Si è ricordato del giuramento fatto ad Abramo
Nella prospettiva lucana il tempo di Gesù è tempo di compimento e di salvezza. I due cantici che aprono il vangelo collegano l'azione misericordiosa che Dio sta compiendo con il ricordo delle promesse fatte ad Abramo. Maria intuisce che ciò che ora sta accadendo in lei avviene per questa perenne fedeltà di Dio, sente di rappresentare la figlia di Sion, cioè l'intero popolo eletto, gratuitamente ricolmato dal Signore: «Ha soccorso Israele suo servo ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza» (Lc 1,55). Se Abramo, suo omologo nella fede, rappresenta l'alleanza iniziale, ella, qualificata dal dono dello Spirito (1,35), ne personifica il punto di arrivo escatologico.
Anche Zaccaria, qualificato insieme con Elisabetta sotto il segno della legge, osservante dei comandamenti e dei riti, ma sterile, esalta il compimento della promessa giurata al patriarca: «Si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo nostro padre» (1,72). Anche a lui, sterile come Abramo, Dio ha promesso un figlio (1,13) e, come avvenne per Isacco (Gn 17,19), anche qui Dio stabilisce in anticipo il nome del bambino: «Lo chiamerai Giovanni», cioè Jhwh fa grazia! Ciò che avviene nella sua casa è novità dello Spirito, nel quale i due anziani profetizzano (1,41.67), e che contraddistinguerà l'infanzia di Giovanni (1,80). Tale protopentecoste è una tappa che trasformerà Israele nella chiesa di Gesù.
Il tema promessa-compimento, collegato al nome di Abramo, ritorna in un altro passo di Luca, il discorso che Pietro fa agli abitanti di Gerusalemme dopo la guarigione dello storpio narrata in At 3,11-26. L'apostolo si rivolge ai «figli dell'alleanza» e annuncia loro che lo stesso Dio che ha concluso il patto con Abramo ha ora «risuscitato» il suo servo Gesù, che è venuto a «benedire» la «discendenza», secondo le promesse fatte al patriarca (At 3,25s).
Verranno da oriente e da occidente e siederanno a mensa con Abramo
Alla luce di Cristo le promesse fatte al capostipite d'Israele appaiono più che mai aperte ad una dimensione universale. La duplice denominazione di Gesù che appare nella tavola genealogica che apre il Vangelo di Matteo, «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1) ne è una prima significativa conferma. Vi si riflettono echi della professione di fede cristologica delle prime comunità palestinesi: mentre la solidarietà con la stirpe davidica sottolinea la messianicità di Gesù che compie-leattese del mondo ebraico, la solidarietà 8torica di Gesù con Abramo sembra intenzionata ad aprire la prospettiva a tutti i popoli, chiamati a partecipare alla sua benedizione per mezzo della fede. Questa sarà anche la conclusione del Vangelo di Matteo: «Fate discepole tutte le genti» (Mt 28,19). Lo stesso tema è proposto da Matteo nel passo che narra la guarigione del servo di un ufficiale di Cafarnao (Mt 8,5-13). Costui ha coscienza di essere estraneo al popolo santo giudaico e per questo non vuole che Gesù entri nella sua casa, ma proprio su ciò s'innesta la sua radicale fiducia che la sola parola di Gesù può operare la salvezza anche a favore di un pagano. Gesù, lodando questa fede, aggiunge una sentenza che è eco di antichi oracoli profetici e che allarga l’orizzonte della salvezza: «Molti verranno da oriente e da occidente e siederanno a mensa con Abramo« (Mt 8,11). Si contrappone l'esclusione dei «figli», ai quali erano destinate queste promesse. Luca dà alla sentenza un significato altrettanto forte, ponendola nel contesto della radicalità della decisione da prendere davanti a Gesù. Se Israele si ostina a non passare per la porta stretta, quella indicata dal cammino di Gesù
verso Gerusalemme, rischia di trovare una porta chiusa, essere gettato fuori, e venire sostituito dai pagani, chiamati a mensa con Abramo (Lc 13,28).
Nelle lettere ai Galati (GaI 3,6-29) e ai Romani (Rm 4), Paolo propone una riflessione teologica su questa stessa linea di pensiero. Nella nuova economia, grazie all'azione redentrice di Cristo, non c'è più distinzione tra quelli che «appartengono alla circoncisione» e quelli che «credono da incirconcisi». Sono genuini «figli di Abramo» quanti sono guidati dalla fede. In questo senso Abramo è stato fatto «padre di molti popoli».
Abramo nostro padre nella fede
Nella figura di Abramo Paolo trova i motivi della sua teologia della giustificazione, che si realizza, indipendentemente dalla osservanza della legge e dalla circoncisione, con la sola fede, in modo gratuito, escludente ogni distinzione tra giudei e pagani. Utilizzando il metodo rabbinico quale chiave d'interpretazione dell'A.T., Paolo dimostra in GaI 3,6-29 che la giustificazione di Abramo avvenne per mezzo della sua fede, come si legge in Gn 15,6, e che il patriarca è modello di tutti coloro che lungo la storia della salvezza verranno giustificati. Non dalla legge: Cristo infatti ci ha liberati dalla maledizione della legge e ci ha resi partecipi della benedizione di Abramo e della promessa dello Spirito. Coloro che si ostinano a cercare salvezza nella legge riflettono la condizione di Ismaele, figlio della schiava; i credenti in Cristo si richiamano al figlio della moglie libera, il figlio della grazia (Gal 4,22-31).
Un discorso analogo è condotto nel capitolo 4 della lettera ai Romani, dove Paolo interpreta la storia di Abramo alla luce di Cristo. Dio ha stabilito con il patriarca un’alleanza, promettendogli «in eredità il mondo»c (4,13), senza chiedergli contropartita, ma solo un atto di fede, l'accettazione della promessa divina come tale, sull'unico fondamento della fedeltà di colui che prometteva. Abramo è giusto per questa fede; nel suo rapporto con Dio non entra nulla di dovuto, non v’è ragione per vantare la propria auto
sufficienza. Questa fede, che Abramo ha professato anche in condizioni disperate, prefigura la fede di tutti i credenti in Cristo.
Anche Giacomo nella sua lettera (2,21-23) si muove in una prospettiva analoga, ponendo l'accento sulla cooperazione tra le opere e la fede di Abramo. Dio ha giustificato Abramo riconoscendo la sua prontezza a sacrificare il suo figlio. Giacomo qualifica questo come «opera» e conclude, rivolgendosi al lettore: «Vedi che la fede cooperava insieme alle sue opere e che la fede fu completata dalle opere». Una fede dunque che porta a compimento (come suggerisce il verbo teleiòō ), aiuta le opere a trovare il loro senso pieno.
Grande spazio è dato ad Abramo nella serie di personaggi testimoni della fede, presentati nel capitolo 11 della lettera agli Ebrei. Richiamandosi a Gn 12,2, l'Autore rileva che l'obbedienza del patriarca consiste nell'aver egli creduto al fine che Dio gli ha mostrato e promesso e che egli non poteva ancora vedere, confidando unicamente in quella Parola che era comando e promessa ad un tempo (11,8). Egli «abitava nella tenda del nomade», ma attendeva in realtà «la città dalle salde fondamenta», simbolo di un fine futuro incrollabile. Tale fede egli mantenne anche nella più dura prova chiestagli da Dio: l'ordine di immolare Isacco (Gn 22,1-2). Anche allora nella pietà del patriarca il figlio non prese il posto della promessa, il dono non prese il posto del donatore. Qui l'Autore avanza l'idea che in quel momento Abramo credette in quel Dio che può risuscitare i morti (cf Rm 4,17). Così riebbe Isacco ma ad una condizione nuova: come quando lo ricevette per la prima volta non era solo il figlio carnale, così anche adesso, oltre che come figlio, lo riceve come simbolo del compimento futuro.
Dio può far nascere figli ad Abramo da queste pietre
Gesù e la chiesa primitiva sottopongono a giudizio critico l'affermazione della discendenza di Israele da Abramo. Essi riconoscono l'importanza della discendenza etnica dal patriarca. Gesù non può permettere che satana tenga legata una «figlia di Abramo» e la guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16); così Zaccheo riceve in casa sua la salvezza portata da Gesù, perché «anch'egli è figlio di Abramo» (Lc 19,9). E tuttavia ai giudei impenitenti Gesù rinfaccia la contraddizione di volersi richiamare a questa discendenza dal patriarca.
Con grande orgoglio, nel capitolo 8 di Giovanni, i giudei affermano: «Il nostro padre è Abramo!» (8,39). Ma essi concepiscono questa appartenenza, come la storia della salvezza passata, non come un dono, ma come un possesso sicuro di cui gloriarsi e con cui difendersi davanti alla novità proposta da Gesù. Egli contesta questa presunta figliolanza, perché essi «non fanno le opere di Abramo» (8,38-39). Alla libertà che essi pretendono di avere quali figli del patriarca, Gesù contrappone una libertà mediante la verità, cioè la rivelazione personale di Dio nel Figlio suo, che lui solo può donare.
Anche Giovanni il Battista nel suo appello alla penitenza, raccomanda e al tempo stesso rimprovera ai giudei: «Fate opere di conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli a Abramo da queste pietre» (Mt 3,8-9; Lc 3,8). Sono due i tentativi di autodifesa di coloro che sono invitati alla conversione da Giovanni: l'abuso del battesimo senza essere disposti a fare penitenza e in seguito a dare frutti, e il rifarsi, con sfrontata sicurezza, ad Abramo come padre. Questo non può da sé garantire la salvezza. Il pesante epiteto «razza di vipere» indica che in loro c’è una malvagità interiore e velenosa, provocata da satana, che li chiude all'azione di Dio.
Se manca la conversione, non giova a nulla essere figli del patriarca. Nella parabola del ricco epulone (Lc 16,22-30) proprio Abramo dichiara l'impossibilità di comunicazione tra la fiamma degli inferi e il «grembo di Abramo»: tra l'uno e l'altro c'è un mondo dove ognuno è invitato ad «ascoltare Mosè e i profeti», cioè la Scrittura; questa conduce al regno, e a partire da essa si determina il vero atteggiamento di conversione e l'ingresso nella benedizione promessa ad Abramo.
Abramo vide il mio giorno e credette
I testi più suggestivi riguardanti Abramo nel Nuovo Testamento, sono quelli che lo mettono
in diretto rapporto con Gesù.
Paolo nella lettera ai Galati, appoggiandosi sulla tradizione greca dei Settanta, intuisce che nel termine «discendenza» (sperma ), messo al singolare, si nasconde il riferimento ad una sola persona, Cristo (GaI 3,15-18). È da qui che occorre partire per cogliere il senso più vero delle promesse fatte ad Abramo. E solo credendo in questa singolare «discendenza» che si entra in possesso della benedizione annunciata al capostipite.
La lettera agli Ebrei (7,1-10), con una sua particolare esegesi che va al di là dei testi dell'Antico Testamento, vede nell'atto di omaggio compiuto da Abramo verso Melchisedec, un gesto di riconoscimento di una misteriosa superiorità. In realtà, afferma l'Autore della lettera, questo personaggio è senza pari, superiore allo stesso sacerdozio levitico, «senza padre, senza madre, senza genealogia, egli non ha ne inizio di giorni ne fine della vita ma, assimilato al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno» (Eb 7,3). Questa interpretazione, che suppone non solo Gn 14,17-20, ma anche e più propriamente l'esegesi messianica del Salmo 110,4, affida alla figura enigmatica di Melchisedec il compito di far volgere gli sguardi a Gesù e intravede nel gesto del tributo recatogli da Abramo un inconsapevole atto di fede nel Messia.
Nelle parole dei giudei «Sei tu più grande del nostro patriarca Abramo?» riportate dal Vangelo di Giovanni (8,53), risuona la fine ironia giovannea. Gli avversari di Gesù proclamano involontariamente la verità che vorrebbero negare: sì, egli è davvero più grande di Abramo! Ma la domanda offre pure a Gesù l'occasione per fare del patriarca il più grande elogio: «Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e credette» (Gv 8,56). Non sappiamo in quale momento della vita del patriarca si realizzò questa esultanza. Forse Gesù si riferisce all'intera sua esistenza: o forse, seguendo una tradizione giudaica, può essere un modo di interpretare il riso che accompagnò l'annuncio della nascita di Isacco (Gn 17,17) inteso come segno di gioia e non di dubbio; altri vi leggono un'allusione al momento in cui Dio intervenne per risparmiare Isacco dal sacrificio (Gn 22,11ss). Il carattere escatologico del verso «esultare» (cf Lc 1,47; 10,21; Mt 5,12) suggerisce che si trattò di un compimento. Ponendo il proprio futuro nelle mani di Pio, Abramo non solo si mostrò degno delle sue promesse, ma, nella fede, avrebbe intimamente gustata la certezza della loro realizzazione.