I Dossier

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L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *


In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della “giustificazione secondo fede” o della “salvezza al di fuori delle opere della Legge”? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il “fondatore del cristianesimo”. Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.

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Martedì, 21 Ottobre 2008 01:23

Leggere la Bibbia?

Leggere la Bibbia?




La Bibbia ha Dio come vero autore, a motivo del messaggio salvifico, ed è nata da una esperienza di fede di un popolo. Essa attesta un susseguirsi di avvenimenti che raggiungono il vertice nel mistero pasquale di Cristo.


Chi oggi vuole penetrare nel modo più vero e adeguato il senso della Bibbia, cioè il messaggio di salvezza, deve sapere quello che vuole quando si mette a leggere il libro sacro. Ora la Bibbia non è solo termine di riferimento e di confronto, ma è un libro di fede, è il luogo di un appuntamento e di un incontro con Gesù Cristo.

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Questo Dio che domanda l'amoreUna lettura d’Osea 6, 1-6di Soeur Claude-Pierre o.p.



«Venite, ritorniamo al Signore:egli ci ha straziato ed egli ci guarirà.Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà.Dopo due giorni ci ridarà la vitae il terzo ci farà rialzaree noi vivremo alla sua presenza.
Affrettiamoci a conoscere il Signore,la sua venuta è sicura come l'aurora.Verrà a noi come la pioggia di autunno,
come la pioggia di primavera, che feconda la terra».

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Sabato, 06 Settembre 2008 20:33

Abramo nel Nuovo Testamento (Pier Luigi Ferrari)

Abramo nel Nuovo Testamento


di Pier Luigi Ferrari



 


La prima generazione cristiana ha riletto la figura di Abramo alla luce di Cristo. Varie e ricche sono le riflessioni che ne sono scaturite e che percorrono il Nuovo Testamento: il patriarca è qualificato come l'antenato del popolo d'Israele, ma di fronte alla novità portata da Gesù si fa sempre più strada un interrogativo critico circa l'autentica appartenenza alla discendenza di Abramo; le promesse a lui fatte si illuminano e si ampliano in senso universale; egli diventa il tipo del credente cristiano, colui che ha addirittura anticipato la fede in Gesù Cristo.
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L’uomo nuovo nell'epistolario paolino


 


di Ettore Franco




In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in «novità» risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo.
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Domenica, 24 Agosto 2008 19:58

L’uomo salvato da Gesù (Gianluigi Corti)

L’uomo salvato da Gesù
di Gianluigi Corti






In queste pagine ci accosteremo ad alcune scene evangeliche che ci permetteranno di osservare il dinamismo del processo salvifico, il passaggio ad una condizione opposta a quella di partenza grazie all'intervento di Gesù, alla sua potenza vittoriosa su ogni male, e alla preghiera, lamento, protesta, fede degli uomini coinvolti in situazioni limite.

Dalla letteratura evangelica si potrebbero raccogliere anche altri brani idonei a questo scopo ad esempio: Pietro salvato dall'affogamento (Mt 14,22-33); la guarigione di un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6); il cieco di Gerico (Mc 10,46-52 e uso anche in Lc 18,35- 3); la peccatrice perdonata (Lc 7,36-5Q); l'indemoniata di Gerasa (Lc 8,26-39); i dieci lebbrosi guariti (Lc 17,11-19); la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44)... Ci limiteremo qui a questi racconti: la tempesta sedata (Mt 8,23-47); la guarigione della emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-43).

La tempesta sedata ( Mt 8,23-27)

Coerente con il suo stile Matteo ci ha lasciato un racconto essenziale nella forma, che va affrontato su un duplice piano di lettura.

Gesù sta lasciando Cafarnao (8,5) per dirigersi sulla sponda sudorientale del lago di Genezaret, verso la regione dei Gadareni (8,28). Prende congedo dalla folla dialogando in forma enigmatica con due candidati alla sequela (8,19-22). Si noti come Gesù sia il primo a salire sulla barca, i discepoli non sono già pronti ai lavori necessari alla partenza e al viaggio; essi salgono solo dopo che Gesù si è imbarcato e viene usato per essi il verbo tecnico per la sequela akolouthéō (= seguire).

Il lago di Galilea sprofondato tra le colline ha l'abitudine di ribollire improvvisamente sfogandosi in tempeste violente. Coloro che sono imbarcati con Gesù fanno l'esperienza di questa consuetudine ambientale. Anche se nel gruppo vi sono pescatori di professione (4,18-22) è impossibile controllare l'imbarcazione e contrastare la prepotenza dell'acqua.

Tutti sono sommersi dai flutti e dall'angoscia della morte. Il sonno di Gesù (v. 24) è un elemento narrativo che serve a creare maggior tensione sulla situazione dei discepoli e più vivacità nel dialogo tra loro e Gesù, ma è anche uno degli elementi anticotestamentari ricuperati nel racconto. L 'invocazione rivolta a Gesù con I 'impiego del verbo sōzein (=salvare) è di sapore liturgico (v. 25). L 'intervento di Gesù (v. 26) trova due interlocutori: dapprima i discepoli vengono posti di fronte alla loro immotivata paura frutto solo della mancanza di fede, quindi l'energico rimprovero agli elementi della natura ristabilisce la calma. La vita dei discepoli è salva, ma fermarsi a questo punto sarebbe lasciare Il cammino a metà strada.

Il messaggio di Matteo non consiste solo nel presentare la salvezza fisica dei discepoli dovuta alla potenza di Gesù superiore alle minacce della natura. In effetti questa potrebbe essere già una lettura interessante: la natura non sempre è favorevole all'uomo, anzi a volte gli mostra un'ostilità che lo sopprime; Cristo però è in grado di salvare anche da questo pericolo immane. C'è di più.

Il messaggio cristologico è assai nitido. L 'uso del verbo epitimáō (= minacciare) viene impiegato nella versione dei LXX per i salmi 65,8; 106,9; 107,29. Così l'accaduto riletto alla luce del salterio permette di vedere in Gesù la stessa forza del Dio della creazione e dell'esodo, i grandi fatti della storia biblica a cui alludono i salmi citati.

Già si è ricordato Giona. Il primo episodio del libro profetico (Gio 1,1-16) è pure chiamato in causa. Giona prefigura il destino di Gesù in riferimento al mistero pasquale ed è Gesù stesso a rifarsi alle pagine di quel piccolo libro parlando di sé: Mt 12,38-41. Giona restò tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, Gesù rimarrà tre giorni e tre notti nel ventre della terra. Gesù conclude il paragone con questa dichiarazione: «Ecco, ora qui c'è più di Giona!» (18,41). La tempesta sedata anticipa la superiorità di Gesù rispetto a Giona, il quale dovette essere buttato in acqua per placare Dio e il mare, la sua preghiera non bastò (Gio 1,6.12.15).

L'ordine di Gesù invece basta a placare le acque grazie alla sua perfetta sintonia col Padre del quale condivide i poteri.

La superiorità di Gesù poi risplenderà definitivamente quando il terzo giorno emergerà dai flutti della morte, nella quale volontariamente si era immerso. La vittoria pasquale sarà germe di riconciliazione anche per il creato (cf Rm 8,19-21).

Si può ora accedere al piano simbolico del racconto. La scoperta dell'identità di Gesù «salva» dalle difficoltà della sequela. Questo tema è fondamentale nel brano in questione. Abbiamo già detto sopra come il verbo «seguire» venga immediatamente fornito come chiave di accesso al racconto (v. 23). Esso era già stato impiegato nei vv. 19 e 22, pertanto il rapporto tra i due episodi delle esigenze della vocazione apostolica (vv. 18-22) e della tempesta sedata (vv. 23-27) è assai stretta. Nel secondo episodio si mostra come nel seguire Gesù la vita è posta in pericolo a causa della persecuzione che la sequela porta con se.

La reazione dei discepoli di fronte al pericolo e l'intervento di Gesù smascherano l’immaturità della fede. Il discepolato è cammino di salvezza nella crescente accoglienza del mistero del Cristo che rimuove ogni paura. Questo superamento della paura è una tappa essenziale nel processo salvifico. Esso è dovuto alla presenza di Gesù che fa approdare alla maturità della fede.

Guarigione della emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo ( Mc 5,21-43)

I vangeli sinottici sono concordi nell’impiego del verbo sōzein (= salvare) per il racconto in questione. Matteo lo usa solo per la donna affetta da emorragia (Mt 9,21-22); Marco e Luca lo adoperano sia per la bambina che per la donna (Mc 5,23.28.34; Lc 8,48.50). Si noti che la guarigione dell’emorroissa viene conclusa da tutti e tre gli evangelisti con la significativa espressione «la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 8,34; Lc 8,48). Marco è l'evangelista che impiega più volte il verbo «salvare» (Mc 5,23.28.34) ed è l'autore del racconto più antico e più dettagliato.

La prima scena (vv. 21-24a) ci presenta il ritorno di Gesù dalla riva orientale del lago di Genezaret dove si era recato nel territorio dei Geraseni e dove aveva operato l'esorcismo dell'indemoniato (Mc 5,1-20). Sulla sponda occidentale, in località non specificata la folla reagisce entusiasta al suo ritorno cingendolo d'assedio. Gesù sembra trattenersi volentieri con loro. In questo scenario fa la sua comparsa un uomo di classe distinta, un dirigente della sinagoga. È spinto da una tragedia familiare: la sua bambina è malata in modo gravissimo, anzi è agli estremi, versa in condizioni tali che l'unica via d'uscita che le rimane è la morte, non vi sono alternative. Giairo è consapevole che umanamente la situazione è insolubile, solo un intervento soprannaturale può riportare alla «salute» sua figlia. Per questo lo vediamo cadere ai piedi di Gesù, nonostante la sua dignità, e supplicarlo con insistenza. Si tratta di una scena assai drammatica in cui i presupposti del gesto salvifico sono brevemente, ma efficacemente presentati: situazione disperata e preghiera.

La partenza di Gesù con Giairo segna un tornante nella vicenda e nel racconto. Un altro personaggio entra ora in scena: la donna affetta da emorragia. L'episodio che la riguarda si divide in due parti. Nella prima (vv. 24b-29) viene descritta la situazione della donna e la miracolosa guarigione.

Per il lettore contemporaneo non è facile percepire il tormento della donna in tutta la sua portata. Il racconto evangelico ha steso sulla condizione della malata un velo di pudore e

di discrezione che è necessario sollevare per raggiungere la profondità della difficoltà nella quale essa si trova.

Il testo evangelico recupera una «terminologia tecnica» (en rhýsei haímatos v.25) reperibile nella versione dei LXX di Lv 15,19-30 in cui viene descritta I 'impurità contratta nel periodo mestruale e nelle sue anomalie, impurità contagiosa per le cose e le persone. La donna in questo stato non poteva neppure partecipare al culto dal momento che la sua impurità non l'abilitava né al contatto con gli altri né al contatto con Dio. L'emorroissa non è una semplice malata, ma una recisa dal tessuto sociale. La sua situazione è incredibilmente disturbata sia per il risvolto fisiologico e psicologico, sia per le implicanze religiose e sociali della sua disfunzione. È una donna umiliata nella sua femminilità che tra la gente si sente clandestina.

Anche questa donna umanamente non ha via d'uscita, tutti i tentativi fatti non hanno prodotto che ripetuti fallimenti e il tracollo economico. Anche per lei l'unico sbocco per la sua disperazione è l'intervento di Gesù.

Marco è stato abile nella narrazione: tutta l'anamnesi riguardante la donna è fatta da participi aoristi che creano un riuscito contrasto con l' aoristo di háptomai (= toccare) che esprime l'azione puntuale e culminante della sequenza e che prepara ottimamente la descrizione dell'istantaneità della guarigione (v. 29). Il tocco quasi furtivo, alle spalle, da parte della donna viene dalla sua consapevolezza di contagiare chi entra in contatto

con lei e prepara la seconda parte del racconto (vv. 30-34). L 'avverbio euthýs (= subito) ripetuto ai versetti 29 e 30 crea una contemporaneità tra la guarigione della donna e la reazione di Gesù.

Gesù reagisce perche ha percepito la differente qualità del tocco ricevuto dalla donna; si è reso conto che non era uno dei casuali urti ricevuti dalla calca di gente, ma di un'azione voluta dalla fede. Ora vuole manifestare quanto nel segreto di quel corpo era accaduto.

Si potrebbe pensare che l'intenzione di Gesù non sia tanto quella di costringere la donna ad una imbarazzante confessione circa il suo passato o il suo stato fisico, ma piuttosto quello di rilevare e accreditare la sua nuova condizione di purificata e liberata, e partecipe a pieno titolo della vita collettiva. Le parole di Gesù che chiudono il racconto di questo miracolo sciolgono la donna dalla sua clandestinità e le ridonano la pace travolta dal flusso sanguigno.

Questa malata senza nome, ma con fede, ha ricevuto più di quanto si aspettasse quando pensava tra se che toccando Gesù si sarebbe salvata (v. 28). Oltre alla guarigione fisica ha ricevuto in dono il ripristino pieno della sua di dignità. La risposta di Dio al bisogno e alla fede dell’uomo e sempre sovrabbondante.

Ora riprende il racconto interrotto del viaggio alla casa di Giairo. È l'ultima scena della nostra pericope (vv. 35-43). La situazione è precipitata: la fanciulla è morta. Gli ambasciatori provenienti dalla casa di Giairo ritengono ormai inutile l'intervento di Gesù. Di fronte alla morte non rimane che il dolore e la rassegnazione. Ma Gesù invita Giairo a non associarsi al loro pensiero. Anche di fronte alla morte si può e si deve mantenere fiducia in lui: «Non avere paura, solamente credi» (v. 38). Così il cammino prosegue. Gesù non viene congedato, ma la folla sì. Comincia a stringersi il cerchio intorno a Gesù fino a ridursi all'essenziale al v. 40. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni possono seguirlo, come avverrà successivamente per la trasfigurazione (9,2-8) e l'agonia al Getsemani (14,32-42). Questi discepoli testimoni della caparra della gloria e del dolore di Gesù sono ora coinvolti in un altro «segno pasquale».

Il contorno tipico della morte in oriente confusione, pianti, urli è già in atto nella casa di Giairo; ma Gesù lo trova fuori luogo: «La fanciulla non è morta, ma dorme» (v. 39). I presenti non raccolgono la sfida di Gesù, non accettano la rivelazione di quanto è la morte a partire dalla presenza del Cristo vale a dire non più una situazione irreversibile, senza ritorno, bensì uno stato reversibile proprio come il sonno dal quale si può essere svegliati. La denominazione che Gesù dà alla morte entrerà subito nel vocabolario cristiano (At 7,60; 13,16; 1 Cor 7,38; 11,30 ecc.).

La derisione dei presenti esplode spontanea dalle loro bocche come prima le grida. Tuttavia Gesù smantella l'apparato del lutto cacciando via tutti. La sua intenzione non è solo quella di avvolgere il miracolo nella discrezione, ma anche quella di eliminare un contesto decisamente in contrasto con l'imminente rifiorire della vita. In un clima intimo e affettuoso abitato solo dai genitori della ragazza e dagli amici di Gesù il prodigio si compie. Il vangelo riporta il gesto di Gesù e soprattutto la forza e freschezza della sua parola conservata nella fragranza del linguaggio originale e per nulla imparentata o allusiva a formule magiche: «Talità Kúm - fanciulla alzati!» (v. 41).

La ragazza si alza e fa dei giri attorno è la prova del pieno recupero della vita e delle forze. La ragazza non ha bisogno di convalescenza, ma di cibo ed anche questo ordine di Gesù ci dimostra la sua grandezza. Fino all'ultimo egli è preoccupato per gli altri e dimentico di se. Non ha importanza per lui il riconoscimento che gli è dovuto, anzi in modo quasi assurdo impone il silenzio sull'accaduto.

Giairo ha chiesto una guarigione, gli è stata donata una risurrezione. Il dinamismo è costante: nella difficoltà l'uomo si apre alla preghiera e alla fede per accogliere il dono di Dio sempre superiore alle sue aspettative. Il punto di partenza della preghiera evangelica poteva essere un asserto di questo tipo: Gesù è in grado sia di guarire i malati, sia di risuscitare i morti. Marco ha proclamato questa verità narrando e intrecciando due episodi

dell'opera salvifica di Gesù che libera l'uomo da due coercizioni da cui nessun altro gli può dare scampo: la malattia e la morte.

Così è attuato il lieto annuncio del salterio: «Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte» (Sal 68,21 ).

Nota bibliografica

Mt 8,23-27:


L. SABOURIN, Il Vangelo di Matteo , Roma 1977, voI. Il, 528-531.
R. FABRIS, Matteo , Città di Castello 1982, 206-208.
l. GHILKA, Il Vangelo di Matteo , Brescia 1990,464-469.

Mc 5, 21-43:


M. l. LAGRANGE, Evangile selon Saint Marc , Paris 1966, 138-146.
V. TAYLOR, The gospel according to St. Mark , London 21966, 289-298.
R. PESCH, Il Vangelo di Marco , Brescia 1980, voI. 1,467-496.
R. SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco , Roma 1983, voI. 1,133-140.
l. GNILKA, Marco , Assisi 1987, 283-301.

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Il corpo del cristiano tempio dello Spirito(1 Cor 6,12-20)

di Michele Ciccarelli








In questo passo Paolo proclama quella libertà cristiana che Cristo ci ha ottenuto: una libertà che non è indiscriminata né senza orientamenti e non conduce di nuovo ad alcuna schiavitù. Con queste premesse l' Apostolo affronta la problematica della dissolutezza morale diffusa nella città di Corinto. La comunità cristiana, che egli stesso ha fondato, deve fare i conti con una società multietnica e multireligiosa, complessa e corrotta dal punto di vista morale: di fronte a queste sfide Paolo non si scoraggia, ma con decisione e chiarezza verbale tratta le diverse questioni che essa presenta.

Il fulcro teologico e la chiave di lettura del suo discorso è la risurrezione di Cristo. In quanto associato a Cristo risorto, il cristiano viene abilitato a una comunione particolare con il suo Signore, mediante la quale viene informata ogni sua azione. A partire dalla risurrezione, Paolo elabora una teologia del corpo che costituisce la novità provocatoria per la società di Corinto e del mondo pagano in generale, e impegna, in modo esigente, la comunità cristiana ivi residente.

Il rapporto corpo-Signore (vv.12-14)

Dopo le premesse espresse al v. 12, nei vv. 13-14 Paolo affronta lo stretto rapporto tra corpo e Signore. Paolo, in effetti, con frasi brevi e pregnanti, aggredisce, per così dire, in modo diretto e violento, la problematica dei disordini sessuali praticati a Corinto. Dalla veemenza del linguaggio dovremmo forse dedurre che la comunità cristiana di Corinto fosse già incorsa in tali pratiche.

AI v. 12 il termine panta ( «tutto» ) introduce la legge di libertà tanto cara a Paolo e viene ripetuto altre due volte nello stesso versetto. La legge della libertà è lo statuto del cristiano liberato da Cristo con il suo sacrificio. Non c'è, quindi, nessuna schiavitù. «Tutto mi è lecito» viene ripetuto due volte e ogni volta viene accompagnata da una frase avversativa introdotta da «ma». La prima volta si precisa che «non tutto mi giova»; la seconda si dice che «non sarò dominato da niente». Paolo mette in campo il criterio di utilità, ben noto all'etica stoica, che, di fatto, limita la facoltà di azione del cristiano. In seguito, a proposito delle carni, Paolo utilizzerà lo stesso criterio per il bene di chi è ancora debole nella fede (cf. 1 Cor 8, 9-13). Il secondo criterio è un po' più sottile: la libertà non deve generare schiavitù. Sembrerebbe, infatti, che una completa libertà por- ti a una schiavitù. Paolo si prepara a spiegare la caratteristica di questa schiavitù, ma per fare questo ha bisogno di un'altra categoria: quella di «corpo».

Il v. 13 presenta il rapporto tra cibi e ventre, un rapporto stretto (i cibi per il ventre e il ventre per i cibi), tanto che subiranno l'identica sorte: la distruzione da parte di Dio. In questo rapporto non viene evidenziato alcun apprezzamento morale e la distruzione non è certamente vista come una punizione, ma, piuttosto, come un esito predeterminato a motivo della caducità dei due elementi. Nella seconda parte del versetto Paolo pone il termine «corpo» in antitesi agli elementi sopra indicati. Il fatto suscita un po' di perplessità, considerando che il ventre è una parte del corpo. Ma forse questo è un dettaglio trascurabile rispetto alla valenza che Paolo vuole dare al termine «corpo». Egli intende «corpo» in quanto organismo vivente e, per di più, come vedremo in seguito, è santuario dello Spirito. Viene, quindi, distinto il corpo come organismo vivente e il corpo come insieme di organi. In questa visione, Paolo non ha difficoltà a considerare il ventre come destinato alla distruzione, mentre dice che il corpo è per il Signore.

A differenza del rapporto naturale che c'è tra il ventre e i cibi, Paolo nega

qualsiasi rapporto tra il corpo e la porneia. Per porneia è da intendersi qui l'unione sessuale considerata illegittima dalla tradizione ebraica e, almeno in parte, condannata anche dalla società greco-romana. Il riferimento alla pornê (prostituta) ai vv. 15-16 farebbe intendere che Paolo si concentra sull'unione con la prostituta, tenendo presente, soprattutto, la diffusione della prostituzione sacra, già così duramente condannata dalla Bibbia. Il termine porneia ha, comunque, un significato più ampio ed è generalmente tradotto con il termine «impudicizia» e sta a indicare un disordine sessuale. Infatti, se prescindiamo dal libro dell' Apocalisse, dove il termine porneia ha il significato di «apostasia dalla fede», gli altri testi del Nuovo Testamento si riferiscono sempre a un disordine sessuale.

È da ricordare che le immoralità sessuali nell' Antico Testamento riguardavano oltre l' adulterio, anche l' incesto per diversi gradi di parentela, l'omosessualità, l'unione con animali e il vedere le nudità di colo.: ro che sono legati con particolari vincoli di parentela (Lv 20,9-21).

Paolo si ricollega a questa tradizione biblica e arricchisce le sue argomentazioni con la riflessione sul kerigma cristiano che vede il corpo dei cristiani, e quindi l'esercizio della sessualità ad esso legata, in stretta relazione con il corpo di Cristo risuscitato.

Nella 1 Cor Paolo tratta l'argomento della sessualità umana soprattutto ai cc. 5-7. In 1 Cor 5,1-5.9-11 egli affronta un problema di convivenza con la propria matrigna, dunque di incesto, situazione condannata, tra l'altro, dagli stessi greci. Paolo non solo dice che questo è duramente condannato (v. 5: «questo individuo sia abbandonato a satana»), ma fa riferimento anche a un'altra lettera precedentemente scritta ai corinzi, e a noi non pervenuta, dove dice già che essi non devono «mescolarsi con gli impudichi» (vv. 9-11), per quanto questi si trovassero all'interno della comunità dei fratelli e che bisognava persino sottrarsi alla comunione di mensa con loro (v. 11). Il fatto che il problema dell'impudicizia era già stato trattato in un altro scritto a noi sconosciuto, ci spinge a pensare che la problematica era tutt' altro che marginale nella società di Corinto e che Paolo attribuiva un'importanza notevole alla sua soluzione. In 1 Cor 7,1-6, poi, egli parla del matrimonio cristiano visto come remedium concupiscentiae, vale adire come mezzo per non cadere nei lacci dell' «impudicizia», tracciando le linee della morale matrimoniale.

In 1 Cor 6,9, dopo aver detto che alcune categorie di persone - vi compaiono anche impudichi (pornoi), adulteri, effeminati e sodomiti - non erediteranno il regno di Dio, ai vv. 12-20 Paolo dà le motivazioni teologiche per la condanna di tali abusi sessuali. Anche in 2 Cor 12,20-21, Paolo, dettata una lista di peccati di diverso genere, ritorna sul tema dell'impudicizia, segno che le avvertenze fatte in 1 Cor non erano state del tutto seguite, e che la situazione era veramente grave.

In 1 Cor 6,12-20, allora, Paolo sviluppa le ragioni di questa vocazione del corpo alla santità, evidenziando un rapporto stretto con il Signore. Dicendo, infatti, al v. 13b che «il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore e il Signore è per il corpo», egli si contrappone a ogni spiritualismo che discredita il corpo. È qui uno dei cardini della teologia paolina. Non si può essere uniti al Signore se non lo si è anche con la dimensione corporale. La particella «per» (espressa in greco con il dativo del termine di riferimento), non proietta la vita del cristiano in un tempo da venire o in una dimensione ancora da acquisire, ma la contempla nel presente nella sua imprescindibile unità con il Signore. Le espressioni prive di predicato verbale risultano ancora più perentorie e i termini in questione più saldati tra loro. Infatti, viene espressa la negazione del rapporto «corpo-impudicizia», affermando, per due volte l'unità del corpo con il Signore ( «corpo-Signore» e «Signore-corpo» ).

L'unità corpo-Signore sembra una premessa indispensabile affinché «Dio che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (6,14). Ma la risurrezione futura del cristiano non è l'unica ragione per la quale il corpo non deve abbandonarsi all'impudicizia. In realtà, ciò che segue fa capire bene che la situazione del corpo obbedisce a uno statuto di comunione già presente tra la persona del cristiano e la persona del Signore Gesù.

I corpi dei cristiani sono la «la memoria di Cristo» (vv. 15-18)

Questa comunione è espressa mediante la metafora delle membra e del corpo. Si passa così dalla realtà del corpo fisico del cristiano alla realtà «sacramentale» del corpo di Cristo, cioè la Chiesa. Paolo afferma in 1 Cor 6,15: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo». Cronologicamente è la prima volta che Paolo ne parla nelle sue lettere.

Le membra sono viste come suscettibili di essere utilizzate per il peccato o per Dio. In Rm 6,13.19, infatti, Paolo dice che le membra del corpo non devono servire al peccato, ma alla «giustizia per la santificazione» (v. 19). Anche in Col 3,5 il termine «membra» è unito all'aggettivo «terrene» e dice che devono essere fatte morire, elencando, poi, una serie di peccati: «fornicazione, impurità, libidine, desideri sfrenati e l' avidità di guadagno, che è poi idolatria» !

Se i corpi costituiscono le membra di Cristo, allora tutti i corpi dei cristiani formano il corpo di Cristo, che non può entrare in contatto con il corpo di una meretrice: «Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice? Non sia mai!» (v. 15). L'unione con la prostituta da parte di coloro che sono già membra di Cristo compromette il rapporto di intima unione delle stesse membra con il corpo di Cristo. Come si può vedere, Paolo fa capire che un rapporto sessuale implica un livello di comunione e di unità profondo. I cristiani, quindi, non possono rinunciare a essere membra di Cristo per diventare membra di una prostituta. Il messaggio è chiaro e forte. Ma Paolo sviluppa ulteriormente il suo pensiero. Al v. 15 aveva incominciato ad argomentare mediante domande retoriche: «Non sapete...», «Prenderò dunque le membra...». Come risposta a queste due domande c'era stato un secco: «Non sia mai!». All'inizio del v. 16 e del v. 19 egli pone un' altra domanda retorica alla quale dà delle risposte più articolate. Al v. 16a continuando il discorso precedente dice: «O non sapete che chi si unisce a una meretrice forma un corpo solo». Paolo, a questo punto, pensa di rafforzare il suo pensiero con una citazione da Gn 2.

L' autore biblico, ragionando sulle parole di Adamo che, dopo la creazione della donna, afferma: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perchè dall'uomo fu tratta» (Gn 2,23), aggiunge come commento: «Per questo l'uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Paolo al v. 16b cita il testo di Genesi solo nell'ultima parte: «I due saranno una sola carne», interpretandolo nel senso di unione sessuale. L'espressione «una sola carne» e «un solo corpo» è interscambiabile; ma Paolo parla di un «solo corpo» con la meretrice perchè, con la menzione delle «membra», è questa l'immagine sottesa che emerge più naturale.

Si deve rilevare, a questo punto, che nel ragionamento di Paolo c'è uno slittamento di contesto: dal contesto di un'unione sessuale già di per se illegittima come l'unione con una prostituta, si passa a parlare dell'unione sessuale dell'uomo e della donna così come previsto dal piano di Dio stesso. Per un momento Paolo abbandona il punto di vista morale e si concentra sull'unione sessuale in quanto tale e sul suo profondo significato relazionale.

Proprio perchè l'unione sessuale è così intima e profonda, e tende a fare dei due «una sola carne» o «un solo corpo», essa non può avvenire con una prostituta, rischiando di trasformare, come prima si era detto, le membra di cristo in membra di prostituta. In seguito, in 1 Cor 7, Paolo tratterà del matrimonio cristiano, che non è messo in contrapposizione all'unione con Cristo; ma, al contrario, l'attività sessuale all'interno del matrimonio è vista come un modo per evitare proprio il pericolo di porneia.

Dopo aver parlato dell'unione dei cristiani con il Signore in quanto sue membra, adesso Paolo sottrae questa unione a una visione materialistica, non per privarla di realismo, ma per riconoscerle uno statuto più alto: quello spirituale. Al v. 17, infatti, Paolo dice: «Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito».

È degno di nota che non compaia nel nostro testo l'espressione «corpo di Cristo», anche se, indubbiamente, se ne sottintende il concetto. Forse Paolo evita il termine proprio perchè vuole sottolineare questo livello di unità particolare: l'unità in un solo spirito.

Al v. 18, infine, dopo un'esortazione a «fuggire l'impudicizia» aggiunge: «Qualsiasi peccato l'uomo commetta, sta fuori del corpo; ma chi commette impudicizia pecca contro il proprio corpo!». Sembra che Paolo ammetta come peccato contro il proprio corpo solo il peccato di impudicizia o di immoralità sessuale. Forse è per ragioni oratorie che egli si concentra solo su questo tipo di peccato o forse perchè riconosce al corpo, proprio a partire dal testo della Genesi che egli cita, quella speciale capacità di creare comunione profonda, fondendo due persone in un unico essere.

Il corpo, infatti, non è inteso come un involucro dell'anima; viceversa, l'uomo stesso è compreso nella sua inscindibile unità psicofisica e spirituale; e in tale unità egli entra in un'intima relazione con il Signore. Potremmo affermare, allora, che l'immoralità sessuale è considerata come un peccato contro il proprio corpo in quanto tende a distruggere l'unità psicofisica della persona. Il corpo, infatti, nelle sue relazioni non può non coinvolgere anche la psiche e la dimensione spirituale. La libertà di azione dell'uomo, in definitiva, non deve mai portare alla dissociazione tra vita fisica evita psico-spirituale.

Il corpo dei cristiani è tempio dello Spirito (vv. 19-20)

Ai vv. 19-20, una frase interrogativa e un'altra affermativa sono accostate tra loro in modo chiastico:

A Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo presente in voi,

B che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?

B’ Infatti, siete stati comprati con un prezzo.

A’ Glorificate quindi Dio nel vostro corpo

Come si può vedere, gli elementi interni (B e B’) parlano dei cristiani che non appartengono a loro stessi, perchè comprati con il prezzo della redenzione di Cristo. Gli elementi esterni della struttura (A e A'), invece, si riferiscono all' importanza del corpo, inteso come tempio dello Spirito Santo e strumento di glorificazione di Dio.

Già in 1 Cor 3, Paolo aveva parlato dei cristiani come «tempio di Dio»: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ?» ( 1 Cor 3,16). Il testo di 1 Cor 6,19, allora, sviluppa questo concetto di sacralità del corpo. Il corpo è sacro e intoccabile perchè è il tempio di Dio e chi lo danneggia o lo distrugge, si attirerà da Dio stesso la distruzione (cf. 1 Cor 3,17: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui, perchè santo è proprio il tempio di Dio che siete voi» ). Questa affermazione del c. 3 getta una luce per la comprensione del nostro testo: il corpo del cristiano è il tempio di Dio e partecipa della sua santità. Di conseguenza, se viene meno la santità con pratiche sessuali immorali è come se si distruggesse lo stesso tempio.

È forse in questa prospettiva che Paolo parla di peccato contro il proprio corpo. Facciamo notare, a riguardo, che la versione della Traduzione Interconfessionale in lingua corrente, scostandosi da una traduzione letterale, interpreta il nostro testo forse proprio alla luce di 1 Cor 3,17, traducendo in questo modo: «Chi si dà all'immoralità distrugge fondamentalmente se stesso». L'ultimo versetto serve, infine, a Paolo per esortare i suoi cristiani a glorificare Dio con il proprio corpo. Il motivo di questa glorificazione è I' opera redentrice di Cristo espressa in termini di acquisto. Cristo possiede il cristiano. All' interno di questo possesso bisogna intendere la libertà cristiana. Una libertà che porta fuori da questo dominio di Cristo è una libertà che non porta al bene integrale della persona e, spesso, porta alla schiavitù.

È I' esercizio di una libertà senza criteri che si trasforma in dominio, blocca la potenzialità umana di fare il bene e porta l'uomo a far perdere il bene di quella comunione di amore che egli ha con il Signore.

Conclusioni

Il grido finale di glorificare Dio con il proprio corpo è basato su quel debito di riconoscenza che il cristiano sente di avere verso colui che ha immolato il suo corpo per amore e, con la sua risurrezione, ha dato la possibilità di essere sue membra mediante la comunione in lui di un solo spirito (cf. 1 Cor 6,15-16).

Vediamo che già dai primi scritti paolini, all'inizio degli anni 50, Paolo delinea chiaramente il fulcro della sua riflessione teologica: comunione intima e imprescindibile di Cristo con il

cristiano in virtù del ruolo fondamentale giocato dalla risurrezione dei corpi.

È proprio la risurrezione di Cristo nel suo corpo e la futura risurrezione dei corpi dei cristiani che offre a Paolo l' occasione di una riflessione profonda sul senso del vivere nel corpo.

Il corpo che è possesso di Dio e nel quale abita il suo Spirito come in un tempio richiede rispetto al fine di salvaguardare la sua funzione relazionale improntata alla santità. Conservare, infatti, questa santità, ottenuta dall' opera di Cristo (cf. 1 Cor 6,11), serve a rimanere in quella fondamentale unione con il Signore risorto.

(da Parole di vita , 2, 2002 )

Pubblicato in Bibbia

«Chi si vanta si vanti nel Signore»

 (2Cor 10,12-11,6)
di Giuseppe De Virgilio




Nell'introdurci all'analisi della pericope riguardante la difesa di Paolo al cospetto della comunità corinzia, evochiamo il contesto dell' apologia paolina e l' articolazione del testo nella parte finale della lettera canonica (cf. 2Cor 10-13). Paolo è chiamato a rispondere all'accusa di debolezza mossagli dai suoi avversari, i quali hanno sfidato manifestamente la sua autorità apostolica e hanno tentato di delegittimare con sottili insinuazioni il suo operato, sostenendo che «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola dimessa» (2Cor 10,10). I cc. 10-13 costituiscono, quindi, una «seconda difesa dell'apostolo», che già in 2Cor 2,14-7,4 aveva dovuto assumere una posizione severa a motivo di un grave insulto ricevuto da un rappresentante della Chiesa corinzia (2Cor 2,6), la cui vicenda ha avuto esito salutare per l'intera comunità (2Cor 7,8-13). Dopo aver segnalato per quanto possibile il profilo degli avversari dell' apostolo così come emerge dal dialogo epistolare, fermeremo la nostra attenzione sulla risposta paolina di fronte all' accusa di ambizione (10,12-18) e sul successivo tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

Gli avversari di Paolo in 2Cor 10-13

Le problematiche e le argomentazioni contenute in 2Cor rivelano I' evoluzione di un conflitto che ha come oggetto la persona di Paolo e la credibilità del suo ministero. Infatti il fronte degli oppositori, abbozzato in 2Cor 1-9, viene riportato in piena luce nei cc. 10-13, dai quali si evincono con maggiore chiarezza le opinioni sostenute dagli avversari dell'apostolo e le ragioni del confronto.

Chi sono gli avversari e quali accuse muovono nei riguardi dell'apostolo? Si tratta di un rilevante gruppo di predicatori giunti a Corinto da altre comunità (2Cor 11,4-5) con «lettere di raccomandazione» (2Cor 3,1), forti della buona accoglienza riservata alloro messaggio (2Cor 11,4.20). Questi tali, nella pretesa di sostituirsi alla predicazione paolina, legittimavano variamente il proprio ministero in contrapposizione a Paolo e all'immagine debole che veniva fatta passare in sua assenza. P. W. Barnett riassume il quadro delle pretese antipaoline di questi «falsi fratelli»: «Nel loro viaggio missionario a Corinto essi sono giunti percorrendo una distanza maggiore, Paolo una minore (2Cor 10,13- 14), hanno "lettere di raccomandazione" (da Gerusalemme?), Paolo non ne ha alcuna (2Cor 3,1-3); sono all'altezza del proprio compito, figure trionfanti, Paolo è inadeguato, una figura meschina che avanza vacillando di sconfitta in sconfitta (2Cor 2,14-3,5; 4,1.16) [...] sono uomini dai poteri divini ("fuori di senno": 2Cor 5,13), "rapiti [...] fuori del corpo [...] in paradiso" dove essi hanno "visioni" e odono "rivelazioni" di ciò che è "indicibile" (2Cor 12,1-5), mentre Paolo vive "nella carne", è un ministro senza poteri e debole (2Cor 10,3-6; 12,1-10; cf. 2Cor 5,12-13). Con ogni probabilità, essi compivano "i segni del vero apostolo" (2Cor 12,12), mentre, sostenevano, Paolo non li compiva. Essi sono versati nell' arte del parlare (2Cor 11,5-6) e nella sapienza, mentre egli nel parlare è "un profano" e in generale un "pazzo" (2Cor 11,5). In tutto inferiore (cf. 2Cor 11,5), mentre essi sono superiori, "migliori" (hyper: 2Cor 11,23)».

Questa situazione conflittuale fotografa i termini del confronto a distanza tra l'apostolo e i suoi oppositori. Ricevute le notizie sull'aggravamento della situazione, a tal punto da sembrare che i giudaizzanti avessero il sopravvento, Paolo ne fu profondamente contrariato ed elaborò una decisa risposta in sua difesa, movendo inevitabilmente a sua volta forti accuse e rimproveri contro i «falsi apostoli».

Possiamo individuare in 1Cor 10-13 una successione di argomentazioni articolata in quattro principali motivi:

1) la risposta all'accusa di debolezza (10,1-11);

2) la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18);

3) il tema del «vanto apostolico» (11,1-12,18);

4) le apprensioni e le inquietudini dell'apostolo in vista di una prossima visita (12,19-13,10; i vv. 11-13 costituiscono la conclusione epistolare).

Pur avendo presente il quadro complessivo dell'apologia, la nostra analisi si limita alla pericope 10,12-11,6 e focalizza due motivi paolini che emergono dal testo: la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18) e il tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

La risposta all’accusa di ambizione (10,12-18)

Per contestualizzare e comprendere i vv. 12-18, consideriamo brevemente il messaggio della pericope precedente (vv. 1-11) che riguarda la presentazione dell' apostolo e la credibilità del proprio ministero a Corinto.

La credibilità del ministero paolino (vv. 1-11)

Nei vv. 1-11 Paolo sollecita i credenti a ristabilire un giusto ed equilibrato clima di fiducia e di verità, fondato su motivazioni spirituali e mosso da spirito di fede e obbedienza a Cristo. Egli si appella al giudizio di tutta la comunità e la invita a una attento discernimento di fronte alle critiche di debolezza che gli erano state mosse; così facendo prende le distanze dall' autocompiacimento di coloro che a Corinto pretendevano essere forti e di avere in loro stessi «la persuasione di appartenere a Cristo» (v. 7). Il vero vanto di Paolo non sta nell' esaltazione delle sue qualità, bensì nel dono elargitogli dal Signore di esercitare l'autorità per l' edificazione degli stessi corinzi. Sono proprio loro che devono aprire gli occhi e non lasciarsi ingannare! Infine, con tono deciso, egli rivendica la legittimità del proprio ministero e conferma la sua linea di comportamento ferma e coerente, sia a parole che per lettera (v. 11).

Il criterio dell'autentico apostolato (vv. 12-18)

Nei vv. 12-18 il confronto con gli avversari si tematizza sull'accusa di ambizione: viene contestato a Paolo il suo «diritto» di apostolo sulla comunità. La domanda che si coglie tra le righe del testo è la seguente: sulla base di quale «misura normativa» (kànon) si esercita il ministero apostolico a Corinto? Chi può rivendicare la legittimità (la delimitazione geografica?) dell'apostolato paolino e arrogarsi il diritto/dovere di darne un giudizio? Paolo espone la sua difesa mettendo a confronto il comportamento arrogante dei suoi accusatori così diverso dallo stile pastorale della sua condotta, ispirata alla regola datagli dal Signore. La sferzante ironia sviluppata nella risposta paolina, permette di cogliere la consistenza degli atteggiamenti pretestuosi e arroganti dei suoi avversari: appellandosi alle loro presunte capacità carismatiche, essi ritenevano Paolo un predicatore privo di qualsiasi credenziale, non potendo egli vantare per se alcuno statuto canonico o normativo di apostolo. Il brano apologetico segue verosimilmente un procedimento letterario di tipo chiastico; il tono generale è vorticoso, emotivo, insieme dimostrativo e accusatorio, tipico del temperamento dell' Apostolo.

La mappa concettuale può essere così espressa:

A Non osiamo paragonarci a coloro che si raccomandano e pretendono di essere «misura» di se stessi...


B
Noi non ci vanteremo oltre misura, ma secondo l’ «unità di misura» che Dio ci ha assegnato...

A’ Non chi si raccomanda da sé è approvato ma colui che il Signore raccomanda...


B’
Abbiamo la speranza della crescita della vostra considerazione secondo la nostra «misura», senza vantarci...

Osserviamo le corrispondenze letterarie e tematiche del testo.

In A (v. 12) viene presentata la posizione degli oppositori, i quali pretendono di essere «norma a se stessi», rifiutando con il loro atteggiamento arrogante e autoreferenziale, di commisurarsi alla norma divina. In questa linea va compreso l' accenno alle «lettere si raccomandazione» usate dai suoi avversari a Corinto, per le quali già precedentemente egli ha avuto parole di riprovazione (cf. 2Cor 3,1; 5,12 cf. At 18,27).

In corrispondenza chiastica si pone A' (v. 18), che riprendendo il tema del raccomandarsi (synistêsin) in risposta agli oppositori, afferma che è il Signore (ho kyrios) l'unico protagonista e garante di ogni apostolato. Al centro della struttura si trovano dialetticamente B (vv. 13-15a) e B' (vv. 15b-17).

In B Paolo incalza i falsi apostoli tacciandoli di presunzione. La descrizione è pungente e sarcastica: essi ostentano sicurezza, reputano di essere «misura a se stessi» e si vantano «oltre misura», con atteggiamenti di arrogante sazietà e presunta perfezione. A questa posizione Paolo contrappone il suo stile missionario (si noti in v. 13 l'uso enfatico di «noi» che mira a coinvolgere l'intera comunità dei credenti) basato sull'azione divina manifesta nella sua attività evangelizzatrice: egli ha fondato la Chiesa che è a Corinto secondo «l'unità di misura» che Dio gli ha assegnato come «norma». Per tale ragione i Corinzi possono riconoscere che il diritto apostolico di Paolo è ben motivato e in virtù dell' efficacia della predicazione evangelica, la sua pretesa missionaria non risulta intrusiva, ne il suo vanto pretestuoso. Corinto è, dunque, il suo legittimo campo di lavoro, mentre i suoi oppositori pretendono di appropriarsi delle «fatiche altrui» e vantarsi di un opera apostolica che non appartiene loro (cf. Rm IS,20s).

Al gioco di contrasti e di ironie elaborato nei vv. 13-1Sa si contrappongono in B’ i contenuti autentici e le attese della missione assegnata da Dio a Paolo secondo la sua «misura». Egli auspica anzitutto per i credenti di Corinto il pieno riconoscimento della legittimità della predicazione evangelica svolta da lui nella città achea, ma nel contempo egli desidera estendere la sua attività missionaria molto più in là della Grecia, verso quei territori occidentali (Italia, Spagna?) non ancora raggiunti dal vangelo. Nel brano si segnalano tre affermazioni che fanno emergere la grandezza e la passione apostolica di Paolo: egli non intende paragonarsi a coloro che si raccomandano da se stessi, i quali mancano di comprensione, ma ha scelto di vivere lo stile apostolico sul modello voluto da Dio; inoltre, non vuole vantarsi delle fatiche di altri evangelizzatori, ne vuole appropriarsi di meriti altrui (è chiaro l'intento polemico contro gli avversari); egli, infine, desidera presentarsi ai corinzi in tutta umiltà e sincerità per far crescere la loro fede e la loro considerazione, in vista dell'annuncio del vangelo alle regioni più lontane. In definitiva, da queste rapide battute emerge tutto l' animo pastorale di Paolo, la sua preoccupazione ecclesiale e soprattutto la lungimiranza della prospettiva missionaria.

Il vanto di essere e di vivere come apostolo (11,1-6)

Uno dei motivi centrali dalla pagina paolina è quello del «vantarsi». Nella sua difesa egli ha ironizzato sul vanto dei giudaizzanti (10,12.15.16) facendo culminare la requisitoria al v. 17 con la citazione di Ger 9,22-23. A differenza dei suoi oppositori che ostentano vanagloria, l'apostolo sostiene che l'unico vanto possibile consiste nel gloriarsi nel Signore. Avendo come sfondo questo motivo, Paolo assume ora un tono sorprendentemente ironico e «drammatico». Egli si presenta come attore in una scena, «vantando se stesso» e impersonando il ruolo del «folle», quasi rapito da uno «sdegno divino» che lo spinge a «mettersi la maschera» per smascherare i suoi avversari. Del singolare discorso di 2Cor 11,1-12,18 intendiamo mettere a fuoco solo il primo movimento che è circoscritto nei vv. 1-6, i quali si articolano in tre piccole unità (vv. 1-2; vv. 3-4; vv. 5-6), introdotte rispettivamente da tre verbi (sopportare, temere, ritenere).

«Sopportate un po' di pazzia»! (vv. 1-2)

L'esordio del «discorso del folle» è costituito dall'invito rivolto ai corinzi a sopportare un poco della sua pazzia. Infatti, è vera pazzia vantarsi di se stessi! Tuttavia poiché la comunità è disposta a tollerare (e ad approvare) i vanti dei falsi apostoli che hanno riscosso tanto successo, anche Paolo sceglie di parlare loro da «insensato» per mostrare il vero volto di simili dissimulatori. Se egli è costretto a scendere su questo terreno, è per impedire che i corinzi si lascino traviare dai giudaizzanti. Al v. 2 segue un'efficace metafora con cui l' apostolo presenta il proprio ministero e introduce l' idea della comunità come «sposa di Cristo». Per la missione ricevuta da Dio Paolo assume il ruolo dell' «amico dello sposo» (paraninfo), il quale, come è consuetudine tradizione matrimoniale giudaica, viene incaricato di vigilare sulla fedeltà della «sposa» e di condurla pura e casta al giorno delle nozze (così per il Battista: cf. Gv 3,29-30). Qui non per un rapporto di possesso, ma di autentico servizio, egli si mostra «geloso» della sua comunità, in quanto essa appartiene a Dio e il suo compito apostolico non potrà considerarsi concluso fino al giorno in cui si realizzerà l' «unione sponsale» . Nella linea teologica veterotestamentaria l'immagine impiegata presuppone anche l'idea escatologica delle nozze messianiche, conferendo all'applicazione paolina la prospettiva del compimento futuro in attesa della parusia. L'efficacia della metafora impiegata ci fa capire quanto Paolo amasse la sua Chiesa da lui fondata e, nello stesso tempo, quale fosse lo stile pastorale del suo ministero a Corinto: servire la comunità non come luogo di auto affermazione della propria persona o dei propri interessi, bensì mettendo al centro delle sue preoccupazioni e del suo lavoro il bene dei cristiani e l'integrità de loro cammino verso Dio.

Un cristianesimo in crisi (vv. 3-4).

Tuttavia l' apostolo teme che la Chiesa di Corinto rompa la sua relazione sponsale con Dio. L'espressione del timore posta enfaticamente all'inizio del v. 3, rivela il pericolo dell'infedeltà dovuto alI' opera di seduzione (phtharê: essere corrotto) da parte dei predicatori eretici. Il contesto polemico spinge l' apostolo a collegare l' opera dei falsi apostoli con quella del serpente che sedusse Eva (cf. Gn 3), inducendola a peccare contro la semplicità e la purezza, secondo una reinterpretazione rabbinica. Paolo vuole dire che è in atto a Corinto un processo di seduzione diabolica (cf. 11,14-15) che sta conducendo i cristiani fuori dal progetto di Dio. Tuttavia, ciò che sembra incredibile è il fatto che la comunità, succube del «primo venuto» (v. 4), è pronta ad accettare la predicazione di un «altro Gesù», a ricevere un «altro spirito» e ad accogliere un «vangelo diverso» da quello di cui fu lui stesso proclamatore. Le sue parole ammonitrici sono fin troppo eloquenti: la crisi di Corinto investe la natura stessa del cristianesimo. In questa vicenda non è in discussione solo l' apostolato paolino, bensì la realtà stessa della Chiesa e del suo futuro in quelle regioni. La preoccupazione pastorale di Paolo trasuda da questi versetti: egli richiede ai corinzi un supplemento di corresponsabilità al fine di evitare la dispersione e il fallimento; per questo è ora disposto a fare tutto il possibile per ridare autorevolezza all'annuncio evangelico che quei cristiani stavano perdendo irreparabilmente.

Il vanto dell'apostolato (vv. 5-6)

Ripartire dall'autorità del suo apostolato, riscoprire la paternità del suo ministero, dare fiducia, sicurezza e speranza a quanti si erano lasciati convincere dai giudaizzanti: ecco l'obiettivo primario che Paolo si pone in questo ulteriore passaggio. Dopo aver descritto lo stato in cui versa la Chiesa corinzia minacciata dall'eresia. nel v. 5 egli dichiara a apertamente la legittimità di essere «apostolo», non inferiore ai suoi oppositori, che definisce ironicamente «superapostoli» .Al confronto con le doti e l' operato dei predicatori eretici, Paolo riconosce di non possedere come loro l'arte dell'eloquenza, ma ribadisce che questa dote è di minore importanza rispetto alla priorità della conoscenza di Dio, che comporta l'interiorizzazione del vangelo e presuppone il dono dello Spirito (cf. 1Cor 2,1-5). Di questa «conoscenza», intesa come esperienza profonda del mistero della rivelazione di Dio, l' apostolo ha dato ampiamente prova a tutti e in ogni occasione, come è testimoniato dalla missione apostolica svolta a Corinto. «In breve, non la retorica, bensì la nuda predicazione del crocifisso qualifica la missione di un vero apostolo».

Conclusione

Le linee che emergono dalla rapida lettura proposta tratteggiano la figura dell' apostolato paolino in tre prospettive, che risultano di straordinaria attualità per l'oggi della Chiesa. Una prima prospettiva è data natura stessa del suo ministero pastorale. Annunciare il vangelo in un «mondo che cambia» come quello di Corinto, implica un persistente atteggiamento di ascolto e di interpretazione delle vere domande che emergono dalla vita quotidiana e dalle sue sfide. Una seconda prospettiva è rappresentata dalla dimensione «agonica» dell'apostolato. Corinto diviene un esempio della «lotta per il vangelo» (cf. Rm 15,30-32), che vede Paolo protagonista di uno scontro giocato non solo sul piano della credibilità personale, ma su quello della dimensione ecclesiale: questa crisi ha conseguenze vitali per la diffusione del vangelo in tutte le Chiese. Una ultima prospettiva concerne la spiritualità missionaria dell'apostolo. Nella foga apologetica Paolo mai dimentica il riferimento alla «misura» data da Dio. Criterio decisivo di ogni ministero è Dio stesso, la sua misteriosa presenza, di cui l'apostolo ha fatto esperienza diretta nel corso della sua vita (cf. 2Cor 12,2-4). Non la retorica, ne il consenso delle masse egli ha bramato, ma solo Dio! Comprendiamo quanto affermerà subito dopo: quella «debolezza» in Cristo decantata da Paolo, diventa prezioso seme che feconda la Chiesa, unico motivo di vanto che «dalla polvere» umana si" eleva verso Dio.

(da Parole di vita, 6, 2002)

Pubblicato in Bibbia

Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato.

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La grazia di un incontro forzato

di Maria Cristina Bartolomei









Gesù all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più». (Giovanni 8,2-11)

Come ogni racconto evangelico, l'episodio dell'adultera (Gv 8,1-11) ci porta dinanzi a una rivelazione di Dio in Gesù: non si può dunque attribuirgli una particolare intenzione di esplicitazione dell'atteggiamento di Gesù verso le donne, non più di quanto si possa attribuirgli l'adulterio come tema. Sarebbe un fraintendimento leggerlo in tali ottiche; sarebbe una piccineria ritagliare questi elementi come cascami, concentrandovi l'attenzione come su elementi laterali al tema o ai temi centrali. Questo criterio, valido in generale, è particolarmente efficace nel nostro caso.

Proprio e soltanto la sottolineatura del carattere di rivelazione teologica e cristologica di questa pericope consente di cogliere il significato salvifico e di rivelazione che è in esso sotteso.

Lettura teologica

Nell'intenzione del narratore o del redattore, dichiarata con la precisazione: «Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo» (8,6), l'episodio è uno dei casi in cui gli avversari di Gesù cercano di tendergli una trappola, ponendogli quesiti astrusi o concrete questioni, anche drammatiche, tesi a mettere Gesù di fronte all'alternativa di violare la Legge mosaica (o di proporne una interpretazione condannabile) oppure la legge dei romani e, più radicalmente, di tradire il proprio messaggio. Sono i casi, ad esempio, dei quesiti circa la destinazione coniugale ultraterrena della donna rimasta per sette volte vedova o il problema ricorrente della liceità di guarire in giorno di sabato, o quello del tributo a Cesare.

Anche nel caso della adultera, colta in flagrante e condotta da lui, Gesù viene chiamato ad esprimersi nel confronto con la Legge di Mosè che «ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (8,5): probabilmente i Romani avèvano infatti già tolto al Sinedrio il diritto di emettere sentenze capitali.

L'episodio può, e correttamente, venir letto su questa linea, cogliendo, come in altri casi, la sovversiva fedeltà della interpretazione della Legge praticata da Gesù; la autorevolezza da lui dimostrata nel proporsi come nuovo criterio del rapporto tra uomo e Dio. Si può sottolineare lo smascheramento della ipocrisia della condanna degli altri; il richiamo al peccato di ognuno, non meno grave anche se più occulto. Si può leggerlo come un'esemplare rivelazione della «filantropia e benignità di Dio» (Tt 3,4), della centralità e preminenza su ogni legge assegnata da Dio all'essere umano, al vivente; del suo essere il «Signore amante della vita» (Sap 11,26) e non della morte; del suo solidarizzare con le vittime.

Tuttavia limitandosi ad una simile lettura, si trascura di cogliere, un elemento di non piccola portata giacché tutto quanto evidenziato più sopra viene rivelato nell'incontro con una donna e una donna adultera, nell'Israele patriarcale del tempo, sotto una Legge che ne prevedeva la morte. Tale specificità non è casuale. L'incarnazione è la regola e il criterio della rivelazione di Dio. Ciò significa che solo mettendo a fuoco anche e centralmente la peculiarità legata a questa situazione precisa, di una donna colpevole di un particolare peccato, e seguendo a questa luce ciò che viene messo in scena nell'evento narrato, possiamo attingere meno lacunosamente il contenuto rivelatorio cristologico e teologico che qui ci viene offerto.

Lettura cristologica

Una donna viene condotta da Gesù. Questo è l'unico caso di qualcuno portato da Gesù non per essere salvato, bensì condannato. Con il proposito di far perire, possibilmente, anche Gesù e con la stessa forma di esecuzione. Il capitolo ottavo, che si apre col quesito circa la lapidazione dell'adultera, si chiude con la stessa minaccia per Gesù: «Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (8,59), tema che ritorna poco dopo quando di nuovo vengono portate delle pietre per lapidarlo come bestemmiatore: «Ma egli sfuggì alle loro mani» (10,31-39).

La donna è una adultera. Un peccato non esclusivamente ma del tutto peculiarmente femminile, legato alla condizione di «moglie-di », di «proprietà di un uomo». Peccato sociale innanzitutto, rottura dell'ordine patriarcale a garanzia del quale ci si appella all'ordine divino. Adultero è infatti anche l'uomo se e in quanto si unisce alla moglie di un altro . Non era considerato adulterio il caso di un marito che avesse relazioni con donne non sposate ne fidanzate (vi era colpa nel violare una vergine non fidanzata in quanto si disonorava il padre di lei, al quale essa apparteneva ancora «in proprietà» ). L'adulterio, commesso dalla donna o da un altro uomo, è socialmente un peccato unidirezionale, un peccato contro il diritto di proprietà dell'uomo sulla donna. Perciò stesso in quel contesto (e molto oltre e molto dopo di esso) esso è visto, per così dire «per direttissima», come peccato contro Dio. Chi viola il diritto unilaterale dell'uomo maschio sulla donna viola il diritto divino. La donna era allora in questa condizione; anche il suo rapporto con Dio e il suo stesso peccare contro Dio passavano per la sua subordinazione all'uomo. Per lei, concretamente, in quella situazione religiosa e sociale, la Legge di Dio e la «legge del maschio» erano conglomerate in un blocco unico, benché la prima in non pochi casi e sensi avesse certamente attenuato e limitato più che certificato la seconda, che restava peraltro dominante, avendo anche la esclusiva della interpretazione ed applicazione di quella divina.

Gesù a cui è posta davanti quella donna è perciò stesso posto di fronte alla coalescenza tra l'originario comandamento divino di serbarsi reciprocamente fedeli nell'amore coniugale e una inculturazione patriarcale che comanda la fedeltà ad una donna che non ha scelta alcuna, in particolare riguardo alle nozze (neppure la miseranda «scelta» del successivo ripudio); tra l' originaria finalizzazione della Legge all'uomo ed una attuazione tradottasi in violenta subordinazione dell'uomo «al sabato». È posto davanti ad un soggetto, la donna, che in quella situazione riassumeva in se ogni forma di estraneità all'area della giustizia, del diritto, della forza; tutta la assegnazione all'area della costrizione, della subordinazione, della identificazione nel mero ruolo sessuale e insieme della sessualizzazione colpevolizzata, della empietà e lontananza da Dio. La messa a fuoco della specificità femminile è resa nitida dalla assenza dell'altro colpevole, dell'adultero, che non è neppure menzionato.

I comportamenti di Gesù sono pienamente significativi e rivelatori in una simile situazione.

Lettura antropologica

Anche se tutto è macchinato per prendere in trappola anche Gesù, la donna gli è comunque condotta a forza perché trovi in lui la sua condanna in nome di Dio.

Essa viene «fatta stare in piedi, nel mezzo» (8,3). In realtà essa è più che mai in catene ed in ginocchio e più che stare nel mezzo è «presa in mezzo». Presa in mezzo da chi l'ha colta e trascinata lì, dagli uomini che la attorniano, dalle maglie della loro interpretazione della Legge, forse prima anche dai due uomini della sua vicenda, il marito e l'amante; tra poco lo sarà dalle pietre. Per lei , la sua soggettività, il suo libero muoversi, la sua parola, i suoi sentimenti, la sua coscienza, la sua colpevolezza, il suo pentimento eventuale, non c'è nessuno spazio. Persino il suo trovarsi n, drammatico ed aperto ad un esito tragico, è solo un pretesto, una occasione per un' altra questione: quella appunto nei riguardi di Gesù.

Il movimento che vediamo svilupparsi, rivelatorio e salvifico, compie proprio questo prodigio. Alla fine, prodottosi il vuoto intorno, la donna è sola con Gesù, messa ora davvero «al centro», non più «posta» ma da se «stante» in piedi. Nella buona solitudine di questo vuoto essa è ora al centro della attenzione di Gesù, ed è in questo stesso movimento posta nel suo proprio centro, rimessa a contatto con il suo vero essere, con la sua sorgente divina. È sola con l'altro; quell'Altro radicale e altrettanto radicalmente interno, che offre e svela la relazione in cui e da cui ogni «se» è costituito. La donna qui è promossa e chiamata a specchiarsi al pari dell'uomo, faccia a faccia, in Dio. Sola con Dio, nel profondo, sorgivo spazio della propria identità e libertà. Come una nuova creazione, come una risurrezione. Essere una donna è, non meno e non diversamente da quanto accade per l'uomo, evento di libertà, di relazione col divino, garantite da uno spazio di inviolabile solitudine, fasciate dal vuoto della «occupazione» da parte del soggetto-uomo.

Dio dà, ridà alla donna il suo spazio, uno spazio in cui viene ristabilita la peculiare relazione tra lei e il divino. Al principio c'è questa relazione fontale che costituisce e non insidia la propria identità e libertà. La Legge viene ricollocata a questa fonte, riacquista qui il suo senso. Il «va' e non peccare più» non è l'aggiunta di un gravame, ma la dichiarazione di una liberazione; non un comando ma una assicurazione e una promessa; non un dovere ma il dono di una possibilità. «lo non ti condanno»: proprio per questo puoi ora non peccare più. E all'iniziale forzoso esser portata, corrisponde specularmente il liberante «va'».

Sullo sfondo remoto si sente una eco di quell'«alzati, amica mia» del Cantico dei cantici (2,10) che si conclude con un verbo, abitualmente tradotto con «e vieni!» ma che più propriamente si dovrebbe tradurre con «e va'!»: «va' verso te stessa» , come propone la traduzione di Andre Chouraqui.

La scrittura di Gesù

Il passaggio a questo punto d'arrivo comporta il farsi di un denso vuoto, operato dalla perentorietà delle parole di Gesù «chi è senza peccato...», contrapposte come la vera pietra della vera Legge, enfatizzate da quell'unicum enigmatico rappresentato da Gesù che scrive coI dito per terra, nella sabbia e che è un caso emblematico della irresolubilità, della «opacità per sovrabbondanza» del simbolo che «ci dà da pensare», secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur.

Gesù scrive col dito nella sabbia: per mostrare la sua estraneità a tutto il groviglio di presupposti che stava dietro la domanda-trappola; per prendere distanza da tutta la istruzione del processo, prima ancora che dalla sanguinosa conclusione propostagli! Queste e altre plausibili ipotesi si possono fare. Ad esse non è illecito far seguire, secondo il modello di interpretazione rabbinica della Scrittura, la sempre possibile «altra spiegazione». Nel nostro caso, una spiegazione che tiene conto della peculiarità della situazione e della funzione in essa di tale gesto. «L'unica volta che Gesù ha scritto, ha scritto nella sabbia!», si sono rammaricati non pochi: «Che peccato che si sia trattato di una scrittura così labile, e che non si sia neppure serbata memoria dei segni tracciati».

Ma la labilità della scrittura nella sabbia non è qui un elemento accidentale. È essenziale, invece. Gesù infatti non sta scrivendo ma, più propriamente, cancellando . Sta cancellando una immagine di Dio, una immagine della Legge, una immagine della colpa, della punizione, della giustizia, dei rapporti tra essere umano e altro essere umano e anche dei rapporti specifici tra uomo e donna. Sta cancellando su quella sabbia che sembra rappresentare simbolicamente, insieme, la polverizzazione della pietra e delle pietre da lui operata nello stesso gesto e la inconsistenza agli occhi di Dio di quelli che per gli occhi umani appaiono criteri di giudizio indiscussi, indiscutibili e solidi come la roccia.

Da un lato abbiamo la Legge scolpita nella pietra, pietra che - interpretata e applicata dal cuore umano - sta per essere usata per schiacciare Gesù così come per lapidare la donna. Dall'altro lato abbiamo la vivente incarnazione della parola divina, che spirava nella Legge, nella persona di Gesù. La scrittura di essa nella pietra è ora superata dalla scrittura nella carne e nella vita. Essa entra in contatto con la terra e l'umanità con delicatezza, rispetto, tenerezza. Con non più violenza e perentorietà di un lieve scrivere nella sabbia; ma quel dito che scrive umilmente e lievemente per terra, al tempo stesso, con quel gesto leggero, cancella tutto ciò che sembrava così duro, così potente, così invincibile, così definitivo, agganciato per sicurezza ad un malcompreso divino. Lo cancella con la forza del «dito di Dio» tale da ridurre in polvere con un solo tocco quella che sembrava una schiacciante montagna.

Quando Gesù ha finito di scrivere nella sabbia ha finito di cancellare le sbarre socioreligiose che imprigionavano la donna e insieme imprigionavano Dio in una immagine di tradizione fatta da uomini (cf Mc 7,8-13).

Gesù è chino, non si presenta agli aspiranti lapidatori. Quando essi si allontanano, Gesù «si alza», entra in colloquio con la donna, le si manifesta. E con ciò decide di rivelarsi a tutti gli aspiranti lapidatori di tutti i tempi come «colui che si è rivelato nell'incontro con la donna adultera». La finale rivelazione che viene offerta da accogliere include questo rapporto di Dio con la donna; con la donna presa nella duplice tenaglia del peccato, di quel peccato in specie, e della condanna.

Epilogo

La conclusione assomiglia al risveglio da un incubo. «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?»: il forzato trovarsi posta dinanzi a Gesù come ad un ultimo, definitivo giustiziere, viene trasformato nella grazia dell' incontro col Dio vivente, che fa svanire tutti i fantasmi oppressivi della «religione del maschio». Fa svanire con ciò anche il rischio di restare imprigionata nella mera ribellione a tale «religione del maschio», nell' atteggiamento reattivo, del pan per focaccia, che può essere una potente spinta, tra l'altro, anche all'adulterio, in concomitanza col motivo, a quell' epoca addirittura tipico, dell'assenza dell' amore nel matrimonio.

Invece della reattività coatta, la rivoluzione della libertà: «Va', e non peccare più».

Lieto fine? Fino ad un certo punto. Certo buona notizia, ma non senza contraddizione. Dove sarà mai potuta andare quella donna sfuggita alla morte? Sarebbe aspettativa «miracolistica» pensare che essa abbia poi potuto essere riaccolta dal marito (o accolta nella casa dello sposo: se, come è verosimile, l'adulterio era avvenuto nel tempo tra la conclusione degli sponsali e l'inizio della coabitazione) che restava per allora la modalità d'essere accettata nella vita sociale e nella comunità religiosa.

No, la sua vita era segnata, cambiata per sempre. Quella non era stata una rianimazione, una rivivificazione, ma una vera risurrezione. Quella donna era stata restituita a se stessa oltre una morte. Non più alla stessa vita di prima, in nessun senso. E, come sempre, non solo per se stessa era stata salvata, non solo per se stessa viveva, non solo per lei era quella grazia. Dove sia andata coi suoi piedi di carne, come sia vissuta non ci è dato immaginare. Ma il «va' » rivoltole ha tutta la pregnanza di un ben diverso invito. Al di là dei successivi accadimenti della sua vita, da quel momento in poi la sua vicenda e figura stanno andando: a portare questo sconvolgente annuncio su Dio. Buon e salvifico annuncio destinato in primo luogo a quanti allora lasciarono cadere le pietre.

La comunità credente certamente l'ha accettata, anche se ha fatto fatica a lasciarla andare troppo liberamente in giro portando con se un simile evangelo, non sapeva bene dove collocarla, ha dovuto trovarle un posticino di risulta, come ci istruiscono le vicende testuali della pericope. E forse, pur consentendo a lei di circolare, non ha però fatto circolare dentro di sé tutta la portata di questa rivelazione di Dio. Ma essa non cessa di venirci incontro dal Vangelo secondo Giovanni , con la mitezza della potenza del «dito di Dio» leggero sulla sabbia, con la grazia spaurita dei sandali di quella donna, che su quella sabbia si muovono andando a portare tale annuncio di pace.

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