Formazione Religiosa

Domenica, 13 Aprile 2008 17:48

L'inizio della persecuzione a Gerusalemme (At 4,1-31) (Augusto Barbi)

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L'inizio della persecuzione a Gerusalemme (At 4,1-31)

di Augusto Barbi




Questo primo momento di persecuzione, registrato nel Libro degli Atti degli Apostoli, va collocato nell'ampio affresco della vita della chiesa a Gerusalemme (cf 2,42-8,4). In tale affresco si alternano ricorrenti sommari (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16; 5,42; 6,7-8; 8,1b-4), che presentano in forma statica la vita della chiesa, e complessi narrativi (3,1-4,31; 4,36-5,11; 5,17-41; 6,1-6; 6,9-8,la) in cui la vita della chiesa è resa in modo dinamico per episodi drammatici. Nei complessi narrativi c'è pure una significativa alternanza tra quadri che riguardano la vita interna della chiesa (4,36-5,11; 6,1-6), dove vengono risolti conflitti della nascente comunità, e quadri di azione missionaria della chiesa, dove essa entra in conflitto con l'autorità e l'ambiente giudaico e subisce persecuzione nei suoi membri più rappresentativi (3,1-4,31; 5,17-41; 6,9-8,1a). Il nostro testo fa parte del primo di questi quadri (3,1-4,31), nei quali l'attività missionaria della chiesa diventa motivo di ostilità e di persecuzione, e va perciò visto in stretta connessione con gli altri due (5,17-41; 6,9-8,la).

I tre quadri sono segnati da una comune sequenza di eventi che è significativa e che, dal punto di vista narrativo, crea nell'insieme del racconto un effetto di «ripetitività-ridondanza». Tale ridondanza è voluta per dare unità al tessuto narrativo, ma soprattutto per imprimere nella mente del lettore ciò che è centrale ed essenziale in queste storie di persecuzione. La comune sequenza di eventi, presenta:

- un annuncio in parole ed opere (3,1-26; 5,12-13; 6,8-10);
- una opposizione ed una traduzione di fronte al sinedrio (4,1.3-5; 5,17-18.27a; 6,11-15);
- un interrogatorio ed una difesa degli accusati nella forma di un discorso kerygmatico (4,7-12; 5,27b-32; 7,1-53);
- una reazione ed una sanzione da parte dell'autorità (4,13-22; 5,33-40; 7,5460);
- una continuazione ed un ampliamento dell' attività di annuncio (4,31 b; 5,42; 8,4).

La ripetitività di quella sequenza aiuta il lettore a vedere e a fissare il molteplice rapporto che si stabilisce tra annuncio missionario e persecuzione. Essa mostra infatti che l'attività missionaria, oltre che accoglienza, verifica sempre una opposizione violenta e che, di conseguenza, una chiesa missionaria deve attendersi anche di essere una chiesa perseguitata. Inoltre la sequenza evidenzia che, portati davanti ai tribunali, i discepoli, secondo la parola di Gesù (cf Lc 21,13), sono chiamati a continuare a dare la loro testimonianza. Infine, la sequenza sottolinea come nessuna opposizione umana, neppure quella più violenta che porta i testimoni all'incarcerazione e al martirio, può fermare la corsa della Parola, anzi, la persecuzione diventa sempre occasione per l'espansione della Parola. Il nostro testo va dunque visto nel contesto di queste storie di persecuzione e del ripetersi di un modello che lancia significativi messaggi al lettore.

Resta da notare infine, per una completa contestualizzazione, il legame del tutto particolare che intercorre tra i primi due quadri di persecuzione (3,14,31 e 5,17-41). Tale legame è costituito innanzi tutto dall'identità dei personaggi in conflitto: da una parte Pietro e Giovanni (4,1) o gli Apostoli (5,18) e dall'altra il sommo sacerdote e i Sadducei (4,1; 5,17) con il contorno della presenza discreta e favorevole del «popolo» (3,9.11.l2; 4,2.21; 5.20.25.26). Inoltre, a segnalare il legame è la continuità tematica determinata dalla presenza del termine «nome» (3,6.16; 4,7.10.12.17.18.30; 5,28.40.41), il cui annuncio sta al centro del conflitto, e della prevalente e significativa localizzazione nel «tempio» dell'azione evangelizzatrice degli apostoli (3,8; 5,20.21.25). (1) Questo legame, che nasconde anche una necessaria progressione tra i due quadri, ci solleciterà a non isolare il nostro testo dal suo naturale prosieguo.

Annuncio e persecuzione (vv. 1-22)

Come già abbiamo fatto notare, l'inizio della persecuzione non può essere considerato disgiuntamente dalla precedente azione di annuncio da parte di Pietro e Giovanni: è infatti la loro opera missionaria a scatenare la reazione violenta dell'autorità. L'annuncio si era realizzato in opera e parola, quasi come prosecuzione del ministero salvifico di Gesù «profeta potente in opera e parola» (Lc 24,19). L'opera potente era stata la guarigione dello storpio alla Porta Bella del tempio (3,1-11) compiuta da Pietro «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno» (3,6). Essa era divenuta una indiretta proclamazione di Gesù come «Signore», il «nome» salvifico che Gesù aveva acquisito con la sua risurrezione ed esaltazione (cf 2,36). Tale proclamazione indiretta aveva trovato esplicitazione nel successivo discorso di Pietro (3,12-26), dove, a fondamento della guarigione dello storpio, erano annunciate l'esaltazione di Gesù ad opera di Dio (3,13) e la potenza del suo «nome» (3,16).

Proprio a questo annuncio in segno e parola, che si era concluso con un insistito appello a conversione rivolto al «popolo» d'Israele (3,17-26), fa seguito, in stretta connessione, (2) la reazione degli uditori. Mentre però dopo il discorso di Pentecoste era stata segnalata soltanto la positiva accoglienza dell'annuncio (cf 2,41), qui la reazione favorevole è posta in secondo piano (cf 4,4) ed è fatta subito risaltare con insistenza la reazione violenta: ciò lascia già presagire una svolta negativa negli eventi. L'azione missionaria comincia a provocare persecuzione.

A prendere l'iniziativa repressiva nei confronti di Pietro e Giovanni, che avevano preso la parola nel tempio, sono innanzi tutto i «sacerdoti», ai quali soltanto competeva di istruire il popolo nel tempio. Ad essi si unisce il «capitano del tempio» al quale spettava il compito di controllare l'ordine nell'area del tempio. Infine si associano anche i «sadducei», i quali non credono alla risurrezione dei morti (cf Lc 20,27-40; At 23,6-8), dal momento che il cuore della predicazione degli apostoli era la risurrezione di Gesù (cf 4,1b). Il motivo del loro intervento (cf 4,2) è per il momento pienamente comprensibile: Pietro e Giovanni, insegnando al popolo nel tempio, turbano l'ordine pubblico e la dottrina della risurrezione, che essi annunciano, appare eterodossa. L'arresto e la detenzione degli apostoli sono la spinta perché essi giustifichino pubblicamente la modalità e il contenuto del loro insegnamento.

Il loro interrogativo avviene davanti al Sinedrio, suprema autorità religiosa giudaica, solennemente radunato il giorno dopo (4,5-6). (3) L'attenzione si fissa sul miracolo del paralitico che l'autorità è reticente a riconoscere come tale, e menziona con un generico «questo». Ciò che si vuole sapere dagli apostoli è «in quale potenza» o «in quale nome» l'hanno compiuto (4,17). Al lettore la domanda risulta retorica e suscita ironia nei confronti dell'autorità, perché egli conosce già dal discorso di Pietro (cf 3,12.16) la risposta a questi quesiti. L'interrogatorio davanti al tribunale diventa però per Pietro l'occasione per dare «testimonianza» (cf Lc 21,13) al nome di Gesù. La sua difesa-testimonianza, fatta con spirito profetico, (4) comincia con il mettere in risalto l'assurdità della situazione: gli apostoli sono sotto interrogatorio per aver compiuto un «beneficio» a favore di un infermo. Pietro poi riformula la domanda del sinedrio in modo significativo: «in chi questi è (stato) salvato». In tale espressione giunge al suo culmine un processo interpretativo del miracolo del paralitico che già era iniziato in precedenza: il fatto di «camminare» (cf 3,7-8) era stato riletto come restituzione della «integrità fisica» (cf 3,16) e successivamente come «azione benefica» (cf 4,9), che rimandava indirettamente a Gesù benefattore (cf 10,38 contrapposto a Lc 12,25), ed ora è interpretato come segno della salvezza escatologica. (5) La guarigione ha assunto dunque un valore simbolico particolarmente pregnante, e Pietro può ora proclamare solennemente a tutto Israele che tale guarigione è avvenuta per la potenza del «nome» di Gesù Cristo il nazareno (cf 3,6), che Dio ha risuscitato, in contrapposizione all' azione del sinedrio che ne aveva decretato la crocifissione. E tutto ciò come adempimento del piano divino preannunciato dalla parola profetica del Sal 118,22 (LXX). In forza della risurrezione ad opera di Dio, Gesù ha acquisito il «nome» di «Signore», ed ora Pietro può concludere che proprio in Gesù Signore è offerta a tutti quella salvezza escatologica, di cui il miracolo del paralitico è segno evidente (4,10-12). Il discorso di Pietro ha capovolto la situazione: gli accusatori sono stati posti in stato di accusa, e l'oggetto del processo è diventato motivo credibile della proclamazione della salvezza di Gesù.

La reazione dei sinedriti al discorso di Pietro è duplice. Da un parte, c'è la loro «meraviglia» determinata dall'incapacità di conciliare e spiegare la libertà e saggezza (in greco parresia) degli apostoli a fronte della loro mancanza di formazione scritturistica e di preparazione retorica. Il lettore sa già che questa sorprendente parresia è frutto dell'azione dello Spirito, ma i sinedriti possono solo limitarsi al riconoscimento del loro passato legame con Gesù (4,13). D'altra parte, c'è l'impossibilità da parte dei sinedriti di «controbattere» la parola degli apostoli, data la presenza accanto a questi del paralitico guarito, la cui sanazione essi né possono negare né riescono a spiegare, mentre Pietro l'ha ricondotta apertamente all'azione potente del nome di Gesù (4,14). In questa capacità del sinedrio a controbattere, si realizza la promessa di Gesù ai discepoli per il tempo della persecuzione: «io vi darò lingua e sapienza a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15).

L'imbarazzo, in cui i sinedriti sono venuti a trovarsi, si riflette nella consultazione che essi tengono a porte chiuse, dopo aver estromesso gli apostoli (4,15). La domanda, che essi si pongono, «che cosa facciamo a questi uomini?» dà espressione a questo imbarazzo. Essi devono, infatti, constatare che la guarigione del paralitico, da loro ora significativamente indicata come «segno noto», è divenuta, per la predicazione degli apostoli, di pubblico dominio a Gerusalemme, ed essi sono nell'impossibilità di negare questo segno (4,16). Ma la constatazione del «segno» non li rende disponibili all'azione divina che in esso si manifesta. La loro unica preoccupazione, che rivela ora la rigidità e la malafede, diventa quella di impedire assolutamente la diffusione ulteriore della predicazione nel nome di Gesù, che dal segno prende avvio e nel segno trova potente conferma. L'unico strumento che essi adottano è quello della minaccia (cf 4,17) senza alcuna argomentazione, uno strumento che è sintomo della loro reale impotenza. L'autorità stessa che essi investono nel comunicare agli apostoli il divieto di annunciare nel nome di Gesù (4,18), rivelandosi in contrasto con il disegno di Dio, viene a privarsi di quel fondamento divino da cui ogni potere religioso pretende legittimazione. Di fronte alla potenza della Parola e alla sua capacità di diffusione, non rimane altro dunque che l'inconsistente violenza della minaccia e la pressione di una autorità che va esautorandosi. L'impotenza di queste misure per fermare la Parola sarà constatata con rabbia dal sinedrio stesso nel secondo momento della persecuzione: «Vi avevamo ordinato con forza di non insegnare in questo nome ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina» (5,28). Il motivo profondo di tale impotenza sarà reso chiaro in seguito da Gamaliele: se quest’opera «è da Dio non potrete distruggerli» (cf 5,39).

Reazione di Pietro e Giovanni all'imposizione del sinedrio (4,19) è nella forma di una domanda che sottende già una loro presa di posizione chiara. In essa gli apostoli sollecitano da parte del sinedrio stesso un giudizio che sia basato non sul criterio dei bassi calcoli umani, che hanno portato al divieto dell’annuncio, ma sul criterio della fedeltà a Dio: «se è giusto di fronte a Dio». L'alternativa su cui giudicare è l'obbedienza all'ordine del sinedrio piuttosto che a Dio. Tale alternativa evidenzia già che il divieto del sinedrio è in contrasto con la volontà divina, e che l'autorità che lo sostiene non ha più potere su chi intende essere fedele a Dio. I sinedriti sono dunque invitati a farsi giudici di se stessi e a riconoscere il carattere iniquo della loro imposizione, mentre gli apostoli lasciano intendere di schierarsi dalla parte di Dio, opponendosi al divieto del sinedrio. Tale opposizione, che appare come una obiezione all' autorità in nome della fedeltà a Dio, risalterà ancora più chiara quando nel secondo momento di persecuzione, rimproverati per aver disatteso l'ordine del sinedrio, gli apostoli dichiareranno solennemente: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29).

Pietro e Giovanni motivano per il momento il loro implicito rifiuto all'imposizione dell'autorità con l'espressione «noi non possiamo infatti non annunciare quello che abbiamo visto e udito» (4,20). La formulazione sembra innanzi tutto evidenziare la fedeltà degli apostoli ad un dato constatato che non può perciò essere taciuto e negato, in contrapposizione ad una infedeltà e disonestà del sinedrio che, pur non potendo «negare» (cf 4,16) il dato-segno del paralitico guarito, decidono di impedirne la divulgazione (cf 4,17). Ma questa motivazione fornita dagli apostoli rivela soprattutto la loro fedeltà al compito affidato ad essi da Dio. «Ciò che hanno visto e udito» costituisce infatti il requisito per il loro ministero di testimoni (cf Lc 1,2; At 1,21-22) e, illuminato nella sua valenza storico-salvifica attraverso le Scritture, forma anche il contenuto della loro testimonianza (cf Lc 24,44-48). Per questo compito di testimonianza essi sono stati mandati dal Risorto (cf Lc 24,48; At 1,8), abilitati dallo Spirito (cf Lc 24,49; At 1,8), prescelti da Dio stesso (cf 10,41). In ultima istanza, dunque, la loro impossibilità ad ottemperare il divieto di predicare si radica nell'esigenza di fedeltà al Dio della storia della salvezza. Questa motivazione si illuminerà ulteriormente nel secondo momento di persecuzione, quando Pietro e gli apostoli giustificheranno la necessità di obbedire a Dio con un breve discorso (cf 5,29-32), teso a mostrare l'operare storico-salvifico di questo Dio, del quale essi, unitamente allo Spirito, sono chiamati a dare testimonianza.

La fine dell'azione giudiziaria (4,21), con il rilascio di Pietro e Giovanni, sottolinea ancora una volta l'impotenza del sinedrio che, incapace di sostenere il confronto sul terreno della verità storico-salvifica, non può far altro che ricorrere nuovamente alla minaccia verbale. Il rilascio degli apostoli avviene sulla base di un duplice motivo. Il primo, di carattere oggettivo, è l'impossibilità da parte del sinedrio di trovare qualcosa che giustifichi un intervento punitivo. L'altro, di natura soggettiva, è la paura del «popolo» che riconosce nella guarigione del paralitico l'azione divina. Il sinedrio appare così non solo impossibilitato a porre in atto il proprio potere coercitivo, ma anche distaccato rispetto a quel popolo su cui dovrebbe esercitare la propria autorità. (6)

Preghiera della comunità e coraggio dell'annuncio (vv. 23-31)

Il rilascio di Pietro e Giovanni rende possibile il loro ritorno alla comunità cristiana da cui si erano distaccati in 3,1. Alla comunità radunata «riferiscono quanto i sommi sacerdoti e gli anziani hanno detto» (4,23), e cioè riportano il comando del sinedrio «di non parlare e di non insegnare assolutamente nel nome di Gesù» (4,18). La comunità dunque è messa al corrente del clima di persecuzione che tende a impedire la diffusione dell'annuncio.

La risposta della comunità è la preghiera, elevata a Dio con quella «unanimità» (4,24a) che la caratterizza anche altrove nella frequentazione del tempio (cf 2,46; 5,12) e nell'atto di pregare (cf 1,14), e che rivela la fraternità come condizione necessaria per rivolgersi a Dio Padre. La preghiera, (7) poi, è chiaramente scandita in due momenti, i cui inizi sono segnalati da due invocazioni: «Sovrano» (4,24b) e «Signore» (v. 29).

Il primo momento (vv. 24b-28), pur esprimendosi nella forma dialogica del «tu», invoca Dio come «Sovrano», un appellativo utilizzato nell' AT (LXX) per indicare la piena signoria di Dio sulla creazione (cf ad es. Gdt 9,12; Gb 5,8; Sap 6,7). (8) Questa predicazione della signoria divina viene poi specificata da due proposizioni participiali: la prima (v. 24b) sottolinea l'azione dinamica creatrice di Dio (cf 14,15 ed anche 17,24) e quindi la sua guida della storia universale; la seconda (v. 25a), problematica dal punto di vista testuale e con torta dal punto di vista sintattico, presenta, nella sostanza, l'azione di Dio che, per mezzo dello Spirito, ha suscitato la parola profetica di Davide attuatasi in Cristo, e quindi mostra Dio come colui che guida al compimento la storia della salvezza. Nella sua preghiera, dunque, la comunità evoca innanzi tutto e invoca Dio, signore della storia dei popoli e guida sicura della storia particolare di salvezza.

La predicazione del Dio «che ha parlato» per mezzo del suo servo Davide serve ad introdurre la citazione del Sa/ 2,1-2 (vv. 25b-26). Nel loro significato storico questi versetti del «salmo regale» evocano una situazione di interregno, precedente all' intronizzazione del re, come possibile tempo di rivolte e di sommosse che, in modo enfatico e generico, vengono presentate come di dimensioni universali. Queste manovre hanno come obiettivo JHWH e il suo re «Unto». Con un procedimento di attualizzazione, che ci è noto già dai pesher di Qumran, questi versetti vengono poi riletti in chiave cristologica (v. 27). Il punto di contatto che fa scattare l'attualizzazione cristologica è senza dubbio il termine «Unto» che viene agganciato all'unzione di Gesù da parte di Dio. Certamente a guidare il processo di attualizzazione è l'evento della passione di Gesù, così che «le nazioni e i popoli» del salmo diventano «i gentili e i popoli d'Israele» e «i re e i capi» sono intravisti in «Erode e Pilato», mentre la loro cospirazione si realizza contro «Gesù» che Dio ha unto. Attraverso questo procedimento si attua un interessante circolo ermeneutico: l'evento della passione di Gesù permette di rileggere il salmo come una prefigurazione profetica, e la profezia dà all'evento della passione la sua dimensione profonda di compimento storico-salvifico. Questo singolare circolo ermeneutico ha la funzione, all'interno della preghiera, di mostrare come quel Dio che guida la storia della salvezza ha portato a compimento il suo disegno salvifico proprio attraverso quelle azioni umane violente, realizzate si nella passione di Gesù, che tendevano a vanificarlo e che, apparentemente nella persecuzione contro l'Unto di Dio, sembravano vittoriose (v. 28). (9) Una sottile ironia, dettata dalla visione di un compimento salvifico che si è realizzato proprio là dove esso sembrava essere vittoriosamente contrastato dalla violenza umana, pervade questo tratto di preghiera.

Da questa rilettura la comunità trae ora, nel secondo momento della preghiera (vv. 29-30), le sue conclusioni per la propria situazione, e formula conseguentemente le proprie richieste. Se Dio ha realizzato il suo piano di salvezza in Cristo nonostante e attraverso l'opposizione violenta dei potenti, Egli continuerà ad agire così anche nel tempo della chiesa e dentro gli eventi di persecuzione che la stanno minacciando. Il modo di agire di Dio nell'evento salvifico di Cristo, divenuto paradigma per la situazione difficile della chiesa perseguitata, dà fiducia e serenità. Essa si limita a chiedere che Dio «guardi alle loro minacce» (v. 29a), letteralmente a quelle mosse da Pilato ed Erode contro Cristo, ma contenutisticamente a quelle rivolte a lei dall'autorità del sinedrio. In tal modo la chiesa perseguitata assume la coscienza di essere la comunità del messia sofferente che condivide con lui quel destino di contrasto e di rifiuto nel quale Dio compie il suo disegno di salvezza. Di conseguenza, la successiva richiesta non è quella di essere liberata dalla persecuzione e neppure quella di ottenere la vendetta di Dio sui suoi oppositori. Essa si limita a supplicare che Dio le doni di poter continuare il suo compito nella storia della salvezza, che è quello di «annunciare» la Parola con coraggio in mezzo alle difficoltà: un annuncio accompagnato e confermato dalla potenza dei «segni e prodigi» che Dio compie per mezzo del nome di Gesù (vv. 29b-30), come è già avvenuto nella guarigione del paralitico (cf 3,1-11).

Mentre la comunità sta pregando, avviene lo «scuotimento» del luogo dove essa si trova (v. 31a). È un segno di carattere teofanico che verosimilmente, come in 16,25, segnala l'esaudimento della preghiera da parte di Dio. Successivamente i credenti «sono ripieni di Spirito Santo» (v. 31b). L'espressione è uguale a quella dell'evento di Pentecoste (cf 2,4), ma qui il dono dello Spirito è in vista dell'esaudimento della richiesta fatta dalla comunità di poter annunciare con coraggio la Parola. Di fatto la conclusione (v. 31b) presenta la comunità in una azione protratta e continuativa di annuncio, caratterizzata dal coraggio e dalla franchezza necessarie nella situazione di persecuzione e rese possibili dalla potenza dello Spirito. (10)

Osservazioni conclusive

Questo primo racconto di persecuzione si chiude su una tensione che rimanda ad un ulteriore sviluppo narrativo. La tensione è creata dal fatto che le minacce verbali e l'ordine del sinedrio di non annunciare, non solo hanno incontrato l'obiezione degli apostoli, ma sono state disattese dalla comunità cristiana, rafforzata dalla preghiera e dal conseguente dono dello Spirito. Lo scontro tra l'autorità e la nascente comunità cristiana è destinato quindi a continuare e a intensificarsi (cf 5,17-41), ma già in questo primo momento si sono profilate tematiche di notevole interesse per la comprensione della teologia lucana.

Innanzi tutto è risultato evidente come l'annuncio cristiano e l'azione missionaria della chiesa sono destinati a creare divisione nel popolo d'Israele: alcuni accolgono la Parola, altri la osteggiano e perseguitano gli annunciatori. La spaccatura d'Israele e la persecuzione da parte di chi rifiuta l'annuncio diventeranno motivi ricorrenti nell'azione missionaria di Paolo durante i suoi viaggi.

La traduzione davanti ai tribunali diventa per gli annunciatori occasione per dare testimonianza a Cristo. Accadrà anche a Paolo durante la sua fase processuale: le sue apologie (cf 24,10-21 e specialmente 26,2-23), più che difese personali sono occasioni di annuncio.

Le resistenza e l'obiezione all'autorità in nome della fedeltà a Dio sarà un motivo che troverà ulteriore sviluppo nel secondo momento della persecuzione gerosolimitana (cf 5,17-41) e manifesta come nessuna opposizione umana, anche violenta, è capace di arrestare la corsa del vangelo.

La preghiera della comunità ha rivelato come essa possa rileggere la continuità del disegno divino tra tempo della profezia, testimoniato dalle Scritture, e tempo del compimento negli eventi di Cristo e nella vita della chiesa. Questo tema della continuità storico-salvifica è il motivo conduttore di tutta l'opera lucana.

Il legame tra preghiera e dono dello Spirito, già annunciato nel vangelo (cf Lc 11,13), trova realizzazione nel tempo della chiesa: l'evento della Pentecoste (cf 1,14 e 2,1-4), come pure il dono dello Spirito alla comunità in preghiera (4,23-31), ne sono la conferma.

Infine lo stretto rapporto tra persecuzione e diffusione della Parola, che ha segnato la chiusura del nostro testo (cf 4,31), troverà continua eco nel Libro degli Atti. Sarà così alla conclusione del secondo momento di persecuzione (cf 5,42). Sarà ancor più evidente a conclusione del martirio di Stefano, dove i dispersi in seguito a questa persecuzione diffonderanno in Giudea, Samaria e fino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia l'annuncio cristiano (cf 8,1.4; 11,1920). Infine la persecuzione come motivo per portare la predicazione del vangelo in altre città sarà tema ricorrente nei viaggi di Paolo. La corsa del vangelo si rivelerà così inarrestabile, nonostante e attraverso le persecuzioni.

(da Parole di vita, 2,1998)

Note

1) E' da notare che tutti questi elementi non sono più presenti nel terzo quadro di persecuzione (6,9-8,la).

2) Cf «mentre essi annunciavano al popolo» in 4,1.

3) Sulla composizione e le prerogative del Sinedrio, cf A. ADINOLFI, «Obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. La comunità cristiana e il sinedrio in Atti 4,1-31; 5,17-32», RivBibIt 27 (1979) part. pp. 72-79. Nel testo vengono esplicitamente menzionati i sommi sacerdoti: Anna, che rimase in carica dal 6 al 15 d.C., ma che esercitò grande influsso perché 5 suoi figli ed un nipote furono sommi sacerdoti; Caifa, genero di Anna, che fu sommo sacerdote dal 18 al 36 d.C.; Giovanni ed Alessandro di cui non abbiamo notizie storiche.

4) L'espressione «pieno di Spirito Santo» (4,8) è frequente nell'opera lucana per segnalare il parlare profetico (cf ad es. Lc 1,41.67; At 2,4; 4,31; 13,9).

5) Cf al riguardo l'interessante studio di G. MARCONI, «La storia come ermeneutica: interpretazione del confronto tra At 3,1-11 e 4,8.12», in: G. MARCONI e G. O'COLLINS (a cura di), Luca-Atti. L'interpretazione a servizio della Scrittura, Assisi 1991, pp. 243-263.

6) Per queste note sulla persecuzione abbiamo fatto riferimento ad un nostro precedente articolo: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) nel contesto della persecuzione gerosolimitana», in: G. MARROCU (a cura di), L'obbedienza e la disubbidienza nella Bibbia, L'Aquila 1996, part. pp. 97-103.

7) Questa preghiera sembra avere somiglianze strutturali e formali con la preghiera di Ezechia in Is 37,16-20 (cf 2 Re 19,16-19) che, secondo alcuni studiosi, le avrebbe fatto da modello. La differenza di contenuto però è notevole.

8) Esso è utilizzato anche nella preghiera di Simeone (cf Lc 2,29).

9) Sull'interpretazione cristologica del salmo, cf J. DUPONT, «L'interpretazione dei salmi negli Atti degli Apostoli», in: ID., Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, part. pp. 506-509.

10) Cf per queste note sulla preghiera della comunità 1. DUPONT, «La preghiera degli apostoli perseguitati (Atti 4,23-31»), in: ID., Studi, cit., pp. 891-894; A. BARBI, «La preghiera della comunità perseguitata (At 4,23-31)» Parola Spirito e Vita 25 (1992) pp. 101-115.

Letto 4466 volte Ultima modifica il Domenica, 18 Maggio 2008 20:25
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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