I Dossier

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La condizione della donna

nel cristianesimo primitivo

di Clementina Mazzucco







La donna ha tratto vantaggio o svantaggio dall'avvento del cristianesimo? La risposta non è affatto scontata e ancora oggi suscita discussioni.

Per tentare un approccio critico e storico alla questione dobbiamo innanzitutto tener conto del contesto sociale e culturale in cui il cristianesimo nasce e si diffonde. Il mondo greco e romano è dominato da una pesante struttura patriarcale che esclude la donna dagli affari pubblici e dall'istruzione, la rinchiude in casa, la tiene sotto tutela, non le concede parità nel diritto e neanche nel matrimonio (ad esempio, di fronte all'adulterio e al divorzio). Fenomeni di emancipazione che si verificano in età ellenistica (per il mondo greco) e sotto l'impero (nel mondo romano) restano limitati ad alcune sfere sociali e non incidono sostanzialmente sulle istituzioni e sulla mentalità: la misoginia non l'hanno certo inventata i Padri della Chiesa, ma ha alle spalle una tradizione molto antica e costante.

L’atteggiamento di Gesù, quale ci viene trasmesso dai Vangeli, spicca, su questo sfondo, perché risulta in forte contrasto col costume e con la cultura del tempo, anche con la tradizione religiosa ebraica, che, in più, faceva gravare sulla donna tutta una serie di pregiudizi derivanti dalle norme di purità. Gesù mostra di riconoscere l'uguaglianza dei sessi nel matrimonio, non considera l'adulterio colpa infamante solo per la parte femminile, non relega la donna al ruolo domestico (come si evince dall'episodio di Marta e Maria), non esalta la donna, neppure sua madre, esclusivamente in quanto madre, non rifiuta di avere donne come interlocutrici e discepole e affida ad alcune (la Samaritana, Maria, ecc.) messaggi fondamentali: addirittura a un gruppo di loro dà il compito di testimoniare, per prime, la sua risurrezione.

Rispetto alla posizione di Gesù la tradizione cristiana successiva (ma già i discepoli stessi) mostra qualche difficoltà di comprensione e accettazione, col risultato che si assiste ad orientamenti contraddittori. Già in Paolo riconosciamo questa duplicità: accanto ad affermazioni molto nette a favore dell'uguaglianza tra maschio e femmina e della parità tra marito e moglie, troviamo nelle sue lettere (sue o attribuite a lui) precetti che suonano discriminanti e mortificanti per la donna (l'imposizione del velo e del silenzio in chiesa, l'invito alla sottomissione della moglie al marito, ecc.). E nella prima lettera di Pietro si riaffaccia il vieto pregiudizio della naturale debolezza femminile.

È un fatto che soprattutto le affermazioni paoline negative (insieme ai princìpi diffusi nell'ambiente) eserciteranno influenza sugli intellettuali e pastori cristiani: sarà sempre più frequentemente ripetuta l'opinione che alle donne non spetta di insegnare, specialmente insegnare a uomini, che le donne non possono battezzare né svolgere ministeri ecclesiastici negli ordini sacri, che la moglie deve obbedienza al marito, e così via. D'altra parte, però, i Padri non potranno neppure dimenticare che, sul piano etico e spirituale, ma non solo, i due sessi erano stati riconosciuti perfettamente uguali, in Cristo, e non mancheranno di ricordarlo. Il tema della parità tra marito e moglie nei confronti dell'obbligo della fedeltà coniugale, dell'adulterio, del ripudio, tema che rappresenta un'assoluta novità rispetto alle consuetudini della società pagana, diventa un luogo comune nei loro scritti e un obiettivo vigorosamente difeso contro le sempre rinascenti tendenze maschiliste dei mariti, anche dei mariti cristiani.

Non di rado l'atteggiamento critico di molti Padri è intensificato dalla polemica contro alcuni movimenti ereticali, nei quali le donne avevano invece ruoli rilevanti, arrivando a ricoprire incarichi missionari e a celebrare i sacramenti. Tuttavia si può ammettere che in generale il fenomeno di una consistente e vivace presenza femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli è molto più ampio di quanto le fonti stesse, tutte o quasi tutte «di parte maschile», mostrino esplicitamente. E si può ipotizzare che le reazioni sempre più restrittive da parte della gerarchia ecclesiastica fossero provocate da quella che appariva una sorta di «invadenza» femminile. Del resto, non erano solo le autorità maschili cristiane a sentirsene preoccupate: anche gli avversari pagani ne avevano una forte impressione e, per denigrare la fede cristiana, ne parlavano sarcasticamente come di una religione «di donnette». Donnette che non dovevano svolgere solo compiti subordinati e passivi se Porfirio, un filosofo pagano della seconda metà del III secolo, ironizzava sul «dominio» che matrone e donne esercitavano di fatto nella Chiesa influendo perfino sulle nomine sacerdotali.

In effetti, gli indizi, spesso indiretti e secondari, che si possono raccogliere dalla documentazione pervenuta, mostrano che il cristianesimo, soprattutto quello dei primi tre secoli, ha offerto alle donne una grande occasione per prendere coscienza di se come persone pari in dignità agli uomini, per ricoprire ruoli nuovi e impegnativi e per modificare profondamente anche i ruoli tradizionali.

Già le comunità paoline conoscono donne profetesse, donne diacono, donne apostole, anche se per lo più non è facile capire quali fossero le funzioni attribuite alle varie cariche. E, se rimane sporadica la menzione di una donna «apostolo« (ma sono numerose le figure femminili che «collaborano» in modo significativo alla missione di apostoli, come chiaramente fa capire Paolo), di profetesse si ha notizia anche in seguito e diaconesse erano istituite sicuramente nel III e IV secolo, almeno in Oriente. Nelle lettere più tarde del Nuovo Testamento e in scritti patristici successivi si segnala la costituzione di un ordine di vedove con prerogative e mansioni di grande rilievo nella comunità, tanto da essere messe talora sullo stesso piano dei vescovi. Quasi subito anche la scelta della verginità divenne un elemento di distinzione e di prestigio, che poi crebbe sempre di più arrivando a prevalere sul ruolo delle vedove, a partire soprattutto dal IV secolo. E si vede bene che sono soprattutto le donne a fare questa scelta, una scelta che conferiva autorevolezza, libertà e spesso una vera e propria forma di emancipazione (autonomia decisionale, disponibilità finanziarie, possibilità di dedicarsi agli studi, ad attività sociali, ecc.). La stessa cosa avveniva per le vedove, talora oggetto di brusche reprimende e imposizioni per i presunti abusi della loro condizione. Sia nel caso della vedovanza sia della verginità, così come si configurano nel mondo cristiano, si tratta di istituzioni che erano sconosciute alle società pagana ed ebraica.

Ma è soprattutto la letteratura martirologica che mostra la grande rivoluzione in senso egualitario che doveva essersi realizzata nelle prime comunità cristiane: in questi documenti, che si presentano come prodotti delle comunità stesse, la presenza femminile tra i cristiani che vengono arrestati, confessano la loro fede, subiscono torture e vengono giustiziati, è un fenomeno comune che suscita stupore solo da parte degli spettatori e torturatori pagani. Talora, anzi, alcune figure di donne svolgono ruoli da protagoniste, ne si tratta solo di persone di condizione sociale elevata: a Cartagine, accanto a Perpetua, giovane madre di buona famiglia, c'è l'umile Felicita; a Lione, ad accentrare su di se tutti gli sguardi è la schiava Blandina. E non sembra possa essere un caso che, proprio nel contesto del cristianesimo primitivo e dell'esperienza del martirio sia nato uno dei carissimi documenti scritti da mano di donna che l'antichità ci abbia trasmesso: è il diario redatto da Perpetua in carcere poco dopo il 200 e poi fatto inserire dalla comunità all'interno del racconto del suo martirio, destinato ad essere diffuso in tutta la Chiesa. Ancora lei IV e nel V secolo, in Africa, veniva letto e commentato nelle assemblee liturgiche.

Ma anche all'interno della famiglia l'adesione delle donne alla fede cristiana non è senza conseguenze rinnovatrici. Fin dagli inizi (già con Paolo) si ha il problema dei matrimoni misti perché sono specialmente, e in misura maggiore, le mogli a convertirsi; anche in seguito sono spesso le donne le più mature e impegnate sul piano morale e religioso e quelle che esercitano la più forte influenza sull'educazione religiosa dei figli. Questo fatto produce profonde incrinature nelle inveterate teorie di una obbligatoria e naturale sottomissione della moglie al marito, di un ruolo femminile concentrato nella generazione di figli e nell'amministrazione della casa. Pur restando prevalenti i compiti domestici e familiari, è altamente valutato il ruolo di educatrice, nei confronti dei figli, e di collaboratrice, nei confronti del marito, anche sul piano morale e spirituale, e in più le viene aperto tutto un ampio settore di attività caritativa ed assistenziale al di fuori della famiglia. Per la donna cristiana, anche per la donna sposata, non può più essere il massimo elogio quello che fu inciso su un epitafio per una matrona romana:

«Domi mansit, lanam fecit, rimase a casa, lavorò la lana ».

Pubblicato in Bibbia

Il culto è una manifestazione sociale che si realizza attraverso un’azione rituale; se non è tutto questo, non è culto. Non è un atto privato di venerazione, e non è improvvisato. Una qualche forma di culto è presente in ogni religione; e il simbolismo rituale presenta certi tratti comuni che si possono riscontrare in molte religioni.

Pubblicato in Bibbia
Lo Spirito Santo nel libro degli Atti

di Mauro Làconi



Preannunciato già nell' Antico Testamento per i tempi messianici, come lo stesso libro degli Atti sottolinea fin dal principio (2,17-21), il discorso sullo Spirito di Dio permea, caratterizzandolo, tutto il Nuovo Testamento. In un certo senso tende ad esprimerne l'incomparabile novità: mediante il suo Spirito, Dio interviene nella vicenda umana per farne una storia del tutto nuova. Accentuato in modo particolare negli scritti di Paolo, soprattutto nel contesto della «giustificazione per grazia», si trova sottolineato nei Vangeli fin dall'inizio come per comunicare subito il senso del «divino» presente con Gesù (Mc 1,10; Mt 1,20 e Lc 1,15 e 35; Gv 1,32-34); ma nessun autore vi ritorna su con l'intensità di Luca, particolarmente - senza possibilità di confronti - nel suo «secondo volume»: il libro degli Atti degli apostoli. Il lettore attento ne coglie presto il motivo: mediante la presenza attiva dello Spirito nella Chiesa continua l'opera di Gesù. (1)

1. Il discorso sullo Spirito in Luca: dal Vangelo agli Atti

Nel Vangelo di Luca il discorso sullo Spirito inizia e conclude tutto (Lc 1,35-24,49), e nel corso del racconto compare con frequenza senza dubbio maggiore che negli altri vangeli (per es. Lc 4,18; 10,21; 11,11; ecc.). Ma è soprattutto nel libro degli Atti che ritorna con eccezionale frequenza. Ed è proprio Luca che ha reso abituale nel Nuovo Testamento l'espressione completa «Spirito Santo» destinata in seguito a diventare classica; molto più frequentemente che lo stesso Paolo. Mentre negli altri vangeli, Giovanni compreso, è assai più rara. Praticamente fino al c. 21 Luca menziona lo Spirito - presenza personale e operante nella Chiesa - praticamente in tutti i capitoli. Le eccezioni sono rare. In almeno una decina di essi poi con un rilievo particolare. Per esser più precisi: l) nella prima grande sezione dell'opera (cc. 1-12: la chiesa di Gerusalemme) il tema sullo Spirito raggiunge l'apice; 2) nella seconda (cc. 13-21: attività missionaria di Paolo) rimane insistente, seppure con qualche flessione; 3) nella terza (cc. 22-28: Paolo il prigioniero) misteriosamente - fatto raramente sottolineato - questo tema straordinariamente tipico del libro, scompare quasi del tutto.

A parte questo ultimo fatto di difficile spiegazione, tutto questo dimostra chiaramente che Luca segue il tema dello Spirito verso la Chiesa per se stessa, quasi a volerla definire (e non tanto verso il singolo credente); particolarmente orientandolo verso la Chiesa delle origini (cc. 1-12), fatto storico «di vino» che solo lo Spirito può spiegare; specificamente poi verso la Chiesa missionaria, che Paolo autorevolmente riesce a rappresentare (cc. 13-21).

Questa la visione globale, che ora conviene esaminare maggiormente nel dettaglio.

2. Impostazione cristologica del discorso sullo Spirito

È caratteristica costante del Nuovo Testamento, e specificamente dei Vangeli, la dimensione cristologica in cui si muove la teologia dello Spirito, Luca non fa eccezione; anzi accentua questo aspetto all'inizio del vangelo (Lc 4,1.14.18). Nel libro parallelo degli Atti la cristologia fluisce nell'ecclesialità: come Gesù, anche la Chiesa dà inizio alla sua storia e alla sua attività mossa dallo Spirito Santo, proprio come Gesù stesso aveva predetto (At 1,8). E non si tratta solo di una promessa, ma di un suo «dono» personale - sia pure in stretto rapporto «trinitario» -, affinché la continuità «cristologia» - «ecclesiologia» anche in questo risulti perfetta: «Dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso» sulla Chiesa (At 2,33). E così risulta perfetta anche la continuità storico-letteraria fra i due volumi di Luca: il Vangelo (storia di Gesù) e gli Atti (storia della Chiesa).

Da questo momento l'azione dello Spirito continua inarrestabile, ma sempre in ordine a Gesù. Sarà proprio lo Spirito a mandare Pietro a Cesarea per evangelizzare i primi pagani (10,19; 11,12), ma per annunciare loro Gesù (10,3743). Lo stesso era avvenuto per Filippo (8,29-35) e avverrà per Paolo (13,2.4.23). Con perfetta logica Luca aveva già presentato lo Spirito, nella Chiesa, come «il testimone di Gesù». Impressionanti, e persino audaci a questo riguardo, le parole di Pietro davanti al Sinedrio: «Di questi fatti [riguardanti appunto Gesù] siamo testimoni noi e lo Spirito Santo!» (5,32). Espressione sorprendente, e tuttavia perfettamente in quadro, che troverà un parallelo molto più tardi nel Quarto vangelo (Gv 15,26). Luca distingue senza equivoci Gesù e lo Spirito, ma nello stesso tempo comunica al lettore il senso di una profonda unità; addirittura a un certo punto arriverà - per l'unica volta! - a definire lo Spirito Santo come «lo Spirito di Gesù!» (16,7). Espressione che potrebbe suonare addirittura sconcertante; e tuttavia senza equivoci se letta nel contesto di Luca. Troverà persino un parallelo - anche qui una sola volta! - in Paolo (Fil 1,19)!

Su questo argomento, che evidentemente sta molto a cuore a Luca - tensione cristologica nel suo discorso sullo Spirito -, si è voluto persino scoprire un netto parallelismo letterario all'inizio dei due volumi lucani:

- Vangelo (storia di Gesù): Gesù riceve lo Spirito (Lc 3,22)e pronuncia il suo discorso inaugurale a Nazaret (Le 4,16-27);

- Atti (storia della Chiesa): la Chiesa riceve lo Spirito (At 2,1-4)e Pietro pronuncia il discorso inaugurale cristiano a Gerusalemme (At 2, 14ss).

Una buona conferma: la Chiesa continua - nello Spirito - l'opera di Gesù.

3. La Pentecoste e la dimensione «divina» della storia

All'inizio del suo discorso di Pentecoste, per spiegarne il senso e parlare della discesa dello Spirito, Pietro si rifà al profeta Gioele (Gl 3,1-5); senonché le prime parole della citazione profetica non sono affatto del profeta biblico, ma personali di Pietro, comunque riferite da Luca, e cioè «cristiane»: «Negli ultimi giorni, dice il Signore ... » (At 2,17). Per l'apostolo dunque, e per l'evangelista, con la discesa dello Spirito ha inizio l'era finale e propriamente «divina» della storia. Certo non ancora «il giorno del Signore, giorno grande e splendido» (queste sono parole del profeta: At 2,20), cioè la fine risolutiva di tutto, che anche per Luca rimane lontana e misteriosa; ma in qualche modo il suo inizio, perché, inviando lo Spirito, e quindi con l'annuncio del mistero di Gesù, Dio è entrato da «Signore» nella storia degli uomini, conferendole un significato e una portata completamente nuova. In qualche modo, iniziale e non ancora definitivo, ma tuttavia autentico e operante nella vita di ognuno, l'atteso Regno di Dio si è reso già attuale e presente. È la tesi evangelica di Luca formulata nel suo vangelo con le parole stesse di Gesù: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21), che finalmente trova nella Pentecoste la sua autentica interpretazione. Questo dinamismo messo in atto dallo Spirito nella diffusione del Vangelo e nel diffondersi della Chiesa - un fatto per lui autenticamente divino e non puramente umano - trasforma la vicenda umana rendendola «storia della salvezza», anticipo del Regno e della salvezza. Nello stesso senso già Paolo aveva parlato delle «primizie dello Spirito» (Rm 8,23) o anche della «caparra dello Spirito» (2 Cor 1,22; 5,5; e anche Ef 1,13); come anche Giovanni, sia pure senza parlare direttamente dello Spirito, vedrà nel credente in Gesù «la vita eterna» - cioè «divina» - già presente e in atto («Chi crede nel Figlio ha la vita eterna»: Gv 3,36). È caratteristica di tutto il Nuovo Testamento una certa propensione a sentire il fatto della salvezza «futura» già in qualche modo anticipata nella vita «presente» di chi crede nel Cristo Risorto. Il merito di Luca, e anche di Paolo, è quello di aver identificato concretamente questo misterioso anticipo del futuro nella vitalità dello Spirito di Dio all'opera nella missionarietà evangelica.

4. la Pentecoste si rinnova continuamente nella Chiesa

Le fasi di questo sviluppo «pentecostale» vengono marcate minuziosamente. Poco dopo il racconto della Grande Pentecoste (c. 2), inizio decisivo della storia di Dio fra gli uomini, Luca ci fa assistere a una «seconda» (detta anche «piccola») Pentecoste (4,31), come sempre nel clima della preghiera comunitaria (4,24-30: la più antica preghiera ecclesiale che possediamo) e sempre anche se più modestamente, in clima di sconvolgimenti cosmici («il luogo in cui erano radunati tremò»). Questo «secondo miracolo di Pentecoste» (Schneider) non è una semplice ripetizione del primo, in tono minore. Ha una sua autonomia e un significato suo: sostiene la Chiesa in una generosa e impavida proclamazione missionaria (la «franchezza»: vv. 29 e 31; però il termine greco è più forte), date le resistenze che vanno profilandosi e il tempo ormai imminente del «martirio» (cc. 6-7). E così, sostenuta dalla forza dello Spirito, la «Parola» non si ferma: sconfina dal territorio giudaico (c. 8 in Samaria con Filippo, segnando una forte ripresa del tema dello Spirito), e finalmente, per esplicito intervento dello Spirito (10,19), raggiunge i pagani (cc. 10-11). Luca insiste nel sottolineare qui l'iniziativa dello Spirito (e non della Chiesa!: 11,2.15-18), ma soprattutto nel sottolineare il parallelismo fra questo fatto - (che potremmo già definire «terza Pentecoste», o «Pentecoste missionaria») - e la Grande Pentecoste degli inizi: lo Spirito prende l'iniziativa (anticipando addirittura il battesimo!: vv. 44-48) e manifestandosi, anche se in tono più moderato, esattamente come agli inizi («li sentivano parlare in lingue e glorificare Dio»: vv. 45-46). Fatti subito riconosciuti, con stupore e gioia, dalla comunità madre di Gerusalemme (11,17-18). E dopo questa «Pentecoste che segna l'inizio della missione ai pagani» (Schneider), altre se ne potrebbero cogliere nel testo di Luca, senza alcuna forzatura; per esempio quella che segna i veri inizi della chiesa in Efeso, significativamente improntati di aspetti anch'essi «pentecostali» (vedi 19,1-7: una «Pentecoste ... ecumenica»?). Comunque si sente affiorare l'intento profondo che guida Luca nel dedicare questi testi straordinari alla sua comunità: egli invita con forza i suoi lettori a non leggere nella sua testimonianza sulla Pentecoste un semplice, anche se straordinario, ricordo; sta invitando la sua Chiesa a un sincero confronto, per una ripresa di coscienza sulla vitalità dello Spirito che continua a costruirne la storia.

5. Tensione missionaria nel discorso lucano sullo Spirito

Già fin dalle prime righe che il libro degli Atti dedica allo Spirito (1,8) è chiaro che l'interesse di questo discorso è prevalentemente missionario e apostolico. Si potrebbe persino dire esclusivo. Anche i passi, appena elencati, sulla continuità dell' evento pentecostale nella Chiesa, lo provano: il dono dello Spirito, costantemente rinnovato, spinge la Chiesa alla testimonianza, e persino al martirio. Tuttavia questo libro dedica un'intera sezione (cc. 13-21: viaggi di Paolo) alla diffusione missionaria della Parola; ed è proprio lì che si trova la conferma di questo fatto nèl secondo volume di Luca.

Risulta immediatamente dal primo viaggio, quello che porterà all'evangelizzazione della Pisidia; viene deciso direttamente dallo Spirito (13,2), e Luca ricorda esplicitamente che i missionari partono «inviati dallo Spirito Santo» (v. 4). Naturalmente in un contesto ecclesiale: i membri della comunità di partenza (Antiochia) pregano, digiunano, impongono loro le mani (v. 3). Nel secondo viaggio, quello che porterà in Macedonia e in Grecia (Atene e Corinto), la forza dominatrice dello Spirito si manifesta in maniera addirittura estrosa; e cioè bloccando il cammino dei missionari e orientando li in maniera perentoria in una direzione nuova (16,6-8: una lettura persino sorprendente). E tuttavia non è nemmeno una novità: in questo libro è sempre lo Spirito che, ovviamente rivelandosi attraverso i profeti cristiani, decide l'itinerario missionario (vedi 8,29.39 per Filippo, e 11.12 per Pietro). E lo Spirito interviene ancora al termine del terzo viaggio per preannunciare e stabilire autorevolmente l'esito finale di tutta la missionarietà di Paolo: la drammatica testimonianza a Roma e il martirio (20,22-23: espressioni forti di Paolo stesso: «avvinto dallo Spirito!»; inoltre 21,4-14). Nel suo vangelo Luca riesce a variare i suoi interessi teologici a proposito dello Spirito; invece in Atti 1'orientamento missionario sembra proprio assoluto. Difficilmente, in tanta documentazione, si potrebbero trovare appigli di interessi diversi, per la vita religiosa o morale del credente per esempio. Orientamento massiccio, che, osservato frettolosamente, potrebbe lasciare un'impressione di unilateralità. Ma lo scritto lucano esprime nel suo insieme un' evidente impressione di rigore. Anche per questa scelta una motivazione rigorosa ci dev'essere. Per esempio un messaggio forte, riguardante, più che il singolo credente, la Chiesa impegnata nella storia. Lo Spirito, con i suoi interventi vigorosi, la sta trasfigurando, trasformandola in «storia di salvezza». Ma attraverso la Chiesa e la sua generosa testimonianza. Per questo Luca chiede alla sua Chiesa una consapevolezza «pentecostale» e una fedeltà allo Spirito totali e assolute.

(da Parole di vita”, n.1, 1998)

1) Nel loro essenziale schematismo possono risultare preziose le trattazioni sul tema nelle più recenti Introduzioni sul Nuovo Testamento. Ci limitiamo a ricordare le ultime: G. SEGALLA, La teologia di Luca-Atti: storia e teologia della salvezza, in Evangelo e Vangeli, EDB 1992, pp. 250-268; M. LÀCONI, Atti degli apostoli: Il Risorto e la forza dello Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli (Logos 6), Elle Di Ci 1994, pp. 573-579; A. RODRIGUEZ CARMONA, L'Opera di Luca: la dimensione teologica - Cammino ... animato dallo Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, 6, Paideia 1995, pp. 278-282; R. PENNA, Spirito Santo. Nuovo Testamento, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, 1988, pp. 1507-1517. Non vanno trascurate le trattazioni nei commenti, soprattutto i più approfonditi e recenti; ci limitiamo a ricordare la sintesi succosa di G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli (Comm. N.T. V), I, pp. 356-360.
Pubblicato in Bibbia
La istituzione dei sette
Un metodo ecclesiale per affrontare
e superare i problemi (At 6,1-7)

di Mauro Orsatti





La finale del cap. 2 del Libro degli Atti presentava una comunità ecclesiale tanto perfetta da non lasciar spazio a ombre, tanto suggestiva da sembrare irreale. Il quadro composto da Luca con dati veri, e quindi da valorizzare anche dal punto di vista storico, non rappresenta tutta la realtà. Egli, infatti, fedele alla sua fine sensibilità di storico e di teologo, continua la descrizione della vita comunitaria, senza tacere le difficoltà che la minacciano dall'esterno e, ancora più gravi, quelle che la minano all'interno. Ad alcune di queste difficoltà riserviamo la nostra attenzione, per osservare come sono state affrontate e superate. Poiché molte sono identiche o affini a quelle che assillano le nostre comunità ecclesiali, potremo valutare se le soluzioni proposte siano idonee a fronteggiare anche i nostri problemi.

Un quadro di luci e di ombre

I primi capitoli degli Atti hanno presentato una comunità cristiana nascente in forte sviluppo e animata da un grande spirito di unità: "Il teatro d'azione è Gerusalemme, i cristiani sono un gruppo omogeneo costituito da giudei palestinesi [ ... ] che vivono la loro fede in perfetta comunione all'interno e tra la benevolenza e la relativa tranquillità all'esterno, guidati dagli Apostoli e soprattutto da Pietro". (1) Un quadro così idilliaco (cf 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16) non deve trarre in inganno, perché questa descrizione, tutta luce e niente ombre, è da collegare ad un genere letterario particolare, quello di raccogliere in poche battute un quadro che risponde alle caratteristiche di stilizzazione, di idealizzazione e di modello attrattivo. Luca non fa altro che descrivere "il meglio" per fornire un valido punto di riferimento. Non intende certo negare o tacere le difficoltà che pure avvinghiano la giovane comunità: alcune sono originate all'esterno della comunità, altre all'interno. Tra quelle esterne ricordiamo la persecuzione nei confronti di Pietro e Giovanni, incarcerati, battuti e impediti nell'esercizio del loro ministero. Ci vuole ben altro per bloccare coloro che lo Spirito ha reso intrepidi testimoni! Gli interessati reagiscono con una puntuale disobbedienza, e, insieme alla comunità, con una preghiera corale. Ancora più perniciose le difficoltà che giungono dall'interno. La comunità fa anche l'esperienza di una costitutiva fragilità, nella triste ed enigmatica vicenda di Anania e Saffira. L'appartenenza formale (potremmo dire de iure) al gruppo cristiano non sancisce necessariamente una condivisione profonda del progetto di vita (de facto). Si potrebbero forse applicare anche a loro le parole di Giovanni nella sua prima lettera: "Sono usciti di mezzo noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri" (1 Gv 2,19). Si trattò di un fatto che riguardava una coppia; il caso fu presto risolto e archiviato, anche se il messaggio rimane a monito perenne.
Con l'episodio di 6,1-7, l'orizzonte si amplia e la crisi rischia di infettare la comunità, lacerandone il tessuto comunionale. Si profilano conseguenze devastanti. Da qui la necessità di capire il problema e di ben impostarlo per una corretta soluzione. Siamo in presenza di un brano, importante per almeno tre motivi: inizia una seconda grande parte degli Atti, in cui la comunità cristiana supera i confini di Gerusalemme e si prepara a portare il Vangelo nel mondo; la comunità cristiana conosce una nuova forma organizzatrice che delinea meglio la struttura della Chiesa e, accanto ai Dodici, si incontra il gruppo dei Sette; infine, non tutto è chiaro e sereno nella vita quotidiana della comunità e sorgono dei problemi; il brano mostra come si affrontano e come si risolvono.
Se analizzato e vivisezionato, il brano offre questa semplice struttura: introduzione (v. 1); proposta degli apostoli (vv. 2-4); accettazione da parte della comunità (vv. 5-6); conclusione (v. 7).

Il problema: diversità che crea contrasto

La nuova difficoltà, sorta all'interno stesso della comunità cristiana, viene meglio compresa se pensiamo ad un gruppo in rapida crescita. L'aumento del numero di cristiani, chiamati qui per la prima volta "discepoli", porta un nuovo problema, racchiuso nel termine complessivo di "malcontento". La rara parola greca gonghysmós conserva qui il semplice significato di mormorio o di mugugno, (2) originato dal fatto che una parte del gruppo si sente trascurato. Anche se finora la comunità è composta da soli giudei, è inevitabile che un accrescimento numerico porti a contatto mentalità diverse. (3) Esistono due diversi gruppi di giudei, distinti con l'appellativo di "ellenisti" e di "Ebrei".
Gli ellenisti sono giudei cresciuti in stretto rapporto con la cultura greca provenienti dalla diaspora, che li ha visti dispersi in tutta la regione del Mediterraneo; oppure essi traggono la loro origine da quelle zone palestinesi o dei dintorni che, in seguito alla penetrazione della cultura ellenistica sotto Alessandro Magno, hanno finito per assimilare la lingua ed i costumi greci. Per quanto riguarda il culto, essi dispongono di proprie sinagoghe nelle quali le Scritture vengono lette in greco. Proprio per venire incontro alle esigenze di questi giudei che conoscevano poco o non conoscevano affatto l'ebraico, si iniziò verso il III secolo a.C. la traduzione delle Scritture in greco, producendo quella poderosa opera conosciuta come la Traduzione dei Settanta (= LXX). Gli ebrei sono i nativi della Palestina, usano come lingua corrente l'aramaico, e leggono le Scritture in ebraico. Costituiscono, all'inizio della Chiesa, il gruppo principale della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Li caratterizza un forte attaccamento alle tradizioni dei padri che li porterà ad assumere atteggiamenti di chiusura, a differenza dei più aperti ellenisti che non vedevano di buon occhio.
I due gruppi insieme costituiscono i "discepoli", cioè il primo nucleo della comunità cristiana. Eppure sono divisi da forte contrapposizione, che potrebbe degenerare in aperta lacerazione. Incombe la minaccia di una scandalosa divisione all'interno della comunità. Proprio nel momento in cui la comunione di fede deve diventare visibile e operativa, viene rilevata una discriminazione tra i due gruppi cristiani. Gli ellenisti rimproverano agli ebrei, ai quali era affidata l'organizzazione dell'assistenza giornaliera, di trascurare le loro vedove. Il numero di vedove doveva essere consistente, poiché gli ebrei della diaspora avevano la consuetudine di trasferirsi a Gerusalemme negli ultimi anni della loro vita, per poter essere sepolti nella Città Santa. (4)
Anche se storicamente non siamo ben informati sul tipo di servizio, pensiamo con tutta probabilità che si trattasse di una specie di mensa popolare, capace di garantire il minimo vitale ai più bisognosi. Tale "distribuzione" (in greco diakonia, cf v. 1), già praticata nell'ambiente giudaico dell'epoca, "consisteva nel fornire una scodella di cibo ogni giorno ai poveri, anche quelli di passaggio, da parte di un gruppo che si incaricava della colletta nelle case. Era anche presente una cassa dei poveri che ogni venerdì forniva il denaro necessario per 14 pasti, ma soltanto ai poveri della città". (5) Neppure siamo informati sulla causa della trascuratezza; (6) possiamo invece stabilire, partendo dall'uso del tempo imperfetto (azione continuata nel passato), che la situazione si protraeva da un po' di tempo. Quindi, non siamo in presenza di un "disguido" o di un "imprevisto", al quale si cerca di rimediare all'ultimo momento, ma di un'azione abitudinaria. Da qui il contrasto tra i due gruppi. Come risolverlo? La soluzione arriva per gradi seguendo il metodo semplice ed essenziale di vedere, giudicare, agire.
La soluzione del problemaI Dodici (7) accettano senz'altro la critica mossa dagli ellenisti e sono stimolati a rivedere alcune posizioni. Essi seguono la traiettoria di vedere il problema, di giudicare la situazione e di agire con coerenza. Essi reagiscono senza esitazione per cercare di ovviare alla rottura venutasi a creare: giocano un ruolo mediatore per ristabilire l'unità. La protesta aveva quindi un suo fondamento, non privo di pericoli. Anche se probabilmente non erano loro a regolare il servizio delle mense, restavano i responsabili ultimi in quanto a loro venivano consegnati i beni (cf 4,35; 5,2). Inoltre come autorità costituita e riconosciuta, devono esaminare il caso. I problemi e le difficoltà devono essere affrontati, perché forme di mimetismo o di insabbiamento si rivelano poco produttive, quando non addirittura rovinose. TUTTI vengono convocati per iniziativa dei Dodici (autorità) al tavolo della discussione e TUTTI partecipano: "Allora i Dodici convocarono i discepoli (= i cristiani) e dissero" (6,2a). Per prima cosa essi coinvolgono la comunità, alla quale viene riconosciuta una propria dignità e corresponsabilità. Non si è in presenza di un'autorità dispotica, bensì "di una gestione che si potrebbe chiamare "democratica" e assembleare se i due termini non fossero carichi di connotazioni estranee alla mentalità di Luca". (8) La pedagogia adottata è quella del dialogo, che aiuta a ricomporre ogni situazione dopo una lite. Dopo aver convocato l'assemblea dei cristiani, gli apostoli esprimono la proposta concreta per superare la crisi: la disgiunzione del servizio alla parola di Dio da quello alle mense. Occorre distinguere i ruoli, articolare meglio la comunità. Gli apostoli invitano i "fratelli" della comunità a ricercare sette (9) uomini, che rinunciano a scegliere personalmente, limitandosi ad indicare le due qualità esigite, "buona reputazione e "pieni di Spirito e di saggezza", richieste a coloro che svolgono una mansione pubblica e direttiva (cf 1Tm 3,7-10).
La prima è la buona reputazione presso la comunità. In greco viene usato il verbo martyrein che significa, usato all'attivo, "rendere una buona testimonianza", e, usato al passivo, "riscuotere buona testimonianza". Nel nostro caso ha il senso passivo. In pratica, si esige dal candidato una condotta degna di lode, imparziale e disinteressata. Chi lo sceglie deve quindi fondarsi su ragioni documentabili.
La seconda caratteristica richiesta è la dote di Spirito e saggezza: "Qui il ruolo dello Spirito costituisce una garanzia e un presupposto. La pienezza delle Spirito è richiesta per coloro che dovranno essere scelti e ribadita nel case specifico di Stefano (cf At 6,3.5). In questo caso il ruolo dello Spirito si avvicina a quello di un indicatore di coloro sui quali l'elezione dovrà ricadere e diventa quindi segno distintivo per l'assunzione di un servizio che poi, almeno nei casi di Stefano e Filippo, si esplicherà come servizio della Parola". (10)
Una sostanziale novità viene dunque a inserirsi all'interno della vita comunitaria: per la prima volta si arriva ad una ripartizione dei compiti. La vocazione a predicare la parola di Dio viene così distinta dall'opera di servire alle mense. Gli apostoli riservano per sé il compito della "preghiera" e della "predicazione della parola".
Solo qui, al v. 4, la preghiera è presentata come specifico impegno dei Dodici. Luca non specifica se si tratti di preghiera personale o comunitaria, privata o pubblica. Egli sottolinea che la perseveranza nella preghiera rende possibile il servizio della parola. Questo servizio non appartiene in esclusiva agli apostoli, perché in seguito sarà esercitato da Stefano, Filippo, Barnaba e da tanti altri. Il loro specifico sta in una testimonianza, unica e irripetibile, che risale al ministero stesso di Gesù e a una missione divina. Nessuno più e meglio di loro è in grado di annunciare quel kerygma che salva, perché è annunciare Gesù stesso (cf 4,12).
La completa dedizione a questi due compiti essenziali spinge gli apostoli a liberarsi da altri impegni che potrebbero risultare di intralcio al perfetto adempimento della loro missione. Ben inteso, non vogliono scegliere la parte migliore o ripartire il lavoro tra direttivo e privilegiato da una parte e esecutivo e umile d'altra. Tali categorie sono aliene dallo spirito del testo, oltre che dalla vocazione apostolica. Essi "certamente stimano moltissimo l'attività caritativa, ma al tempo stesso sono anche coscienti della diversa graduazione dei doveri e conoscono il senso immediato della missione ricevuta dal Signore dopo la risurrezione". (11) Tale missione è chiara fin dall'inizio: "mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (1,8). Un loro eventuale maggiore impegno per le mense, li sottrarrebbe all'annuncio della Parola. Non sembra quindi saggio tralasciare un compito di loro specifica spettanza per attendere ad un altro, per quanto nobile e valido esso sia.
Fin qui la valutazione dei fatti e l'abbozzo di un progetto di soluzione. Nulla viene imposto autoritativamente da coloro che sono l'autorità costituita e pacificamente riconosciuta. La proposta avanzata dai Dodici incontra il pieno consenso di tutta la comunità, (12) che compie la sua scelta. Non siamo informati sulla modalità di scelta dei sette. Sappiamo però dall'elenco che i nomi sono tutti di origine greca. Il nome greco potrebbe essere portato anche da una persona non greca. (13) Nell'ipotesi, non impossibile, che le persone scelte siano tutte effettivamente di origine greca, potremmo concludere che, per fare cosa gradita ai giudeo-cristiani di origine ellenistica, la scelta sia caduta su esponenti di questa provenienza, mirando così ad un più facile superamento del disaccordo sorto.
Nell'elenco dei nominativi dei sette designati, solo accanto al primo e all'ultimo nome compaiono alcune precisazioni. Per primo viene nominato Stefano, il quale si distingue per la pienezza "di fede e di Spirito Santo". Egli risponde pienamente ai requisiti richiesti e di lui avremo in seguito un discorso dettagliato e il resoconto della sua morte. Di fatto si potrà constatare la pienezza di Spirito di cui si fa qui menzione. Nicola, l'ultimo dell'elenco, viene indicato come un proselito (14) di Antiochia. Degli altri non viene riportata alcuna informazione complementare, anche se Filippo sarà in seguito nominato (cf 8,26ss).
I neoeletti vengono presentati agli apostoli e insediati nel loro ufficio mediante l'imposizione delle mani accompagnata dalla preghiera. Il testo greco permette più di un'interpretazione a questo riguardo: è stata tutta la comunità ad imporre le mani, oppure solo gli apostoli? Il v. 3 b ("ai quali affideremo quest'incarico") lascerebbe intendere che solo gli apostoli sono attivi. Del resto, l'imposizione delle mani, gesto che riprende un'antica usanza giudaica, è già attestata nell'AT per indicare la trasmissione di determinati poteri (cf Nm 27,18; Dt 34,9).
È la prima forma di struttura ecclesiale, dopo la composizione del gruppo apostolico; è un primo passo verso la distinzione dei ruoli e la collaborazione diversificata. Se lo si vuole, possiamo parlare anche di decentramento del "potere", se intendiamo per potere l'esercizio di un'autorità che promuove il bene comune.
Il testo biblico riserva agli studiosi tanti interrogativi e aspetti oscuri come l'identificazione del preciso ruolo sociale, la partecipazione o meno al sacramento dell'ordine (diaconato), la creazione di una struttura parallela a quella esistente e tanti altri. Non è nostro compito affrontare tali questioni nel presente contesto. A noi è bastato mostrare come un problema ecclesiale è stato accolto, giudicato e risolto.
Una indiretta approvazione del metodo seguito e una conferma del ritrovato equilibrio vengono dal versetto conclusivo: "Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme" (6,7). Grazie alla designazione dei sette, la crisi interna della comunità è superata. La rimozione dell'ostacolo permette alla prima Chiesa di riprendere il suo progressivo e gioioso cammino di crescita. La nuova organizzazione adottata all'interno della comunità è da subito apportatrice di frutti: la Parola di Dio si diffonde, il numero dei discepoli aumenta considerevolmente e persino un gran numero di sacerdoti (15) diviene credente. Questo versetto sembra esprimere il placet dello Spirito Santo che benedice una comunità che ha trovato la capacità e la forza per affrontare e superare i propri problemi.

Un insegnamento per le nostre comunità ecclesiali

Difficoltà e incomprensione accompagnano e turbano anche le nostre comunità ecclesiali. Il brano insegna che davanti ad un problema che rischiava inquinare i rapporti dei primi cristiani si è adottata una linea di soluzione che, partendo dalla istanza iniziale, dopo una valutazione, è approdata ad una conclusione rispettosa delle persone e dei diversi ruoli. L'unità e la comunione di una comunità non sono incrinate dai problemi o dalle difficoltà, bensì dalla non voglia di guardare in faccia i problemi, oppure dalla egoistica difesa cl: interessi di parte. Là dove affiorano buona volontà, serenità di valutazione capacità decisionale, lo Spirito benedice e fa crescere una comunità che si dimostra accogliente e capace di fantasia.
I cristiani maturi sanno che esistono le difficoltà e davanti ad esse né si scoraggiano né si nascondono, ma le valutano e le affrontano alla ricerca di una equilibrata soluzione. Sanno applicare il criterio valutativo e operativo che Paolo indicava alla giovane chiesa di Tessalonica: "Non spegnete lo Spirito [ ... ], esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono" (l Ts 5,19.21). Così la chiesa è cresciuta e si è scoperta una realtà senza frontiere, ha preso coscienza sé, in modo definitivo, come chiesa in dialogo con il mondo, chiesa per il mondo (cf la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam e il documento de Vaticano II Gaudium et Spes). Le difficoltà interne ed esterne, accolte e superate, hanno stimolato questa apertura, hanno dimostrato un forte equilibrio, hanno creato comunione tra autorità e semplici fedeli, hanno promosso la maturazione di tutti. Venti gagliardi di opposizione si abbatteranno, passando dalle minacce o dall'imprigionamento alla persecuzione violenta. Stefano è la prima vittima, ma altresì il primo luminoso esempio che si è forti, della fortezza dello Spirito, anche quando si soccombe morendo. Il vero vincitore è proprio colui che muore per la fedeltà al suo Signore. Considerando lo sviluppo degli eventi, forse viene da ripetere anche in questo caso: felix culpa.

Note

1) B. PAPA, Atti degli Apostoli, I, EDB, Bologna 1981, p. 175.
2) Il termine greco ricorre quattro volte nel NT: Gv 7,12; At 6,1; Fil 2,14; 1 Pt 4,9. Solo nel primo caso mantiene il significato più teologico di mormorazione nel senso di mancanza di fede, come spesso nell'AT (cf Es 16,7.8; Nm 17,5.10), cf K. H. RENGSTORF, GLNT, II, coll. 587-590.
3) "È un principio elementare di sociologia: finché un gruppo è ristretto, è facilmente governabile e l'autorità che vi si esercita può essere di tipo famigliare. Ma quando si allarga e quanto più si allarga, diviene sempre meno governabile in quel modo. Sono necessarie un'organizzazione ed una autorità più forti, proprio per evitare inconvenienti e rivalità tra i vari gruppi che inevitabilmente si formano in una grande massa, pur animata da uno stesso alto ideale e fortemente aggregata intorno ad una autorità carismatica da tutti riconosciuta; nel nostro caso quella dei Dodici", G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, Libreria Editrice Gregoriana, Padova 1991, p. 95.
4) B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180.
5) La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 2598.
6) Cf G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit p. 97 "La causa potrebbe essere stata anche banale, come la non comprensione della lingua aramaica e la conseguente impossibilità di spiegarsi".
7) L'uso assoluto "i Dodici", frequente nei Vangeli, appare solo qui e in 1 Cor 15,5 nel resto del NT, cf G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, I, Paideia, Brescia 1985, p. 590.
8) R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, Borla, Roma 1984, p. 203.
9) Scrive G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit., p. 98: "Il numero sette per consigli amministrativi era abbastanza diffuso sia in ambiente giudaico che romano. Sette erano i membri del consiglio amministrativo delle comunità giudaiche locali. Sette erano pure i membri degli antichi collegi romani, chiamati "semptemviri", cui incombeva il compito di organizzare le funzioni liturgiche (a Giove) per i giochi popolari".
10) G. BETORI, Lo Spirito e l'annuncio della parola negli Atti degli apostoli, "Rivista Biblica" 35 (1987), p. 425.
11) J. KORZINGER, Atti degli Apostoli, cit., p. 156.
12) La traduzione CEI "tutto il gruppo" potrebbe essere intesa come una delle due parti in causa; il termine greco pléthos indica inequivocabilmente tutta la comunità.
13) Per il fatto che nell'elenco solo Nicola sia detto proselito, qualche autore propende a ritenere tutti gli altri di origine giudaica, cf R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p.299.
14) Precisa A. MISTRORIGO, Guida alfabetica alla Bibbia, voce Proseliti, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 485: "Erano i pagani convertiti al giudaismo. Ce n'erano due classi: da un lato stavano coloro che accettavano la circoncisione e la Legge ed erano, perciò, riconosciuti Giudei di nazione e di religione; dall'altro non mancavano i riluttanti al rito della circoncisione, i quali si limitavano ad osservare il monoteismo, il riposo del Sabato, la frequenza alla sinagoga e il contributo al Tempio. Costoro erano assai numerosi e si trovavano sparsi dappertutto. San Paolo nei suoi viaggi ne incontrerà molti e li troverà ben disposti ad accogliere il Vangelo".
15) Difficile interpretare rettamente l'identità di queste persone. I commentatori sono divisi: per R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 206, sono sacerdoti di rango inferiore, per B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180, è gente proveniente dagli esseni di Qumran, per G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 598, sono i sacerdoti del tempio.

(da Parole di vita, n.2, 1998)
Pubblicato in Bibbia
Il secondo discorso di Pietro (At 3,1-26)

di Santi Grosso



Il secondo discorso tenuto da Pietro negli Atti degli Apostoli (At 3,11-26) è occasionato dalla reazione del popolo di fronte alla guarigione dello storpio. I due apostoli, Pietro e Giovanni, che lo hanno incontrato mentre chiedeva l'elemosina alla porta Bella del tempio, devono giustificare la guarigione miracolosa di fronte a un popolo stupito e meravigliato.
L'azione taumaturgica è così stupefacente che si presta a più di una interpretazione. C'è il rischio che la gente, presa dall'entusiasmo e dal fanatismo, cominci a fraintendere il ruolo che i due apostoli hanno avuto nella guarigione.
Il motivo per cui Pietro rivolge il suo discorso ai presenti è proprio per spiegare il gesto da lui compiuto. In questo senso, la seconda allocuzione tenuta dal capo degli apostoli ha la stessa funzione della prima, diretta agli abitanti di Gerusalemme dopo l'evento straordinario ed eclatante della Pentecoste: egli, rivolgendosi ai presenti, deve dare la corretta spiegazione di ciò che è accaduto.

Presentazione letteraria

A grandi linee il discorso è suddiviso in due parti, secondo la ripartizione che il narratore stesso dà a questo testo nel quale per due volte Pietro si rivolge direttamente al suo uditorio: "Uomini di Israele" (v. 12) e "Ora, fratelli" (v. 17). Questa duplice menzione dei destinatari divide l'allocuzione in due parti: nella prima Pietro si concentra sull'annuncio di Dio che si rivela in Gesù, il quale è stato il vero autore dell'azione guaritrice (vv. 12-16); nella seconda l'apostolo invita alla conversione nella prospettiva della venuta ultima e definitiva del messia (vv. 17-26).
Se confrontato con gli altri discorsi degli Atti, si scopre che anche questo è costruito con lo stesso canovaccio. L'introduzione è sempre data dall'aggancio con la situazione immediata (cf v. 12), centrale risulta la proclamazione kerygmatica di Gesù il crocifisso, morto e risorto (cf vv. 13b-15). Per dimostrare che Gesù è il compimento della rivelazione di Dio, gli autori dei discorsi degli Atti inseriscono delle citazioni scritturistiche (cf vv. 13.22-23.25). L'allocuzione si rivolge ai destinatari con l'appello alla conversione (vv. 19.26).
Mentre nel primo discorso petrino (At 2,14-41) il centro verte fortemente sul kerygma cristiano e soltanto alla fine il capo degli apostoli invita l'uditorio al la conversione, nel secondo l'annuncio di Gesù il Signore crocifisso risorto costituisce soltanto la fase preliminare dell'appello alla conversione che in questo testo appare abbastanza articolato e illuminato da elementi nuovi: la prospettiva minacciosa del giudizio futuro (v. 20); l'avvertimento dell'importanza del presente come tempo di decisione (vv. 22-24); l'indicazione del ruolo d'Israele nella storia della salvezza (vv. 25-26).
La scenografia creata dal narratore per il discorso è data dal portico di Salomone, che si estendeva lungo la parte orientale del cortile dei pagani al di fuori della porta di Nicanore. In questo luogo dove si raccoglieva la gente a discutere e i maestri giudaici tenevano il loro insegnamento, anche la comunità cristiana si ritrovava. (1)
Non è né casuale, né fortuito, che nel primo e nel secondo discorso sia proprio Pietro a prendere la parola. Egli è il capo degli apostoli, il leader autorevole, responsabile e allo stesso tempo portavoce di tutto il gruppo dei credenti.

Il vero autore del miracolo

Come abbiamo detto, è lo stupore del popolo che induce Pietro a prendere la parola e a dare una spiegazione di ciò che è accaduto. Egli si rivolge al suo uditorio con l'appellativo "Uomini di Israele",(2) mettendo immediatamente in guardia i suoi destinatari che il miracolo operato non è il risultato delle loro capacità terapeutiche e magiche, nemmeno delle loro particolari attitudini o predisposizioni spirituali. (3)
Per scoprire il vero autore del miracolo, Pietro fa compiere ai suoi ascoltatori un percorso che parte dalla comune esperienza che sia essi che lui hanno in Dio, riconosciuto appunto attraverso la formula di fede ripresa dall' Antico Testamento: Egli è "il Dio di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri" (cf Es 3,6.15).
Questo Dio, che nell'esperienza biblica si rivela personale e vicino alla storia del popolo d'Israele di generazione in generazione, si è manifestato nella missione di Gesù, il "servo". (4) Tale appellativo, di marca anticotestamentaria, rimanda alla presentazione isaiana dell'inviato che esercita una solidarietà con il popolo e una fedeltà a Dio fino alla morte (Is 52,13; 53,10-12). Il titolo non descrive soltanto la relazione di dipendenza di Dio, ma anche il suo rapporto profondo e privilegiato con lui. (5) E in virtù di questa relazione particolare che Gesù è stato glorificato dal Padre attraverso la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo.
Per mostrare come Gesù sia stato scelto da Dio per esercitare la sua missione messianica, Pietro mette in rilievo il contrasto tra l'azione dei Giudei, che hanno cercato di sopprimere il messia, e il piano stesso di Dio, il quale invece ha voluto per lui un destino di risurrezione.
I giudei per uccidere Gesù lo hanno dovuto consegnare a Ponzio Pilato, il governatore romano che aveva la responsabilità su tutte le esecuzioni capitali eseguite in Palestina, territorio occupato dai Romani, dimostrando così di rinnegare il "santo" e il "giusto". (6) Troviamo di nuovo dei titoli che, assieme a quello di "servo", mettono in rilievo come il discorso di Pietro sia impregnato di una cristologia che affonda fortemente le sue radici nella tradizione biblica.
L'assurdità del rinnegamento di Gesù si dimostra dal fatto che tra i due condannati a morte, il popolo ha scelto di salvare l'assassino Barabba, mentre ha richiesto l'esecuzione capitale per l'"autore della vita". (7) È il quarto titolo cristologico di questo discorso e crea un contrasto tra il destino di crocifisso e la vera identità di Gesù, datore della vita. Egli è la guida che inaugura una nuova via verso la vita, perché, con la sua vittoria sulla morte, diventa il capo di una umanità definitivamente rinnovata.

Ora Pietro si fa portavoce dell'annuncio specificatamente cristiano: quel Gesù giudicato colpevole e reo di morte, in realtà viene chiamato da Dio ad un destino di gloria che, secondo l'interpretazione lucana, corrisponde alla sua vicenda di risurrezione e di ascensione al cielo (cf Lc 24; At 1).
I garanti di questo evento sono gli stessi apostoli che sono stati i primi destinatari delle apparizioni di Gesù dopo la sua risurrezione. La loro autorevole testimonianza nasce soltanto dall'esperienza diretta e personale dell' incontro con il Risorto, così come Luca nella sua opera ha cercato di descrivere (Lc 24,36-49; cf At 1,8).
Il discorso, avviato come giustificazione del miracolo compiuto da Pietro, è poi passato alla proclamazione di fede nel Dio di Israele che si conosce nella storia e che si incontra personalmente, alla fine, è approdato all'affermazione che questo Dio si è pienamente manifestato nella missione di Gesù.
Il percorso che l'oratore sta facendo fare al suo uditorio, serve a dimostrare come il miracolo operato al tempio in favore dello storpio non sia altro che il risultato dell'azione di Dio attraverso la persona di Gesù. Questi non è uno dei tanti presunti messia che fanno leva sulle proprie capacità carismatiche o terapeutiche, ma l'Atteso dal popolo d'Israele.
La salvezza portata da Gesù corrisponde alla reintegrazione fisica e sociale dell'uomo. Il Dio di Israele si rivela nel messia in modo sempre più preciso come un Dio che salva l'uomo dai suoi drammi e dalle sue disavventure storiche. Non è stratosferico e disincarnato, ritirato nel suo mondo celeste e quindi assente, ma entra nella storia degli uomini e li salva dalle loro sconfitte umane.
Pertanto il vero autore di questo miracolo sconvolgente non è altro che Gesù, il Signore che il popolo di Israele ha rifiutato. Tuttavia il motivo che ha reso possibile il suo intervento efficace e salvifico ancora oggi, mentre egli si trova glorioso in cielo, è la "fede" in lui professata dalla comunità cristiana. (8) Ma non si può fare della fede "nel nome di Gesù" una formula magica. Essa presuppone la conoscenza della persona e dell'opera di Gesù. Solo la fede rende possibile e comprensibile il miracolo, che può essere invece oggetto di strumentalizzazioni fanatiche e integriste o fideistiche.

Le conseguenze "sociali" del miracolo: una nuova comunità

Nella seconda parte del discorso Pietro, facendo leva sull'evidenza del miracolo accaduto davanti a tutti, mette in rilievo come il rifiuto che ha condotto Gesù alla morte da parte del popolo e dei capi è però causato dall' "ignoranza", ovvero dall'incapacità dei Giudei di riconoscere in quel falegname di Nazaret l'inviato di Dio. (9)
Tuttavia l'uccisione di Gesù da parte dei giudei non significa lo scacco del piano di Dio, ma il suo compimento. Il progetto che fa di Gesù il Signore glorioso non dipende dalle scelte umane, ma le supera, trascendendole. Infatti proprio da una lettura approfondita della volontà di Dio, codificata nella tradizione biblica, si capisce che il messia avrebbe dovuto essere sottoposto ad un destino di sofferenza e di morte (Lc 9,22; 17,25; 22,15; 24,26.46; At 1,3; 17,3). L'opera lucana infatti mette in rilievo come la sorte inspiegabile di Gesù, anche se è stata in realtà causata dal rifiuto del popolo giudaico, sia geneticamente in scritta nel piano di Dio, di cui costituisce l'adempimento.
A causa di questo rifiuto Israele ha perso per sempre l'occasione della salvezza? Certamente no, se rispondono all'invito di Pietro che sollecita il popolo al pentimento e alla conversione. Attraverso due imperativi, "pentitevi [ ... ] convertitevi", (10) l'apostolo segna il percorso che i giudei devono intraprendere per non perdere definitivamente l'occasione di essere salvati. Infatti la croce non inaugura il tempo della vendetta di Dio, ma quello del perdono e della riconciliazione. È questo l'itinerario che gli Atti degli Apostoli stabiliscono sia per i Giudei che per i pagani, i quali sono chiamati ad aderire all'esperienza ecclesiale che ha come contenuto il kerygma cristologico.

Il perdono, o cancellazione del peccato, non avviene più attraverso lavacri e riti di purificazione, ma proprio attraverso la presa di coscienza del proprio peccato (in questo caso è il rifiuto del messia) e nell'adesione ad uno stile di vita nuova che significa partecipazione all'evangelo proclamato.
Soltanto dopo il riconoscimento da parte di Israele che Gesù di Nazaret è il messia promesso, giungeranno i "tempi della consolazione", espressione di marca apocalittica che descrive il momento dell'inizio del tempo escatologico, inaugurato dal ritorno dell'inviato messianico. Gesù infatti resterà nel mondo celeste fino al momento della "restaurazione di tutte le cose", quando egli porterà a termine la storia mediante il suo giudizio.
Per fondare questo annuncio che vede come protagonista del tempo finale Gesù, il Signore crocifisso e risorto, Pietro ora ricorre ad un collage di testi biblici anticotestamentari che venivano usati nel mondo giudaico per annunciare la venuta del messia.
Il testo, composto da Dt 18,15 (11) e Lv 23,29, presenta l'arrivo di un messia, identificato con caratteristiche sia mosaiche sia profetiche. (12) Di fronte al "profeta" atteso, due sono le possibili reazioni del popolo: una di accoglienza, l'altra di rifiuto. Chi respingerà la parola da lui portata verrà estromesso dal popolo.
Attraverso questa composizione biblica il narratore degli Atti degli Apostoli intende presentare la sua prospettiva della storia della salvezza che sfocia nella costituzione della comunità cristiana.
La chiesa non è una cellula impazzita del popolo d'Israele, ma ne è l'evoluzione più matura e autentica. In altre parole chi non ascolta la parola del "profeta escatologico" non può entrare a far parte del nuovo popolo. Al contrario, chi accoglie quella parola di salvezza è chiamato ad aderire finalmente in modo profondo alle esigenze di Dio che si rivelano nella storia.
Che il nuovo popolo di Dio non coincida più con un'etnia, una razza o una cultura, secondo la concezione ebraica, lo si capisce dal riferimento fatto da Pietro all'alleanza con Abramo di cui gli ascoltatori giudei sono figli. Il richiamo a questo personaggio è intenzionale (Gn 12,3). (13) Infatti Abramo, il primo credente della storia della salvezza, sancisce con Dio un patto nel quale egli ha una responsabilità non soltanto nei confronti del popolo di Israele, ma in rapporto a tutti i popoli della terra. Infatti egli, secondo la pagina biblica di Genesi, è chiamato a diventare una "benedizione" per tutte le famiglie della terra. Se con Mosè l'alleanza ha come contraente il popolo d'Israele, con Abramo entrano in causa tutte le genti della terra. La comunità dei discepoli si inserisce in questo grande piano di Dio che non prospetta la salvezza in modo elitario soltanto per Israele, ma che inscrive tutte le genti all'interno del suo intendimento salvifico.
La "benedizione" attesa attraverso la personalità del primo patriarca si realizza mediante Gesù, il servo. Tale benedizione consiste nell'entrare a far parte della comunità dei credenti fondata e radicata in Gesù, il Signore. Partecipando a questa potenza di risurrezione, la chiesa è effettivamente una comunità di benedetti e quindi salvati già da ora. La comunità dei credenti è l'ambito nel quale Dio vuole aprire le porte della salvezza non solo a qualcuno, ma a tutti.
Il discorso di Pietro riportato dal Libro degli Atti non è sicuramente un resoconto stenografico, né tanto meno un testo scritto a tavolino. Esso conserva dell'antica tradizione e catechesi cristiana quanto basta per illustrare la crisi dei rapporti tra la prima comunità credente e il popolo giudaico. Tuttavia ha acquistato nella riflessione cristiana una tale attualità, da incentivare i credenti a interrogarsi sul ruolo di Gesù Signore nella propria esistenza, sulla loro speranza di salvezza, sulla loro fedeltà al piano di Dio, sulla loro capacità di lettura e interpretazione di quegli eventi che continuano la potenza salvatrice di Gesù.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Note

1) Cf At 5,12; anche Ant XX,221.
2) Lo stesso appellativo viene usato nel discorso di Pentecoste (2,2) e nell'intervento di Gamaliele (5,35).
3) La domanda circa la responsabilità del miracolo verrà posta in seguito dal collegio sinedrita (4,7).
4) In questo discorso il kerygma non fa riferimento alla missione pubblica di Gesù, ma direttamente si concentra sul suo destino di glorificazione che ha avuto luogo attraverso la passione, morte e risurrezione.
5) Il titolo di "servo" rivolto a Gesù si incontra negli Atti quattro volte (3,13.26; 4,27.30).
6) Il titolo di "giusto" è riservato al messia anche in 1 En 38,2; 53,6. Si tratta tuttavia ancora di una velata allusione alla figura del servo "giusto e santo" di Is 53,11.
7) L'appellativo "l'autore della vita" è una espressione rara che ricorre solo negli Atti e nella Lettera agli Ebrei (At 5,31; 26,23; Eb 2,10; 12,2).
8) Abbiamo qui la prima comparsa negli Atti degli Apostoli del termine "fede" che risuona due volte nella dichiarazione di Pietro.
9) Il motivo dell'ignoranza si ritrova anche in l Cor 2,8. L'ignoranza che mette i giudei al pari dei pagani, è la radice del peccato (cf Rm 1,18-3,20).
10) Il verbo greco epistrephô ritorna per undici volte negli Atti; significa "volgersi verso" e sottintende il ritorno a Dio.
11) È questo un passo che nel giudaismo post-biblico ha mantenuto viva la speranza messianica, anche quando la monarchia davidica è andata in crisi.
12) I due testi dell'Antico Testamento sono citati e interpretati come a Qumran (4QTest 5-8; 1QS IX 11; 4Q 175).
13) La citazione di Abramo (Gn 12,3) è secondo la formulazione di Gn 22,18 (LXX).
Pubblicato in Bibbia
Gesù interprete delle Scritture
negli Atti degli Apostoli

di Pier Luigi Ferrari



La prima comunità cristiana ha vissuto, fin dagli inizi, la consapevolezza che Gesù aveva realizzato la secolare attesa d'Israele. Le Sacre Scritture dell'Antico Testamento convergevano verso di lui e gli rendevano una straordinaria testimonianza rivelando tutto d'un tratto la loro «vera portata».

Era stato Gesù stesso, durante la sua vita terrena, a inaugurare questa utilizza zione delle Scritture. Nella finale del suo Vangelo, Luca mette sulla bocca del Risorto, che affianca i due discepoli sulla strada di Emmaus nel giorno di Pa squa, una lezione di interpretazione «cristologica» dell'Antico Testamento: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, interpretò loro in tutte le scritture ciò che lo riguardava» (Lc 24,27). La sera stessa, apparendo agli Undici conti nua questa singolare istruzione: «Era necessario che si adempisse tutto ciò che è scritto di me nella Legge, nei Profeti e nei Salmi», indicando in tre punti il contenuto di tale compimento: 1) Il Messia doveva patire; 2) doveva risuscita re dai morti il terzo giorno; 3) nel suo nome il messaggio di salvezza doveva essere portato al mondo intero, comprese le nazioni pagane (cf Lc 24,44-47).

Sarà nel Libro degli Atti che Luca affronterà in maniera più organica questa dimostrazione. Egli dà sviluppo ad una operazione già avviata dalla prima comunità, la quale dopo avere semplicemente affermato che morte e risurre zione erano «secondo le Scritture», ha cercato precise citazioni della Bibbia disponendo tutta una serie di testimonia, che giustificassero il «bisognava» (in greco dei) dell'evento di Cristo.

Prima di presentare i testi sarà utile qualche nota sul metodo lucano. La sua lettura scritturistica suppone la Bibbia nella traduzione greca dei Settanta, tanto che per capire certe argomentazioni occorre partire da questa e talvolta dalle sue varianti. Quanto poi ai procedimenti esegetici degli Atti si scopre che essi hanno molto in comune con i midrashim giudaici: si nota la stessa adesione alla lettura del testo, vi si pratica una attualizzazione in rapporto al le circostanze del presente. Ma la vera novità distintiva di questa esegesi è che essa è sempre «messianica».

Attraverso le Scritture

Ripercorrendo 1'AT secondo il programma indicato dal Risorto - Mosè, i profeti e i Salmi - proponiamo qualche testo significativo sotto il profilo cristologico.

1. La legge di Mosè. Sono tre i personaggi della Torah (detto «pentateuco» o, semplicemente, «La legge»), la cui vicenda è letta in chiave cristologica. An zitutto nel compendio storico fatto da Stefano sono citati Giuseppe (7,9-16) e Mosè (7,17-42), mostrando come la loro vicenda è simile a quella di Gesù e ne è prefigurazione: rigettati ambedue dai fratelli o dagli Israeliti, rivestiti am bedue da Dio di una missione di salvezza a favore del loro popolo. Anche la promessa fatta ad Abramo, in base alla quale tutte le generazioni sarebbero state benedette nella sua «discendenza» (Gn 12,3; 22,18), viene letta in chia ve cristologica: questa «discendenza» è Cristo e nel suo nome si realizza la «benedizione» che comporta l'evangelizzazione dei pagani.

Altri due passi sono rilevanti per l'interpretazione cristologica. Grazie al l'ambivalenza del termine greco anistemi, che significa sia «suscitare» che «risuscitare», le parole dette da Dio a Mosè: «Io susciterò loro, in mezzo ai loro fratelli, un profeta simile a te» (Dt 18,15.18.19) sono interpretate da Pie tro (3,22) e da Stefano (7,37) come annuncio di un profeta che sarebbe stato risuscitato da Dio. At 5,30 e 10,39 vedono nella citazione della Legge che di chiara «maledetto chi pende dal legno» (Dt 21,23), dove si allude evidente mente alla pena capitale, una allusione alla crocifissione del Messia: è Gesù colui che, sospeso al legno della croce, è stato messo nella situazione di uno che la legge dichiara maledetto (cf 1 Pt 2,24 e Gal 3,13).

2. I profeti. È noto che il giudaismo con la parola «profeti», oltre agli scritti profetici propriamente detti, indica anche l'insieme dei libri storici. Mentre scarso è il rilievo dato dagli Atti a questi ultimi, diversi sono i passi di profe ti interpretati in chiave cristologica. Ne vediamo alcuni tra i più interessanti. La citazione di Gioele (3,1-5a), fatta da Pietro nel giorno di Pentecoste (2,17-21), concludeva che per essere salvati nell'ultimo giorno occorreva «in vocare il nome del Signore». Pietro spiega che questo Signore è Gesù, pro clamato tale mediante la sua risurrezione, il cui nome dev'essere invocato da quanti vorranno essere salvati nell'ultimo giorno. Anche il racconto di Giona (2,1) secondo il quale il profeta stette per tre giorni nel ventre del pesce, già letto tipologicamente da Gesù (cf Lc 11,29s), è alluso nell'insistito particola re della risurrezione di Gesù il «terzo giorno» (10,40; cf 1 Cor 15,4).

Un testo profetico ha colpito in modo particolare la prima generazione cri stiana: il grande Canto del Servo sofferente del secondo Isaia (Is 52,13 -53,12). Esso è citato esplicitamente una sola volta nel contesto dell'incontro di Filippo con l'etiope (8,32-33), ma si trovano in tutto il libro numerose allusioni che lasciano trasparire la profonda influenza di questa profezia. Si identifica Gesù, sofferente e risorto, con il servo che il profeta descrive come vittima innocente che soffre per riscattare i peccati di molti. Con lo stesso criterio è utilizzato da Paolo nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia (13,47) anche il passo di Is 49,6, dove il misterioso Servo è costituito da Dio «luce delle nazioni» con la missione di portare la salvezza di Dio «fino alle estre mità della terra», quindi ai pagani.

3. I Salmi. Ampia risulta anche l'attualizzazione cristologica del Salterio, considerato dai primi cristiani come una raccolta profetica, composta dal «profeta» Davide.

L'utilizzo che la comunità cristiana, raccolta in preghiera, fa del Sal 2 (At 4,25-27) è un limpido esempio di come si faceva una lettura messianica dei Salmi. In questo caso, con una dettagliata applicazione alla passione di Gesù, si parla di una congiura dei popoli e delle nazioni contro il Signore e contro il suo Unto; i popoli corrispondono a Israele, le nazioni ai Romani; tra i con giurati vi sono Erode e Ponzio Pilato: tutti si sono dati convegno a Gerusa lemme contro Gesù, che è l'Unto di Dio.

Nel Sal 16,10 il salmista esprimeva la fiducia che Dio sarebbe venuto in suo aiuto nei pericoli: «Tu non abbandonerai la mia anima allo Sheol, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa». Partendo dalla traduzione greca della LXX, che al posto di «fossa» usa «decomposizione», Pietro il giorno di Pentecoste (2,25-61) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,34-37) applicano l'oracolo alla vicenda di Gesù, che non ha conosciuto la corruzione del se polcro perché risuscitato da Dio.

In Sal 110,1 è, fra tutti, il più abbondantemente utilizzato nelle varie tradizioni neotestamentarie perché non v'erano dubbi sul suo significato messianico. Il primo versetto: «il Signore (JHWH) ha detto al mio signore (Davide): siedi al la mia destra» è letto da Pietro, nel discorso di Pentecoste (2,34-36) come l'invito rivolto da Dio a Gesù Messia di sedersi alla sua destra in seguito alla sua risurrezione e intronizzazione. A questo Salmo si deve accostare il Sal 118,16, che torna in due discorsi di Pietro (2,33; 5,31), dove il Messia è esal tato alla destra di Dio (solo nella versione greca).

Due titoli significativi: Gesù Messia e Signore

L'attualizzazione cristologica della Scrittura trova una delle sue massime espressioni in due titoli che si imporranno nella tradizione cristiana anche a motivo del loro denso significato. Si tratta dei titoli Cristo e Signore, solen nemente proclamati nel discorso di Pietro il mattino di Pentecoste: «Sappia con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Messia (= Cristo) questo Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Nel pensiero della chiesa primitiva questi due titoli rappresentano i due aspetti fondamentali del la regalità di Gesù risuscitato, quantunque a questo stadio della tradizione non devono essere letti con quella pienezza di significato che acquisteranno solo nella riflessione cristologica successiva. Altri titoli presenti nel Libro de gli Atti, quali Servo di Dio, Santo e Giusto, Capo, Salvatore, Figlio di Dio, te stimonianze di una cristologia arcaica, cadranno presto in disuso - eccetto Figlio di Dio - e non si trovano più negli strati posteriori del NT.

1. Gesù Messia. Con la morte e la risurrezione di Gesù, la prima comunità cristiana comprese che egli era davvero il Cristo, cioè il Messia atteso. Que sto messaggio trovava garanzia nelle Scritture. Così vediamo che fin dai pri mi giorni gli apostoli a Gerusalemme «non cessavano di insegnare e di an nunciare, nel tempio e nelle case, il Messia Gesù» (5,42) e l'apostolo Paolo è impegnato a dimostrare che «questo Gesù è il Messia» nelle sinagoghe giu daiche della diaspora: a Damasco (9,22), a Tessalonica (17,3), a Corinto (18,5) e davanti ad Agrippa (26,22-23).

Questa predicazione comporta un salto di qualità rispetto alle attese messia niche del giudaismo. Prima della passione l'idea di Messia era legata, nelle credenze popolari, al figlio di David restauratore del regno di Israele, con un carattere eminentemente politico che aveva indotto Gesù a mostrarsi riserva to riguardo al titolo di Messia e a imporre cautela. Egli soprattutto aveva in sistito sulla necessità della sua morte come parte essenziale della sua missio ne messianica e salvifica. Ma dopo la risurrezione c'è uno spostamento di accento: i primi cristiani cominciano a valorizzare le profezie riguardanti un Messia che doveva morire e risorgere e il titolo di Messia perde il suo carattere regale con le risonanze politiche che poteva evocare: Gesù non ha re staurato il trono di Davide e quindi il titolo richiama ora solo la missione sal vifica che egli ha realizzato.

Un'ultima osservazione va fatta. Il titolo Christos-Messia appartiene inizial mente solo alla predicazione di tendenza apologetica destinata ai giudei. Quando esso viene trasferito nel mondo greco-romano subirà un'ulteriore evoluzione: sganciato definitivamente dal contesto giudaico nel quale era sor to, perde il suo valore e si avvia ad essere usato come un nome proprio, di ventando cognomen di Gesù.

2. Gesù Signore. Durante la sua vita terrena Gesù veniva chiamato normal mente Rabbi, Maestro, ma sono interessanti alcuni casi nei quali i Sinottici usano per il Gesù storico il titolo Kyrios perché dipende da essi l'uso invalso nella chiesa primitiva. Si tratta dei testi nei quali Gesù designa se stesso come «Signore», quando descrive la sua funzione di giudice sovrano e di re alla fi ne dei tempi: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore!» (Mt 7,21. 22); e ancora: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato ... ?» (Mt 25) e in alcune parabole espressioni quali: «Signore, Signore, aprici» (Mt 25,12).

È proprio in questa aspettativa che Gesù viene chiamato Signore dalla chiesa primitiva, la quale ha coscienza che con la sua risurrezione i tempi ultimi si sono compiuti. Essa si rivolge a Gesù come al Signore, figurandoselo assiso alla destra di Dio e pronto a manifestarsi come sovrano e giudice. Così Pietro il giorno di Pentecoste interpreta l'effusione dello Spirito come l'inizio di quei tempi definitivi. La speranza d'Israele cede il posto alla speranza cristia na. All'attesa del messia subentra l'attesa del Signore, espressa nella grande supplica liturgica: Marana tha! Signore vieni!

È singolare, poi, come alla luce della risurrezione si applichino alla persona di Gesù formule e testi dell'AT che parlano del Kyrios JHWH. Attribuendo al Risorto il titolo di Kyrios, la cristianità primitiva riconosceva che egli era sta to investito, nella sua umanità, di una funzione regale escatologica che era prerogativa veramente divina. Per osare attribuire a Gesù la regalità che il Dio dell'AT si riservava di esercitare personalmente alla fine dei tempi, i primi cristiani hanno dovuto concepire un'idea altissima del Risorto. A questo non hanno potuto essere condotti se non dall'insegnamento di Gesù stesso.

Infine va ricordata l'importanza che assume nella chiesa primitiva l' «invoca re il nome del Signore», sia nella liturgia cristiana (cf 1 Cor 11,26: 16,22; Ap 22,20), sia nelle confessioni di fede (cf Rm 10,5ss; 1 Cor 12,3; Fil 2,8-11). Il giorno di Pentecoste Pietro, concludendo la lunga citazione di Gioele, affer ma: «Allora chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21; Gl 3,5), un'idea ripresa dallo stesso Pietro in un successivo discorso (At 4,12)e da Paolo in Rm 10,12-13. È interessante annotare come in Fil 2,8-11 dal l'ambito delle assemblee cristiane si passa audacemente ad una liturgia cosmica: è l'universo intero che «confessa» il nome di Gesù, proclamando Signore il Risuscitato. Nel linguaggio della chiesa primitiva, «invocare il no me del Signore» sarà anche sinonimo di «essere cristiani» (cf At 9,14.21;22,16; 1 Cor 1,2 e 2 Tm 2,22). Forse uno degli esempi più belli di tale invoca zione è la preghiera di Stefano durante il martirio: «Signore Gesù, accogli il mio Spirito» (At 7,59), rivolta a colui che si trova alla destra di Dio (7,55-56), come Gesù aveva dichiarato dinanzi ai suoi giudici (Lc 22,69).

Conclusione

La cristologia degli Atti è essenzialmente pasquale. Tutta l'attenzione della comunità delle origini è concentrata su questo evento decisivo: Gesù di Na zaret, il Crocifisso, è stato risuscitato e siede alla destra di Dio, divenuto sal vezza per noi. È la risurrezione ciò che gli apostoli propriamente proclamano come vangelo e lieto annuncio: così Pietro, riassumendo la missione dei Do dici, afferma che il loro compito precipuo è di essere «testimoni della risurre zione» (1,22) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia: «Noi vi portiamo questo messaggio di salvezza: Dio ha fatto risorgere Gesù» (13,32).

Questa affermazione della risurrezione di Cristo, per essere compresa, viene collocata sullo sfondo delle Scritture e attraverso di esse viene mostrato il ca rattere messianico. Per i primi cristiani si tratta di provare a se stessi e ai Giu dei il profondo collegamento tra questo singolare evento di Gesù e l'attesa di fede dell'antico popolo di Dio. Anzi, se la salvezza promessa da JHWH nel l'AT consisteva in una sua presenza, in un suo dono, ora agli occhi dei primi cristiani appariva del tutto logico, sia pure nella sua radicale imprevedibilità. che Gesù risorto, costituito Cristo e Signore, era questo «dono», il decisivo gesto salvifico di Dio, la sua comunicazione personale agli uomini.

La risurrezione però non cancella tutto quanto l'ha preceduta. Anzi, chi è ri sorto, è quel Gesù di Nazaret del quale sono menzionati la nascita storica, la discendenza davidica, il ministero pubblico preceduto dalla predicazione del Battista, i miracoli e, infine, la morte avvenuta per una condanna sulla croce. È nella duplice luce della risurrezione e delle Scritture che viene riletta e in terpretata la vita terrena di Gesù. Egli appare ora ai loro occhi come un esse re singolare, «unto di Spirito Santo e di potenza» (10,38), non racchiudibile entro schemi puramente umani. I discorsi missionari fondano l'annuncio del vangelo su questa identità costantemente affermata tra Gesù terreno e Risor to, tanto che per poter essere «testimoni della risurrezione» nel senso indica to da Pietro quando si trattò di sostituire Giuda, bisogna essere tra quelli che sono stati con Gesù «per tutto il tempo che ha vissuto con noi cominciando dal battesimo di Giovanni» (1,21-22).

In ultima analisi, di questo danno testimonianze le Scritture: in Gesù è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio dei nostri Padri» (3,13) che ri vela il suo volto; è lui che lo ha risuscitato mostrandosi in modo definitivo come il Dio fedele alla promessa, colui che anche dalla morte sa «suscitare-ri suscitare» la vita, colui che «non permette che il suo Santo veda la corruzio ne». Meditando la Scrittura, i primi cristiani maturano la convinzione che il Dio vivente è il Dio indefettibilmente fedele.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Pubblicato in Bibbia
L'intervento di Gamaliele (At 5,17-42)

di Karin Heller

Per un lettore del Nuovo Testamento la persona di Gamaliele è indissociabile da due fatti: Gamaliele è stato il maestro ebreo di San Paolo. Scrive l'apostolo: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, […] formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna» (At 22,3); poi Gamaliele è intervenuto nel momento della comparsa degli apostoli davanti al Sommo Sacerdote e al sinedrio, evento che ci è tramandato nel brano che commentiamo. Prima di chinarci su questo evento, cerchiamo di conoscere meglio la persona di Gamaliele.

Chi è Gamaliele?

II nostro testo presenta Gamaliele come «dottore della legge, stimato presso tutto il popolo» (At 5,34). La stima che circonda questo personaggio è confermata dalle fonti rabbiniche per le quali Gamaliele I, detto «l'Anziano», è un nassi, vale a dire, un patriarca, un membro eminente del sinedrio. (1) Gli è anche attribuito il titolo onorifico di Rabban, cioè «nostro maestro», invece del titolo di rabbi che significa «mio maestro» e designa in modo abituale i saggi del Talmud. (2) Il nonno di Gamaliele era il grande maestro Hillel, principale capo di una scuola farisaica, conosciuta per la sua interpretazione generalmente liberale della Legge, opposta alla tendenza rigorista della scuola di Shammai. (3)

Gamaliele si colloca nella linea dell'eccellente nonno: introduce disposizioni importanti quanto alla rimessa dell'atto di ripudio per assicurare una migliore protezione alla donna e rende per la donna abbandonata o separata, chiamata agounah, più elastiche le condizioni necessarie per provare la morte del marito. (4) Inoltre afferma che occorre trattare i pagani allo stesso modo degli ebrei per quanto riguarda la carità (aiuto materiale, visite ai malati, funerali, conforto nel momento del lutto). Gamaliele è riconosciuto come autorità rispetto alla Halakha, cioè i problemi relativi alla pratica rituale e alla legislazione civile e penale. Il re Agrippa I e la sua sposa, Berenice (gli stessi davanti ai quali comparirà anche Paolo), (5) lo consultano al riguardo. (6)

Non possediamo di Gamaliele commenti di testi biblici. Il Talmud gli attribuisce qualche saggio consiglio all'indirizzo dei suoi discepoli come: «Procuratevi un buon maestro per essere liberati dal dubbio; quando pagherete le imposte, fatelo con precisione». (7)

Pietro e gli apostoli a Gerusalemme

Nel libro degli Atti, l'entrata in scena di Gamaliele è preceduta da una situazione precisa, alla quale il grande maestro della Legge non è totalmente estraneo. Lui, che ha formato Paolo, conosce tutto il peso della storia del passato d'Israele; lo studio, la meditazione, il commento delle Scritture e la predicazione, attingono in continuazione a questo passato. Gamaliele, come San Paolo, è un fariseo. La loro caratteristica è la scrupolosa osservanza della Legge, la fede incrollabile in Dio che guida la storia in chiave escatologica e una viva attesa del Messia. (8) La tradizione dei Padri costituisce quindi un riferimento permanente nel loro parlare e agire. È ciò che praticano non soltanto Paolo, (9) ma anche Stefano, (10) poi Pietro stesso assieme con gli apostoli. Difatti, dal giorno della Pentecoste fino alloro arresto menzionato nel cap. 5, gli apostoli non cessano di predicare, appoggiando la loro predicazione sulle meraviglie compiute da Dio nel passato. Anzi Pietro ha già pronunciato quattro dei suoi otto discorsi contenuti nel libro degli Atti (11) e Gamaliele stesso assiste al suo quinto discorso (At 5,29-32).

In quel momento preciso della storia della giovane Chiesa, quest'ultima è già diventata una comunità numerosa, cioè si è compiuta per lei la promessa fatta da Dio ad Abramo: «nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra», (12) o, per dirlo, con le parole di San Paolo: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). Quando ci si china sui diversi testi che presentano tale predicazione, si constata che non si tratta di una lezione scolastica sulla storia, né di un discorso di morale. Ma la predicazione o kerygma significa «predicare Gesù Cristo» o predicare «il regno di Dio». Il termine non mira a designare l'atto della predicazione, ma il suo contenuto. Lo studio dei diversi testi manifesta che questo contenuto comporta in generale sei punti: 1. l'annuncio che i tempi sono compiuti; 2. l'affermazione che il compimento si è realizzato con la morte-risurrezione di Gesù; 3. la proclamazione di Gesù glorificato, ormai alla destra di Dio, capo messianico di un popolo nuovo; 4. l'affermazione che lo Spirito Santo è il segno del compimento della promessa divina; 5. la chiamata alla conversione; 6. la dichiarazione che gli apostoli sono i testimoni di tutto ciò.

Il discorso che tiene Pietro insieme agli apostoli davanti al sommo sacerdote, al sinedrio, e a Gamaliele, non fa eccezione. Le parole di Pietro secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29) sono la risposta al sommo sacerdote che aveva proibito agli apostoli, inutilmente, di «non insegnare più nel nome (di Gesù)». Pietro non esita a proclamare la sua dottrina addirittura di fronte a coloro che cercano di farla sparire da Gerusalemme. Ricorda ai suoi uditori, tra i quali Gamaliele e probabilmente altri eminenti dottori della Legge, che l'iniziativa degli eventi accaduti appartiene al «Dio dei nostri padri». Questa osservazione sottintende le altre meraviglie delle quali Israele fa memoria, e colloca la risurrezione di Gesù nella stessa linea. Anzi, la risurrezione di Gesù manifesta il totale indurimento del sinedrio che ha ucciso Gesù «appendendolo alla croce» (5,30); la stessa risurrezione manifesta altresì l'azione salvifica che Dio accorda sempre al popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9). (13) Pietro, poi, proclama il Cristo, innalzato alla destra di Dio, capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati (5,31). Infine conclude che di tutto ciò sono testimoni loro, gli apostoli, insieme allo Spirito Santo, dato a coloro che si sottomettono a Dio, cioè che hanno fede in ciò che Dio annuncia e realizza.

La formula «noi e lo Spirito Santo» può sorprendere. Non potrebbe sembrare un'espressione di presunzione? di temerarietà spirituale? di mancanza di umiltà? Si potrebbe argomentare in questo senso, se fossimo nel quadro di una conferenza "spirituale" qualsiasi. Ma siamo precisamente nel momento della proclamazione solenne del kerygma, cioè dell'evento pasquale che concerne la persona di Gesù. In quel momento, Pietro e gli altri apostoli non tengono una lezione di teologia pasquale più o meno appassionante, ma con la loro proclamazione rischiano la propria vita a causa di Gesù. La loro testimonianza non è semplicemente un atto a favore di una persona che ha subito un danno, atto che implica sempre qualche contrarietà; non è neppure il racconto più o meno lungo di «ciò che Dio ha fatto per me». Ma la testimonianza si rivela inseparabile dal testimone, perché essa gli fa condividere la passione di Gesù.

Tutto ciò che capita nel brano che commentiamo ci ricorda infatti che non basta proclamare «Cristo è risorto» per convertire la gente; occorre vivere, condividere il mistero pasquale nella propria carne. (14) E' proprio la condizione dell’apostolo: la proclamazione del kerygma si conclude con l'imprigionamento, seguito da una liberazione operata da Dio stesso. Si riprende la proclamazione del kerygma e, di nuovo, gli apostoli sono imprigionati, chiamati a comparire davanti ai tribunali, giustiziati, minacciati di morte e liberati per la mano potente di Dio che invia il suo angelo (5,18-33). Gli eventi sono tipicamente pasquali. Rinviano a Gesù stesso, arrestato dopo un periodo di predicazione, accompagnata da guarigioni ed espulsioni degli spiriti cattivi, giudicato, messo a morte e, infine, liberato dalle catene della morte per mezzo dell'azione divina.

L'opera del testimone sta fondamentalmente nel condividere il destino di Gesù stesso. Anzi, diventa chiaro che solo lo Spirito può permettere al testimone di andare fino in fondo, sigillando la sua testimonianza con il dono della propria vita. In questo caso, la formula «noi e lo Spirito Santo» non costituisce l'espressione di un orgoglio smisurato, ma è la parola autentica della stoltezza della croce (1 Cor 1,18ss). E in questa testimonianza degli apostoli che tutta la Chiesa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità attraverso i secoli. Ormai ogni membro della Chiesa può affrontare la prova del perdurare nel tempo, fino alla parusia, nella forza di questa testimonianza fondatrice: ogni giorno è chiamata a proclamare la morte del Signore, a celebrare la sua risurrezione, fino alla sua venuta.

Verità dell'uomo-verità di Dio

L'acclamazione pronunciata dall'assemblea cristiana dopo la consacrazione della celebrazione eucaristica rimane spesso una formula semplicemente prescritta dalle autorità ecclesiastiche. Ora, questa formula non è da recitare in modo più o meno distratto, o con la massima devozione, ogni volta che si va a messa; piuttosto, è da mettere in pratica nella vita quotidiana. Esprime in maniera concentrata il mistero cristiano che vale per ogni fedele, laico, diacono, prete, e vescovo. Chiama tutti a un servizio autenticamente sacerdotale. E l'espressione del sacerdozio comune a tutti i battezzati, uomini e donne, e a coloro che sono ordinati in vista della celebrazione liturgica del mistero pasquale di Gesù. Consiste nel proclamare di fronte ai membri della propria famiglia, agli amici, a coloro che incontriamo spesso o che passano soltanto, ciò che è accaduto a Gesù, cioè: è stato messo in croce dagli uomini, e, per usare le parole di Paolo, «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).

Di questo Vangelo potente, la parte che probabilmente pone più difficoltà è quella del confessare Gesù messo in croce dagli uomini. Difatti, già il sinedrio ha qualche problema ad ascoltare un tale messaggio, perché implica il riconoscimento della propria responsabilità nella morte di Gesù; questa responsabilità è espressa nella formula giudaica «del sangue che cade su un tale». (15) Dice infatti il sommo sacerdote a nome di tutta l'assemblea: «ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo» (5,28). Detto in altro modo, la predicazione degli apostoli manifesta l'implicazione del sinedrio nella morte di Gesù; sono colpevoli del sangue sparso da Gesù sulla croce. La proclamazione del mistero pasquale comporta quindi sempre la rivelazione di ciò che l'uomo è in verità: un essere che vive in una situazione umanamente inestricabile con i suoi e con Dio, un essere che non può mai dichiarare di fronte a Dio: «sono innocente, sono giusto, non ho fatto nulla di male». Per dirlo in termini di teologia classica: la passione e la risurrezione di Gesù rivelano che l'uomo è peccatore, incapace di salvare se stesso, ma è tuttavia sempre chiamato ad accogliere la salvezza offerta da parte di Dio.

Questa verità dell'uomo non piace a prima vista, e non piace affatto a uomini, come i Farisei, particolarmente convinti della loro giustizia davanti a Dio e davanti agli altri. Non sorprende quindi la loro reazione, fatta di sdegno, collera, passione omicida: «all'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte» (5,33). La situazione è quella di Gesù che rivela con la sua presenza l'uomo peccatore o lo mette di fronte a una scelta fondamentale: accogliere questa verità su se stesso per essere salvato, oppure rifiutare questa verità e rendere sempre più dura la propria posizione fino all'eliminazione fisica di colui che manifesta l'autentica verità dell'uomo.

L'argomento di Gamaliele

L'intervento di Gamaliele salva in quel momento gli apostoli da morte certa e violenta. Il capitolo seguente, infatti, si concluderà con il martirio di Stefano e non lascia nessun dubbio al riguardo. Gamaliele misura la fragilità umana di fronte a Dio che parla e agisce. L'uomo è come l'erba del campo che fiorisce, poi passa il vento, non esiste più e il suo posto non lo riconosce (cf Sal 103,15-16). I suoi progetti gli sono simili. Durano un tempo, poi crollano; Teuda fu ucciso e i suoi seguaci finirono nel nulla. Quanto a Giuda, anche lui perì e i suoi fedeli furono dispersi (5,36-37). Quanto alla parola di Dio, essa dura sempre (/s 40,8). Anzi è consigliabile all'essere umano di «non trovarsi a combattere contro Dio» (5,39).

L'opinione di Gamaliele è adottata dal sinedrio e dal sommo sacerdote. Perché? L'argomento di Gamaliele può essere inteso in due modi:

- Come nel caso di Teuda e di Giuda il Galileo, si saprà presto se Dio fa perdurare questa via. L'esempio del fallimento di questi due protagonisti presenta la durata dell'incertezza come breve.

- Un movimento come quello lanciato dalla predicazione di Pietro e degli apostoli è solido soltanto perché è opera divina. E lui che ne ha l'iniziativa, lui che lo mantiene, lui che lo fa crescere e che ne determina la durata. In quel caso è tolta la certezza che concerne «l'ora e il giorno», il rapporto tra la pazienza di Dio e la messa alla prova dell'attesa dei giusti.

L'opinione di Gamaliele è probabilmente adottata dal sommo sacerdote e dal sinedrio secondo la prima interpretazione. Soddisfa la loro impazienza, permette di chiudere rapidamente l'incidente. Evita la procedura della messa a morte e permette nondimeno di fustigare gli apostoli. L'eccesso di furore sollevato dalla rivelazione della loro ingiustizia è placato dall'applicazione della sanzione. Ma infine il problema è soltanto rinviato nel tempo. Essendo la prova della pazienza nell'aspettare il giudizio divino diventata insopportabile, si ricorre alla «giustizia», come è considerata da eminenti dottori della Legge divina, e si applica la condanna a morte.

Gamaliele è visibilmente un uomo moderato. Di più: è un uomo modera t in materia religiosa. Questa capacità di tolleranza religiosa ha la sua radice nell' esercizio quotidiano, praticato di generazione in generazione, da parte di coloro che aspettano in Israele il Dio che rivela allo stesso tempo se stesso. il fondo dei cuori umani, le loro opere personali e comunitarie. La difficoltà nell'acquisire questo tipo di tolleranza è messa in evidenza da tutti i conflitti contemporanei che hanno alla loro radice un problema religioso. Riguarda tutti: ebrei, musulmani, cristiani, fanatici religiosi di ogni sorta. Quanto alla convinzione di Gamaliele, essa esce dal cuore stesso della tradizione ebraica formata alla scuola dell' attesa apocalittica; essa insegna che occorre aspettare una rivelazione nuova, un fatto nuovo, per scoprire ciò è già stato annunciato e compiuto da Dio. Egli sa che Dio parla e agisce, ma è anche cosciente dell' incapacità umana di prendere le misure della parola e dell' opera divine.

La capacità umana risiede nell'aspettare e nello sperare che Dio riveli il significato profondo di un evento, che per il credente si chiama: Gesù Cristo.

Note

1) Dal 1948, il titolo di nassi designa il presidente dello Stato d'Israele. Il suo significato è «principe», «governatore».

2) Cf STRACK-BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, p. 626.

3) Al tempo di Gesù la scuola di Hillel e quella di Shammai discutevano in modo aspro sui motivi che possono condurre al ripudio della propria moglie. Vale a Gesù d'essere interrogato su questo tema (cf Mt 19,3).

4) Si tratta di una donna legata a suo marito che desidera risposarsi e non lo può sia perché il marito non le concede l'atto di ripudio, sia perché si trova nell'impossibilità di farlo a motivo di una malattia mentale o perché non esiste una prova formale del suo decesso.

5) Cf At 25,13ss.

6) Cf Dictionnaire encyclopédique du Judaisme. Éd. du Cerf, Paris 1993, p. 428.

7) Cf Aboth 1, 16. Citato in: STRACK-BILLERBECK, cit., p. 638.

8) Cf Parole di Vita n. 6/1994 interamente consacrato ai Farisei.10) Cf At 7,1-53.

11) Cf At 1,16- 22; 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43; 1l,5-17; 15,7-11.

12) Cf Gn 12,3; 22,18; At 3,25.

13) È ciò che appare in modo eminente nel discorso più lungo degli Atti, cioè quello di Stefano. Da notare in particolare l'insistenza sull'indurimento dei diversi protagonisti, lungo la storia, di fronte a Dio che salva.

14) Cf al riguardo 2 Cor 4,1-15, in particolare vv. 12-15: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. [ ... ] Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera in un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio».

15) Cf STRACK-BILLERBECK, cit., I, p. 1033.(da Parole di vita, 2,1998)

Pubblicato in Bibbia
L'inizio della persecuzione a Gerusalemme (At 4,1-31)

di Augusto Barbi




Questo primo momento di persecuzione, registrato nel Libro degli Atti degli Apostoli, va collocato nell'ampio affresco della vita della chiesa a Gerusalemme (cf 2,42-8,4). In tale affresco si alternano ricorrenti sommari (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16; 5,42; 6,7-8; 8,1b-4), che presentano in forma statica la vita della chiesa, e complessi narrativi (3,1-4,31; 4,36-5,11; 5,17-41; 6,1-6; 6,9-8,la) in cui la vita della chiesa è resa in modo dinamico per episodi drammatici. Nei complessi narrativi c'è pure una significativa alternanza tra quadri che riguardano la vita interna della chiesa (4,36-5,11; 6,1-6), dove vengono risolti conflitti della nascente comunità, e quadri di azione missionaria della chiesa, dove essa entra in conflitto con l'autorità e l'ambiente giudaico e subisce persecuzione nei suoi membri più rappresentativi (3,1-4,31; 5,17-41; 6,9-8,1a). Il nostro testo fa parte del primo di questi quadri (3,1-4,31), nei quali l'attività missionaria della chiesa diventa motivo di ostilità e di persecuzione, e va perciò visto in stretta connessione con gli altri due (5,17-41; 6,9-8,la).

I tre quadri sono segnati da una comune sequenza di eventi che è significativa e che, dal punto di vista narrativo, crea nell'insieme del racconto un effetto di «ripetitività-ridondanza». Tale ridondanza è voluta per dare unità al tessuto narrativo, ma soprattutto per imprimere nella mente del lettore ciò che è centrale ed essenziale in queste storie di persecuzione. La comune sequenza di eventi, presenta:

- un annuncio in parole ed opere (3,1-26; 5,12-13; 6,8-10);
- una opposizione ed una traduzione di fronte al sinedrio (4,1.3-5; 5,17-18.27a; 6,11-15);
- un interrogatorio ed una difesa degli accusati nella forma di un discorso kerygmatico (4,7-12; 5,27b-32; 7,1-53);
- una reazione ed una sanzione da parte dell'autorità (4,13-22; 5,33-40; 7,5460);
- una continuazione ed un ampliamento dell' attività di annuncio (4,31 b; 5,42; 8,4).

La ripetitività di quella sequenza aiuta il lettore a vedere e a fissare il molteplice rapporto che si stabilisce tra annuncio missionario e persecuzione. Essa mostra infatti che l'attività missionaria, oltre che accoglienza, verifica sempre una opposizione violenta e che, di conseguenza, una chiesa missionaria deve attendersi anche di essere una chiesa perseguitata. Inoltre la sequenza evidenzia che, portati davanti ai tribunali, i discepoli, secondo la parola di Gesù (cf Lc 21,13), sono chiamati a continuare a dare la loro testimonianza. Infine, la sequenza sottolinea come nessuna opposizione umana, neppure quella più violenta che porta i testimoni all'incarcerazione e al martirio, può fermare la corsa della Parola, anzi, la persecuzione diventa sempre occasione per l'espansione della Parola. Il nostro testo va dunque visto nel contesto di queste storie di persecuzione e del ripetersi di un modello che lancia significativi messaggi al lettore.

Resta da notare infine, per una completa contestualizzazione, il legame del tutto particolare che intercorre tra i primi due quadri di persecuzione (3,14,31 e 5,17-41). Tale legame è costituito innanzi tutto dall'identità dei personaggi in conflitto: da una parte Pietro e Giovanni (4,1) o gli Apostoli (5,18) e dall'altra il sommo sacerdote e i Sadducei (4,1; 5,17) con il contorno della presenza discreta e favorevole del «popolo» (3,9.11.l2; 4,2.21; 5.20.25.26). Inoltre, a segnalare il legame è la continuità tematica determinata dalla presenza del termine «nome» (3,6.16; 4,7.10.12.17.18.30; 5,28.40.41), il cui annuncio sta al centro del conflitto, e della prevalente e significativa localizzazione nel «tempio» dell'azione evangelizzatrice degli apostoli (3,8; 5,20.21.25). (1) Questo legame, che nasconde anche una necessaria progressione tra i due quadri, ci solleciterà a non isolare il nostro testo dal suo naturale prosieguo.

Annuncio e persecuzione (vv. 1-22)

Come già abbiamo fatto notare, l'inizio della persecuzione non può essere considerato disgiuntamente dalla precedente azione di annuncio da parte di Pietro e Giovanni: è infatti la loro opera missionaria a scatenare la reazione violenta dell'autorità. L'annuncio si era realizzato in opera e parola, quasi come prosecuzione del ministero salvifico di Gesù «profeta potente in opera e parola» (Lc 24,19). L'opera potente era stata la guarigione dello storpio alla Porta Bella del tempio (3,1-11) compiuta da Pietro «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno» (3,6). Essa era divenuta una indiretta proclamazione di Gesù come «Signore», il «nome» salvifico che Gesù aveva acquisito con la sua risurrezione ed esaltazione (cf 2,36). Tale proclamazione indiretta aveva trovato esplicitazione nel successivo discorso di Pietro (3,12-26), dove, a fondamento della guarigione dello storpio, erano annunciate l'esaltazione di Gesù ad opera di Dio (3,13) e la potenza del suo «nome» (3,16).

Proprio a questo annuncio in segno e parola, che si era concluso con un insistito appello a conversione rivolto al «popolo» d'Israele (3,17-26), fa seguito, in stretta connessione, (2) la reazione degli uditori. Mentre però dopo il discorso di Pentecoste era stata segnalata soltanto la positiva accoglienza dell'annuncio (cf 2,41), qui la reazione favorevole è posta in secondo piano (cf 4,4) ed è fatta subito risaltare con insistenza la reazione violenta: ciò lascia già presagire una svolta negativa negli eventi. L'azione missionaria comincia a provocare persecuzione.

A prendere l'iniziativa repressiva nei confronti di Pietro e Giovanni, che avevano preso la parola nel tempio, sono innanzi tutto i «sacerdoti», ai quali soltanto competeva di istruire il popolo nel tempio. Ad essi si unisce il «capitano del tempio» al quale spettava il compito di controllare l'ordine nell'area del tempio. Infine si associano anche i «sadducei», i quali non credono alla risurrezione dei morti (cf Lc 20,27-40; At 23,6-8), dal momento che il cuore della predicazione degli apostoli era la risurrezione di Gesù (cf 4,1b). Il motivo del loro intervento (cf 4,2) è per il momento pienamente comprensibile: Pietro e Giovanni, insegnando al popolo nel tempio, turbano l'ordine pubblico e la dottrina della risurrezione, che essi annunciano, appare eterodossa. L'arresto e la detenzione degli apostoli sono la spinta perché essi giustifichino pubblicamente la modalità e il contenuto del loro insegnamento.

Il loro interrogativo avviene davanti al Sinedrio, suprema autorità religiosa giudaica, solennemente radunato il giorno dopo (4,5-6). (3) L'attenzione si fissa sul miracolo del paralitico che l'autorità è reticente a riconoscere come tale, e menziona con un generico «questo». Ciò che si vuole sapere dagli apostoli è «in quale potenza» o «in quale nome» l'hanno compiuto (4,17). Al lettore la domanda risulta retorica e suscita ironia nei confronti dell'autorità, perché egli conosce già dal discorso di Pietro (cf 3,12.16) la risposta a questi quesiti. L'interrogatorio davanti al tribunale diventa però per Pietro l'occasione per dare «testimonianza» (cf Lc 21,13) al nome di Gesù. La sua difesa-testimonianza, fatta con spirito profetico, (4) comincia con il mettere in risalto l'assurdità della situazione: gli apostoli sono sotto interrogatorio per aver compiuto un «beneficio» a favore di un infermo. Pietro poi riformula la domanda del sinedrio in modo significativo: «in chi questi è (stato) salvato». In tale espressione giunge al suo culmine un processo interpretativo del miracolo del paralitico che già era iniziato in precedenza: il fatto di «camminare» (cf 3,7-8) era stato riletto come restituzione della «integrità fisica» (cf 3,16) e successivamente come «azione benefica» (cf 4,9), che rimandava indirettamente a Gesù benefattore (cf 10,38 contrapposto a Lc 12,25), ed ora è interpretato come segno della salvezza escatologica. (5) La guarigione ha assunto dunque un valore simbolico particolarmente pregnante, e Pietro può ora proclamare solennemente a tutto Israele che tale guarigione è avvenuta per la potenza del «nome» di Gesù Cristo il nazareno (cf 3,6), che Dio ha risuscitato, in contrapposizione all' azione del sinedrio che ne aveva decretato la crocifissione. E tutto ciò come adempimento del piano divino preannunciato dalla parola profetica del Sal 118,22 (LXX). In forza della risurrezione ad opera di Dio, Gesù ha acquisito il «nome» di «Signore», ed ora Pietro può concludere che proprio in Gesù Signore è offerta a tutti quella salvezza escatologica, di cui il miracolo del paralitico è segno evidente (4,10-12). Il discorso di Pietro ha capovolto la situazione: gli accusatori sono stati posti in stato di accusa, e l'oggetto del processo è diventato motivo credibile della proclamazione della salvezza di Gesù.

La reazione dei sinedriti al discorso di Pietro è duplice. Da un parte, c'è la loro «meraviglia» determinata dall'incapacità di conciliare e spiegare la libertà e saggezza (in greco parresia) degli apostoli a fronte della loro mancanza di formazione scritturistica e di preparazione retorica. Il lettore sa già che questa sorprendente parresia è frutto dell'azione dello Spirito, ma i sinedriti possono solo limitarsi al riconoscimento del loro passato legame con Gesù (4,13). D'altra parte, c'è l'impossibilità da parte dei sinedriti di «controbattere» la parola degli apostoli, data la presenza accanto a questi del paralitico guarito, la cui sanazione essi né possono negare né riescono a spiegare, mentre Pietro l'ha ricondotta apertamente all'azione potente del nome di Gesù (4,14). In questa capacità del sinedrio a controbattere, si realizza la promessa di Gesù ai discepoli per il tempo della persecuzione: «io vi darò lingua e sapienza a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15).

L'imbarazzo, in cui i sinedriti sono venuti a trovarsi, si riflette nella consultazione che essi tengono a porte chiuse, dopo aver estromesso gli apostoli (4,15). La domanda, che essi si pongono, «che cosa facciamo a questi uomini?» dà espressione a questo imbarazzo. Essi devono, infatti, constatare che la guarigione del paralitico, da loro ora significativamente indicata come «segno noto», è divenuta, per la predicazione degli apostoli, di pubblico dominio a Gerusalemme, ed essi sono nell'impossibilità di negare questo segno (4,16). Ma la constatazione del «segno» non li rende disponibili all'azione divina che in esso si manifesta. La loro unica preoccupazione, che rivela ora la rigidità e la malafede, diventa quella di impedire assolutamente la diffusione ulteriore della predicazione nel nome di Gesù, che dal segno prende avvio e nel segno trova potente conferma. L'unico strumento che essi adottano è quello della minaccia (cf 4,17) senza alcuna argomentazione, uno strumento che è sintomo della loro reale impotenza. L'autorità stessa che essi investono nel comunicare agli apostoli il divieto di annunciare nel nome di Gesù (4,18), rivelandosi in contrasto con il disegno di Dio, viene a privarsi di quel fondamento divino da cui ogni potere religioso pretende legittimazione. Di fronte alla potenza della Parola e alla sua capacità di diffusione, non rimane altro dunque che l'inconsistente violenza della minaccia e la pressione di una autorità che va esautorandosi. L'impotenza di queste misure per fermare la Parola sarà constatata con rabbia dal sinedrio stesso nel secondo momento della persecuzione: «Vi avevamo ordinato con forza di non insegnare in questo nome ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina» (5,28). Il motivo profondo di tale impotenza sarà reso chiaro in seguito da Gamaliele: se quest’opera «è da Dio non potrete distruggerli» (cf 5,39).

Reazione di Pietro e Giovanni all'imposizione del sinedrio (4,19) è nella forma di una domanda che sottende già una loro presa di posizione chiara. In essa gli apostoli sollecitano da parte del sinedrio stesso un giudizio che sia basato non sul criterio dei bassi calcoli umani, che hanno portato al divieto dell’annuncio, ma sul criterio della fedeltà a Dio: «se è giusto di fronte a Dio». L'alternativa su cui giudicare è l'obbedienza all'ordine del sinedrio piuttosto che a Dio. Tale alternativa evidenzia già che il divieto del sinedrio è in contrasto con la volontà divina, e che l'autorità che lo sostiene non ha più potere su chi intende essere fedele a Dio. I sinedriti sono dunque invitati a farsi giudici di se stessi e a riconoscere il carattere iniquo della loro imposizione, mentre gli apostoli lasciano intendere di schierarsi dalla parte di Dio, opponendosi al divieto del sinedrio. Tale opposizione, che appare come una obiezione all' autorità in nome della fedeltà a Dio, risalterà ancora più chiara quando nel secondo momento di persecuzione, rimproverati per aver disatteso l'ordine del sinedrio, gli apostoli dichiareranno solennemente: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29).

Pietro e Giovanni motivano per il momento il loro implicito rifiuto all'imposizione dell'autorità con l'espressione «noi non possiamo infatti non annunciare quello che abbiamo visto e udito» (4,20). La formulazione sembra innanzi tutto evidenziare la fedeltà degli apostoli ad un dato constatato che non può perciò essere taciuto e negato, in contrapposizione ad una infedeltà e disonestà del sinedrio che, pur non potendo «negare» (cf 4,16) il dato-segno del paralitico guarito, decidono di impedirne la divulgazione (cf 4,17). Ma questa motivazione fornita dagli apostoli rivela soprattutto la loro fedeltà al compito affidato ad essi da Dio. «Ciò che hanno visto e udito» costituisce infatti il requisito per il loro ministero di testimoni (cf Lc 1,2; At 1,21-22) e, illuminato nella sua valenza storico-salvifica attraverso le Scritture, forma anche il contenuto della loro testimonianza (cf Lc 24,44-48). Per questo compito di testimonianza essi sono stati mandati dal Risorto (cf Lc 24,48; At 1,8), abilitati dallo Spirito (cf Lc 24,49; At 1,8), prescelti da Dio stesso (cf 10,41). In ultima istanza, dunque, la loro impossibilità ad ottemperare il divieto di predicare si radica nell'esigenza di fedeltà al Dio della storia della salvezza. Questa motivazione si illuminerà ulteriormente nel secondo momento di persecuzione, quando Pietro e gli apostoli giustificheranno la necessità di obbedire a Dio con un breve discorso (cf 5,29-32), teso a mostrare l'operare storico-salvifico di questo Dio, del quale essi, unitamente allo Spirito, sono chiamati a dare testimonianza.

La fine dell'azione giudiziaria (4,21), con il rilascio di Pietro e Giovanni, sottolinea ancora una volta l'impotenza del sinedrio che, incapace di sostenere il confronto sul terreno della verità storico-salvifica, non può far altro che ricorrere nuovamente alla minaccia verbale. Il rilascio degli apostoli avviene sulla base di un duplice motivo. Il primo, di carattere oggettivo, è l'impossibilità da parte del sinedrio di trovare qualcosa che giustifichi un intervento punitivo. L'altro, di natura soggettiva, è la paura del «popolo» che riconosce nella guarigione del paralitico l'azione divina. Il sinedrio appare così non solo impossibilitato a porre in atto il proprio potere coercitivo, ma anche distaccato rispetto a quel popolo su cui dovrebbe esercitare la propria autorità. (6)

Preghiera della comunità e coraggio dell'annuncio (vv. 23-31)

Il rilascio di Pietro e Giovanni rende possibile il loro ritorno alla comunità cristiana da cui si erano distaccati in 3,1. Alla comunità radunata «riferiscono quanto i sommi sacerdoti e gli anziani hanno detto» (4,23), e cioè riportano il comando del sinedrio «di non parlare e di non insegnare assolutamente nel nome di Gesù» (4,18). La comunità dunque è messa al corrente del clima di persecuzione che tende a impedire la diffusione dell'annuncio.

La risposta della comunità è la preghiera, elevata a Dio con quella «unanimità» (4,24a) che la caratterizza anche altrove nella frequentazione del tempio (cf 2,46; 5,12) e nell'atto di pregare (cf 1,14), e che rivela la fraternità come condizione necessaria per rivolgersi a Dio Padre. La preghiera, (7) poi, è chiaramente scandita in due momenti, i cui inizi sono segnalati da due invocazioni: «Sovrano» (4,24b) e «Signore» (v. 29).

Il primo momento (vv. 24b-28), pur esprimendosi nella forma dialogica del «tu», invoca Dio come «Sovrano», un appellativo utilizzato nell' AT (LXX) per indicare la piena signoria di Dio sulla creazione (cf ad es. Gdt 9,12; Gb 5,8; Sap 6,7). (8) Questa predicazione della signoria divina viene poi specificata da due proposizioni participiali: la prima (v. 24b) sottolinea l'azione dinamica creatrice di Dio (cf 14,15 ed anche 17,24) e quindi la sua guida della storia universale; la seconda (v. 25a), problematica dal punto di vista testuale e con torta dal punto di vista sintattico, presenta, nella sostanza, l'azione di Dio che, per mezzo dello Spirito, ha suscitato la parola profetica di Davide attuatasi in Cristo, e quindi mostra Dio come colui che guida al compimento la storia della salvezza. Nella sua preghiera, dunque, la comunità evoca innanzi tutto e invoca Dio, signore della storia dei popoli e guida sicura della storia particolare di salvezza.

La predicazione del Dio «che ha parlato» per mezzo del suo servo Davide serve ad introdurre la citazione del Sa/ 2,1-2 (vv. 25b-26). Nel loro significato storico questi versetti del «salmo regale» evocano una situazione di interregno, precedente all' intronizzazione del re, come possibile tempo di rivolte e di sommosse che, in modo enfatico e generico, vengono presentate come di dimensioni universali. Queste manovre hanno come obiettivo JHWH e il suo re «Unto». Con un procedimento di attualizzazione, che ci è noto già dai pesher di Qumran, questi versetti vengono poi riletti in chiave cristologica (v. 27). Il punto di contatto che fa scattare l'attualizzazione cristologica è senza dubbio il termine «Unto» che viene agganciato all'unzione di Gesù da parte di Dio. Certamente a guidare il processo di attualizzazione è l'evento della passione di Gesù, così che «le nazioni e i popoli» del salmo diventano «i gentili e i popoli d'Israele» e «i re e i capi» sono intravisti in «Erode e Pilato», mentre la loro cospirazione si realizza contro «Gesù» che Dio ha unto. Attraverso questo procedimento si attua un interessante circolo ermeneutico: l'evento della passione di Gesù permette di rileggere il salmo come una prefigurazione profetica, e la profezia dà all'evento della passione la sua dimensione profonda di compimento storico-salvifico. Questo singolare circolo ermeneutico ha la funzione, all'interno della preghiera, di mostrare come quel Dio che guida la storia della salvezza ha portato a compimento il suo disegno salvifico proprio attraverso quelle azioni umane violente, realizzate si nella passione di Gesù, che tendevano a vanificarlo e che, apparentemente nella persecuzione contro l'Unto di Dio, sembravano vittoriose (v. 28). (9) Una sottile ironia, dettata dalla visione di un compimento salvifico che si è realizzato proprio là dove esso sembrava essere vittoriosamente contrastato dalla violenza umana, pervade questo tratto di preghiera.

Da questa rilettura la comunità trae ora, nel secondo momento della preghiera (vv. 29-30), le sue conclusioni per la propria situazione, e formula conseguentemente le proprie richieste. Se Dio ha realizzato il suo piano di salvezza in Cristo nonostante e attraverso l'opposizione violenta dei potenti, Egli continuerà ad agire così anche nel tempo della chiesa e dentro gli eventi di persecuzione che la stanno minacciando. Il modo di agire di Dio nell'evento salvifico di Cristo, divenuto paradigma per la situazione difficile della chiesa perseguitata, dà fiducia e serenità. Essa si limita a chiedere che Dio «guardi alle loro minacce» (v. 29a), letteralmente a quelle mosse da Pilato ed Erode contro Cristo, ma contenutisticamente a quelle rivolte a lei dall'autorità del sinedrio. In tal modo la chiesa perseguitata assume la coscienza di essere la comunità del messia sofferente che condivide con lui quel destino di contrasto e di rifiuto nel quale Dio compie il suo disegno di salvezza. Di conseguenza, la successiva richiesta non è quella di essere liberata dalla persecuzione e neppure quella di ottenere la vendetta di Dio sui suoi oppositori. Essa si limita a supplicare che Dio le doni di poter continuare il suo compito nella storia della salvezza, che è quello di «annunciare» la Parola con coraggio in mezzo alle difficoltà: un annuncio accompagnato e confermato dalla potenza dei «segni e prodigi» che Dio compie per mezzo del nome di Gesù (vv. 29b-30), come è già avvenuto nella guarigione del paralitico (cf 3,1-11).

Mentre la comunità sta pregando, avviene lo «scuotimento» del luogo dove essa si trova (v. 31a). È un segno di carattere teofanico che verosimilmente, come in 16,25, segnala l'esaudimento della preghiera da parte di Dio. Successivamente i credenti «sono ripieni di Spirito Santo» (v. 31b). L'espressione è uguale a quella dell'evento di Pentecoste (cf 2,4), ma qui il dono dello Spirito è in vista dell'esaudimento della richiesta fatta dalla comunità di poter annunciare con coraggio la Parola. Di fatto la conclusione (v. 31b) presenta la comunità in una azione protratta e continuativa di annuncio, caratterizzata dal coraggio e dalla franchezza necessarie nella situazione di persecuzione e rese possibili dalla potenza dello Spirito. (10)

Osservazioni conclusive

Questo primo racconto di persecuzione si chiude su una tensione che rimanda ad un ulteriore sviluppo narrativo. La tensione è creata dal fatto che le minacce verbali e l'ordine del sinedrio di non annunciare, non solo hanno incontrato l'obiezione degli apostoli, ma sono state disattese dalla comunità cristiana, rafforzata dalla preghiera e dal conseguente dono dello Spirito. Lo scontro tra l'autorità e la nascente comunità cristiana è destinato quindi a continuare e a intensificarsi (cf 5,17-41), ma già in questo primo momento si sono profilate tematiche di notevole interesse per la comprensione della teologia lucana.

Innanzi tutto è risultato evidente come l'annuncio cristiano e l'azione missionaria della chiesa sono destinati a creare divisione nel popolo d'Israele: alcuni accolgono la Parola, altri la osteggiano e perseguitano gli annunciatori. La spaccatura d'Israele e la persecuzione da parte di chi rifiuta l'annuncio diventeranno motivi ricorrenti nell'azione missionaria di Paolo durante i suoi viaggi.

La traduzione davanti ai tribunali diventa per gli annunciatori occasione per dare testimonianza a Cristo. Accadrà anche a Paolo durante la sua fase processuale: le sue apologie (cf 24,10-21 e specialmente 26,2-23), più che difese personali sono occasioni di annuncio.

Le resistenza e l'obiezione all'autorità in nome della fedeltà a Dio sarà un motivo che troverà ulteriore sviluppo nel secondo momento della persecuzione gerosolimitana (cf 5,17-41) e manifesta come nessuna opposizione umana, anche violenta, è capace di arrestare la corsa del vangelo.

La preghiera della comunità ha rivelato come essa possa rileggere la continuità del disegno divino tra tempo della profezia, testimoniato dalle Scritture, e tempo del compimento negli eventi di Cristo e nella vita della chiesa. Questo tema della continuità storico-salvifica è il motivo conduttore di tutta l'opera lucana.

Il legame tra preghiera e dono dello Spirito, già annunciato nel vangelo (cf Lc 11,13), trova realizzazione nel tempo della chiesa: l'evento della Pentecoste (cf 1,14 e 2,1-4), come pure il dono dello Spirito alla comunità in preghiera (4,23-31), ne sono la conferma.

Infine lo stretto rapporto tra persecuzione e diffusione della Parola, che ha segnato la chiusura del nostro testo (cf 4,31), troverà continua eco nel Libro degli Atti. Sarà così alla conclusione del secondo momento di persecuzione (cf 5,42). Sarà ancor più evidente a conclusione del martirio di Stefano, dove i dispersi in seguito a questa persecuzione diffonderanno in Giudea, Samaria e fino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia l'annuncio cristiano (cf 8,1.4; 11,1920). Infine la persecuzione come motivo per portare la predicazione del vangelo in altre città sarà tema ricorrente nei viaggi di Paolo. La corsa del vangelo si rivelerà così inarrestabile, nonostante e attraverso le persecuzioni.

(da Parole di vita, 2,1998)

Note

1) E' da notare che tutti questi elementi non sono più presenti nel terzo quadro di persecuzione (6,9-8,la).

2) Cf «mentre essi annunciavano al popolo» in 4,1.

3) Sulla composizione e le prerogative del Sinedrio, cf A. ADINOLFI, «Obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. La comunità cristiana e il sinedrio in Atti 4,1-31; 5,17-32», RivBibIt 27 (1979) part. pp. 72-79. Nel testo vengono esplicitamente menzionati i sommi sacerdoti: Anna, che rimase in carica dal 6 al 15 d.C., ma che esercitò grande influsso perché 5 suoi figli ed un nipote furono sommi sacerdoti; Caifa, genero di Anna, che fu sommo sacerdote dal 18 al 36 d.C.; Giovanni ed Alessandro di cui non abbiamo notizie storiche.

4) L'espressione «pieno di Spirito Santo» (4,8) è frequente nell'opera lucana per segnalare il parlare profetico (cf ad es. Lc 1,41.67; At 2,4; 4,31; 13,9).

5) Cf al riguardo l'interessante studio di G. MARCONI, «La storia come ermeneutica: interpretazione del confronto tra At 3,1-11 e 4,8.12», in: G. MARCONI e G. O'COLLINS (a cura di), Luca-Atti. L'interpretazione a servizio della Scrittura, Assisi 1991, pp. 243-263.

6) Per queste note sulla persecuzione abbiamo fatto riferimento ad un nostro precedente articolo: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) nel contesto della persecuzione gerosolimitana», in: G. MARROCU (a cura di), L'obbedienza e la disubbidienza nella Bibbia, L'Aquila 1996, part. pp. 97-103.

7) Questa preghiera sembra avere somiglianze strutturali e formali con la preghiera di Ezechia in Is 37,16-20 (cf 2 Re 19,16-19) che, secondo alcuni studiosi, le avrebbe fatto da modello. La differenza di contenuto però è notevole.

8) Esso è utilizzato anche nella preghiera di Simeone (cf Lc 2,29).

9) Sull'interpretazione cristologica del salmo, cf J. DUPONT, «L'interpretazione dei salmi negli Atti degli Apostoli», in: ID., Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, part. pp. 506-509.

10) Cf per queste note sulla preghiera della comunità 1. DUPONT, «La preghiera degli apostoli perseguitati (Atti 4,23-31»), in: ID., Studi, cit., pp. 891-894; A. BARBI, «La preghiera della comunità perseguitata (At 4,23-31)» Parola Spirito e Vita 25 (1992) pp. 101-115.

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Non è tipico soltanto del popolo d’Israele avere un racconto leggendario delle proprie origini, che è più l’espressione dell’unità instaurata dal tempo delle sue origini che non una spiegazione delle origini stesse. Il problema del rapporto tra teologia e storia non è risolto da queste brevi osservazioni. La fede dell’Antico Testamento si fonda sugli atti di Jahweh nella storia; questo è un principio indiscutibile...

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Venerdì, 04 Aprile 2008 21:45

Anania e Saffira (At 5,1-11) (Renzo Infante)

Anania e Saffira (At 5,1-11)

di Renzo Infante


Il racconto della punizione di Anania e Saffira è stato da sempre considerato uno dei più difficili del NT e in qualche modo fuori luogo, in un'opera, come quella lucana, da cui emerge un Gesù sempre pieno di misericordia e pronto al perdono. Prima di considerarlo, merita attenzione il contesto nel quale è in­serito.

Importanza del contesto

Diversi segnali nel testo indicano che il brano di At 5,1-11 non può essere iso­lato dal contesto più ampio in cui è inserito. La particella greca dé, in 5,1, che generalmente equivale ad una congiunzione, qui ha valore avversativo e con­trappone ciò che segue a quanto è stato in precedenza narrato. Nel sommario di 4,32-35, infatti, si presenta la profonda unità che caratterizza la Chiesa nascente i cui membri tutto dividono e mettono in comune; esempio ne è la ge­nerosità di Barnaba raccontata nei vv. 36-37. In contrasto si pone la pericope della frode di Anania e di sua moglie Saffira (5,1-11), che segue subito dopo.

L'espressione «vendere, portare l'importo e deporlo ai piedi degli apostoli» ripetuta tre volte - al termine del sommario (4,34-35), nell'esempio di Bar­naba (4,37) e all'inizio del secondo esempio (5,1-2) - dà origine ad una stret­ta correlazione tra i brani.

L'episodio di Anania e Saffira, inoltre, trova un certo seguito nell'altro som­mario sulla vita della comunità (5,12-16), nel quale si sottolinea lo stare in­sieme basato, non tanto sulla condivisione dei beni, quanto sul «timore» per i numerosi miracoli e prodigi compiuti dagli Apostoli. In questo sommario, il terzo, emerge la figura di Pietro con il suo potere taumaturgico. La constata­zione letteraria che sia il sommario sia il nostro brano hanno in comune il ri­chiamo al «timore» e al ruolo di Pietro, permette di creare un ponte tra i due passi. Quindi, l'esatto significato della pericope emergerà meglio se conside­rata come parte integrante di un'unità narrativa piuttosto compatta che inizia in 4,32 e termina in 5,16.

Infine, alla luce del costante parallelismo lucano tra le vicende di Gesù (Van­gelo) e quelle della Chiesa (Atti), l'episodio di Anania e Saffira fa da riscon­tro alla storia di Giuda, anch'egli divenuto strumento di Satana (Lc 22,3), re­so consapevole da Gesù stesso della sua colpa (Lc 22,21-22), e finito tragica­mente (At 1,18). (1)

Struttura e commento

In 5,l-2a vengono presentati Anania e Saffira come autori di un'azione in net­to contrasto con quanto appena narrato in 4,32-37. Il protagonista principale è però Pietro che appare nelle vesti di rappresentante e portavoce degli apo­stoli, ai cui piedi i credenti ponevano il ricavato dei beni venduti. La vicenda dei due coniugi protagonisti si sviluppa in momenti successivi: insieme nella complicità del loro misfatto (5,1-2a), si ritroveranno insieme solo nella tomba (5,10). Lo smascheramento e la punizione si svolgono in due scene indipen­denti, ma costruite in maniera parallela: quella di Anania nei vv. 5,2b-6e quella di Saffira in 5,7-10. Il v. 11, in cui si sottolinea l'eco profonda suscitata dalla notizia della sorte dei due coniugi, funge da conclusione.

a loro completa e totale disposizione, in quanto legittimi pro­prietari. Il verbo enosphisato («tenere per sé una parte») ha l'accezione peg­giorativa di «trattenere con frode», «sottrarre», «frodare». Quindi la loro col­pa consiste «nel presentare come totale ed incondizionata un'offerta che è in­vece solo parziale ed interessata». (2) L'espressione «deporre ai piedi degli apo­stoli» equivale a mettere i propri beni o se stessi a disposizione degli aposto­li e dell'intera comunità (cf Lc 8,35). La frode di Anania e Saffira è perciò da considerarsi come un attentato che rischia di spaccare la comunione e l'unità della chiesa «che era "un cuore solo ed un'anima sola" (4,32) e di screditar­ne la "testimonianza" (4,33)». (3)

Nei vv. 3-4 prende la parola Pietro che svolge il ruolo che noi oggi, nel nostro linguaggio giuridico, chiamiamo di «pubblico ministero». Egli è l'antagonista di Anania, ne smaschera la frode ed impedisce che questo attentato alla co­munione ecclesiale abbia effetti devastanti. Segue a raffica una serie di do­mande retoriche che non abbisognano di risposta: Pietro, come Gesù, legge nei cuori e ne svela i più reconditi segreti (cf Mc 2,8; Lc 6,8; 7,39; 22,2ls).

L'azione di Anania viene ricondotta alla radice di ogni malvagità, a Satana che si è impossessato del suo cuore. Invece di far posto allo Spirito, Anania ha aperto il suo intimo a Satana, al padre di ogni menzogna e di ogni sorta di inganno, ed ha mentito allo Spirito Santo (cf Gv 8,44). L'inganno e la frode sono direttamente contro lo Spirito che in Atti è considerato il fondamento dell'unità della chiesa raccolta attorno agli Apostoli (2,14-48; 4,31). Nello scontro in atto tra Pietro ed Anania si confrontano, in realtà, lo Spirito e Sa­tana. Mentre il cuore indiviso era il centro della comunità di coloro che veni­vano alla fede (4,32), Anania ha fatto sempre più spazio nel suo intimo a Sa­tana (5,3.4), padre del sospetto e della divisione.

Anania riteneva di imbrogliare solo gli uomini e invece mentiva a Dio stesso. Questa è l'unica affermazione dopo tante domande retoriche. Ne viene subi­to la condanna, non pronunciata direttamente, ma implicita nella affermazio­ne della menzogna a Dio. Anania è dunque il solo responsabile della sua tri­ste sorte, come ricorda la tradizione sapienziale: «Una lingua bugiarda odia la verità, una bocca adulatrice produce rovina» (Prv 26,28). Chi interviene ad eseguire la sentenza è solo Dio.

Il «timore grande» è la tipica conclusione lucana dei racconti di miracolo e di altri brani in cui si narra di un'epifania divina o angelica. Esso sorge quando un evento ultraterreno irrompe all'improvviso e misteriosamente nel mondo degli uomini, ponendoli a diretto contatto con il fascinoso e tremendo miste­ro di Dio (cf Lc 1,12.65; 2,9; 5,26; 7,16; At 2,43; 5,5.11; 19,17).

Dopo la tragica conclusione del destino di Anania, fanno la loro comparsa i più giovani dell'assemblea di fronte alla quale si è svolto l'accaduto, i quali intervengono a sgomberare la scena dal cadavere di Anania e prepararla per l'episodio successivo (v. 6).

I vv. 7-10 descrivono, in perfetto parallelismo, la sorte di Saffira, che non vie­ne menzionata col nome proprio, ma con l'appellativo di moglie che vive e muore all'ombra del marito, con il quale rimane complice fino in fondo. Saf­fira in accordo con Anania nel «tentare lo Spirito del Signore», subisce la sua stessa sorte e si ricongiunge a lui nella tomba. È interessante la duplice men­zione del «cadere ai piedi» nel v.10 (cf anche «i piedi» del v. 9), che richiama il «deporre ai piedi» l'importo di 4,35.37; 5,2. Il cadere di Saffira ai piedi di Pietro sembra ristabilire l'autorità degli Apostoli, che i due coniugi avevano tentato di misconoscere e ridicolizzare con la loro frode meschina. (4)

Il v. 11, in parte parallelo al v. 5b, funge da conclusione di tutto l'episodio. Il «grande timore», circoscritto in 5,5b alla sola assemblea, coinvolge adesso tutti coloro che vengono a conoscere l'accaduto. È la prima volta che in Atti l'assemblea dei credenti viene denominata ekklésia, nome che diverrà abitua­le nel seguito dell'opera per indicare l'essere insieme dei credenti (21 ricor­renze). La Chiesa è qui l'assemblea formata dagli spettatori attenti e silenzio­si del giudizio di Dio su Anania e Saffira.

Un po' di luce dal genere letterario

La punizione dei due coniugi ha per noi qualcosa di ripugnante e di estraneo allo spirito di Gesù, soprattutto perché non lascia spazio alcuno alla possibi­lità di pentimento in vista del perdono. Tutto sembra finalizzato a mettere in risalto il potere sovrano dell'apostolo Pietro nel giudicare ed infliggere anche una punizione mortale. Ad attenuare questa ripugnanza non serve molto nean­che rammentare quanto Gesù dice sul peccato contro lo Spirito (Lc 12,10) o a riguardo dei peccatori impenitenti (Lc 13,3.5). (5)

Per quanto strano l'episodio possa apparire, esso non è unico nel libro di At­ti (cf 13,4-12; 19,13-17, due brani sostanzialmente identici al nostro), né tan­tomeno nella letteratura biblica ed extrabiblica, dove possiamo trovare un am­pio repertorio. (6)

Questi racconti si possono inquadrare in un sotto gruppo del genere letterario delle narrazioni di miracolo, denominato comunemente come «miracoli di punizione» o «giudizio di Dio». (7) Sono brani che si compongono dei seguenti elementi narrativi: trasgressione, intervento verbale da parte dell'offeso o di un suo rappresentante, punizione del trasgressore, appello, mitigazione della pena. Nel nostro brano mancano i due ultimi elementi. Il nucleo di questi te­sti è costituito dal «superamento immediato e decisivo di un pericoloso attentato ai valori riconosciuti della comunità culturale e cultuale a cui il testo ap­partiene». (8)

Frequentemente questo genere letterario ha come suo Sitz-im-Leben (contesto sociale che dà origine ad una specifica forma espressiva) il sorgere e lo svi­lupparsi di nuovi culti o movimenti religiosi ed ha come scopo la polemica e la lotta all'ateismo, l'empietà o lo scetticismo. La colpa viene avvertita come un fattore che disturba ed infrange l'ordine costituito, disgrega le strutture e le certezze su cui è fondata la vita stessa della comunità. La punizione dura, ap­parentemente sproporzionata e perfino ingiusta, serve a ristabilire l'ordine violato, riaffermando i valori su cui si basa la vita della comunità.

Il nostro testo sottolinea, da un lato la trasgressione che ha qualcosa di radi­cale, perché tocca l'essenza del bene e del male, dall'altro lato l'estrema fa­cilità con cui l'ostacolo e l'attentato vengono superati ed annientati. Se l'at­tentato ha qualcosa di satanico, il suo superamento ha qualcosa di divino.

Un ruolo rilevante è ricoperto dall'intervento verbale dell'offeso o del suo rappresentante umano, che di solito assume una forma processuale, con la convocazione e l'interrogatorio dei colpevoli teso a far luce sulla trasgres­sione e sui moventi. Il nostro testo appartiene con certezza a questo genere, perché in esso viene presentato uno scontro frontale tra oppositori di Dio e Dio stesso.

Significato di At 5,1-11 nel contesto dell'opera

Ci si interroga, infine, sul senso di questo episodio all'interno del piano nar­rativo dell'opera lucana, teso a descrivere l'attuarsi inarrestabile del progetto salvifico di Dio che affonda le sue radici nella storia d'Israele ed ha il suo centro nell'evento Cristo, proclamato dagli Apostoli a tutte le genti.

Nella prima parte del Libro degli Atti (1,12-8,4) l'attenzione è puntata alter­nativamente sui rapporti esterni e su quelli interni alla primitiva comunità. I rapporti esterni sono caratterizzati costantemente dalla persecuzione, quelli interni invece sono connotati dai conflitti. (9) «At 5,1-11 è parte integrante di que­sta strategia compositiva: attraverso Pietro, Dio compie "segni e prodigi" (4,20.23; 5,12.15) per bloccare le tendenze disgreganti e perseverare l'unità della comunità/Israele credente (4,24.32 e 5,11.12) assicurando il "timore" di tutti (5,5.11.13) e la crescita costante dei credenti». (10)

Dietro la frode di Anania e Saffira è in azione Satana che è l'oppositore per eccellenza del piano salvifico di Dio. La sconfitta senza possibilità di rivinci­ta di Satana e dei sui agenti umani indica che non ci si può opporre al piano di Dio che agisce mediante lo Spirito nella storia degli uomini (cf l'espres­sione di Gamaliele in 5,38-39).

La vita della comunità, al di là delle idealizzazioni, è segnata dal pericolo di particolarismi e di egoismi. La storia di Anania e Saffira è uno splendido esempio di come Dio vigili affinché la comunità resti unita e non si scoraggi di fronte all'esperienza quotidiana di infedeltà e di tensione al proprio interno. Pietro assume in questo racconto il ruolo «antipatico» di ministro del giudizio divino e, grazie al prestigio di cui gode, è il sicuro punto di riferimento per la comunità minacciata dagli attacchi interni ed esterni.

Note

1) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti degli Apostoli, Paideia, Brescia 1973, p. 155.
2) L. Tosco, Pietro e Paolo ministri del giudizio di Dio, EDB, Bologna 1989, p. 23.

3) J R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p. 255.

4) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 37.

5) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti, cit., p. 159.

6) Cf Gn 19; Lv 10,1-5; Nm 11,1-3; 12,1-16; 14,1-12; 16,1-35; 21,4-9; Gs 7,1-8,29; 2 Sam 6,3-10; l Re 12,33-13,34; 2 Re 1,2-17; 2,23-24; Dn 13,52-59; ERODOTO, Hist. II, 111.

7) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 112.

8) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 119.

9) Cf G. BETORI, Perseguitati a causa del Nome, Roma 1981, pp. 20-50. IO L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

10) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

(da Parole di vita, 2, 1998)
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