza limiti né condizioni. Qualunque idea di regolamentazione è del resto portata al ridicolo dalla proposta ironica delle sanzioni (meritare l'inferno per aver dato del pazzo a qualcuno!).

Il teologo ebreo Joseph Klausner, nella sua Vita di Gesù del 1933, rimprovererà all'uomo di Nazaret la sua intransigenza: egli l'oppone alla saggezza realistica del grande Hillel, un rabbi contemporaneo di Gesù. Klausner aveva colto bene ciò che costituisce l'originalità del suo Decalogo: Gesù vede l'uomo interamente esposto alla chiamata di Dio, interamente rivendicato dalla Legge. Tutto in lui è chiamato a rispondere. È questo il motivo per cui Gesù si scosta dal realismo di Hillel e dal realismo dei Farisei, che, attraverso una rete di precetti, procuravano al credente spazi di eccezione. L'amore per l'altro è completo, secondo Gesù, oppure non c'è per niente.

Gesù non si comporta diversamente nella questione del corban. L'evangelista Marco ci riporta questa diatriba del Maestro a proposito di questa pratica pia... e perversa (Mc 7,9-13). Essa consisteva nel fare donazione al Tempio, in altri termini a dichiarare corban, dei beni che avrebbero permesso ai figli di sovvenzionare i bisogni dei loro anziani genitori.

L'argomentazione di Gesù è interessante: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre». È quindi la quinta parola del Decalogo, nella sua pura forza, che il Nazareno invoca come istanza critica e che oppone alla pia tradizione del corban. Noi ritroviamo due assiomi già intravisti nell'interpretazione di Gesù. In primo luogo, la parola del precetto è accolta senza condizioni, senza limiti, senza riparo possibile, nemmeno nascosto sotto forma di pietà. In secondo luogo, il principio che conferisce al comando la sua radicalità e demolisce ogni compromesso è l'amore del prossimo. Il bisogno dell'altro è, agli occhi di Gesù, un'urgenza assoluta. La Legge mira a condurre all'amore dell'altro, oppure non è la Legge.

Una Legge ricostituita

I Dieci comandamenti sono dunque accolti da Gesù come la raccolta della volontà santa di Dio. Egli non li contraddirà mai, ma pone le condizioni di una corretta comprensione. La sua rilettura attesta una particolare attenzione a quella che viene chiamata la seconda tavola del Decalogo (i precetti sociali) come la regola del sabato. Ma giustamente: Dio non può essere onorato nel sabato se il prossimo è lasciato nelle sue ristrettezze. Onorare Dio consiste nel prendere cura dell'altro, e questa cura può (ed anche deve) giungere al punto di rompere il riposo sabbatico. Si vede emergere il legame indissociabile che, nella lettura del decalogo, Gesù tesse tra rispetto di Dio e rispetto del prossimo. L'uno non conta senza l'altro, cosa che sarà formalizzata nel riassunto della Torà come il doppio comandamento d’amore (Mt 22,37-40). Il Decalogo diventa così la leva che permette a Gesù di sollevare tutta la Legge: ciò che non è finalizzato al bene dell'altro può cadere. Non serve che ad aumentare l'immagine che il credente si fa di se stesso. Ecco perché Gesù, senza abolirla, manifesta una regale (e sbalorditiva) indifferenza verso la Legge rituale, che codificava la salvaguardia della purezza del singolo. La vera purezza personale, avrebbe potuto dire, è l'onore reso all'altro: la formula potrebbe in ogni caso servire di conclusione al capitolo 7 del vangelo di Marco, in cui egli dibatte con i Farisei sul concetto di ciò che è puro.

Lettere di fuoco

Il solo passo dei vangeli in cui sono citate parecchie parole del Decalogo, anche se non in ordine, è l'incontro con il giovane ricco (Mc 10,17-22). All'uomo che domanda che cosa bisogna fare per guadagnare la vita eterna, Gesù cita le ultime cinque parole. Come costui afferma che le ha osservate fu dalla giovinezza, Gesù lo ama e gli dice di vendere tutti i suoi beni e darli ai poveri: «e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Si vede indicare qui quello che è sempre stato il fulcro delle Dieci parole: un testo che organizza la libertà e che invita a vivere nell'alleanza. Gesù indica a quest'uomo lo spazio della libertà da conquistare: i suoi beni. Gli è indicato anche il luogo per vivere l'alleanza: seguire il nuovo Mosè che ha voluto restituire alle Dieci parole il loro fuoco.

* Professore di Nuovo Testamento, Facoltà di Teologia, Università di Losanna.

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

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I cristiani dopo l'incendio del tempio
di Jean-Pierre Lémonon

L’incendio del Tempio conduce il giudaismo ad una nuova avventura. Deve ormai vivere senza Tempio. La comunità cristiana si trova allora di fronte a un ebraismo che ridefinisce la sua essenza e le sue caratteristiche. Per comprendere le ripercussioni degli avvenimenti del 70 e del 135 su questa comunità, è necessario ripercorrere la storia di una corrente cristiana che, a causa del suo profondo attaccamento alle pratiche ebraiche, scomparve a poco a poco. Questa sensibilità conobbe forme diverse poiché i Padri della Chiesa ricordano a questo proposito due gruppi: i nazirei e gli ebioniti.

Per essere in grado di precisare l' eco avvenimenti del 70 e del 135 comunità cristiana, che si tratti di nazirei-ebioniti o di altre denominazioni cristiane, dobbiamo ricordare in primo luogo le testimonianze di alcuni Padri a proposito di queste due comunità di fede. Poi, al fine di identificare le radici di questi gruppi, dovremo risalire ai primordi del cristianesimo.

Ricostituire la storia del pensiero dei nazirei e degli ebioniti è difficile, poiché non disponiamo di documentazione diretta su questa componente del cristianesimo primitivo. La nostra conoscenza proviene dai Padri della Chiesa che, combattendola vigorosamente, hanno conservato qualche frammento della loro produzione letteraria, come ad esempio il Vangelo secondo gli Ebrei. I Padri sono loro ostili, poiché questi credenti rappresentavano una forma di cristianesimo diversa da quella a cui essi aderivano.

Agli inizi del V secolo, Girolamo è uno degli ultimi testimoni dell' esistenza dei nazirei. Pur riconoscendo la rettitudine della loro confessione di fede, l' eremita di Betlemme rimprovera loro di voler «essere sia ebrei, sia cristiani, [quindi] non sono ne uno, ne l'altro». L'attaccamento alle pratiche ebraiche provoca la virulenta ostilità di alcuni Padri nei confronti degli ebioniti e dei nazirei. Verso il 375, l'infaticabile cacciatore di eresie Epifanio di Salamina scrive su di loro: «La loro origine [degli ebioniti] risale ai tempi che seguirono la presa di Gerusalemme. In effetti, come tutti quelli che avevano creduto in Cristo si erano insediati in quel tempo in Perea, per la maggior parte in una città chiamata Pella, [...] una volta che furono emigrati là e che vi soggiornarono, Ebione colse l'occasione [per insegnare la sua dottrina]. Cominciò con l'abitare Kokabe [...] nella Basanitide [...l. Fu là che cominciò il suo vizioso insegnamento; di lì, a quanto sembra, vennero pure i nazirei, di cui ho parlato sopra». Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica, uno straordinario scrigno della memoria cristiana, conobbe diversi tipi di ebioniti; ma quali fossero le loro convinzioni religiose, le loro pratiche erano da biasimare, perchè sia gli uni che gli altri mettono «tutto il loro zelo a compiere con cura le prescrizioni carnali della Legge» (HE III, 27,3). Eusebio ironizza sul loro nome: «Essi hanno ricevuto il nome di ebioniti, il che mette in rilievo la povertà della loro intelligenza: perchè quello è il termine con cui gli Ebrei indicano i poveri» (HE III, 27,6). La storia della Chiesa antica ricorda il loro attaccamento al Vangelo secondo gli Ebrei e il loro rifiuto delle lettere di Paolo, il nemico per eccellenza di questi gruppi.

Secondo Epifanio ed Eusebio nessuno di questi gruppi si merita il nome di cristiano, perchè, nel migliore dei casi, pur riconoscendo la nascita del Cristo da una vergine, non ammettevano la sua preesistenza. Il loro giudizio era dunque diverso da quello di Girolamo. Di fatto la fedeltà di questi gruppi alle pratiche del giudaismo suscita il corruccio dei Padri. Quindi, se continuiamo a risalire verso i primi secoli cristiani, percepiamo che il rimprovero indirizzato a questi uomini e donne concerne le loro prati - che giudaiche; in compenso, la loro confessione di fede è conforme alla fede comune secondo Origene

(185 - dopo il 251) o Giustino (100 - 165). Effettivamente i Padri si scagliano contro gruppi che praticano i costumi ebraici, pur essendo, al meno in origine, profondamente attaccati a Gesù di Nazaret il Cristo di Dio, colui che nacque da una vergine, che giudicherà il mondo e che ha ricevuto la regalità eterna (secondo i termini di Giustino).

La comunità dei discepoli di Gesù

Come abbiamo letto prima, Epifanio collega la nascita degli ebioniti e dei nazirei alla caduta di Gerusalemme e alI'insediamento di gruppi di discepoli di Gesù a Pella, città della Decapoli. Egli si appoggia ad un' informazione di Eusebio; in effetti, secondo la storia della Chiesa, dagli inizi della guerra giudaica, grazie ad un ordine ricevuto attraverso «una profezia trasmessa per rivelazione ai notabili della zona», la comunità dei discepoli di Gerusalemme o, almeno una parte di questa, sarebbe fuggita da Gerusalemme verso questa città: «I fedeli di Cristo si spostarono a Pella, dopo essere usciti da Gerusalemme in modo che gli uomini santi abbandonassero completamente la metropoli reale degli Ebrei e tutta la regione della Giudea» (HE III, 5,3). L'abbandono fu meno radicale di quello preteso da Eusebio, almeno un ritorno a Gerusalemme avvenne negli anni che seguirono.

Alcune indicazioni del Nuovo Testamento confermano i legami intessuti tra i gruppi denunciati dai Padri e la comunità di Gerusalemme, o almeno la sua frazione più importante. Malgrado lo sforzo unitario che ha condotto a qualche semplificazione, il libro degli Atti non elimina completamente le tensioni che si manifestano dall'origine all'interno della comunità di Gerusalemme, dove si affrontano Ebrei ed Ellenisti (At 6,1). A Gerusalemme le autorità giudaiche perseguitano gli Ellenisti: questo porta alla loro dispersione e alla proclamazione del Vangelo alle nazioni (At 8, 5.26 – 40 ; 11,20). In compenso, a causa del loro attaccamento ai costumi giudaici, gli Ebrei poterono dimorare a Gerusalemme almeno fino alla guerra giudaica. Essi costituirono la matrice della Chiesa di Gerusalemme. Tra loro si trovavano gli avversari più accaniti delle concezioni paoline (At 15,1-2.5). Quindi, Paolo non esita a trattare da «falsi fratelli» (GaI 2,3) quelli che avrebbero voluto circoncidere i pagani e così chiudere la «porta della fede» alle nazioni.

Due racconti riecheggiano l' assemblea che, nel 51, seguì il ritorno di Paolo a Gerusalemme, in seguito alla sua missione in Macedonia e in Acaia. L'Apostolo ebbe la fortuna di vedervi riconosciuta la grazia che gli era stata fatta di annunciare il Vangelo presso le nazioni (GaI 2, 3 - 4). La versione degli Atti degli Apostoli (At 15, 5 - 21) differisce su numerosi punti da quella della lettera ai Galati, comunque i due racconti sono in pieno accordo sul risultato decisivo per l'avvenire della comunità cristiana: non vi era l' obbligo di imporre la circoncisione ai discepoli che venivano dalle nazioni.

Malgrado la vittoria di Paolo, i discepoli attaccati alle usanze ebraiche non disparvero per questo. Alcuni che, a torto, si misero sotto il patronato di Giacomo, il fratello del Signore, non si consideravano ancora battuti; saranno ancora fonte di numerose preoccupazioni per Paolo, come indica specialmente l' incidente di Antiochia (GaI 2, 11 - 14) e la situazione in Galazia. I Galati avevano accolto con gioia il Vangelo, ma alcune persone, che si richiamavano ovviamente a Giacomo, cercarono in seguito di imporre la circoncisione ai discepoli. Gli avversari di Paolo attribuivano un valore salvifico alle pratiche ebraiche. Questi discepoli di Gerusalemme condussero missioni nella Diaspora, in particolare in Mesopotamia e in Egitto. Pur confessando Gesù come Messia di Israele e Signore, essi predicavano la circoncisione e il complesso delle pratiche ebraiche. Per questa corrente l'incendio del Tempio ebbe conseguenze notevoli, perchè la distruzione contribuì a ridurre la sua influenza in seno al cristianesimo primitivo. Ormai questi discepoli di Gesù si trovavano in una situazione difficile. In effetti, non soltanto erano destabilizzati dalla fine di un ebraismo eterogeneo, ma si trovavano anche presi in mezzo tra un giudaismo che si stava unificando ed un cristianesimo che, pur abbeverandosi alle Scritture di Israele, fioriva rifiutando le pratiche tradizionali ebraiche.

È quindi sorprendente constatare che il canone neotestamentario taccia sull' evangelizzazione delle regioni della Diaspora, le cui località sono al massimo ricordate nella tavola delle nazioni, citata nel racconto della Pentecoste (At 2, 9 - 10).

Scegliere tra la sinagoga e la comunità cristiana

Nel 62, dopo il martirio di Giacomo, fratello del Signore, il nuovo responsabile della comunità è Simeone, figlio di Clopas, un parente del Signore (HE III, 11). La caduta di Gerusalemme non segna la fine di ogni insediamento dei discepoli di Gesù nella città. In effetti, secondo Eusebio, fino al 130, si scelse come vescovo di Gerusalemme un Ebreo di antico ceppo; la scelta non è per nulla sorprendente poiché «l' intera Chiesa di Gerusalemme era allora composta da Ebrei fedeli: fu così dagli apostoli fino all'assedio che subirono quelli che vivevano in quel tempo, durante il quale i Giudei si separarono di nuovo dai Romani e furono distrutti in guerre terribili» (HE IV, 5,2).

Verso la fine del I secolo, i «maestri della Sinagoga» proposero di applicare ai discepoli di Gesù la dodicesima benedizione che, dagli anni 150 a.C. era, con qualche variante, utilizzata per impedire agli eretici e a tutti quelli che si allontanavano dalla tradizione di Israele di partecipare alle riunioni comunitarie. Così le autorità della sinagoga rendevano impossibile la partecipazione dei discepoli di Gesù alle attività della comunità giudaica. Da parte sua, la tradizione giovannea è una buona testimonianza della polemica diretta contro i discepoli attaccati ai costumi ebraici.

Questi ultimi sono simboleggiati dai fratelli di Gesù che non credono in lui (Gv 7,5) e dagli Ebrei che avevano creduto, ma che comunque non ispiravano fiducia a Gesù (Gv 2,23-25; 8,31-59). In più il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato intima a questi discepoli di scegliere il loro campo: essi sono rappresentati dai parenti del cieco che conoscono la verità, ma temono di essere esclusi dalla sinagoga (Gv 9,22).

In seguito alla rivolta di Bar Kokhba nel 135, l'imperatore vieta agli Ebrei «di avvicinarsi anche ai dintorni di Gerusalemme [...]. Così la città [di Gerusalemme] fu ridotta ad essere completamente abbandonata dal popolo giudaico e a perdere quelli che l' avevano un tempo abitata» (HE IV, 6,4). La decisione dell'imperatore ebbe conseguenze nefaste per i discepoli di Gerusalemme e i loro seguaci rimasti attaccati alla città e alle pratiche del giudaismo. Privati del legame con la terra di Israele, questi discepoli videro accentuarsi la loro marginalizzazione. Si indebolirono talmente che furono considerati come stranieri da quelli che, ormai, venivano chiamati «cristiani». Restare attaccati alla sinagoga e confessare Gesù come «Cristo e Signore, il Figlio», non era ormai più possibile, ne dal punto di vista dei cristiani, ne da quello degli Ebrei. Come gli Ebrei, non avevano più uno statuto

E quelli chiamati «cristiani»?

Per i cristiani che avevano accettato la rottura con le pratiche ebraiche la presa di Gerusalemme non fu di capitale importanza. Si rimane spesso sorpresi che la caduta di Gerusalemme non abbia avuto risonanza nei Vangeli. Nondimeno le tracce della presa della città si possono leggere in qualche racconto di Matteo e di Luca (M t 22,7; Lc 19,43; 21,21-24). La distruzione del Tempio è così acquisita quando Matteo redige la comparsa di Gesù davanti alle autorità deI suo popolo (M t 26,61; 27,40), così come quando Luca riporta, nel libro degli Atti, le accuse portate contro Stefano dai suoi avversari (At 6,14).

Lo scarso numero di menzioni non deve sorprendere; il Tempio non era più da molto tempo al centro deI pensiero cristiano. Ormai per le comunità di tradizione giovannea, il vero santuario è lo stesso Signore Gesù Cristo (Gv 2,21). Le comunità paoline, poi, si considerano come il santuario (I Cor 3,16-17; 2 Cor 6,16).

I primi secoli cristiani, da parte loro, interpretarono la caduta di Gerusalemme come conforme alle predizioni di Cristo e vi riconobbero la sanzione deI comportamento dei suoi abitanti: «Tale fu il castigo degli Ebrei a causa della loro iniquità e della loro empietà nei confronti deI Cristo di Dio» (HE III,7,1).

Questa interpretazione, come ognuno sa, contribuì, ahimé, ad una disistima deI giudaismo da parte dei cristiani.

(da Il mondo della bibbia)

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Sabato, 01 Aprile 2006 22:03

Apocalisse (Claudio Doglio)

Apocalisse
di Claudio Doglio

La parola «Apocalisse» è la trascrizione italiana del sostantivo greco apokálypsis, che compare all'inizio dell'ultimo libro neotestamentario e ne è divenuto il titolo tradizionale. Questo sostantivo deriva dal verbo greco che significa «azione del togliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l'azione di chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto.

Nella lingua greca classica il sostantivo non compare; si usa il verbo corrispondente, ma sempre con valore esclusivamente umano. Nella versione dei LXX, dato l'uso linguistico greco, il vocabolo apokálypsis è rarissimo (4x).

Nel NT la parola «apocalisse», tradotta abitualmente con «rivelazione», ritorna 17 volte in contesti differenti e con sfumature di significato, che possiamo raccogliere in tre ambiti. Un primo gruppo di citazioni riflette un ambiente liturgico ed eucologico: apocalisse indica la manifestazione di una verità, la comunicazione di un messaggio illuminante che permette di conoscere il progetto eterno di Dio (Lc 2,32; Rom 16,25; 1Cor 14,6.26; Ef 1, 17). Nelle lettere di Paolo, però, lo stesso termine ritorna con una accezione diversa e viene ad indicare una esperienza straordinaria e mistica (Gal 1,12; 2,2; Ef 3,3; 2Cor 12,1.7). Infine, un terzo significato è quello che si è imposto nel tempo, assumendo il valore di manifestazione escatologica, sinonimo di parusia o di compimento finale del piano divino (Rom 2,5; 8,19; 1Cor 1,7; 2Ts 1,7; 1Pt 1,7.13; 4,13).

Nell'uso moderno «Apocalisse» è divenuto un termine tecnico, insieme all'aggettivo derivato «apocalittico», per indicare un particolare genere letterario, una mentalità religiosa e un vasto insieme di testi canonici e apocrifi. Ma nel linguaggio corrente, giornalistico o cinematografico, la parola apocalisse, con significato distorto ed erroneo, ha finito per indicare cataclisma, enorme disastro e fine del mondo.

(da Parole di vita, 1, 2000)

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Martedì, 28 Marzo 2006 01:55

Introduzione

Introduzione alla storia della salvezza



1. Il posto del corso nel piano degli studi teologici

La teologia dogmatica dell’ultimo cinquantennio ha subìto un profondo mutamento: è passata dal sistema positivo-scolastico, saldamente sostenuto dalla filosofia aristotelico-tomista e basato sul concetto aristotelico di “scienza”, ad una considerazione più attenta della storia della salvezza come trama del sistema teologico. Per S. Tommaso l’oggetto formale della teologia è «Dio sotto l’aspetto della sua deità».

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Dio prende l'iniziativa di far uscire - esodo - Abramo dal suo passato - terra, patria, casa - gli promette un nuovo futuro: terra, discendenza e benedizione estesa a tutti i popoli.

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I Salmi come libro:
introduzione a una lettura continua del Salterio
di Tiziano Lorenzin

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l'obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura. Proprio la moderna ricerca sui generi letterari, che ha molto contribuito alla comprensione dei salmi, ce li ha resi ancora più estranei. Gli studi di due grandi esegeti del secolo scorso, H. Gunkel (1862-1932) e S. Mowinckel (1884-1965), hanno permesso di stabilire la provenienza liturgica di molti salmi; ma era un altro culto, non il nostro.

E la classificazione dei salmi secondo il tipo (lamentazione, supplica, inno, salmo di ringraziamento, salmo sapienziale) ha rischiato spesso di mettere su uno stesso calderone tante preghiere, facendone perdere i colori originali. Gli studiosi erano più interessati al momento primitivo della produzione del testo e a ciò che lo rendeva simile ad altri testi sorti nella stessa situazione liturgica; molto meno al testo che abbiamo noi oggi, spesso considerato frutto di rimaneggiamenti peggiorativi.

Agli inizi degli anni Ottanta con i commentari di G. Ravasi e di L. Alonso Schokel si incominciò a tenere più in considerazione l'originalità poetica e teologica del singolo salmo. Il libro dei Salmi, tuttavia, era ancora considerato come un'antologia di poesie, una specie di archivio di testi senza alcun ordine oppure un cesto stupendo di frutti, salutari e nutrienti, da gustarsi però singolarmente. E questo tipo di considerazione sembra abbia influenzato anche il modo in cui sono distribuiti i salmi nell'attuale Liturgia delle Ore: salmi di supplica e di lode al mattino, di supplica e di rendimento di grazie la sera, salmi della torà nell' ora media.

Tuttavia, già nel 1972 in Italia si era levata una voce controcorrente, quella di D. Barsotti. Egli scriveva:

Per vivere i salmi come nostra preghiera s'impone prima di tutto che noi consideriamo il Salterio nella sua unità. [ ...] La prima cosa che s' impone per chi vuole affrontare il libro dei salmi, è rendersi conto che il Signore ha voluto che si presentasse a noi questo libro in una certa sua unità, che ci sfugge molto spesso, ma dà a noi la chiave migliore per l'interpretazione religiosa del Salterio.

Barsotti confessa candidamente di aver capito ben poco dei salmi, finche nell'introduzione al Salterio di Chouraqui non trovò questa proposta di una lettura unitaria e progressiva del libro dei Salmi.

È evidente che, se l'ordine dei salmi nel Salterio non è puramente casuale, ma è stabilito da un'intenzione precisa, allora è possibile che nei nostri studi abbiamo perso qualcosa. Da più di una decina d'anni cresce sempre più il numero di esegeti convinti che «il più antico commento al senso dei salmi è la maniera stessa del loro arrangiamento nel Salterio» (M.D. Goulder). Si prende, cioè, sempre più in considerazione il titolo tradizionale, che si ritrova già a Qumran nella seconda metà del sec. I a.C.: sefer tehillîm, «libro dei salmi», ma anche nel Nuovo Testamento (biblos psalmõn: Lc 20,42; At 1,20). Il libro, con tutti i suoi elementi canonici, è così un orizzonte verso il quale guarda oggi l'interprete, con la convinzione che nell'assemblaggio finale ciascun salmo è divenuto l' elemento di un tutto, da cui esso riceve senso e a cui pure dona senso.

Il Salterio: il «libro dei canti» del secondo tempio?

Davanti al Salterio ci si potrebbe perciò domandare se noi abbiamo veramente in mano il «libro dei canti» in uso nelle liturgie del secondo tempio di Gerusalemme, come pensava la maggioranza degli esegeti del secolo scorso dopo Mowinckel. L'uso dei salmi al tempo di Gesù e nel cristianesimo primitivo sembra invece affermare il contrario. Sembra certo, infatti, che il Salterio in quel tempo non avesse alcun grosso ruolo liturgico. Alcuni salmi erano adoperati nel tempio all' infuori delle grandi cerimonie: questo è tutto. E il Salterio non era neppure il «libro dei canti» della sinagoga. Anche quei pochi salmi che un tempo erano usati nel tempio non furono accettati subito dalla sinagoga (G. Stemberger).

Tuttavia, il Salterio a Qumran, negli scritti del Nuovo Testamento e nelle testimonianze del giudaismo ellenistico, era il libro dell' Antico Testamento più conosciuto e più usato, più amato e più citato (N. Flueglister). La spiegazione più probabile potrebbe essere che il rotolo dei salmi fosse diventato quella torà che i fedeli del Signore - i poveri che non potevano entrare in possesso del grande rotolo del Pentateuco - meditavano «giorno e notte» come si dice nelle prime righe del Salterio (Sal 1,2). L'ambiente dove i salmi veni- vano recitati e cantati sembra essere stato piuttosto le haburot, fraternità di vita dei rabbini e dei loro scolari, e soprattutto la famiglia. Questo appare dal testo di 4 Maccabei, sorto nel I sec. d.C., dove i sette fratelli così dicono al loro padre:

Quando egli era ancora presso di noi si preoccupava di insegnare la legge e i profeti... Egli cantava anche gli inni di Davide, che dice: «Molte sono le tribolazioni del giusto (Sal 34,20), (4Mac 18,10.15).

Il Salterio torà di Davide

Il libro dei Salmi, forse già dal tempo della redazione di Lc 24,44 ( «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mose, nei Profeti e nei Salmi» ), stava al vertice della terza parte del canone ebraico: gli Scritti. Era considerato, cioè, una Scrittura santa da meditare, per scoprire il piano di salvezza di Dio. Doveva essere letto come si leggeva la seconda parte del canone: i Profeti, il cui primo libro, secondo gli ebrei, è Giosuè:

Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, perchè tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; perchè allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo (Gs 1,8).

Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche la comunità dei fedeli, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (D t 6,7; cf. Sal 1,1), non smarrirà la strada che porta alla vita. Il Salterio era considerato pertanto un rituale per una liturgia di santità da svolgersi nel grande tempio dell' esistenza concreta di ogni giorno.

Un ulteriore indizio per intendere il libro dei Salmi come torà - una Scrittura da meditare - è la divisione del Salterio in cinque libri come la torà di Mosè.

È una divisione che probabilmente appartiene alla fase finale della redazione. Secondo il midrash, «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri» (Midrash Tehillim al Sal 1,1 [III-IX sec. d.C.]).

Quattro formule dossologiche, che si richiamano a vicenda mediante la ripetizione di alcuni termini, indicano la conclusione dei primi quattro libri:

- Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;

- Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d'Israele, lui solo compie meraviglie.
E benedetto il suo nome glorioso per sempre
e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen!»;

- Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;

- Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d'Israele da sempre e per sempre!
E tutto il popolo dica: Amen».

Le quattro formule nella loro sequenza concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41 ), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante YHWH, il Dio dell' alleanza (Sal 106). Al complesso dei Sal 107-150 manca una formula dossologica, che corrisponda alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio.

Il Salterio, una torà fatta preghiera

Anche le soprascritte che precedono molti salmi, pur essendo tardive e non canoniche, rappresentano un' importante riflessione su come i salmi - in quanto collezione di Scrittura sacra - erano compresi già prima di Cristo. Queste soprascritte rappresentano in effetti l'esegesi più antica atte stata di alcuni salmi. Di particolare importanza è l'espressione spesso ripetuta: «Salmo di Davide», che aiuta a meditare e pregare il salmo con il cuore e la bocca del «soave cantore d'lsraele» (2Sam 23,1), il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che l'aveva creato» (Sir 47,8). Soprattutto alcune soprascritte, che richiamano eventi della vita di Davide, invitano il lettore a rivivere gli stessi sentimenti che furono nel cuore dell' antico re di Israele: paura, coraggio, amore, lamento, invocazione, lode e ringraziamento.

Il Davide con cui il pio fedele si deve identificare è il «servo del Signore», il sofferente esemplare, che anche da peccatore a motivo della sua preghiera è salvato dal suo Dio da tutte le sue difficoltà. Di fronte ai conflitti, alle crisi e vittorie della vita, il Salterio offriva ai suoi lettori un modello di una risposta personale al Signore.

Anche questo fenomeno di davidizzazione del Salterio è un indizio che la collezione dei salmi ha perduto la sua funzione liturgica originale e ora ha un nuovo ruolo, quello di sacra Scrittura sulla quale i figli di Israele meditano in preghiera.

È una torà fatta preghiera.

Posizione strategica dei salmi regali

Gli studiosi, poi, hanno notato che ci sono alcuni salmi che sono messi intenzionalmente nei punti strategici del Salterio e costituiscono delle specie di sutura tra varie collezioni già esistenti. Questi sono alcuni salmi regali. La distribuzione dei salmi regali alI' interno del Salterio sembra corrispondere infatti a un principio deliberato di organizzazione dell'insieme del libro:

- il Sal 2 introduce la raccolta: introduce l'idea dell'alleanza davidica;

- il Sal 41 davidico, che alcuni commentatori classificano tra i salmi regali, conclude
il primo libro: riprende la suddetta promessa; Davide parla infatti della protezione
del Signore;

- il Sal 72 conclude il secondo libro: con le richieste in favore del figlio del re
potrebbe rappresentare la preghiera di Davide per suo figlio Salomone in vista
della sua accessione al trono;

- il Sal 89, anch'esso regale, conclude il terzo libro: in esso si popone una nuova
prospettiva: si ricorda l' alleanza davidica, ma essa è fallita; da qui il grido
angosciato dei discendenti davidici. L'alleanza davidica introdotta nel Sal 2 è
sfociata nel nulla, e il Signore tarda. Ma fino a quando? Con questo appello
termina la prima parte del Salterio (libri I, Il, III).

La risposta si trova nel libro IV (Sal 90-106), al cui centro ci sono i salmi che celebrano la regalità del Signore. È vero - sembrano dire questi salmi - che non abbiamo più un re a Gerusalemme, ma il nostro Dio era re ancor prima di Davide, anzi ancor prima di Mosè, da sempre. Di che cosa abbiamo paura? Il nostro Signore tiene saldamente in mano le redini della storia.

Il Salterio, partitura poetica della vita

Facendo una «lectio continua» dei salmi, si è notato poi una tensione all' interno del Salterio. Nella loro composizione i salmi sono disposti in modo tale da formare un cammino di preghiera - o un procedimento di preghiera - , mediante il quale essi vogliono trasformare gli oranti. L'io che parla alla fine nel Sal 150, è un io diverso da quello all'inizio nel Sal 3.

Si è fatto corrispondere in modo suggestivo i diversi libri del Salterio ai diversi momenti di una giornata, che secondo il costume ebraico comincia con la sera o con la notte.

- Il primo libro (Sal 3-41) descrive la notte; il tono dominante è quello della supplica dell'innocente ingiustamente perseguitato.

- Il secondo libro (Sal 42- 72) descrive il mattino e introduce una nota di maggiore fiducia e un ardente desiderio di vedere Dio.

- Il terzo libro (Sal 73-89) descrive il mezzogiorno, in cui il tono dominante è quello del lamento per le grandi sciagure storiche del popolo ebraico, che però non uccidono mai la speranza in un futuro intervento di Dio.

- Il quarto libro (Sal 90-106) descrive invece la sera, in cui si incomincia a sperimentare la potenza del regno glorioso di Dio.

- Il quinto libro (Sal 107-150) descrive infine il nuovo mattino in cui sgorga dal cuore del popolo un rendimento di grazie e il canto di lode finale alla fedeltà di Dio (A. Chouraqui).

Altri - sempre riconoscendo il carattere redazionale e quindi non accidentale dei cinque libri del Salterio - tentano di rintracciare un percorso lineare di vita spirituale nella lettura continua e contestuale dei 150 salmi. A. Mello, per esempio, nel susseguirsi dei cinque libri riconosce delle preghiere, che, per il fatto di essere suggerite dallo Spirito, hanno la capacità di sostenere l'orante nelle varie fasi del suo cammino spirituale:

- la vocazione (primo libro);

- la giovinezza (secondo libro);

- la crisi (terzo libro);

- l'uscita dalla crisi o la percezione del regno (quarto libro);

- la maturità spirituale (quinto libro).

Alcuni autori, poi, si soffermano a domandarsi perché la tradizione ebraica

antica abbia chiamato tutti i 150 tehillîm «lodi», quando in realtà nella prima parte del Salterio fino al Sal 89 troviamo soprattutto una lunga serie di suppliche individuali e collettive, in cui è espressa tutta l'angoscia di uomini e di donne avvolti nelle tenebre del dubbio, del pericolo, dell'oppressione, della morte e della lontananza di Dio. In una lettura contestuale, tuttavia, questi salmi sono interpretati come grida nella notte, che svegliano l' aurora, da cui sorgerà il Sole di giustizia. E di fatto, dal quarto al quinto libro il tono cambia, fino a trasformarsi nella lode di ogni uomo e donna, anzi, di ogni creatura che respira, nel fortissimo del salmo finale. Questa disposizione dei salmi non è certo casuale. L'editore voleva suggerire alla sua comunità di poveri e perseguitati il vero senso e scopo della vita: la lode al proprio signore.

Evidentemente può lodare il Signore chi ha gli occhi del cuore per riconoscere nella storia della propria esistenza, in quella della comunità e in quella del mondo, le orme dell'agire amoroso di Dio. Questi occhi del cuore possono sbocciare e essere continuamente rischiarati meditando, o meglio, sussurrando notte e giorno uno dopo l'altro i salmi imparati a memoria, come suggerisce il Sal 1 nell'introduzione al Salterio.

Alcune tecniche di collegamento tra i salmi

È una meditazione favorita da alcune importanti relazioni linguistiche e tematiche esistenti tra salmi immediatamente successivi: richiami non casuali, ma intesi dai redattori. Mentre l' orante o lettore passa di salmo in salmo, può cogliere un intreccio di particolarità significative tipiche di un testo unitario. Il pensiero semitico, infatti, rifugge dal cambiamento improvviso della situazione, preferendo superare uno iato con collegamenti di contenuto e di forma con il testo vicino. Questo procedimento ha come effetto di creare una continuità tra i salmi, che non sono più da leggersi come una successione di pezzi eterogenei, ma come lo sviluppo di una preghiera o lo sviluppo di un dramma. Le parole di un salmo risuonano come in un'eco nel seguente e si crea così l'impressione che sia la stessa voce a esprimersi lungo tutti i salmi. Colui che dice nel Sal 3,2: «Signore, quanti sono i miei oppressori», è lo stesso che dice: «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia» (Sal 4,2), «Porgi l'orecchio, Signore, alle mie parole» (Sal 5,2), «Pietà di me, Signore: vengo meno» (Sal 5,3), e così di seguito.

Può darsi che questa somiglianza di parole o di motivi fosse stata per i redattori un buon motivo per mettere i salmi uno dopo l'altro (iuxtapositio). Ma può anche darsi il caso che questa concatenazione di parole e di motivi ( concatenatio ) sia dovuta alI' opera stessa dei redattori, che hanno composto o riscritto i salmi proprio perchè avessero la posizione in cui si trovano ora nel Salterio. Questi richiami si trovano di solito alla fine dei salmi e ai loro inizi.

Faccio un esempio. Il Sal 7 conclude con la promessa di lode: «Loderò il signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio, l' Altissimo» (v. 18). Il Sal 8 viene recitato come proseguimento di questa lode, come sottolinea il suo inizio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (v. 2). Questa frase termina pure il Sal 8, preparando la promessa di lode finale del Sal 9,2-3: «Loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le tue meraviglie. Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo». In questo modo, mediante la concatenazione attraverso la ripetizione del temine chiave «nome» nei tre salmi, il Sal 8 è espressamente considerato un inno di lode del perseguitato (Sal 7) e del povero (Sal 9), che nonostante le loro tribolazioni conservano in se stessi la «vera immagine di Dio» (cf Sal 8,6-9).

Un esempio di giustapposizione può essere il collegamento tra i Sal 1, 2 e 3: il Messia che spezza le nazioni con scettro di ferro e le frantuma come vasi d'argilla in Sal 2,9 è in realtà un sapiente che realizzerà tutto questo con le sole armi della saggezza (Sal 1), e questa sarà la sapienza della croce, in quanto vincerà le genti mettendosi alloro servizio come un servo del Signore (Sal 3).

A volte, poi, due salmi successivi sono strutturalmente e linguisticamente così simili, da essere giustamente chiamati «salmi gemelli». Un esempio chiaro sono i due salmi alfabetici 111 e 112.

Altre volte, più salmi sono messi uno dopo l'altro secondo uno schema liturgico o di genere letterario, in modo che la loro sequenza porti un messaggio teologico. Ad esempio, i tre Sal 90, 91, 92 guadagnano a essere letti senza discontinuità, perchè sono organizzati secondo la sequenza: supplica - oracolo di salvezza - azione di grazie (i tre elementi del genere letterario della supplica). Il lamento sulla brevità della vita umana (Sal 90,3-12), che è «come l'erba» (vv. 5-6), e la domanda dei servi di YHWH, di essere «saziati» da lui (vv. 13-17), non restano senza risposta. A chi si aggrappa a lui, Dio promette di «saziarlo di lunghi giorni e di manifestargli la sua salvezza» (Sal 91,16). Il Sal 92, poi, spiega che questo uomo è simile a una palma (sempre verde) e al cedro (simbolo di longevità), che «nella vecchiaia portano ancora frutti» (vv. 13-15), mentre i malfattori sono come l'erba che viene falciata (v. 8). Questi tre salmi sviluppano un'antropologia teologica disposta su tre gradini: dal lamento davanti alla caducità dell'uomo (90,3-6), attraverso la confidenza nella protezione dell' Altissimo nel Sal 91, fino alla ringraziamento per il governo di Dio su empi e giusti (Sal 92).

Un altro esempio è l'unità di composizione parziale dei Sal 3-7: cinque salmi collegati tra loro da uno schema temporale, che li rende la preghiera per tutti i tempi. Il Sal 3 è una preghiera del mattino (v. 4), il Sal 4 una preghiera della sera (v. 9), il Sal 5 ancora una preghiera del mattino (v. 6), il Sal 6 una preghiera della notte (v. 7), il Sal 7 una preghiera del giorno (v. 12). La notte richiama la morte, la sofferenza, la paura del nemico, l'insonnia di una malattia. In ogni situazione, soprattutto in quelle difficili, il giusto trascorre il tempo in preghiera: è l'uomo fatto preghiera, come si diceva di Francesco di Assisi.

Conclusione. Con l'espressione programmatica: «Lettura continua del Salterio» s'intende dire che la nuova prospettiva della ricerca esegetica considera il libro dei Salmi non come un ripostiglio di testi singoli o un'antologia di poesie raccolte a caso, ma una composizione formata da raccolte successive di collezioni parziali, sorta con l'aiuto di specifiche tecniche di composizione e con un programma teologico particolare.

I redattori e gli editori hanno posto i singoli salmi uno dopo l'altro secondo determinati concetti, in modo che i singoli salmi in questo modo ricevessero un'ulteriore dimensione di significato e di importanza.

(da Parole di vita, 5, 2004)

Pubblicato in Bibbia

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