Il secondo discorso di Pietro (At 3,1-26)
di Santi Grosso
Il secondo discorso tenuto da Pietro negli Atti degli Apostoli (At 3,11-26) è occasionato dalla reazione del popolo di fronte alla guarigione dello storpio. I due apostoli, Pietro e Giovanni, che lo hanno incontrato mentre chiedeva l'elemosina alla porta Bella del tempio, devono giustificare la guarigione miracolosa di fronte a un popolo stupito e meravigliato.
L'azione taumaturgica è così stupefacente che si presta a più di una interpretazione. C'è il rischio che la gente, presa dall'entusiasmo e dal fanatismo, cominci a fraintendere il ruolo che i due apostoli hanno avuto nella guarigione.
Il motivo per cui Pietro rivolge il suo discorso ai presenti è proprio per spiegare il gesto da lui compiuto. In questo senso, la seconda allocuzione tenuta dal capo degli apostoli ha la stessa funzione della prima, diretta agli abitanti di Gerusalemme dopo l'evento straordinario ed eclatante della Pentecoste: egli, rivolgendosi ai presenti, deve dare la corretta spiegazione di ciò che è accaduto.
Presentazione letteraria
A grandi linee il discorso è suddiviso in due parti, secondo la ripartizione che il narratore stesso dà a questo testo nel quale per due volte Pietro si rivolge direttamente al suo uditorio: "Uomini di Israele" (v. 12) e "Ora, fratelli" (v. 17). Questa duplice menzione dei destinatari divide l'allocuzione in due parti: nella prima Pietro si concentra sull'annuncio di Dio che si rivela in Gesù, il quale è stato il vero autore dell'azione guaritrice (vv. 12-16); nella seconda l'apostolo invita alla conversione nella prospettiva della venuta ultima e definitiva del messia (vv. 17-26).
Se confrontato con gli altri discorsi degli Atti, si scopre che anche questo è costruito con lo stesso canovaccio. L'introduzione è sempre data dall'aggancio con la situazione immediata (cf v. 12), centrale risulta la proclamazione kerygmatica di Gesù il crocifisso, morto e risorto (cf vv. 13b-15). Per dimostrare che Gesù è il compimento della rivelazione di Dio, gli autori dei discorsi degli Atti inseriscono delle citazioni scritturistiche (cf vv. 13.22-23.25). L'allocuzione si rivolge ai destinatari con l'appello alla conversione (vv. 19.26).
Mentre nel primo discorso petrino (At 2,14-41) il centro verte fortemente sul kerygma cristiano e soltanto alla fine il capo degli apostoli invita l'uditorio al la conversione, nel secondo l'annuncio di Gesù il Signore crocifisso risorto costituisce soltanto la fase preliminare dell'appello alla conversione che in questo testo appare abbastanza articolato e illuminato da elementi nuovi: la prospettiva minacciosa del giudizio futuro (v. 20); l'avvertimento dell'importanza del presente come tempo di decisione (vv. 22-24); l'indicazione del ruolo d'Israele nella storia della salvezza (vv. 25-26).
La scenografia creata dal narratore per il discorso è data dal portico di Salomone, che si estendeva lungo la parte orientale del cortile dei pagani al di fuori della porta di Nicanore. In questo luogo dove si raccoglieva la gente a discutere e i maestri giudaici tenevano il loro insegnamento, anche la comunità cristiana si ritrovava. (1)
Non è né casuale, né fortuito, che nel primo e nel secondo discorso sia proprio Pietro a prendere la parola. Egli è il capo degli apostoli, il leader autorevole, responsabile e allo stesso tempo portavoce di tutto il gruppo dei credenti.
Il vero autore del miracolo
Come abbiamo detto, è lo stupore del popolo che induce Pietro a prendere la parola e a dare una spiegazione di ciò che è accaduto. Egli si rivolge al suo uditorio con l'appellativo "Uomini di Israele",(2) mettendo immediatamente in guardia i suoi destinatari che il miracolo operato non è il risultato delle loro capacità terapeutiche e magiche, nemmeno delle loro particolari attitudini o predisposizioni spirituali. (3)
Per scoprire il vero autore del miracolo, Pietro fa compiere ai suoi ascoltatori un percorso che parte dalla comune esperienza che sia essi che lui hanno in Dio, riconosciuto appunto attraverso la formula di fede ripresa dall' Antico Testamento: Egli è "il Dio di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri" (cf Es 3,6.15).
Questo Dio, che nell'esperienza biblica si rivela personale e vicino alla storia del popolo d'Israele di generazione in generazione, si è manifestato nella missione di Gesù, il "servo". (4) Tale appellativo, di marca anticotestamentaria, rimanda alla presentazione isaiana dell'inviato che esercita una solidarietà con il popolo e una fedeltà a Dio fino alla morte (Is 52,13; 53,10-12). Il titolo non descrive soltanto la relazione di dipendenza di Dio, ma anche il suo rapporto profondo e privilegiato con lui. (5) E in virtù di questa relazione particolare che Gesù è stato glorificato dal Padre attraverso la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo.
Per mostrare come Gesù sia stato scelto da Dio per esercitare la sua missione messianica, Pietro mette in rilievo il contrasto tra l'azione dei Giudei, che hanno cercato di sopprimere il messia, e il piano stesso di Dio, il quale invece ha voluto per lui un destino di risurrezione.
I giudei per uccidere Gesù lo hanno dovuto consegnare a Ponzio Pilato, il governatore romano che aveva la responsabilità su tutte le esecuzioni capitali eseguite in Palestina, territorio occupato dai Romani, dimostrando così di rinnegare il "santo" e il "giusto". (6) Troviamo di nuovo dei titoli che, assieme a quello di "servo", mettono in rilievo come il discorso di Pietro sia impregnato di una cristologia che affonda fortemente le sue radici nella tradizione biblica.
L'assurdità del rinnegamento di Gesù si dimostra dal fatto che tra i due condannati a morte, il popolo ha scelto di salvare l'assassino Barabba, mentre ha richiesto l'esecuzione capitale per l'"autore della vita". (7) È il quarto titolo cristologico di questo discorso e crea un contrasto tra il destino di crocifisso e la vera identità di Gesù, datore della vita. Egli è la guida che inaugura una nuova via verso la vita, perché, con la sua vittoria sulla morte, diventa il capo di una umanità definitivamente rinnovata.
Ora Pietro si fa portavoce dell'annuncio specificatamente cristiano: quel Gesù giudicato colpevole e reo di morte, in realtà viene chiamato da Dio ad un destino di gloria che, secondo l'interpretazione lucana, corrisponde alla sua vicenda di risurrezione e di ascensione al cielo (cf Lc 24; At 1).
I garanti di questo evento sono gli stessi apostoli che sono stati i primi destinatari delle apparizioni di Gesù dopo la sua risurrezione. La loro autorevole testimonianza nasce soltanto dall'esperienza diretta e personale dell' incontro con il Risorto, così come Luca nella sua opera ha cercato di descrivere (Lc 24,36-49; cf At 1,8).
Il discorso, avviato come giustificazione del miracolo compiuto da Pietro, è poi passato alla proclamazione di fede nel Dio di Israele che si conosce nella storia e che si incontra personalmente, alla fine, è approdato all'affermazione che questo Dio si è pienamente manifestato nella missione di Gesù.
Il percorso che l'oratore sta facendo fare al suo uditorio, serve a dimostrare come il miracolo operato al tempio in favore dello storpio non sia altro che il risultato dell'azione di Dio attraverso la persona di Gesù. Questi non è uno dei tanti presunti messia che fanno leva sulle proprie capacità carismatiche o terapeutiche, ma l'Atteso dal popolo d'Israele.
La salvezza portata da Gesù corrisponde alla reintegrazione fisica e sociale dell'uomo. Il Dio di Israele si rivela nel messia in modo sempre più preciso come un Dio che salva l'uomo dai suoi drammi e dalle sue disavventure storiche. Non è stratosferico e disincarnato, ritirato nel suo mondo celeste e quindi assente, ma entra nella storia degli uomini e li salva dalle loro sconfitte umane.
Pertanto il vero autore di questo miracolo sconvolgente non è altro che Gesù, il Signore che il popolo di Israele ha rifiutato. Tuttavia il motivo che ha reso possibile il suo intervento efficace e salvifico ancora oggi, mentre egli si trova glorioso in cielo, è la "fede" in lui professata dalla comunità cristiana. (8) Ma non si può fare della fede "nel nome di Gesù" una formula magica. Essa presuppone la conoscenza della persona e dell'opera di Gesù. Solo la fede rende possibile e comprensibile il miracolo, che può essere invece oggetto di strumentalizzazioni fanatiche e integriste o fideistiche.
Le conseguenze "sociali" del miracolo: una nuova comunità
Nella seconda parte del discorso Pietro, facendo leva sull'evidenza del miracolo accaduto davanti a tutti, mette in rilievo come il rifiuto che ha condotto Gesù alla morte da parte del popolo e dei capi è però causato dall' "ignoranza", ovvero dall'incapacità dei Giudei di riconoscere in quel falegname di Nazaret l'inviato di Dio. (9)
Tuttavia l'uccisione di Gesù da parte dei giudei non significa lo scacco del piano di Dio, ma il suo compimento. Il progetto che fa di Gesù il Signore glorioso non dipende dalle scelte umane, ma le supera, trascendendole. Infatti proprio da una lettura approfondita della volontà di Dio, codificata nella tradizione biblica, si capisce che il messia avrebbe dovuto essere sottoposto ad un destino di sofferenza e di morte (Lc 9,22; 17,25; 22,15; 24,26.46; At 1,3; 17,3). L'opera lucana infatti mette in rilievo come la sorte inspiegabile di Gesù, anche se è stata in realtà causata dal rifiuto del popolo giudaico, sia geneticamente in scritta nel piano di Dio, di cui costituisce l'adempimento.
A causa di questo rifiuto Israele ha perso per sempre l'occasione della salvezza? Certamente no, se rispondono all'invito di Pietro che sollecita il popolo al pentimento e alla conversione. Attraverso due imperativi, "pentitevi [ ... ] convertitevi", (10) l'apostolo segna il percorso che i giudei devono intraprendere per non perdere definitivamente l'occasione di essere salvati. Infatti la croce non inaugura il tempo della vendetta di Dio, ma quello del perdono e della riconciliazione. È questo l'itinerario che gli Atti degli Apostoli stabiliscono sia per i Giudei che per i pagani, i quali sono chiamati ad aderire all'esperienza ecclesiale che ha come contenuto il kerygma cristologico.
Il perdono, o cancellazione del peccato, non avviene più attraverso lavacri e riti di purificazione, ma proprio attraverso la presa di coscienza del proprio peccato (in questo caso è il rifiuto del messia) e nell'adesione ad uno stile di vita nuova che significa partecipazione all'evangelo proclamato.
Soltanto dopo il riconoscimento da parte di Israele che Gesù di Nazaret è il messia promesso, giungeranno i "tempi della consolazione", espressione di marca apocalittica che descrive il momento dell'inizio del tempo escatologico, inaugurato dal ritorno dell'inviato messianico. Gesù infatti resterà nel mondo celeste fino al momento della "restaurazione di tutte le cose", quando egli porterà a termine la storia mediante il suo giudizio.
Per fondare questo annuncio che vede come protagonista del tempo finale Gesù, il Signore crocifisso e risorto, Pietro ora ricorre ad un collage di testi biblici anticotestamentari che venivano usati nel mondo giudaico per annunciare la venuta del messia.
Il testo, composto da Dt 18,15 (11) e Lv 23,29, presenta l'arrivo di un messia, identificato con caratteristiche sia mosaiche sia profetiche. (12) Di fronte al "profeta" atteso, due sono le possibili reazioni del popolo: una di accoglienza, l'altra di rifiuto. Chi respingerà la parola da lui portata verrà estromesso dal popolo.
Attraverso questa composizione biblica il narratore degli Atti degli Apostoli intende presentare la sua prospettiva della storia della salvezza che sfocia nella costituzione della comunità cristiana.
La chiesa non è una cellula impazzita del popolo d'Israele, ma ne è l'evoluzione più matura e autentica. In altre parole chi non ascolta la parola del "profeta escatologico" non può entrare a far parte del nuovo popolo. Al contrario, chi accoglie quella parola di salvezza è chiamato ad aderire finalmente in modo profondo alle esigenze di Dio che si rivelano nella storia.
Che il nuovo popolo di Dio non coincida più con un'etnia, una razza o una cultura, secondo la concezione ebraica, lo si capisce dal riferimento fatto da Pietro all'alleanza con Abramo di cui gli ascoltatori giudei sono figli. Il richiamo a questo personaggio è intenzionale (Gn 12,3). (13) Infatti Abramo, il primo credente della storia della salvezza, sancisce con Dio un patto nel quale egli ha una responsabilità non soltanto nei confronti del popolo di Israele, ma in rapporto a tutti i popoli della terra. Infatti egli, secondo la pagina biblica di Genesi, è chiamato a diventare una "benedizione" per tutte le famiglie della terra. Se con Mosè l'alleanza ha come contraente il popolo d'Israele, con Abramo entrano in causa tutte le genti della terra. La comunità dei discepoli si inserisce in questo grande piano di Dio che non prospetta la salvezza in modo elitario soltanto per Israele, ma che inscrive tutte le genti all'interno del suo intendimento salvifico.
La "benedizione" attesa attraverso la personalità del primo patriarca si realizza mediante Gesù, il servo. Tale benedizione consiste nell'entrare a far parte della comunità dei credenti fondata e radicata in Gesù, il Signore. Partecipando a questa potenza di risurrezione, la chiesa è effettivamente una comunità di benedetti e quindi salvati già da ora. La comunità dei credenti è l'ambito nel quale Dio vuole aprire le porte della salvezza non solo a qualcuno, ma a tutti.
Il discorso di Pietro riportato dal Libro degli Atti non è sicuramente un resoconto stenografico, né tanto meno un testo scritto a tavolino. Esso conserva dell'antica tradizione e catechesi cristiana quanto basta per illustrare la crisi dei rapporti tra la prima comunità credente e il popolo giudaico. Tuttavia ha acquistato nella riflessione cristiana una tale attualità, da incentivare i credenti a interrogarsi sul ruolo di Gesù Signore nella propria esistenza, sulla loro speranza di salvezza, sulla loro fedeltà al piano di Dio, sulla loro capacità di lettura e interpretazione di quegli eventi che continuano la potenza salvatrice di Gesù.
(da Parole di vita, 2, 1998)
Note
1) Cf At 5,12; anche Ant XX,221.
2) Lo stesso appellativo viene usato nel discorso di Pentecoste (2,2) e nell'intervento di Gamaliele (5,35).
3) La domanda circa la responsabilità del miracolo verrà posta in seguito dal collegio sinedrita (4,7).
4) In questo discorso il kerygma non fa riferimento alla missione pubblica di Gesù, ma direttamente si concentra sul suo destino di glorificazione che ha avuto luogo attraverso la passione, morte e risurrezione.
5) Il titolo di "servo" rivolto a Gesù si incontra negli Atti quattro volte (3,13.26; 4,27.30).
6) Il titolo di "giusto" è riservato al messia anche in 1 En 38,2; 53,6. Si tratta tuttavia ancora di una velata allusione alla figura del servo "giusto e santo" di Is 53,11.
7) L'appellativo "l'autore della vita" è una espressione rara che ricorre solo negli Atti e nella Lettera agli Ebrei (At 5,31; 26,23; Eb 2,10; 12,2).
8) Abbiamo qui la prima comparsa negli Atti degli Apostoli del termine "fede" che risuona due volte nella dichiarazione di Pietro.
9) Il motivo dell'ignoranza si ritrova anche in l Cor 2,8. L'ignoranza che mette i giudei al pari dei pagani, è la radice del peccato (cf Rm 1,18-3,20).
10) Il verbo greco epistrephô ritorna per undici volte negli Atti; significa "volgersi verso" e sottintende il ritorno a Dio.
11) È questo un passo che nel giudaismo post-biblico ha mantenuto viva la speranza messianica, anche quando la monarchia davidica è andata in crisi.
12) I due testi dell'Antico Testamento sono citati e interpretati come a Qumran (4QTest 5-8; 1QS IX 11; 4Q 175).
13) La citazione di Abramo (Gn 12,3) è secondo la formulazione di Gn 22,18 (LXX).