Formazione Religiosa

Giovedì, 24 Luglio 2008 01:27

«Chi si vanta si vanti nel Signore» (2Cor 10,12-11,6) (Giuseppe De Virgilio)

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«Chi si vanta si vanti nel Signore»

 (2Cor 10,12-11,6)
di Giuseppe De Virgilio




Nell'introdurci all'analisi della pericope riguardante la difesa di Paolo al cospetto della comunità corinzia, evochiamo il contesto dell' apologia paolina e l' articolazione del testo nella parte finale della lettera canonica (cf. 2Cor 10-13). Paolo è chiamato a rispondere all'accusa di debolezza mossagli dai suoi avversari, i quali hanno sfidato manifestamente la sua autorità apostolica e hanno tentato di delegittimare con sottili insinuazioni il suo operato, sostenendo che «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola dimessa» (2Cor 10,10). I cc. 10-13 costituiscono, quindi, una «seconda difesa dell'apostolo», che già in 2Cor 2,14-7,4 aveva dovuto assumere una posizione severa a motivo di un grave insulto ricevuto da un rappresentante della Chiesa corinzia (2Cor 2,6), la cui vicenda ha avuto esito salutare per l'intera comunità (2Cor 7,8-13). Dopo aver segnalato per quanto possibile il profilo degli avversari dell' apostolo così come emerge dal dialogo epistolare, fermeremo la nostra attenzione sulla risposta paolina di fronte all' accusa di ambizione (10,12-18) e sul successivo tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

Gli avversari di Paolo in 2Cor 10-13

Le problematiche e le argomentazioni contenute in 2Cor rivelano I' evoluzione di un conflitto che ha come oggetto la persona di Paolo e la credibilità del suo ministero. Infatti il fronte degli oppositori, abbozzato in 2Cor 1-9, viene riportato in piena luce nei cc. 10-13, dai quali si evincono con maggiore chiarezza le opinioni sostenute dagli avversari dell'apostolo e le ragioni del confronto.

Chi sono gli avversari e quali accuse muovono nei riguardi dell'apostolo? Si tratta di un rilevante gruppo di predicatori giunti a Corinto da altre comunità (2Cor 11,4-5) con «lettere di raccomandazione» (2Cor 3,1), forti della buona accoglienza riservata alloro messaggio (2Cor 11,4.20). Questi tali, nella pretesa di sostituirsi alla predicazione paolina, legittimavano variamente il proprio ministero in contrapposizione a Paolo e all'immagine debole che veniva fatta passare in sua assenza. P. W. Barnett riassume il quadro delle pretese antipaoline di questi «falsi fratelli»: «Nel loro viaggio missionario a Corinto essi sono giunti percorrendo una distanza maggiore, Paolo una minore (2Cor 10,13- 14), hanno "lettere di raccomandazione" (da Gerusalemme?), Paolo non ne ha alcuna (2Cor 3,1-3); sono all'altezza del proprio compito, figure trionfanti, Paolo è inadeguato, una figura meschina che avanza vacillando di sconfitta in sconfitta (2Cor 2,14-3,5; 4,1.16) [...] sono uomini dai poteri divini ("fuori di senno": 2Cor 5,13), "rapiti [...] fuori del corpo [...] in paradiso" dove essi hanno "visioni" e odono "rivelazioni" di ciò che è "indicibile" (2Cor 12,1-5), mentre Paolo vive "nella carne", è un ministro senza poteri e debole (2Cor 10,3-6; 12,1-10; cf. 2Cor 5,12-13). Con ogni probabilità, essi compivano "i segni del vero apostolo" (2Cor 12,12), mentre, sostenevano, Paolo non li compiva. Essi sono versati nell' arte del parlare (2Cor 11,5-6) e nella sapienza, mentre egli nel parlare è "un profano" e in generale un "pazzo" (2Cor 11,5). In tutto inferiore (cf. 2Cor 11,5), mentre essi sono superiori, "migliori" (hyper: 2Cor 11,23)».

Questa situazione conflittuale fotografa i termini del confronto a distanza tra l'apostolo e i suoi oppositori. Ricevute le notizie sull'aggravamento della situazione, a tal punto da sembrare che i giudaizzanti avessero il sopravvento, Paolo ne fu profondamente contrariato ed elaborò una decisa risposta in sua difesa, movendo inevitabilmente a sua volta forti accuse e rimproveri contro i «falsi apostoli».

Possiamo individuare in 1Cor 10-13 una successione di argomentazioni articolata in quattro principali motivi:

1) la risposta all'accusa di debolezza (10,1-11);

2) la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18);

3) il tema del «vanto apostolico» (11,1-12,18);

4) le apprensioni e le inquietudini dell'apostolo in vista di una prossima visita (12,19-13,10; i vv. 11-13 costituiscono la conclusione epistolare).

Pur avendo presente il quadro complessivo dell'apologia, la nostra analisi si limita alla pericope 10,12-11,6 e focalizza due motivi paolini che emergono dal testo: la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18) e il tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

La risposta all’accusa di ambizione (10,12-18)

Per contestualizzare e comprendere i vv. 12-18, consideriamo brevemente il messaggio della pericope precedente (vv. 1-11) che riguarda la presentazione dell' apostolo e la credibilità del proprio ministero a Corinto.

La credibilità del ministero paolino (vv. 1-11)

Nei vv. 1-11 Paolo sollecita i credenti a ristabilire un giusto ed equilibrato clima di fiducia e di verità, fondato su motivazioni spirituali e mosso da spirito di fede e obbedienza a Cristo. Egli si appella al giudizio di tutta la comunità e la invita a una attento discernimento di fronte alle critiche di debolezza che gli erano state mosse; così facendo prende le distanze dall' autocompiacimento di coloro che a Corinto pretendevano essere forti e di avere in loro stessi «la persuasione di appartenere a Cristo» (v. 7). Il vero vanto di Paolo non sta nell' esaltazione delle sue qualità, bensì nel dono elargitogli dal Signore di esercitare l'autorità per l' edificazione degli stessi corinzi. Sono proprio loro che devono aprire gli occhi e non lasciarsi ingannare! Infine, con tono deciso, egli rivendica la legittimità del proprio ministero e conferma la sua linea di comportamento ferma e coerente, sia a parole che per lettera (v. 11).

Il criterio dell'autentico apostolato (vv. 12-18)

Nei vv. 12-18 il confronto con gli avversari si tematizza sull'accusa di ambizione: viene contestato a Paolo il suo «diritto» di apostolo sulla comunità. La domanda che si coglie tra le righe del testo è la seguente: sulla base di quale «misura normativa» (kànon) si esercita il ministero apostolico a Corinto? Chi può rivendicare la legittimità (la delimitazione geografica?) dell'apostolato paolino e arrogarsi il diritto/dovere di darne un giudizio? Paolo espone la sua difesa mettendo a confronto il comportamento arrogante dei suoi accusatori così diverso dallo stile pastorale della sua condotta, ispirata alla regola datagli dal Signore. La sferzante ironia sviluppata nella risposta paolina, permette di cogliere la consistenza degli atteggiamenti pretestuosi e arroganti dei suoi avversari: appellandosi alle loro presunte capacità carismatiche, essi ritenevano Paolo un predicatore privo di qualsiasi credenziale, non potendo egli vantare per se alcuno statuto canonico o normativo di apostolo. Il brano apologetico segue verosimilmente un procedimento letterario di tipo chiastico; il tono generale è vorticoso, emotivo, insieme dimostrativo e accusatorio, tipico del temperamento dell' Apostolo.

La mappa concettuale può essere così espressa:

A Non osiamo paragonarci a coloro che si raccomandano e pretendono di essere «misura» di se stessi...


B
Noi non ci vanteremo oltre misura, ma secondo l’ «unità di misura» che Dio ci ha assegnato...

A’ Non chi si raccomanda da sé è approvato ma colui che il Signore raccomanda...


B’
Abbiamo la speranza della crescita della vostra considerazione secondo la nostra «misura», senza vantarci...

Osserviamo le corrispondenze letterarie e tematiche del testo.

In A (v. 12) viene presentata la posizione degli oppositori, i quali pretendono di essere «norma a se stessi», rifiutando con il loro atteggiamento arrogante e autoreferenziale, di commisurarsi alla norma divina. In questa linea va compreso l' accenno alle «lettere si raccomandazione» usate dai suoi avversari a Corinto, per le quali già precedentemente egli ha avuto parole di riprovazione (cf. 2Cor 3,1; 5,12 cf. At 18,27).

In corrispondenza chiastica si pone A' (v. 18), che riprendendo il tema del raccomandarsi (synistêsin) in risposta agli oppositori, afferma che è il Signore (ho kyrios) l'unico protagonista e garante di ogni apostolato. Al centro della struttura si trovano dialetticamente B (vv. 13-15a) e B' (vv. 15b-17).

In B Paolo incalza i falsi apostoli tacciandoli di presunzione. La descrizione è pungente e sarcastica: essi ostentano sicurezza, reputano di essere «misura a se stessi» e si vantano «oltre misura», con atteggiamenti di arrogante sazietà e presunta perfezione. A questa posizione Paolo contrappone il suo stile missionario (si noti in v. 13 l'uso enfatico di «noi» che mira a coinvolgere l'intera comunità dei credenti) basato sull'azione divina manifesta nella sua attività evangelizzatrice: egli ha fondato la Chiesa che è a Corinto secondo «l'unità di misura» che Dio gli ha assegnato come «norma». Per tale ragione i Corinzi possono riconoscere che il diritto apostolico di Paolo è ben motivato e in virtù dell' efficacia della predicazione evangelica, la sua pretesa missionaria non risulta intrusiva, ne il suo vanto pretestuoso. Corinto è, dunque, il suo legittimo campo di lavoro, mentre i suoi oppositori pretendono di appropriarsi delle «fatiche altrui» e vantarsi di un opera apostolica che non appartiene loro (cf. Rm IS,20s).

Al gioco di contrasti e di ironie elaborato nei vv. 13-1Sa si contrappongono in B’ i contenuti autentici e le attese della missione assegnata da Dio a Paolo secondo la sua «misura». Egli auspica anzitutto per i credenti di Corinto il pieno riconoscimento della legittimità della predicazione evangelica svolta da lui nella città achea, ma nel contempo egli desidera estendere la sua attività missionaria molto più in là della Grecia, verso quei territori occidentali (Italia, Spagna?) non ancora raggiunti dal vangelo. Nel brano si segnalano tre affermazioni che fanno emergere la grandezza e la passione apostolica di Paolo: egli non intende paragonarsi a coloro che si raccomandano da se stessi, i quali mancano di comprensione, ma ha scelto di vivere lo stile apostolico sul modello voluto da Dio; inoltre, non vuole vantarsi delle fatiche di altri evangelizzatori, ne vuole appropriarsi di meriti altrui (è chiaro l'intento polemico contro gli avversari); egli, infine, desidera presentarsi ai corinzi in tutta umiltà e sincerità per far crescere la loro fede e la loro considerazione, in vista dell'annuncio del vangelo alle regioni più lontane. In definitiva, da queste rapide battute emerge tutto l' animo pastorale di Paolo, la sua preoccupazione ecclesiale e soprattutto la lungimiranza della prospettiva missionaria.

Il vanto di essere e di vivere come apostolo (11,1-6)

Uno dei motivi centrali dalla pagina paolina è quello del «vantarsi». Nella sua difesa egli ha ironizzato sul vanto dei giudaizzanti (10,12.15.16) facendo culminare la requisitoria al v. 17 con la citazione di Ger 9,22-23. A differenza dei suoi oppositori che ostentano vanagloria, l'apostolo sostiene che l'unico vanto possibile consiste nel gloriarsi nel Signore. Avendo come sfondo questo motivo, Paolo assume ora un tono sorprendentemente ironico e «drammatico». Egli si presenta come attore in una scena, «vantando se stesso» e impersonando il ruolo del «folle», quasi rapito da uno «sdegno divino» che lo spinge a «mettersi la maschera» per smascherare i suoi avversari. Del singolare discorso di 2Cor 11,1-12,18 intendiamo mettere a fuoco solo il primo movimento che è circoscritto nei vv. 1-6, i quali si articolano in tre piccole unità (vv. 1-2; vv. 3-4; vv. 5-6), introdotte rispettivamente da tre verbi (sopportare, temere, ritenere).

«Sopportate un po' di pazzia»! (vv. 1-2)

L'esordio del «discorso del folle» è costituito dall'invito rivolto ai corinzi a sopportare un poco della sua pazzia. Infatti, è vera pazzia vantarsi di se stessi! Tuttavia poiché la comunità è disposta a tollerare (e ad approvare) i vanti dei falsi apostoli che hanno riscosso tanto successo, anche Paolo sceglie di parlare loro da «insensato» per mostrare il vero volto di simili dissimulatori. Se egli è costretto a scendere su questo terreno, è per impedire che i corinzi si lascino traviare dai giudaizzanti. Al v. 2 segue un'efficace metafora con cui l' apostolo presenta il proprio ministero e introduce l' idea della comunità come «sposa di Cristo». Per la missione ricevuta da Dio Paolo assume il ruolo dell' «amico dello sposo» (paraninfo), il quale, come è consuetudine tradizione matrimoniale giudaica, viene incaricato di vigilare sulla fedeltà della «sposa» e di condurla pura e casta al giorno delle nozze (così per il Battista: cf. Gv 3,29-30). Qui non per un rapporto di possesso, ma di autentico servizio, egli si mostra «geloso» della sua comunità, in quanto essa appartiene a Dio e il suo compito apostolico non potrà considerarsi concluso fino al giorno in cui si realizzerà l' «unione sponsale» . Nella linea teologica veterotestamentaria l'immagine impiegata presuppone anche l'idea escatologica delle nozze messianiche, conferendo all'applicazione paolina la prospettiva del compimento futuro in attesa della parusia. L'efficacia della metafora impiegata ci fa capire quanto Paolo amasse la sua Chiesa da lui fondata e, nello stesso tempo, quale fosse lo stile pastorale del suo ministero a Corinto: servire la comunità non come luogo di auto affermazione della propria persona o dei propri interessi, bensì mettendo al centro delle sue preoccupazioni e del suo lavoro il bene dei cristiani e l'integrità de loro cammino verso Dio.

Un cristianesimo in crisi (vv. 3-4).

Tuttavia l' apostolo teme che la Chiesa di Corinto rompa la sua relazione sponsale con Dio. L'espressione del timore posta enfaticamente all'inizio del v. 3, rivela il pericolo dell'infedeltà dovuto alI' opera di seduzione (phtharê: essere corrotto) da parte dei predicatori eretici. Il contesto polemico spinge l' apostolo a collegare l' opera dei falsi apostoli con quella del serpente che sedusse Eva (cf. Gn 3), inducendola a peccare contro la semplicità e la purezza, secondo una reinterpretazione rabbinica. Paolo vuole dire che è in atto a Corinto un processo di seduzione diabolica (cf. 11,14-15) che sta conducendo i cristiani fuori dal progetto di Dio. Tuttavia, ciò che sembra incredibile è il fatto che la comunità, succube del «primo venuto» (v. 4), è pronta ad accettare la predicazione di un «altro Gesù», a ricevere un «altro spirito» e ad accogliere un «vangelo diverso» da quello di cui fu lui stesso proclamatore. Le sue parole ammonitrici sono fin troppo eloquenti: la crisi di Corinto investe la natura stessa del cristianesimo. In questa vicenda non è in discussione solo l' apostolato paolino, bensì la realtà stessa della Chiesa e del suo futuro in quelle regioni. La preoccupazione pastorale di Paolo trasuda da questi versetti: egli richiede ai corinzi un supplemento di corresponsabilità al fine di evitare la dispersione e il fallimento; per questo è ora disposto a fare tutto il possibile per ridare autorevolezza all'annuncio evangelico che quei cristiani stavano perdendo irreparabilmente.

Il vanto dell'apostolato (vv. 5-6)

Ripartire dall'autorità del suo apostolato, riscoprire la paternità del suo ministero, dare fiducia, sicurezza e speranza a quanti si erano lasciati convincere dai giudaizzanti: ecco l'obiettivo primario che Paolo si pone in questo ulteriore passaggio. Dopo aver descritto lo stato in cui versa la Chiesa corinzia minacciata dall'eresia. nel v. 5 egli dichiara a apertamente la legittimità di essere «apostolo», non inferiore ai suoi oppositori, che definisce ironicamente «superapostoli» .Al confronto con le doti e l' operato dei predicatori eretici, Paolo riconosce di non possedere come loro l'arte dell'eloquenza, ma ribadisce che questa dote è di minore importanza rispetto alla priorità della conoscenza di Dio, che comporta l'interiorizzazione del vangelo e presuppone il dono dello Spirito (cf. 1Cor 2,1-5). Di questa «conoscenza», intesa come esperienza profonda del mistero della rivelazione di Dio, l' apostolo ha dato ampiamente prova a tutti e in ogni occasione, come è testimoniato dalla missione apostolica svolta a Corinto. «In breve, non la retorica, bensì la nuda predicazione del crocifisso qualifica la missione di un vero apostolo».

Conclusione

Le linee che emergono dalla rapida lettura proposta tratteggiano la figura dell' apostolato paolino in tre prospettive, che risultano di straordinaria attualità per l'oggi della Chiesa. Una prima prospettiva è data natura stessa del suo ministero pastorale. Annunciare il vangelo in un «mondo che cambia» come quello di Corinto, implica un persistente atteggiamento di ascolto e di interpretazione delle vere domande che emergono dalla vita quotidiana e dalle sue sfide. Una seconda prospettiva è rappresentata dalla dimensione «agonica» dell'apostolato. Corinto diviene un esempio della «lotta per il vangelo» (cf. Rm 15,30-32), che vede Paolo protagonista di uno scontro giocato non solo sul piano della credibilità personale, ma su quello della dimensione ecclesiale: questa crisi ha conseguenze vitali per la diffusione del vangelo in tutte le Chiese. Una ultima prospettiva concerne la spiritualità missionaria dell'apostolo. Nella foga apologetica Paolo mai dimentica il riferimento alla «misura» data da Dio. Criterio decisivo di ogni ministero è Dio stesso, la sua misteriosa presenza, di cui l'apostolo ha fatto esperienza diretta nel corso della sua vita (cf. 2Cor 12,2-4). Non la retorica, ne il consenso delle masse egli ha bramato, ma solo Dio! Comprendiamo quanto affermerà subito dopo: quella «debolezza» in Cristo decantata da Paolo, diventa prezioso seme che feconda la Chiesa, unico motivo di vanto che «dalla polvere» umana si" eleva verso Dio.

(da Parole di vita, 6, 2002)

Letto 4135 volte Ultima modifica il Venerdì, 25 Luglio 2008 00:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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