La condizione della donna
nel cristianesimo primitivo
di Clementina Mazzucco
La donna ha tratto vantaggio o svantaggio dall'avvento del cristianesimo? La risposta non è affatto scontata e ancora oggi suscita discussioni.
Per tentare un approccio critico e storico alla questione dobbiamo innanzitutto tener conto del contesto sociale e culturale in cui il cristianesimo nasce e si diffonde. Il mondo greco e romano è dominato da una pesante struttura patriarcale che esclude la donna dagli affari pubblici e dall'istruzione, la rinchiude in casa, la tiene sotto tutela, non le concede parità nel diritto e neanche nel matrimonio (ad esempio, di fronte all'adulterio e al divorzio). Fenomeni di emancipazione che si verificano in età ellenistica (per il mondo greco) e sotto l'impero (nel mondo romano) restano limitati ad alcune sfere sociali e non incidono sostanzialmente sulle istituzioni e sulla mentalità: la misoginia non l'hanno certo inventata i Padri della Chiesa, ma ha alle spalle una tradizione molto antica e costante.
L’atteggiamento di Gesù, quale ci viene trasmesso dai Vangeli, spicca, su questo sfondo, perché risulta in forte contrasto col costume e con la cultura del tempo, anche con la tradizione religiosa ebraica, che, in più, faceva gravare sulla donna tutta una serie di pregiudizi derivanti dalle norme di purità. Gesù mostra di riconoscere l'uguaglianza dei sessi nel matrimonio, non considera l'adulterio colpa infamante solo per la parte femminile, non relega la donna al ruolo domestico (come si evince dall'episodio di Marta e Maria), non esalta la donna, neppure sua madre, esclusivamente in quanto madre, non rifiuta di avere donne come interlocutrici e discepole e affida ad alcune (la Samaritana, Maria, ecc.) messaggi fondamentali: addirittura a un gruppo di loro dà il compito di testimoniare, per prime, la sua risurrezione.
Rispetto alla posizione di Gesù la tradizione cristiana successiva (ma già i discepoli stessi) mostra qualche difficoltà di comprensione e accettazione, col risultato che si assiste ad orientamenti contraddittori. Già in Paolo riconosciamo questa duplicità: accanto ad affermazioni molto nette a favore dell'uguaglianza tra maschio e femmina e della parità tra marito e moglie, troviamo nelle sue lettere (sue o attribuite a lui) precetti che suonano discriminanti e mortificanti per la donna (l'imposizione del velo e del silenzio in chiesa, l'invito alla sottomissione della moglie al marito, ecc.). E nella prima lettera di Pietro si riaffaccia il vieto pregiudizio della naturale debolezza femminile.
È un fatto che soprattutto le affermazioni paoline negative (insieme ai princìpi diffusi nell'ambiente) eserciteranno influenza sugli intellettuali e pastori cristiani: sarà sempre più frequentemente ripetuta l'opinione che alle donne non spetta di insegnare, specialmente insegnare a uomini, che le donne non possono battezzare né svolgere ministeri ecclesiastici negli ordini sacri, che la moglie deve obbedienza al marito, e così via. D'altra parte, però, i Padri non potranno neppure dimenticare che, sul piano etico e spirituale, ma non solo, i due sessi erano stati riconosciuti perfettamente uguali, in Cristo, e non mancheranno di ricordarlo. Il tema della parità tra marito e moglie nei confronti dell'obbligo della fedeltà coniugale, dell'adulterio, del ripudio, tema che rappresenta un'assoluta novità rispetto alle consuetudini della società pagana, diventa un luogo comune nei loro scritti e un obiettivo vigorosamente difeso contro le sempre rinascenti tendenze maschiliste dei mariti, anche dei mariti cristiani.
Non di rado l'atteggiamento critico di molti Padri è intensificato dalla polemica contro alcuni movimenti ereticali, nei quali le donne avevano invece ruoli rilevanti, arrivando a ricoprire incarichi missionari e a celebrare i sacramenti. Tuttavia si può ammettere che in generale il fenomeno di una consistente e vivace presenza femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli è molto più ampio di quanto le fonti stesse, tutte o quasi tutte «di parte maschile», mostrino esplicitamente. E si può ipotizzare che le reazioni sempre più restrittive da parte della gerarchia ecclesiastica fossero provocate da quella che appariva una sorta di «invadenza» femminile. Del resto, non erano solo le autorità maschili cristiane a sentirsene preoccupate: anche gli avversari pagani ne avevano una forte impressione e, per denigrare la fede cristiana, ne parlavano sarcasticamente come di una religione «di donnette». Donnette che non dovevano svolgere solo compiti subordinati e passivi se Porfirio, un filosofo pagano della seconda metà del III secolo, ironizzava sul «dominio» che matrone e donne esercitavano di fatto nella Chiesa influendo perfino sulle nomine sacerdotali.
In effetti, gli indizi, spesso indiretti e secondari, che si possono raccogliere dalla documentazione pervenuta, mostrano che il cristianesimo, soprattutto quello dei primi tre secoli, ha offerto alle donne una grande occasione per prendere coscienza di se come persone pari in dignità agli uomini, per ricoprire ruoli nuovi e impegnativi e per modificare profondamente anche i ruoli tradizionali.
Già le comunità paoline conoscono donne profetesse, donne diacono, donne apostole, anche se per lo più non è facile capire quali fossero le funzioni attribuite alle varie cariche. E, se rimane sporadica la menzione di una donna «apostolo« (ma sono numerose le figure femminili che «collaborano» in modo significativo alla missione di apostoli, come chiaramente fa capire Paolo), di profetesse si ha notizia anche in seguito e diaconesse erano istituite sicuramente nel III e IV secolo, almeno in Oriente. Nelle lettere più tarde del Nuovo Testamento e in scritti patristici successivi si segnala la costituzione di un ordine di vedove con prerogative e mansioni di grande rilievo nella comunità, tanto da essere messe talora sullo stesso piano dei vescovi. Quasi subito anche la scelta della verginità divenne un elemento di distinzione e di prestigio, che poi crebbe sempre di più arrivando a prevalere sul ruolo delle vedove, a partire soprattutto dal IV secolo. E si vede bene che sono soprattutto le donne a fare questa scelta, una scelta che conferiva autorevolezza, libertà e spesso una vera e propria forma di emancipazione (autonomia decisionale, disponibilità finanziarie, possibilità di dedicarsi agli studi, ad attività sociali, ecc.). La stessa cosa avveniva per le vedove, talora oggetto di brusche reprimende e imposizioni per i presunti abusi della loro condizione. Sia nel caso della vedovanza sia della verginità, così come si configurano nel mondo cristiano, si tratta di istituzioni che erano sconosciute alle società pagana ed ebraica.
Ma è soprattutto la letteratura martirologica che mostra la grande rivoluzione in senso egualitario che doveva essersi realizzata nelle prime comunità cristiane: in questi documenti, che si presentano come prodotti delle comunità stesse, la presenza femminile tra i cristiani che vengono arrestati, confessano la loro fede, subiscono torture e vengono giustiziati, è un fenomeno comune che suscita stupore solo da parte degli spettatori e torturatori pagani. Talora, anzi, alcune figure di donne svolgono ruoli da protagoniste, ne si tratta solo di persone di condizione sociale elevata: a Cartagine, accanto a Perpetua, giovane madre di buona famiglia, c'è l'umile Felicita; a Lione, ad accentrare su di se tutti gli sguardi è la schiava Blandina. E non sembra possa essere un caso che, proprio nel contesto del cristianesimo primitivo e dell'esperienza del martirio sia nato uno dei carissimi documenti scritti da mano di donna che l'antichità ci abbia trasmesso: è il diario redatto da Perpetua in carcere poco dopo il 200 e poi fatto inserire dalla comunità all'interno del racconto del suo martirio, destinato ad essere diffuso in tutta la Chiesa. Ancora lei IV e nel V secolo, in Africa, veniva letto e commentato nelle assemblee liturgiche.
Ma anche all'interno della famiglia l'adesione delle donne alla fede cristiana non è senza conseguenze rinnovatrici. Fin dagli inizi (già con Paolo) si ha il problema dei matrimoni misti perché sono specialmente, e in misura maggiore, le mogli a convertirsi; anche in seguito sono spesso le donne le più mature e impegnate sul piano morale e religioso e quelle che esercitano la più forte influenza sull'educazione religiosa dei figli. Questo fatto produce profonde incrinature nelle inveterate teorie di una obbligatoria e naturale sottomissione della moglie al marito, di un ruolo femminile concentrato nella generazione di figli e nell'amministrazione della casa. Pur restando prevalenti i compiti domestici e familiari, è altamente valutato il ruolo di educatrice, nei confronti dei figli, e di collaboratrice, nei confronti del marito, anche sul piano morale e spirituale, e in più le viene aperto tutto un ampio settore di attività caritativa ed assistenziale al di fuori della famiglia. Per la donna cristiana, anche per la donna sposata, non può più essere il massimo elogio quello che fu inciso su un epitafio per una matrona romana:
«Domi mansit, lanam fecit, rimase a casa, lavorò la lana ».