Formazione Religiosa

Domenica, 13 Aprile 2008 18:23

L'intervento di Gamaliele (At 5,17-42) (Karin Heller)

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L'intervento di Gamaliele (At 5,17-42)

di Karin Heller

Per un lettore del Nuovo Testamento la persona di Gamaliele è indissociabile da due fatti: Gamaliele è stato il maestro ebreo di San Paolo. Scrive l'apostolo: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, […] formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna» (At 22,3); poi Gamaliele è intervenuto nel momento della comparsa degli apostoli davanti al Sommo Sacerdote e al sinedrio, evento che ci è tramandato nel brano che commentiamo. Prima di chinarci su questo evento, cerchiamo di conoscere meglio la persona di Gamaliele.

Chi è Gamaliele?

II nostro testo presenta Gamaliele come «dottore della legge, stimato presso tutto il popolo» (At 5,34). La stima che circonda questo personaggio è confermata dalle fonti rabbiniche per le quali Gamaliele I, detto «l'Anziano», è un nassi, vale a dire, un patriarca, un membro eminente del sinedrio. (1) Gli è anche attribuito il titolo onorifico di Rabban, cioè «nostro maestro», invece del titolo di rabbi che significa «mio maestro» e designa in modo abituale i saggi del Talmud. (2) Il nonno di Gamaliele era il grande maestro Hillel, principale capo di una scuola farisaica, conosciuta per la sua interpretazione generalmente liberale della Legge, opposta alla tendenza rigorista della scuola di Shammai. (3)

Gamaliele si colloca nella linea dell'eccellente nonno: introduce disposizioni importanti quanto alla rimessa dell'atto di ripudio per assicurare una migliore protezione alla donna e rende per la donna abbandonata o separata, chiamata agounah, più elastiche le condizioni necessarie per provare la morte del marito. (4) Inoltre afferma che occorre trattare i pagani allo stesso modo degli ebrei per quanto riguarda la carità (aiuto materiale, visite ai malati, funerali, conforto nel momento del lutto). Gamaliele è riconosciuto come autorità rispetto alla Halakha, cioè i problemi relativi alla pratica rituale e alla legislazione civile e penale. Il re Agrippa I e la sua sposa, Berenice (gli stessi davanti ai quali comparirà anche Paolo), (5) lo consultano al riguardo. (6)

Non possediamo di Gamaliele commenti di testi biblici. Il Talmud gli attribuisce qualche saggio consiglio all'indirizzo dei suoi discepoli come: «Procuratevi un buon maestro per essere liberati dal dubbio; quando pagherete le imposte, fatelo con precisione». (7)

Pietro e gli apostoli a Gerusalemme

Nel libro degli Atti, l'entrata in scena di Gamaliele è preceduta da una situazione precisa, alla quale il grande maestro della Legge non è totalmente estraneo. Lui, che ha formato Paolo, conosce tutto il peso della storia del passato d'Israele; lo studio, la meditazione, il commento delle Scritture e la predicazione, attingono in continuazione a questo passato. Gamaliele, come San Paolo, è un fariseo. La loro caratteristica è la scrupolosa osservanza della Legge, la fede incrollabile in Dio che guida la storia in chiave escatologica e una viva attesa del Messia. (8) La tradizione dei Padri costituisce quindi un riferimento permanente nel loro parlare e agire. È ciò che praticano non soltanto Paolo, (9) ma anche Stefano, (10) poi Pietro stesso assieme con gli apostoli. Difatti, dal giorno della Pentecoste fino alloro arresto menzionato nel cap. 5, gli apostoli non cessano di predicare, appoggiando la loro predicazione sulle meraviglie compiute da Dio nel passato. Anzi Pietro ha già pronunciato quattro dei suoi otto discorsi contenuti nel libro degli Atti (11) e Gamaliele stesso assiste al suo quinto discorso (At 5,29-32).

In quel momento preciso della storia della giovane Chiesa, quest'ultima è già diventata una comunità numerosa, cioè si è compiuta per lei la promessa fatta da Dio ad Abramo: «nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra», (12) o, per dirlo, con le parole di San Paolo: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). Quando ci si china sui diversi testi che presentano tale predicazione, si constata che non si tratta di una lezione scolastica sulla storia, né di un discorso di morale. Ma la predicazione o kerygma significa «predicare Gesù Cristo» o predicare «il regno di Dio». Il termine non mira a designare l'atto della predicazione, ma il suo contenuto. Lo studio dei diversi testi manifesta che questo contenuto comporta in generale sei punti: 1. l'annuncio che i tempi sono compiuti; 2. l'affermazione che il compimento si è realizzato con la morte-risurrezione di Gesù; 3. la proclamazione di Gesù glorificato, ormai alla destra di Dio, capo messianico di un popolo nuovo; 4. l'affermazione che lo Spirito Santo è il segno del compimento della promessa divina; 5. la chiamata alla conversione; 6. la dichiarazione che gli apostoli sono i testimoni di tutto ciò.

Il discorso che tiene Pietro insieme agli apostoli davanti al sommo sacerdote, al sinedrio, e a Gamaliele, non fa eccezione. Le parole di Pietro secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29) sono la risposta al sommo sacerdote che aveva proibito agli apostoli, inutilmente, di «non insegnare più nel nome (di Gesù)». Pietro non esita a proclamare la sua dottrina addirittura di fronte a coloro che cercano di farla sparire da Gerusalemme. Ricorda ai suoi uditori, tra i quali Gamaliele e probabilmente altri eminenti dottori della Legge, che l'iniziativa degli eventi accaduti appartiene al «Dio dei nostri padri». Questa osservazione sottintende le altre meraviglie delle quali Israele fa memoria, e colloca la risurrezione di Gesù nella stessa linea. Anzi, la risurrezione di Gesù manifesta il totale indurimento del sinedrio che ha ucciso Gesù «appendendolo alla croce» (5,30); la stessa risurrezione manifesta altresì l'azione salvifica che Dio accorda sempre al popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9). (13) Pietro, poi, proclama il Cristo, innalzato alla destra di Dio, capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati (5,31). Infine conclude che di tutto ciò sono testimoni loro, gli apostoli, insieme allo Spirito Santo, dato a coloro che si sottomettono a Dio, cioè che hanno fede in ciò che Dio annuncia e realizza.

La formula «noi e lo Spirito Santo» può sorprendere. Non potrebbe sembrare un'espressione di presunzione? di temerarietà spirituale? di mancanza di umiltà? Si potrebbe argomentare in questo senso, se fossimo nel quadro di una conferenza "spirituale" qualsiasi. Ma siamo precisamente nel momento della proclamazione solenne del kerygma, cioè dell'evento pasquale che concerne la persona di Gesù. In quel momento, Pietro e gli altri apostoli non tengono una lezione di teologia pasquale più o meno appassionante, ma con la loro proclamazione rischiano la propria vita a causa di Gesù. La loro testimonianza non è semplicemente un atto a favore di una persona che ha subito un danno, atto che implica sempre qualche contrarietà; non è neppure il racconto più o meno lungo di «ciò che Dio ha fatto per me». Ma la testimonianza si rivela inseparabile dal testimone, perché essa gli fa condividere la passione di Gesù.

Tutto ciò che capita nel brano che commentiamo ci ricorda infatti che non basta proclamare «Cristo è risorto» per convertire la gente; occorre vivere, condividere il mistero pasquale nella propria carne. (14) E' proprio la condizione dell’apostolo: la proclamazione del kerygma si conclude con l'imprigionamento, seguito da una liberazione operata da Dio stesso. Si riprende la proclamazione del kerygma e, di nuovo, gli apostoli sono imprigionati, chiamati a comparire davanti ai tribunali, giustiziati, minacciati di morte e liberati per la mano potente di Dio che invia il suo angelo (5,18-33). Gli eventi sono tipicamente pasquali. Rinviano a Gesù stesso, arrestato dopo un periodo di predicazione, accompagnata da guarigioni ed espulsioni degli spiriti cattivi, giudicato, messo a morte e, infine, liberato dalle catene della morte per mezzo dell'azione divina.

L'opera del testimone sta fondamentalmente nel condividere il destino di Gesù stesso. Anzi, diventa chiaro che solo lo Spirito può permettere al testimone di andare fino in fondo, sigillando la sua testimonianza con il dono della propria vita. In questo caso, la formula «noi e lo Spirito Santo» non costituisce l'espressione di un orgoglio smisurato, ma è la parola autentica della stoltezza della croce (1 Cor 1,18ss). E in questa testimonianza degli apostoli che tutta la Chiesa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità attraverso i secoli. Ormai ogni membro della Chiesa può affrontare la prova del perdurare nel tempo, fino alla parusia, nella forza di questa testimonianza fondatrice: ogni giorno è chiamata a proclamare la morte del Signore, a celebrare la sua risurrezione, fino alla sua venuta.

Verità dell'uomo-verità di Dio

L'acclamazione pronunciata dall'assemblea cristiana dopo la consacrazione della celebrazione eucaristica rimane spesso una formula semplicemente prescritta dalle autorità ecclesiastiche. Ora, questa formula non è da recitare in modo più o meno distratto, o con la massima devozione, ogni volta che si va a messa; piuttosto, è da mettere in pratica nella vita quotidiana. Esprime in maniera concentrata il mistero cristiano che vale per ogni fedele, laico, diacono, prete, e vescovo. Chiama tutti a un servizio autenticamente sacerdotale. E l'espressione del sacerdozio comune a tutti i battezzati, uomini e donne, e a coloro che sono ordinati in vista della celebrazione liturgica del mistero pasquale di Gesù. Consiste nel proclamare di fronte ai membri della propria famiglia, agli amici, a coloro che incontriamo spesso o che passano soltanto, ciò che è accaduto a Gesù, cioè: è stato messo in croce dagli uomini, e, per usare le parole di Paolo, «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).

Di questo Vangelo potente, la parte che probabilmente pone più difficoltà è quella del confessare Gesù messo in croce dagli uomini. Difatti, già il sinedrio ha qualche problema ad ascoltare un tale messaggio, perché implica il riconoscimento della propria responsabilità nella morte di Gesù; questa responsabilità è espressa nella formula giudaica «del sangue che cade su un tale». (15) Dice infatti il sommo sacerdote a nome di tutta l'assemblea: «ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo» (5,28). Detto in altro modo, la predicazione degli apostoli manifesta l'implicazione del sinedrio nella morte di Gesù; sono colpevoli del sangue sparso da Gesù sulla croce. La proclamazione del mistero pasquale comporta quindi sempre la rivelazione di ciò che l'uomo è in verità: un essere che vive in una situazione umanamente inestricabile con i suoi e con Dio, un essere che non può mai dichiarare di fronte a Dio: «sono innocente, sono giusto, non ho fatto nulla di male». Per dirlo in termini di teologia classica: la passione e la risurrezione di Gesù rivelano che l'uomo è peccatore, incapace di salvare se stesso, ma è tuttavia sempre chiamato ad accogliere la salvezza offerta da parte di Dio.

Questa verità dell'uomo non piace a prima vista, e non piace affatto a uomini, come i Farisei, particolarmente convinti della loro giustizia davanti a Dio e davanti agli altri. Non sorprende quindi la loro reazione, fatta di sdegno, collera, passione omicida: «all'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte» (5,33). La situazione è quella di Gesù che rivela con la sua presenza l'uomo peccatore o lo mette di fronte a una scelta fondamentale: accogliere questa verità su se stesso per essere salvato, oppure rifiutare questa verità e rendere sempre più dura la propria posizione fino all'eliminazione fisica di colui che manifesta l'autentica verità dell'uomo.

L'argomento di Gamaliele

L'intervento di Gamaliele salva in quel momento gli apostoli da morte certa e violenta. Il capitolo seguente, infatti, si concluderà con il martirio di Stefano e non lascia nessun dubbio al riguardo. Gamaliele misura la fragilità umana di fronte a Dio che parla e agisce. L'uomo è come l'erba del campo che fiorisce, poi passa il vento, non esiste più e il suo posto non lo riconosce (cf Sal 103,15-16). I suoi progetti gli sono simili. Durano un tempo, poi crollano; Teuda fu ucciso e i suoi seguaci finirono nel nulla. Quanto a Giuda, anche lui perì e i suoi fedeli furono dispersi (5,36-37). Quanto alla parola di Dio, essa dura sempre (/s 40,8). Anzi è consigliabile all'essere umano di «non trovarsi a combattere contro Dio» (5,39).

L'opinione di Gamaliele è adottata dal sinedrio e dal sommo sacerdote. Perché? L'argomento di Gamaliele può essere inteso in due modi:

- Come nel caso di Teuda e di Giuda il Galileo, si saprà presto se Dio fa perdurare questa via. L'esempio del fallimento di questi due protagonisti presenta la durata dell'incertezza come breve.

- Un movimento come quello lanciato dalla predicazione di Pietro e degli apostoli è solido soltanto perché è opera divina. E lui che ne ha l'iniziativa, lui che lo mantiene, lui che lo fa crescere e che ne determina la durata. In quel caso è tolta la certezza che concerne «l'ora e il giorno», il rapporto tra la pazienza di Dio e la messa alla prova dell'attesa dei giusti.

L'opinione di Gamaliele è probabilmente adottata dal sommo sacerdote e dal sinedrio secondo la prima interpretazione. Soddisfa la loro impazienza, permette di chiudere rapidamente l'incidente. Evita la procedura della messa a morte e permette nondimeno di fustigare gli apostoli. L'eccesso di furore sollevato dalla rivelazione della loro ingiustizia è placato dall'applicazione della sanzione. Ma infine il problema è soltanto rinviato nel tempo. Essendo la prova della pazienza nell'aspettare il giudizio divino diventata insopportabile, si ricorre alla «giustizia», come è considerata da eminenti dottori della Legge divina, e si applica la condanna a morte.

Gamaliele è visibilmente un uomo moderato. Di più: è un uomo modera t in materia religiosa. Questa capacità di tolleranza religiosa ha la sua radice nell' esercizio quotidiano, praticato di generazione in generazione, da parte di coloro che aspettano in Israele il Dio che rivela allo stesso tempo se stesso. il fondo dei cuori umani, le loro opere personali e comunitarie. La difficoltà nell'acquisire questo tipo di tolleranza è messa in evidenza da tutti i conflitti contemporanei che hanno alla loro radice un problema religioso. Riguarda tutti: ebrei, musulmani, cristiani, fanatici religiosi di ogni sorta. Quanto alla convinzione di Gamaliele, essa esce dal cuore stesso della tradizione ebraica formata alla scuola dell' attesa apocalittica; essa insegna che occorre aspettare una rivelazione nuova, un fatto nuovo, per scoprire ciò è già stato annunciato e compiuto da Dio. Egli sa che Dio parla e agisce, ma è anche cosciente dell' incapacità umana di prendere le misure della parola e dell' opera divine.

La capacità umana risiede nell'aspettare e nello sperare che Dio riveli il significato profondo di un evento, che per il credente si chiama: Gesù Cristo.

Note

1) Dal 1948, il titolo di nassi designa il presidente dello Stato d'Israele. Il suo significato è «principe», «governatore».

2) Cf STRACK-BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, p. 626.

3) Al tempo di Gesù la scuola di Hillel e quella di Shammai discutevano in modo aspro sui motivi che possono condurre al ripudio della propria moglie. Vale a Gesù d'essere interrogato su questo tema (cf Mt 19,3).

4) Si tratta di una donna legata a suo marito che desidera risposarsi e non lo può sia perché il marito non le concede l'atto di ripudio, sia perché si trova nell'impossibilità di farlo a motivo di una malattia mentale o perché non esiste una prova formale del suo decesso.

5) Cf At 25,13ss.

6) Cf Dictionnaire encyclopédique du Judaisme. Éd. du Cerf, Paris 1993, p. 428.

7) Cf Aboth 1, 16. Citato in: STRACK-BILLERBECK, cit., p. 638.

8) Cf Parole di Vita n. 6/1994 interamente consacrato ai Farisei.10) Cf At 7,1-53.

11) Cf At 1,16- 22; 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43; 1l,5-17; 15,7-11.

12) Cf Gn 12,3; 22,18; At 3,25.

13) È ciò che appare in modo eminente nel discorso più lungo degli Atti, cioè quello di Stefano. Da notare in particolare l'insistenza sull'indurimento dei diversi protagonisti, lungo la storia, di fronte a Dio che salva.

14) Cf al riguardo 2 Cor 4,1-15, in particolare vv. 12-15: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. [ ... ] Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera in un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio».

15) Cf STRACK-BILLERBECK, cit., I, p. 1033.(da Parole di vita, 2,1998)

Letto 8772 volte Ultima modifica il Martedì, 19 Marzo 2013 09:23
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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