I Dossier

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Lezione Decima

L’economia salvifica nel culto d'Israele

 

 

Introduzione

La comunità d’Israele era talmente convinta dell’importanza del culto e della liturgia, in quanto espressione della vita di fede e del rapporto particolare di Dio con il suo popolo, da ritenere il servizio liturgico (abodah) come una delle tre cose su cui poggiare il mondo:

«Shimon il giusto, era uno degli ultimi membri della Grande Assemblea. Egli soleva affermare: su tre cose poggia il mondo: sulla Torah, sul servizio divino (abodah) e sulle opere di carità» (Mishnah, Pirqué abot, 2, ed A.A. Piattelli, Massime dei Padri, Roma, p. 10).

Dio prende l’iniziativa della salvezza. Ogni atto salvifico, che comporta un aspetto nuovo nella rivelazione, viene ad arricchire e consolidare il legame tra Dio e il suo popolo (alleanza), ed è registrato nella Parola.

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Giovedì, 03 Maggio 2007 02:20

Lezione nona. Il profetismo

Lezione Nona

IL PROFETISMO

 

 

Nel cammino della storia salvifica l’incontro del Dio vivente con l’umanità rappresentata da Israele, avviene mediante continue esperienze religiose tramite alcuni personaggi che svolgono dei ruoli particolari per tutto il corso di svolgimento dell’economia divina di salvezza.

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Lunedì, 02 Aprile 2007 00:48

La Passione nei quattro Vangeli


La Passione nei quattro Vangeli

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù.Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che

la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli,

la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21).  Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca. 

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce

la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca,

la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare

la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de

La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo. 

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare

la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

Michel Berder

Professore al Seminario interdiocesano di Vannes

E al SIET di Bretagne-Mayenne

Da “Il mondo della Bibbia” 32

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Mercoledì, 14 Marzo 2007 01:21

13. La regalità in Israele (Rinaldo Fabris)

Il testo attuale presenta l'origine della monarchia in Israele come direttamente derivata dall'iniziativa di Dio che ha visto l'afflizione di Israele e ha udito il loro grido.

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Sabato, 17 Febbraio 2007 01:25

La libertà, un frutto acerbo (Antonio Bonora)

La libertà, un frutto acerbo
di Antonio Bonora




La Bibbia non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita attraversata dal dolore e di vincerlo.

Il male/dolore nell’Antico Testamento non è tanto una imperfezione o un limite della creazione, ma è una conseguenza di una libera scelta umana.

Il dolore, la malattia sono l’esperienza umana del male; il male, d’altro canto, non è una “cosa” che semplicemente accade o sta davanti all’uomo, ma è l’emergenza di uno scarto o un ostacolo che si frappone tra l’originario desiderio di vivere e la sua realizzazione. E dunque solo a partire dalla dimensione dell’uomo come libertà, cioè come desiderio di vivere, che può essere pensato sensatamente il tema del male.

Il male/dolore diventa allora scandalo, problema, interrogativo sul senso stesso dell’esistenza. Non si tratta soltanto di chiedersi come superare, vincere o eliminare il male/dolore, ma piuttosto come passare dal non-senso al senso del vivere umano. Ma poiché il male/dolore non è una “cosa” o un ‘oggetto”, il problema del senso non riguarda il male/dolore in sé, bensì la relazione dell’uomo con il senso della sua vita, cioè con Dio. Non si tratta, dunque, di ”spiegare” il male/dolore, ancor meno di giustificarne la sensatezza, ma di trovare un senso per l’uomo che è aggredito e torturato dal male/dolore. Non si tratta di “capire” il male/dolore, ma di comprendere che senso ha l’esistenza umana attraversata e contrassegnata dal male/dolore.

Tentiamo quindi, con timore e tremore, di interrogare la parola di Dio su questo tema tanto grave e imbarazzante. Non andiamo alla ricerca di un farmaco che elimini il male/dolore dalla faccia della terra né speriamo di trovare una formula che bandisca il male/dolore, ma desideriamo scoprire un senso che ci aiuti a integrare e, nello stesso tempo, a esorcizzare il male/dolore nella nostra vita. Il cristiano dovrebbe caratterizzarsi per quel che Paolo chiama il «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10) o la capacità di «discernimento del bene e del male» (Eb 5,14). Il male/dolore comincia ad essere superato, non incute più angoscia quando il credente ne discerne il volto e non si lascia soggiogare dalla paura che rende schiavi. Togliere la maschera al male/dolore, guardarlo in faccia è già il primo passo per esorcizzarlo ritrovando non il vuoto, ma la figura vivente del Dio crocifisso.

Il male non possiede una propria realtà in senso vero. Anche la Bibbia professa, da un capo all’altro, la fede in Dio che chiama all’esistenza e conserva in vita ogni cosa come essenzialmente buona. Già dalla prima pagina biblica si canta la bellezza/bontà del creato su cui Dio stesso emette un giudizio: «E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono/bello» (Gen 1,31). La finitudine e creaturalità non è identificabile come male. La realtà è creata buona da Dio. E al culmine della sua libera attività creatrice, Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), come essere capace di apertura e di incontro con lui. Il senso della creazione si realizza soltanto quando appare l’uomo, libertà dialogante con Dio; altrimenti creare sarebbe un puro produrre, un fare qualcosa che serva da mezzo per un fine. L’uomo invece è creato per se stesso, per essere partner di Dio. Il comandamento di Dio (Gen 2,16-17), posto insieme con la creazione dell’uomo, fa capire che solo nella prospettiva dialogica dell’alleanza si attua il senso del mondo, precisamente attraverso l’uomo. L’essere-creato raggiunge perciò il suo senso nella dimensione della libertà umana: è perciò un essere Storico, aperto al dialogo con Dio ma anche dischiuso alla possibilità del male, cioè del rifiuto e della chiusura a Dio e ai fratelli.

Il racconto della caduta (Gen 3) illustra plasticamente come il male/dolore non sia derivato dall’azione creatrice di Dio, ma sia emanazione di una libertà creata. Il male, dolore non è una imperfezione o un limite della creazione, ma è conseguenza di una libera scelta umana.

In Dio non c’è la vita e la morte, il bene e il male, il si e il no, ma soltanto la vita, il bene, il sì. Soltanto Dio è veramente buono: «Gli disse Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio» (Mc 10,18). E nella sua bontà Dio dà «cose buone a quanti gliene fanno richiesta» (cfr. Mt 7,11). Egli è la luce che riscalda e fa vivere (cfr. Sap 7,27-30).

La fede di Giobbe

Non è, dunque, possibile parlare del male se non in modo indiretto, poiché propriamente soltanto il bene è comprensibile e, alla fine riconducibile al Creatore. Il male è assurdità, insensatezza, contraddizione. Potremo parlare del male come della “periferia” della realtà, che è bontà creata e salvezza. Stando alla Bibbia non dobbiamo perciò disgiungere il discorso sul male/dolore dalla rivelazione della bontà di Dio che vuole salvarci dal male/dolore per la vita eterna. Giobbe non è un trattato teorico sul problema del dolore e del male, ma è il dramma di un uomo in conflitto col suo Dio e immerso nel dolore.

Giobbe è un giusto che soffre ogni forma di dolore, fisico e spirituale. Il dolore lo isola in una crudele solitudine; anche Dio sembra averlo abbandonato e l’abbandono di Dio è ciò che lo fa soffrire di più. Le domande più angoscianti fluiscono dal cuore di Giobbe: perché Dio, giusto e buono, non interviene a favore del giusto sofferente? Perché Dio si comporta come nemico dell’uomo? Dov’è mai la santità di Dio, dal momento che egli sembra trattare innocenti e malvagi alla stessa maniera? Alla fine, la riuscita positiva del piano di Dio dimostra che anche la prova, per quanto oscura e dolorosa, era compresa in un piano d’amore divino. Giobbe vive la prova nella fede nuda: «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore» (1,21). La fede di Giobbe è un atto di abbandono fiducioso, filiale e obbediente, nelle mani di Dio: prefigurazione di Gesù Cristo e preludio alla fede cristiana dei martiri.

Il tunnel del dolore


L’amore di Dio per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che “dona” e “toglie” senza abbandonare mai e, alla fine, “ridà”. Nel gioco delle due libertà, divina e umana, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato e sconvolto dall’Avversario. La vittoria sul male/dolore è un atto finale d’amore libero di Dio, cui corrisponde un libero affidarsi dell’uomo al datore di ogni bene. Tutta la parte dei dialoghi di Giobbe con gli amici ha affrontato il male/dolore come un problema da risolvere in sede teoretica. Nella sua risposta (cc. 38-41) Dio lascia da parte i pressanti interrogativi affluiti sulle labbra di Giobbe. Egli prende per mano il suo servo Giobbe e gli fa percorrere il meraviglioso giardino dell’universo, ove si dispiegano armoniosamente la sua potenza e la sua sapienza, la sua fantasia e la sua delicata bontà. Dai misteri quotidiani della creazione Giobbe impara a riconoscere il suo posto, i suoi limiti, la sua ignoranza e la via per vivere felice. E impara che il senso della sofferenza è il mistero stesso di Dio, non si trova perciò in una soluzione dottrinale astratta né in una risposta emotiva o consolatoria.

Alla fine Giobbe non ha una definizione del male/dolore da proporre né una rigorosa argomentazione teorica da far valere, ma l’esperienza di un incontro personale con Dio: «Ora i miei occhi ti vedono» (42,5). L’alternativa che Giobbe pone, di fronte al male/dolore, è questa: o tutto è assurdo, compreso Dio, oppure tutto ha un senso nel mistero di un Dio buono, compreso il male/dolore. Giunto al termine della sua avventura spirituale, Giobbe comprende che il mondo è tanto cattivo e pieno di male che non può non esserci un Dio buono!

Il dramma sacro di Giobbe non risolve definitivamente, sul piano teorico, il problema del dolore, che resta una questione aperta. Ma questo libro biblico ci insegna che il problema del male/dolore è legato alla questione su Dio. E Giobbe, alla fine, si arrende non al male/dolore, ma a Dio. Proprio questa “resa” a Dio lo abilita a “resistere” ostinatamente al male/dolore.

Il male/dolore è mistero, anzi, spesso appare un enigma irrisolvibile e inintelligibile. Appare assurdità pura. L’Antico Testamento ha lottato intellettualmente per tentare di capire qualcosa del mistero del male/dolore: la teoria della retribuzione (i giusti sono felici, i malvagi sono infelici), la concezione del valore pedagogico del dolore, la protesta radicale contro il dolore innocente e contro l’immagine di un Dio che arbitrariamente e crudelmente è causa di male/dolore, la rassegnazione quasi fatalistica, la rinuncia ad ogni schema razionale e l’affidamento di sé al Dio nascosto, l’idea di un soffrire in rappresentanza e al servizio di altri, il dolore come solidarietà sono tutti modi con i quali l’AT ha affrontato lo scoglio resistente del male/dolore. Il credente ammette che Dio persegue progetti di salvezza anche attraverso il tunnel del dolore.

L’AT, dunque, non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/ dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita pure nel dolore e di vincere il male/dolore. Mai si rinuncia a vincere il dolore per la speranza nell’aldilà; mai ci si consegna senza resistenza al dolore fatale; mai ci si abbandona a un destino assurdo. La lotta contro il male/dolore è espressione sia del desiderio inestinguibile di vivere sia del rifiuto di qualsiasi giustificazione del male/dolore. Tutti i grandi eroi della storia del popolo israelitico hanno subito dolori, delusioni, persecuzioni, insuccessi, ma hanno sempre imitato il patriarca Giacobbe che ha lottato con Dio. Giacobbe esce cambiato e sofferente dalla lotta con Dio, ma ha vinto guadagnando il senso della sua vita.

Pubblicato in Bibbia

La legge di Dio

Quali sono i fondamenti biblici della legge morale?

(estratti)
di Paul Beauchamp

Paul Beauchamp, gesuita, è autore di un'opera esegetica senza confronti: D’une montagne à l’autre. La loi de Dieu. Andando felicemente al di là del semplice resoconto storico-critico dei testi, l’opera sollecita tutte le dimensioni umane e culturali in gioco nella Bibbia, con l'intento di trascinare il lettore «fino al fondo delle Scritture», quando vivere si confonde col credere e il comprendere. In questo libro, Paul Beauchamp riprende l’insegnamento della «Legge di Dio», da Mosè sul Sinai sino alla bassa collina di Galilea del Discorso della Montagna. Siamo invitati a rileggere il Decalogo alla luce delle stesse Scritture. Come distinguere il bene dal male? Come vivere insieme? Non è possibile nessuna morale senza memoria narrativa, quella dei peccati, del male commesso, delle ingiustizie, ma anche della speranza che la Legge stessa fa emergere di una mancanza sempre riproposta. In questa mancanza, inerente a ogni legge morale, Paul Beauchamp rivaluta la portata detta lettura che dei «dieci comandamenti» fa Gesù.


Gesù toglie dai propri comandamenti le clausole, pur provenienti dalla Torà, che temperano o ritardano il compimento del Decalogo e lo interpreta sulla base di esigenza che la sua lettera non farebbe supporre. Ai suoi occhi, gli inizi del male sono passibili delle stesse pene che la loro estrema conclusione, ed egli propone gesti così sproporzionati che si espone al rimprovero di proporre un'utopia, anzi un'utopia così eccessiva che rischia di non far neppure iniziare il cammino. Non dimentichiamolo: chiunque parla si assume un rischio. Rischio di essere preso alla lettera quando non dovrebbe, di vedere le sue parole stravolte, sfigurate dalle tendenze meno buone di coloro che le ascoltano, incamerate dallo spirito già ribelle alla maniera in cui gli uccelli si impadroniscono dei semi appena seminati (Mc 4,4.15). Gesù non sfugge a questo rischio. La parola di Gesù, come avviene, del resto, di ogni parola, non fa che affidarci allo Spirito.

Dove rifugiarsi davanti alle sue parole? Non abbiamo rifugi da proporre. Ma raccogliamo grazie a questi versetti di Matteo un raggio di luce: indipendentemente dalla fatica che fa inevitabilmente lo storico a ricostruire le parole di Gesù attraverso gli scritti evangelici che è impossibile immaginare che la violenza che si esprime in un tale discorso sia imputabile a qualcun altro che a Gesù stesso. L’acquisizione di questa conoscenza non è priva di costi. Detto questo, si possono ravvisare parecchie risposte. Conosciamo il rifiuto puro e semplice, fondato sia su una diagnosi di mancanza di realismo, sia sul timore di un sovvertimento o del fanatismo. Critica indubbiamente più grave: i richiami di Gesù perverrebbero ad una dismisura che orgogliosamente non terrebbe conto dei limiti umani.

Precetti, o «consigli»?

Si può anche tentare di minimizzare la pressione dei precetti. Riconosciamo almeno che si dovrebbe smettere di qualificare come «consigli» questi comandamenti di Gesù. San Paolo, sì, dà un «consiglio» (I Cor 7,25) che porta al volontario celibato. Egli lo distingue formalmente da un ordine del Signore (cf 7,10), perché non vi sono su questo punto nè ordini… e neppure consigli del Signore da trasmettere. Altrove Gesù valorizza la condizione degli «eunuchi a causa del Regno dei cieli» (Mt 19,12). Questa condizione si fonda su un richiamo, ed anche su un «dono» personale, e non su un suggerimento rivolto a tutti. Bisogna sottolineare che il Discorso della Montagna non lascia alcuno spazio a questo indirizzo. Non ne lascia neppure all'effettivo abbandono di tutti i beni a favore dei poveri, invito che va distinto da un'esigenza universale. Al contrario, Matteo 5 si rivolge ad ogni discepolo ed è accolto anche dalla cerchia più vasta della folla. In conclusione si tratta del destino di questa folla. Le solenni parole che concludono il Discorso e valgono per la totalità del suo contenuto non lasciano spazio ad alcun dubbio: costruire altrove che su queste parole significa esporsi ad una «grande rovina» quando verrà la prova. Ciò che viene dettato allo scopo di evitare di perire in una catastrofe tutt'altro che ipotetica, non potrebbe essere chiamato un consiglio. Si tratta al contrario di condizioni sine qua non per il compimento del Decalogo. Chi non vuole andare oltre, non porterà mai a termine.

Il celibato definitivo, l'abbandono di ogni proprietà (a favore non della comunità - che ne diverrebbe ricca - ma dei poveri) sono indirizzi che la tradizione della Chiesa ha chiamato «consigli», perché sono aperti, per chiamata e dono di Dio, soltanto ad individui che, se formano tra di loro un gruppo, non vi entrano che per libera scelta. Bisogna cogliere che, nel Discorso della Montagna, è in gioco ben altro. Le sue prescrizioni non formano un programma opzionale proposto alla generosità di individui distinti da una particolare vocazione. Esse si rivolgono ad un popolo.

In realtà, l'istanza che qui si esprime parla allo stesso livello di quella che enunciava la Torà. La modestia delle circostanze - una «montagna» sotto i cieli temperati della Galilea, una folla attirata da un profeta e che fa circolo attorno a qualche discepolo - non basta a far dimenticare il contesto del Sinai, che riuniva un popolo, perché questo quadro sinaitico, se è soltanto suggerito nello scenario, è pienamente nelle parole pronunciate da Gesù. Certamente l'intero Israele non è riunito attorno alla piccola montagna, ma soltanto il «sale della terra», cioè poca cosa, ma colui che parla prende le distanze dalle autorità riconosciute del popolo, per poco aggressivo che sia, il momento, il suo discorso. I suoi precetti non sono delle semplici garanzie supplementari per ottenere il Regno: «Non entrerete» (5,20) egli dice, se non le metterete in pratica.

Cosa più profonda è che mettere in discussione il regime matrimoniale e il regime penale, è colpire la società là dove essa si trova. Gesù non propone una migrazione interna, come quella degli Esseni di Qumrân, o, più vicino a noi, quella dei Mormoni. Egli presuppone al loro posto il Tempio e il suo altare, il sinedrio e gli altri tribunali (5,22-25.40). Gerusalemme rimane «la città del gran Re» (v. 35), i suoi discepoli sono supposti esservi a casa propria. Non si tratta di un modo di vivere considerato superiore ad altri, ma del «Regno dei Cieli». L'espressione «Io sono venuto» (5,17) non può significare altro che l'apertura di un momento decisivo della storia «Non può rimanere nascosta la città collocata sul monte»: se questa città, invece di assumere il ruolo di un semplice paragone, era la città che la legge di Gesù si apprestava a reggere, e che splenderà davanti a tutti i popoli come annunciavano i profeti, allora sarebbero confermati gli altri indizi. È un'intera società che deve vivere secondo la legge di Gesù, è ad essa che egli pensa «vedendo le folle» (5,1); sono queste stesse folle che, già attratte verso la parola per aver veduto quello che egli aveva operato presso i malati (4,23-25) ed ora «vivamente colpite dal suo insegnamento» (5,28), lo «seguono» (8,1).

Come vivere

(...) Il lettore del Discorso della Montagna, portato inconsciamente dal vocabolario e dalle immagini, si accorge subito di respirare all'aria aperta, davanti al ciclo, la terra, la montagna, in mezzo alla pioggia, ai torrenti, ai venti che si scatenano, oppure sotto il sole che «splende per i buoni e per i malvagi». Il tratto stilistico che maggiormente colpisce in questo testo è senza dubbio la sua capacità di richiamare tutto ciò che tocca il corpo, i corpi fisici, il corpo sociale, così come il mondo in cui questo corpo vive. Parla di erbe che crescono spontaneamente, cardi e rovi, ma anche di uva e di fichi. Parla degli animali, che appartengono a tutte le specie: temuti come il serpente e il lupo, disprezzati come i cani e i porci, poco augurabili come la tignola o il verme, apprezzati come il pesce, l'agnello, l'uccello.

Non siamo sempre in campagna: una città è visibile di lontano perché s'innalza sulla montagna, è Gerusalemme, «città del Gran Re». Il santuario, le sinagoghe, il tribunale, il sinedrio: ecco le principali istituzioni. Lungo le strade e agli incroci, i grandi personaggi ostentano la loro preghiera, gli amici si salutano tra di loro, li si riconosce da questo. I debitori insolventi sono portati in prigione dalle guardie, ci si scambiano ingiurie: «idiota», «rinnegato». Nella città, la gente cammina sul terreno così com'è, con i suoi rifiuti, come per esempio il sale inutilizzabile. Nella casa c'è il mobile su cui brilla la lampada. La camera è segreta, con le sue tende tirate. Il granaio contiene ciò che l'uomo ha ammassato dopo aver raccolto ciò che aveva seminato. Il suo tesoro è al riparo: denaro, stoffe preziose ma deperibili. Il fumo si alza dal forno dove bruciano le erbe. Il padre dà ai suoi figli del pane. È l’universo del «pane quotidiano».

L’occhio: esso è la lampada del corpo, perché la lampada mostra la strada a chi cammina. È occhio destro o sinistro, sano o no, e può essere una lampada senza luce. Il «capello» basta per parlare all'uomo della sua dipendenza. L'aspetto di chi digiuna è tetro, a meno che si lavi e si profumi, perché vi sono due categorie di digiunatori come vi sono l'uno e l'altro occhio, l'una e l'altra mano, l'una e l'altra guancia. Vedere, è vedere con il corpo e con lo spirito, e in ciò sta la differenza.

Che l'effetto del testo, a chi si lasci penetrare senza pregiudizi da ciò che le parole dicono ai cinque sensi del corpo, sia di tale respiro non si deve spiegare esclusivamente con l'ipotesi di condizioni di vita, che sono rimaste o diventate poco tormentate, della comunità di Matteo, destinataria di questo vangelo. Tuttavia questa interpretazione completa un'altra lettura, che vede piuttosto in questo testo la commemorazione di una tappa della vita di Gesù: là c’è il suo primissimo discorso che è preceduto, in fatto di parola pubblica, da una sola frase («Da allora Gesù cominciò a medicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”»: Mt 4,17)! Questa prima tappa, nel dispositivo di Matteo, non conosce ancora i confronti. Essa offre al desiderio degli uomini un progetto di vita, ma l'orizzonte di un mortale corpo a corpo con le forze del male rimane ancora invisibile. Compiere, è compiere sino alla fine. Ma questa «fine» rimane fuori campo. C'è stato un tempo in cui Gesù parlava così. L'inserimento del Discorso nel racconto obbliga a non perdere di vista questa dimensione. Torneremo su questo: l'analisi delle fasi della storia di una vita lascia ancora uno spazio libero per la croce. La prospettiva mantiene la croce in un avvenire indefinito. Fu così, per qualche tempo, nella vita di Gesù e dei suoi. Questa considerazione dà tutta la sua forza alla svolta intrapresa con il cammino verso Gerusalemme. Gesù non affronta l'avversario prima del tempo, e questo tempo gli è fissato dal Padre, in maniera tale che gli è percepibile nelle pulsazioni del suo stesso ritmo.

La considerazione del Gesù storico, se gli dà un potente rilievo, non esaurisce l'effetto del messaggio. Dopotutto il compimento non dà verità alla morte stessa che alla condizione di avere prima attraversato la vita. Nella comunità toccata dal Vangelo, come nelle nostre, non tutti certo morranno «a causa di Gesù», ma tutti dovranno vivere secondo quello che lui ha detto, e, se lo fanno e muoiono in tanta pace come i patriarchi, si dovrà proprio parlare di pienezza. Il nostro testo non glorifica né il martirio di Gesù né quello dei suoi.

Legge perfetta di libertà

In conclusione, ciò che in modo pressante invita a interpretare il Discorso della Montagna come una legge per un popolo, viene da più lontano che il ragionamento e la sapienza dell'esegesi. È la considerazione della storia umana. L'umanità può sì sopravvivere a metà del pendio nel suo richiamo verso la giustizia, e persino non può dire diversamente ma essa ridiscende se vi si ferma, e ridiscende verso la morte. Per pressanti che siano i precetti di Gesù, essa può sempre non ascoltarli. Ma tantomeno essa può chiudere le orecchie al grido di allarme sempre più chiaro che le invia il suo stesso pericolo di morte. La nostra umanità sa che cosa è avvenuto della violenza delle età primordiali e del primo diluvio, quello di Noè. Ella sa di essere tra la vita e la morte (ef Dt 30). Come l’esperienza di una morte universale dell’umanità precedeva l’insistenza stessa di Israele, così l'idea del rimedio non è offerta oggi soltanto a coloro che credono nel Dio della Bibbia. L'umanità sa che a proposito di guerre e di pace deve cambiare le sue leggi se vuole sopravvivere. In una misura non trascurabile, essa lo fa. Ma possono bastare le leggi?

Se i precetti di Gesù non sono consigli, sono delle leggi? Se fossero leggi come le altre, questo significherebbe che invece di essere incise sulla pietra le sole dieci parole del decalogo, le parole di Gesù sarebbero incise anch'esse sulla stessa pietra, ma inserite tra le righe delle due tavole.

Così il contenuto, l'enunciato sarebbe cambiato, ma non il veicolo, non la modalità, non l’enunciazione. È un fatto che molti intendono così la legge di Gesù. Quando essa non porta ad un rifiuto immediato, questa lettura nel senso materiale toglie tutte le forze necessarie per portarla a compimento. Le conseguenze possono essere ancora più perverse, e più mortali.

Già Geremia annunciava una nuova alleanza, nuova proprio in questo, cioè che le sue leggi non sarebbero scritte stilla pietra (Ger 31,33). Non voleva dire che esse sarebbero ormai scritte sulla carta, ma «al centro» dei destinatari nel loro profondo. Per questo motivo grandi dottori, come sant'Agostino e san Tommaso, hanno insegnato che i precetti del Discorso della Montagna valevano «per la disposizione di spirito». Essi non dettano i gesti che descrivono, ma pongono l'obbligo di andare, in caso di necessità, lontano come essi suggeriscono, senza conformarvisi materialmente. È una risposta di buon senso. Gesù stesso, che ha adempiuto la totalità della propria legge nella Passione, non ha fatto vedere nei suoi gesti la realizzazione letterale di ciò che aveva insegnato: colpito su una guancia, non ha teso l'altra guancia, ma ha domandato «perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (...)

Senza coercizione esterna

I cristiani sono portati a lamentarsi! Essi hanno il diritto di gemere, non soltanto per l'evidente difficoltà di mettere in pratica ciò che Gesù vuole, ma della difficoltà, perfino, di comprenderlo. «Entrate per la porta stretta», dice Gesù (Mt 7,13), l'altra conduce alla perdizione. Ma non avendo nessuno mai trovato difficoltà particolari ad attraversare una porta stretta, non sarebbe per questo motivo che Gesù aggiunge: «pochi la trovano»? «Trovare» il passaggio, a tutti è potuto capitare di sperimentarne la difficoltà. Tale sarebbe dunque il problema, ed è questo al momento di cui occupiamo. Un'altra parola serve, secondo il nostro parere, allo stesso scopo.

Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi (7,6).

La Sapienza o i proverbi sono spesso paragonati a metalli preziosi (Prv 8,11; 20,15), e l'accostamento di un oggetto prezioso con un grugno di un porco associato alle immondizie è una incongruità ancora più grande in questo contesto letterario: «un anello d'oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno» (Prv 11,22). La migliore applicazione di Mt 7,6 varrà per le parole stesse del Discorso della Montagna, indicato qui come l'insegnamento che non si può sprecare, che non bisogna ostentare senza la protezione del pudore e di una relazione autentica, come parola che non può circolare a qualunque condizione: gli abusi sono fin troppo prevedibili. Esse possono servire a a rafforzare l’uomo, senza vantaggio per lui, la sua disperazione davanti alla legge. Ma vi è di peggio.

Il peggio è di ottenerne l’osservanza attraverso la costrizione. Quanto stupore hanno suscitato il grande spirito di sacrificio, gli oblii di sé collettivi suscitati, nel XX secolo come mai prima, dalle ideologie imposte a delle società per mezzo della forza e della paura, con efficacia ancora maggiore quando questa forza aveva saputo rendersi invisibile! La povertà, la castità, l'obbedienza hanno potuto sembrare praticate insieme e nello stesso momento da delle masse, per alcuni anni. Nelle fasi di attuazione della loro utopia, queste società offrivano, e prima di tutto a se stesse, la messa in scena di un «siate perfetti» anche sul terreno di queste virtù, al prezzo di un coraggio e di un eroismo che, quando non tentavano i cristiani, li inducevano per lo meno ad interrogarsi su se stessi. Ma come si sarebbe potuto applicare «che la tua mano sinistra ignori ciò che fa la tua destra» (6,3) in una organizzazione predisposta al contrario di questo precetto? La cosa più grave è proprio che la costruzione imposta in vista della dimostrazione pubblica delle virtù conduce inevitabilmente a fingerle. «Che alla tua destra come alla tua sinistra, il tuo prossimo possa sapere tutto di te!».

L'allarme è dato già nel Nuovo Testamento, e non è originariamente rivolto alla società civile, ma alla società celestiale. Una scena degli Atti degli apostoli è stata, riteniamo, scritta apposta per sottolineare come il legame della coercizione e della menzogna è svelato e denunciato in modo diretto e dall'alto, da questo stesso Spirito che è donato a Pentecoste. Era, per la prima comunità, il momento dell'utopia, realizzata prima di tutto attraverso la condivisione dei beni. «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, …quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Ma due sposi, di nome Anania e Saffira, non depongono tutto il denaro della vendita, avendo messo da parte il resto e dissimulando questa sottrazione. Pietro designa allora in tutta chiarezza lo spazio in cui avrebbe dovuto agire lo Spirito. Questo luogo è la libertà: «prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione?» (5,4). La necessità di spossessarsi per condividere non era scritta sulla pietra, come lo era la legge del Sinai. I due disgraziati si credevano condannati da un'istanza immaginaria: il loro sentimento di colpevolezza confuso con lo sguardo altrui. Cercando la giustizia attraverso questa via, Anania si sentirà dire: «Tu hai mentito allo Spirito Santo» (v. 33). L'uomo allora è fulminato insieme alla moglie, cosa che ci permette di collocare il racconto nel suo posto preciso, cioè in simmetria con la legge della prima alleanza. Chi la trasgrediva moriva; chi la trasgrediva nei grandi momenti della sua fondazione poteva morire senza l'intervento degli uomini, colpito dal cielo. Le Spirito conduce fino ad un estremo che l'antica legge non formulava, anche se era, in fondo, l'anima. Ma questo estremo non può essere raggiunto che nella libertà, a tal punto che l'ostacolo alla libertà corrompe la legge di Cristo alla stia radice. Questa corruzione è sanzionata come lo era sul Sinai, poiché la Pentecoste, la venuta della legge nuova nello Spirito, è un nuovo Sinai.

Detto questo, l'aneddoto sconvolgente degli Atti resta un «racconto delle origini» con i limiti di questo genere, in cui tutto è fortemente organizzato intorno ad un solo asse didattico, cosa che oggi ci porta una luce indispensabile.

Lo schematismo non impedisce al racconto di lasciar trasparire i limiti della situazione. Possiamo domandarci perché la comunità adottò un principio di proprietà collettiva che non si fonda su alcun insegnamento del fondatore, nè quando questa pratica fu abbandonata. Il gruppo non l'abbandonò forse dopo aver preso consapevolezza della fragilità del suo fondamento? Non l'abbandonò dopo aver preso consapevolezza dei suoi effetti, scoperto il legame della pressione sociale con la menzogna? Sarebbe doloroso che questo passo degli Atti non fosse interpretato che a titolo di incitamento alla virtù della generosità. Tuttavia, volontariamente o no, lo storico Luca lascia filtrare qualche chiarimento. Già vedere tutto questo denaro «ai piedi degli apostoli» si fonda fortemente sull'immagine di un potere. Più precisa è l'informazione fornita sul primo uomo che rispose a questo impulso: «Giuseppe, detto dagli apostoli Barnaba... era un levita» (4,36). Essendo dato che della tribù di Levi era scritto: «solo alla tribù di Levi egli non diede eredità» (Gs 13,14; cf 14,3s) e: «il Signore, Dio di Israele, é la loro eredità» (Gs 13,33), il fatto che uno dei suoi membri dia il segnale della rinuncia individuale e della proprietà collettiva non è forse fortuito: i Leviti potevano considerarsi come chiamati ad essere segno, anche attraverso la loro situazione economica, del legame dell'«intero Israele». Se questo era il caso, ne conseguirebbe che questo tentativo di condivisione (senza futuro per ciò che concerne la Chiesa come tale) sarebbe più vicino ad una forma ispirata ad un giudaismo marginale, anteriore al Vangelo, che non all'insegnamento diretto di Gesù. La discesa dello Spirito, che diede alle comunità il potere di innovare, non poteva togliere loro la possibilità di tornare sui propri passi. È commovente pensare ai loro tentennamenti, alla loro ricerca.

Le posizioni di san Paolo in materia di mutua assistenza economica confermano la lezione dell'episodio di Anania e Saffira, e mostrano che la comunità di Corinto vive già sulla base di altri principi rispetto a quella di Gerusalemme: non la messa in comune di tutti i beni, ma «la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza» (2 Cor 8,14). Anche questo non è ottenuto sotto coercizione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza perché Dio ama chi dona con gioia» (9,7s).

Conclusione... o transizione

Lo stile dei precetti di Gesù ha come conseguenza di impedire al soggetto della legge di iscrivere la propria osservanza nell'immagine proiettata da se stesso. Così il taglione espone come su uno schermo l'illusione visiva di una giustizia per equivalenza, mentre questa equivalenza, questa giustizia, non possono esistere che su questo schermo, nell'immaginario. Nelle parole «occhio per occhio, dente per dente», citate da Gesù, tutto si esprime a livello di immagine: il volto, immagine di Dio, il volto con gli occhi, con i denti. Volto al quale si rivolge l'odio che offende: «Io non posso più vederlo»... Volto su cui la giustizia crede di potersi soddisfare: che il suo occhio perduto rifletta, per il mio, il rifiuto che è nel mio sguardo! E molte volte, tracciando di noi stessi un'immagine che non raggiungiamo, la legge non ci mette nella tentazione di odiare noi stessi invece di odiare il male? Il nostro io ideale odia il nostro io reale. Noi siamo così cacciati, esclusi da questo centro, da questo inizio in cui Gesù ci insegna a vedere l'ingresso dentro di noi dell'opera divina. Nessun’altra perfezione ha senso, se non quella che ci colloca al posto giusto, come figli: questo significa «perfetti come il Padre vostro». Perfetti, di essere figli. Ma fuori da questo centro, da questo inizio che è la nostra identità perché esso è la nostra origine, la nostra resistenza, incapace di riconoscersi, si trasforma in menzogna, e usa la legge per accusare colui che, proprio come noi, non è all'altezza delle sue attese: essa usa la legge per accusare il fratello. Noi potremmo fare una glossa di quanto detto illustrando alcune parole della lettera di Giacomo. Ciò che egli chiama «la legge perfetta della libertà» (Gc 1,24) non acquista senso che per condurre a delle azioni. Chi evita di agire «...somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio» (Gc 1,23). Ecco quest'uomo duplicato di fronte alla sua immagine, estraneo a se stesso per non aver trovato attraverso «la legge perfetta della libertà» il punto da cui questa libertà nasce. Una conseguenza insopprimibile del suo sdoppiamento è ciò che la rende accusatore. È radicalmente impossibile che egli sfugga a se stesso senza volgersi contro il vicino. Per quanto egli ammiri la legge nella quale si rispecchia, e senza che la sua cattiva coscienza lo guarisca, si potrà dire di lui con Giacomo: «Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge» (Gc 4,11).

Colui che sparla del fratello è anche colui che lo disprezza nel suo cuore perché lo vede lontano dal mettere in pratica i precetti di Gesù. L'eremita Antonio (il sant'Antonio delle celebri «tentazioni») ci ha lasciato a proposito di questo versetto una lezione più profonda della sua leggenda…

Dei fratelli si recarono presso l'abate Antonio e gli dissero: Dicci una parola, come essere salvi? Il vecchio disse loro: Voi ascoltate la Scrittura? È bene che lo facciate. Essi ripeterono: Ma noi vogliamo sentirla da te, Padre! Allora il vecchio disse loro: Il Vangelo dice: se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli anche l'altra. Essi dissero: Non possiamo fare questo. Il vecchio disse loro: Se non potete porgere l'altra guancia, accettate almeno che vi si colpisca su una guancia. Non possiamo nemmeno questo. Se voi non potete nemmeno questo, non restituite il male che avete ricevuto. Ed essi dissero: Non possiamo nemmeno questo. Allora il vecchio disse al suo discepolo: Prepare loro una piccola pappa di farina, perché sono malati. Se non potete questo e non volete nemmeno quello, io che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere. (J.C. Guy, Parole des Anciens. Apophtegmes des P.P. du désert, Ed. du Seuil).

Antonio introduce così lo spirito di Gesù nella lettera di Matteo, imitando il suo movimento graduale per rovesciarlo verso il basso. Da parte sua, la lettera di Giacomo, benché risparmiando in modo sorprendente reminiscenze o evocazioni della persona di Gesù, costituisce un documento prezioso, perché è uno dei più vicini, nel Nuovo Testamento, all'ambiente di Matteo, al punto di fornirci alcune chiavi per meglio comprendere il Discorso della Montagna. La «legge perfetta» è la legge compiuta, cioè condotta a questo estremo che solo Gesù può farci raggiungere. Né Giacomo né Matteo ricorrono allo Spirito per darvi principio. Né l'uno nè l'altro costruiscono il loro progetto attorno al tema di una legge divenuta interiore. Per l’uno come per l'altro la legge richiede atti fisici, condizione perché «essi vedano le vostre opere buone...» (Mt 5,16). E ancora, né l'uno nè l'altro presentano la pratica della legge come il risultato di un dono gratuito di Dio. Sta all'uomo trovare in sé il punto d'origine della giustizia. Ad altri testimoni di Gesù, ad altri testi, anche in Matteo (11,25-27; 19,26), sarà dato di sviluppare le conseguenze: il punto di origine della giustizia è colui in cui la giustizia ci viene dall'esterno, e a titolo di dono. La discrezione di Matteo, in questa materia, è impressionante: solo un 'analisi particolareggiata della struttura (della struttura scritta) del Discorso permette di scoprire che il «Padre nostro» ne occupa esattamente il centro. Nel cuore dell'insegnamento di Gesù si fa sentire la chiamata rivolta ai figli perché domandino al Padre di «vivere sulla terra» il suo insegnamento. Che l'uomo ne sia capace con le sue sole forze resta un problema, ma non dobbiamo trattarne qui.

L’originalità delle parole di Gesù rimane insostituibile. Le sue parole rivestono di immagini azioni paradossali, come il servirsi di una mano prima per tagliare l'altra e poi per gettarla lontano. È così reso sensibile che la giustizia non è fatta per rimanere nel cuore, ma per diffondersi instancabilmente al di fuori. La forza degli imperativi rende impossibile confonderli con suggerimenti facoltativi; il surrealismo delle situazioni aumenta in noi il desiderio di inventare senza limite. Allo stesso tempo obbligazione e libertà, «legge della libertà», dice Giacomo. No, Gesù non ci dice chi noi dobbiamo salutare o non salutare per strada, né che cosa fare se uno ci schiaffeggia. Le sue iperboli sono, molto più di quanto si potrebbe credere, vicino al linguaggio di quei rabbini dallo spirito libero, e bisogna essere grossolani per non coglierla.

L'episodio di Anania e di Saffira, per il fatto che si colloca nel tempo e nel luogo stesso in cui è donato lo Spirito, cioè nel tempo di Pentecoste, non ci permette di chiudere gli occhi sulle nuvole cariche di tempesta che la piccola montagna di Galilea inevitabilmente attirerà. Impossibile dimenticare il rischio di essere esclusi dal Regno, l'orizzonte della geenna del fuoco, l'alternativa di perdizione o di vita. Coloro che trasmettono, come possono, le richieste di Gesù, si vedono rimproverare talora di attenuarle per timidezza, talora di non renderle più praticabili. Dimenticano, si dice loro in quest'ultimo caso, che Gesù ha detto: «Il mio carico è leggero» (Mt 11,30)? Ma ciò che si dimentica sin dal principio, è il carico schiacciante che, in ogni modo, l'umanità deve portare soltanto per vivere, poiché per vivere le è necessario vivere insieme. La legge è percepita come durezza. Ma ciò che le colpe dell'uomo infliggono all'uomo non è durezza, è orrore. Ed esso aumenta, e nello stesso tempo si rende più visibile sotto i nostri occhi. Chiamiamo follia ciò che Gesù ci domanda. Ma l’umanità non sarà salvata dalla sua follia se non da un'altra follia. Già ai tempi di Gesù, era troppo tardi perché l'umanità interpretasse il decalogo attraverso dei compromessi.

Troppo tardi. La portata del Discorso della Montagna apre soltanto quando la si mette a confronto. Dove crediamo che abbiano potuto scomparire, quando Gesù parla, gli splendori del tuono e dei lampi che, sul Sinai, riempivano Israele di terrore? La storia cambia. Lampi e tuoni sono passati dallo scenario all'interno delle parole dette. La prima legge era accompagnata dalla violenza: «Voi vi avvicinaste e vi portaste ai piedi del monte; il monte ardeva nelle fiamme che si innalzavano in mezzo al cielo; vi erano tenebre, nuvole e oscurità» (Dt 4,11). Dio, che è Uno, non dispone di due fuochi e, per lui, le due montagne sono una sola. Egli non ha ritirato il suo fuoco dalla modesta montagna di Galilea. Ma è per noi che questo fuoco è doppio, benché non possa che bruciarci. Per quanto noi restiamo fuori dalle parole di Gesù, il fuoco delle sue parole ci spaventa e ci può anche distruggere; per quanto, e nella misura in cui noi vi entriamo, il fuoco ci riveli la sua vera natura, il cui nome è pronunciato con tanta discrezione: il fuoco è amore, il fuoco è spirito. Il fuoco è uno, solo noi cambiano. Di violenze non ce ne è che una nell'uomo, pervertito o convertito.

(da Il mondo della Bibbia, 51)

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Giovedì, 08 Febbraio 2007 01:19

Lezione Ottava. La monarchia e il regno

Lezione Ottava

LA MONARCHIA E IL REGNO

 

 

1. Il tema del Regno

a) Novità istituzionale

La monarchia non è un’istituzione dei primordi del popolo di Israele. Non faceva parte delle istituzioni del popolo di Dio nei primi due secoli dopo l’insediamento nella terra promessa.

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Venerdì, 12 Gennaio 2007 02:04

Lezione Settima. Il dono della terra

Lezione Settima
Il dono della terra


Introduzione

Se Israele, all’uscita dalla terra d’Egitto, non avesse avuto una meta verso la quale dirigersi, sarebbe stato condannato a girovagare da nomade per il deserto, ai margini dei paesi occupati da altri popoli. Il suo esodo sarebbe stato un evento puramente spirituale: un’uscita verso la libertà del servizio di Dio, ma senza un segno fisico del dono divino. In realtà la vita umana non si realizza senza un rapporto con le risorse della terra: anche il nomade dipende dal regime economico realizzabile in zone non coltivate e, giuridicamente, non lottizzate. La scarsa vegetazione desertica consente la pastorizia e l’attendamento presso le oasi e le fonti d’acqua.

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La Bibbia giustifica la pena capitale?
di Gianfranco Ravasi

Ricordo che tempo fa uno dei lettori dei miei scritti sui giornali a cui collaboro mi aveva tempestato di lettere, convinto di avere una giustificazione per la condanna alla pena di morte a causa del fatto che essa appare a più riprese all’interno dell’Antico Testamento.

Preparai, dunque, una risposta che pubblicai su Famiglia Cristiana: naturalmente, essendo necessario un discorso articolato di taglio interpretativo, non mi fu possibile esaurire la questione sottesa a quelle pagine. A questo punto quel lettore cambiò registro e si orientò su un passo evangelico specifico, abbandonando quindi il terreno anticotestamentario e rivolgendosi un Nuovo Testa,mento che dovrebbe essere all’insegna della legge dell’amore.

Proprio per questo si riesce a comprendere che una corretta ermeneutica non vale solo per le Sacre Scritture ebraiche, ma anche per l’orizzonte cristiano che noi consideriamo sgombro da equivoci interpretativi: in realtà i rischi del letteralismo nella lettura della Bibbia possono essere in agguato in ogni pagina.

Il lettore, infatti, faceva riferimento a un detto (tecnicamente un lòghion) di Cristo che riflette lo stile orientale e che ha forti segni di autenticità storica. Egli sospettava che dietro la frase di Gesù: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola d’asino e lo buttassero in mare», presente nei vangeli di Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2), si celasse un invito ad applicare «la pena di morte anche per i non assassini».

In realtà, come da tempo si insegna, ogni linguaggio adotta alcuni canoni di comunicazione (i cosiddetti “generi letterari”) che richiedono di essere interpretati per cogliere ciò che essi realmente vogliono dire, così da evitare equivoci o fraintendimenti.

Ora è ben noto che Gesù - come tutta la Bibbia - usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare.

Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidìon) - a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena - ma dei “piccoli” (io greco mikròs), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «I piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).

È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi “piccoli”: si usa infatti la parola “scandalo”, che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la prima lettera ai Corinzi (8,7-13) e la lettera ai Romani (14,1-15,4), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, “piccolo” nella fede, pronunzia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.

Si tratta del cosiddetto katapontismòs, ossia dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio; mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei galilei ribelli che avevano annegato nel lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode.

Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. E’ un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino su un atto considerato come grave.

L’idea di legare al collo la pesante macina con un foro destinata a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare - un oggetto noto anche dai reperti archeologici - diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo “scandalizzatore”. Anzi, come scrive un esegeta, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo dì Dio colui che h provocato lo scandalo».

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

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Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:45

Ietro e la nube divina (Giovanni Giavini)

Una rilettura di un personaggio biblico anomalo
Ietro e la nube divina
di Giovanni Giavini


Dietro alcune immagini bibliche, quali la gloria o la nube, ci possono essere persone concrete che rendono visibile la presenza e l’opera di Dio nel mondo. Un’ipotesi sul suocero di Mosè.

Domanda provocatoria: la nube della presenza di Dio nel cammino dal Sinai alla Terra promessa non era altro che il suocero di Mosè e un suo figlio? Donde mi sorge una domanda che può sembrare addirittura eretica e blasfema? Occorre qualche premessa. Gente come i Testimoni di Geova dicono: «Sta scritto così, quindi è vero così e non si discute». Un minimo di dimestichezza con la Bibbia e con la “Dei verbum” del Vaticano II permette, anzi obbliga, a non essere così semplicisti. E’ necessario infatti tener conto, almeno, dei generi letterari e del cammino redazionale che sta dietro una frase, una pagina, un libro.

Il libro, dell’Esodo, ad esempio, ha alle sue spalle una lunga storia redazionale (forse di 800 anni!), parte da alcuni fatti antichi, riletti in seguito sotto diversi punti di vista e con diversi generi letterari: narrazione storica, tradizioni tribali, varie raccolte di leggi, pagine di chiaro intento epico-celebrativo o/e didattico-catechistico per ebrei bisognosi di nutrimento per la loro fede e per la loro vita. Questo intento vale specialmente per tutta la mirabile struttura del libro, incentrata sull’alleanza al Sinai (cc. 19-24).

Da Ietro alla nube della presenza

A leggere le pagine dell’Esodo sulle piaghe d’Egitto e sul passaggio del Mar dei Giunchi (o Rosso) si dovrebbe dire che l’Egitto era scomparso completamente, tutto annegato nell’acqua! Verità storica o rilettura e amplificazione epica? E il passaggio del mare? Avvenne quasi come lode- scrisse Cècil de Mille nel suo famoso film (un po’ hollywoodiano) “I dieci comandamenti” e in tanta iconografia fantasmagorica? Leggi il salmo 77(76),14-21 e t’accorgi che quella sorprendente e inaspettata liberazione da morte fu favorita da un tenebroso temporale, nubi basse, vento, fuoco di fulmini, pioggia con susseguente pantano micidiale per i carri del divino faraone, terremoto e susseguente maremoto con riemersione di un guado; e il salmo dice che Dio non si vide, benché presente e operante!

Rileggi il racconto di Es 14 sul passaggio in mezzo al mare e scorgi la somiglianza con il Salmo, benché il tono e il genere letterario del racconto, alquanto complesso e non ben coerente in se stesso, siano un po’ diversi; idem rileggendo il cantico, assai poetico e mirabilmente fantasioso di Mosè nel c. 15 (ma nelle quinte stava la... fantasia di Myriam e di un coro di donne esultanti).

Mi piace ricordare anche che le prime persone a scardinare le mire del prepotente faraone non furono né Dio né angeli (almeno direttamente) ma alcune donne: le levatrici, la sorella e la madre di Mosè, la figlia stessa del re, che va a fare un bagno e salva quel bambino; che poi lei fa istruire a corte (cf. At 7,22) e rende edotto con lo studio della storia, della geografia, dell’astronomia, della lingua e della religione egizia (Amenophis IV non aveva già tentato una riforma monoteistica poi fallita? E non c’erano già leggi e scritti sapienziali? E il culto faraonico dei morti? E le immagini in onore di dei e dee e del divino faraone, con la celebrazione epica delle loro imprese?).

Di che cosa e di chi Dio si serve per compiere i suoi disegni? Per caso non s’è servito anche di Ietro? Oltre tutto costui era un sacerdote nel territorio (imprecisabile) di Madian: sacerdote di quale dio? Di un dio di quella regione - come qualche archeologo ritiene -identificato poi con YHWH? Era anche un saggio?

letro il saggio

Certamente così è presentato nell’Esodo questo straniero, chiamato a volte Ietro a volte Reuel. Già egli dimostra saggezza nel disporre il matrimonio della figlia Zippora (o Seffora) con quel bravo e generoso fuoruscito dall’Egitto, diventandone appunto suocero e servendosene per il gregge (Es 2,16ss); saggiamente riconosce la vocazione di Mosè da parte di Dio e lo rimanda in Egitto in pace, sia pure con moglie e figli, da cui però Mosè si distaccherà (4,18ss); sapientemente riconosce, sulla base della storia e sulla fede del genero che, il vero Dio era con Mosè e con Israele,. e Ietro entra in alleanza con loro mediante un bel banchetto (Es 18,1-12); da saggio esperto di vita sociale consiglierà al genero di organizzare la giustizia e l’amministrazione del popolo sulla base di buon senso e di “leggi e decreti di Dio” (18,13-26; leggi e decreti dunque già prima della rivelazione della legge al Sinai, di cui ai cc. 19-24).

Poi Ietro-Reuel viene congedato da Mosè (18,27): davvero? O è una notizia redazionale per dire che da allora la guida di Israele sarà solo (o principalmente) YHWH? Certamente Ietro, da esperto di quei luoghi, avrà parlato dei sentieri, delle oasi, delle sorgenti d’acqua, della manna e delle quaglie, dai nemici da evitare o da combattere… rinfrescando e arricchendo la memoria di quel giovane già istruito alla corte del faraone. E forse, pur congedandosi, quel simpatico vecchio ha lasciato con Mosè un proprio figlio esperto anche lui di quei luoghi?

Con il c. 19 Ietro scompare e riprende il posto di guida la nube infuocata e luminosa della “gloria” di Dio, cioè della sua presenza, che “copre con la sua ombra” la tenda-tabernacolo (40,36-38 letto con la traduzione greca dei famosi “Settanta”: questa gloria segna le tappe per il popolo e lo conduce mirabilmente - almeno sembrerebbe a prima lettura - per le piste, le oasi, le sorgenti e tra le popolazioni già residenti in quei luoghi e a volte nemiche dei nuovi arrivati (la storia si ripete oggi!).

Ma ecco la sorpresa: al c. 10,29-32 del libro dei Numeri leggiamo che Mosè supplica con insistenza e grandi promesse Obab, figlio di Reuel suo suocero, perché non lo abbandoni: «Non ci lasciare, poiché tu conosci i luoghi dove ci accamperemo nel deserto e sarai per noi come gli occhi»! Ma come? Non avevano gli occhi della nube della gloria di YEWH che li guidava costantemente?

La gloria di Dio... e noi

Di qui l’ipotesi che mi spunta nella mente e sulla penna: la famosa nube infuocata e luminosa era certamente simbolo della presenza provvidente ma inafferrabile di Dio per il suo popolo in cammino, inafferrabile appunto come la nebbia e il fuoco, cui spesso si aggiungeva il vento; assieme essi provocano l’uragano, realtà tremenda, turbinosa, sfuggente, ma spesso anche benefica! Quella nube allora - ed ecco l’ipotesi, solo una mia ipotesi -, non era altro che un simbolo letterario, didattico, catechistico di quella presenza e dei vari suoi segni. Tra quei segni si possono e si devono collocare anche le levatrici e la figlia del faraone, gli scribi maestri del bimbo adottato, Mosè stesso e il fratello Aronne, altri-personaggi ed eventi provvidenziali come il passaggio nel mare; ma in particolare proprio Ietro-Reuel e il figlio Obab.

Niente proibisce di pensare anche a qualche evento straordinario di presenza divina (ovvero a qualche “teofania” vera e propria benché sempre da precisare); ma normalmente Dio agì mediante cause seconde, benché i generi letterari cui ricorsero gli antichi narratori e più ancora i più recenti redattori preferirono mettere in diretto risalto la gloria del Dio di Israele, Le cause seconde finirono travolte dall’uragano - letterario, simbolico - della gloria di YHWH, ma non del tutto: qualche segno della loro presenza, secondaria ma pur preziosa, rimase anche nei testi sacri (sopra descritti).

Con quella sottolineatura della gloria divina gli agiografi volevano certamente celebrare - anche epicamente, quindi con un po’ di trionfalismo - il rapporto speciale di elezione e alleanza tra il vero Dio e Israele; volevano anche rimarcare le novità della fede ebraica rispetto a quella egiziana e alle altre, dalle quali essa pure attinse elementi (basti pensare alle somiglianze con la riforma di Amenophis IV, con certe leggi egiziane o dell’antica Mesopotamia, con canti d’amore o con pagine sapienziali o di preghiera di quelle culture, ecc.; ma anche alle novità rispetto al concetto concreto di Dio, al rifiuto dell’idea faraonica del re, allo stretto legame tra culto e vita sociale, all’assenza del culto dei morti, alla relativizzazione del tempio a favore di quello del cuore di ognuno, ecc.).

Nello stesso tempo gli agiografi ebrei istruivano e lanciavano messaggi molto forti alla loro gente spesso priva di memoria, e la tenevano aperta e vigilante nell’attesa della nuova “gloria” di Dio, della sua futura presenza: quella che avrebbe coperto con la sua gloria” il grembo di una povera vergine di Nazaret, e più ancora quella che avrebbe posto ‘la sua tenda” in una “carne” fragile e crocifissa come quella dell’ebreo Figlio unigenito di Dio (cf. Lc 1,35; Gv 1,14).

Salvando sempre le debite analogie, genitori, insegnanti (di religione innanzitutto), pastori d’anime, educatori di ogni genere non appaiono anch’essi come un segno portatore della gloria di Dio? Come il vecchio e simpatico saggio suocero di Mosè o come suo figlio Obab: guide per un cammino.

(da Settimana, settembre 2006)

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