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Martedì, 05 Febbraio 2008 23:32

«Mio Signore e mio Dio» (Bruno Maggioni)

«Mio Signore e mio Dio»

di Bruno Maggioni






Nei racconti evangelici della risurrezione non manca mai un accenno al «dubbio» dei discepoli. Per esempio, Matteo scrive: «Vedendolo lo adorarono, altri però dubitavano» (Mt 28,17). E nel Vangelo di Luca si legge: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,36-38).

Dal dubbio alla fede

L’evangelista Giovanni, però, ha preferito concentrare il tema del dubbio e del suo superamento in due scene contrapposte (prima l’incredulità e poi la fede), sviluppandolo attorno a un solo personaggio: l’apostolo Tommaso. La tesi principale è senza dubbio teologica: approfondire il rapporto fra il vedere e il credere, la fede del gruppo apostolico e la fede della comunità successiva. Giovanni non tratta il tema concettualmente, ma narrativamente com’è sua abitudine.

Gesù risorto appare la prima volta al gruppo dei discepoli assente Tommaso (20,19-23). Al ritorno di Tommaso i discepoli gli dicono: «Abbiamo visto il Signore»(20,25). Dicendo «il Signore» i discepoli mostrano di riconoscerne la profonda identità: Gesù è il Signore vivente e presente nella comunità.

Una maturazione, dall’inizio alla fine

Non basta ritenere che il Crocifisso è tornato alla vita. Occorre capire che ora è il Signore entrato in una vita e in una condizione che appartengono a Dio.

Così è la vera fede.

C’e’ dunque una differenza notevole fra quest’esclamazione e la prima dei discepoli che si legge in 1,41: «Abbiamo trovato il Messia».

- All’inizio i discepoli riconoscono che Gesù è il Messia, alla fine egli è il Signore.

- All’inizio trovano, alla fine vedono.

- All’inizio non sanno che il Messia sarà crocifisso, alla fine comprendono che il Signore risorto è il Crocifisso. Lo riconoscono, infatti, non dal volto o da altro, bensì dai segni della croce.

L’idea di messia è così doppiamente cambiata: il Messia è il Signore, il Messia è il Crocifisso.

Tommaso non si lascia convincere dalla visione che gli altri discepoli hanno avuto. Egli vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che Tommaso abbia toccato né le mani né il costato trafitto. In questa seconda scena tutto si concentra sul dialogo fra Gesù e Tommaso. Gli altri discepoli assistono silenziosi.

«Il mio Signore»

Nelle parole di Gesù c’è un rimprovero: «non continuare a essere incredulo [così il verbo greco nella forma dell’imperativo presente], ma diventa credente». Tommaso a questo punto riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: «Il mio Signore e il mio Dio». La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore. Non dice: «Signore Dio», ma: «Il mio Signore e il mio Dio». La presenza dell’articolo nel testo greco suggerisce anche la totalità dell’appartenenza. Si potrebbe parafrasare così: «»Sei il mio unico Signore e il mio unico Dio.

La fede sul fondamento dell’ascolto

«Beati quelli che senza aver visto hanno creduto»: è questa la vera beatitudine del Vangelo. Beato è chi crede senza pretendere di vedere. Con la fede di Tommaso si apre una nuova tappa nell’itinerario della fede: credere senza vedere. Quando l’evangelista scriveva il suo Vangelo erano già molti coloro che credevano senza aver visto. Forse è per questo che il verbo è al participio aoristo, come se si riferisse a una situazione già sperimentata («Hanno creduto»).

Dalle poche cose dette si può comprendere che la scena dell’apparizione di Gesù ai discepoli presente Tommaso assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo di Gesù visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Risorto. Tutt’altro. Gli è offerta l’esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. L’esperienza apostolica, in sostanza, risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore (sempre possibile e attuale).

Il primo elemento è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e fedelmente raccontata. Il secondo si pone, invece, come fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi all’esperienza diretta e personale di tutti coloro che accolgono l’annuncio.

(da Parole di Vita)
Pubblicato in Bibbia
Il quarto vangelo
e i vangeli sinottici

di Claudio Doglio – Roberto Vignolo




In quanto «vangelo»: narrazione della vicenda storica di Gesù dal battesimo alla risurrezione, rilievo dato al viaggio fondamentale a Gerusalemme, importanza a informazioni geo-topografiche, aspetto «drammatico» della vita di Gesù, discorsi d’addio in cornice storica, parole e segni come avvenimenti reali e concreti.

Le principali differenze

Anche se gli elementi comuni non mancano (alcuni racconti, logia, citazioni dell’Antico Testamento, brevi parabole, espressioni metaforiche, sentenze e proverbi), esistono pure delle grandi differenze fra Giovanni e i Sinottici. Vediamo le più rilevanti.

- Nel quadro geografico e cronologico. Il ministero di Gesù secondo Giovanni abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme. In Giovanni, invece, Gesù va continuamente avanti e indietro dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato.
- Nel modo di presentare i miracoli. I gesti prodigiosi raccontati da Giovanni sono chiamati «segni» (semeia), sono in numero di sette (probabilmente simbolico) e appartengono quasi esclusivamente a questo Vangelo: 1) le nozze di Cana; 2) la guarigione del bambino dell’ufficiale; 3) la guarigione del paralitico della piscina di Betzatà); 4) la moltiplicazione dei pani; 5) il cammino sulle acque; 6) la guarigione del cieco nato; 7) la risurrezione di Lazzaro. Solamente due sono comuni con i Sinottici: la moltiplicazione dei pani ed il cammino sulle acque.
- Nel modo di presentare l’insegnamento. In Giovanni abbiamo lunghi discordi di controversie e di insegnamento, mentre i Sinottici hanno in genere antologie di brevi logia indipendenti, anche se Matteo ha raccolto il materiale in grandi discorsi, di fatto si tratta sempre di compilazioni in cui è evidente l’origine autonoma dei vari detti; invece nel quarto Vangelo si trovano molti discorsi, lunghi e organici, strutturati in modo complesso e retoricamente valido.
Vari tentativi di spiegazione

Come spiegare queste somiglianze e differenze tra Giovanni e i Sinottici? Per risolvere questo problema sono stati proposti almeno tre schemi di soluzione:

1) i Sinottici dipendono da Giovanni;

2) Giovanni dipende letterariamente dai Sinottici;

3) Giovanni deriva da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici.

È inimmaginabile che Giovanni abbia determinato i Sinottici proprio per questione di tempo. Rimangono quindi le altre due possibilità che prendiamo in considerazione.

Nell’antichità i Padri pensavano generalmente che Giovanni dipendesse in qualche modo dai Sinottici. Ma da tale presupposto nasce un altro problema: se Giovanni conosce i Sinottici perché ha scritto un Vangelo così diverso? Nella tradizione patristica sono già state formulate tutte le risposte possibili, riprese poi variamente anche dagli autori moderni:

- Giovanni ha scritto il suo Vangelo per completare quello che avevano detto gli altri evangelisti (ipotesi del completamento);

- Giovanni ha aggiunto molti discorsi allo scopo di evidenziare e interpretare meglio il messaggio teologico che nei Vangeli sinottici non era chiarissimo (ipotesi dell’interpretazione);

- Giovanni voleva superare l’aspetto materiale per arrivare all’annuncio spirituale (ipotesi del superamento);

- Giovanni aveva il desiderio di sostituire i Vangeli sinottici ritenendoli per qualche motivo non validi (ipotesi della sostituzione).

Oggi, tuttavia, l’opinione più sostenuta supera tutte queste varie ipotesi di rapporto coi Sinottici e preferisce sostenere che Giovanni derivi da una propria tradizione indipendente, eppure chiaramente ancorata alla predicazione apostolica più antica. Tutto ciò che è diverso si può spiegare in quanto parte dell’ambiente culturale giovanneo e appartenente all’autentica tradizione dell’apostolo. Così Giovanni utilizza uno schema narrativo proprio, mentre i Sinottici riproducono tutti uno stesso antico canovaccio narrativo.

Possiamo, in conclusione, ritenere improbabile che Giovanni dipenda letterariamente in modo diretto dai Sinottici; le concordanze si possono spiegare con la tradizione orale; ma la tradizione giovannea risulta autonoma nel suo complesso. Una certa conoscenza del contenuto della tradizione sinottica esiste, ma deriva da elementi che possiamo definire «pre-sinottici». Nel quarto Vangelo, infatti, esistono indizi di un’antica tradizione su discorsi e fatti della vita di Gesù, simile nella forma e contemporanea a quella sinottica; con la sua esposizione, però Giovanni persegue un fine suo proprio, che è la chiave migliore per spiegare il sorprendente rapporto di riflessione teologica, è necessario riconoscere che la tradizione giovannea contiene non poche informazioni complementari attendibili sotto l’aspetto storico.

Modelli a confronto: i prologhi dei Vangeli sinottici

Proponiamo, come esemplificazione, un confronto a proposito del mondo di iniziare il racconto evangelico nei Sinottici e in Giovanni.

Stimato fin dall’antichità a ragione quello più recente, il quarto Vangelo doveva conoscere i tentativi già attuati dai suoi colleghi sinottici di produrre una testimonianza scritta della storia singolare di Gesù, proprio perché non si perdesse la memoria di questo evento rivelatore e vivificante, e perché i credenti, in stragrande maggioranza tagliati fuori dalla contemporaneità storica con Gesù, disponessero delle testimonianze adeguate per conoscerlo nella sua autentica identità salvifica, e non ricercarlo a vuoto. Senza pretese di trascrivere tutto su Gesù (così 21,25, con buona pace di At 1,1!), ma pure senza complessi d’inferiorità per il proprio limite, Giovanni dichiara che

Molti altri segni fece Gesù, sotto gli occhi dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome (20,31).

Giovanni non è, quindi, il primo ad aver affrontato il dilemma di come e da dove cominciare un Vangelo. Sicché, per apprezzarne le scelte con cui aggancia il lettore per offrirgli un’adeguata chiave della persona di Gesù, converrà, quindi, confrontarci con i prologhi di Marco, Matteo e Luca.

Il prologo evangelico più antico (Mc 1,1-15)

Rispetto al più antico Vangelo di Marco, che esordiva con: «Inizio (archè) del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio…» (Mc 1,1), Giovanni condivide con il suo «In principio», condivide addirittura lo stesso primo sostantivo (archè).

Ma intorno a questa preziosa somiglianza verbale si accumulano non poche differenze, sia sull’idea stessa di «inizio/principio», sia sulla maniera di organizzare il prologo. Allargandosi vistosamente con un inno di ben diciotto versetti, Giovanni infatti si discosta dal più antico Vangelo di Marco che in senso diametralmente opposto preferiva piuttosto ridurre e nascondere il proprio prologo.

Cocendo il titolo iniziale (Mc 1,1) su di una citazione di compimento a propria volta direttamente assimilata al corpo del racconto: «Come è scritto nel profeta Isaia: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, t’addrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,2-3; cf. Ml 3,1; Is 40,3), Marco presenta subito Giovanni il battezzatore (1,4-8) per arrivare speditamente al battesimo di Gesù di Nazareth viene a ricevere dalle sue mani (1,9-11), prima di soggiornare nel deserto ( in compagnia di fiere, Satana, e angeli: 1,12-13), sospinto dallo Spirito, e poi di predicare in Galilea (1,1-15) e chiamare i primi discepoli (1,16-20). Marco ha fretta di metterci a più diretto contatto possibile con Gesù già adulto, impegnato nella sua vita pubblica a rispondere alla propria missione.

Mc 1,1-15 parte davvero di scatto, con un’accelerazione in medias res, che in un attimo ci immette nel vivo della storia, avviata con la solidarietà di Gesù al battesimo predicato da Giovanni. Come gli altri penitenti immerso anche lui nel Giordano per mano del suo precursore, misteriosamente partecipe di questo richiamo (kerigma) alla conversione, egli fa di questo evento ben più di un semplice spunto iniziale, assumendolo come un «principio», una sorta di «nucleo originario» anticipatamente comprensivo del suo Vangelo, la quintessenza sia della sua stessa predicazione, come pure come di quella post-pasquale (ecclesiale) su di lui.

Di fronte al battesimo di Giovanni (1,1-8) e a Gesù che, risalendone, ottiene pieno riconoscimento dal Padre (1,9-11.13), il lettore subisce un impatto di sconcertante rivelazione e inaudita profondità salvifica. Sapendo egli già chi sia Gesù (1,1), e conoscendo pure la promessa di Giovanni circa la venuta di uno più forte, a immergere nello Spirito (1,7-8), egli si vede invece arrivare un Gesù imprevedibile sottomesso al battesimo di penitenza, in corrispondenza con il quale riceve la teofania celeste, con lo Spirito e la voce del Padre («Tu sei il mio figlio prediletto: in te mi sono compiaciuto!»: 1,9-11).

Ma proprio a questo punto, ecco le sue cognizioni e predisposizioni sottoposte a uno sconvolgente effetto sorpresa: se infatti Gesù è «più forte» del Battista, perché mai si sottopone al suo battesimo, come gli altri peccatori? Sovente spacciato per un vivace racconto di gusto popolare ( il che è parzialmente vero), e perciò ingenuo ( questo invece è solo un pregiudizio esso stesso ingenuo), quello di Marco è in realtà un imponente racconto kerigmatico, perfino difficile da recepire col suo impatto mozzafiato che intreccia gli eventi compiendo ogni preventiva attesa con le spiazzanti sorprese di misteriose rivelazioni, la cui trafila corre sull’intera narrazione, e culmina nell’annuncio di Pasqua (16,1-8).

Da dove far cominciare la storia di Gesù?

Pur nella sua potenza kerigmatica il prologo marciano, però, non ha evidentemente soddisfatto gli altri tre suoi colleghi evangelisti. Matteo, Luca e Giovanni optano infatti in senso diametralmente opposto rispetto a Marco, tanto per forma quanto per contenuto. E così, se dal punto di vista letterario, invece di un prologo «nascosto», ne elaborano uno di proporzioni vistosamente accentuate; dal punto di vista contenutistico retrocedono invece con la memoria ben oltre il battesimo di Gesù adulto al Giordano, cercando radici più antiche della sua storia, in ordine a una sua identificazione più chiara tramite l’esplicitazione della sua misteriosa origine.

Ancorché fattore irrinunciabile al Vangelo (menzionato già nelle più sintetiche formulazioni kerigmatiche di At 10,37; 11,16; 13,24-25; 19,3-4), il battesimo di Giovanni non si impose come indiscutibile punto di partenza storico-narrativo della storia di Gesù, in quanto rispetto alla sua identità quell’inizio/principio ne offriva un’immagine di difficile decifrazione e perfino equivocabile (almeno fuori dalla stretta cerchia di Marco). Confrontando il più antico incipit marciano con quelli degli altri Vangeli viene da concludere ragionevolmente che nel cristianesimo primitivo dovette prodursi un intenso ripensamento critico circa la maniera di raccontare la storia di Gesù proprio relativamente all’ identificazione del suo inizio/principio. Per render ragione della sua identità, da dove far cominciare la storia di Gesù?

A questa semplice domanda, quanto impegnativa domanda Mc 1,1-15 rispondeva con la teofania prodottasi al battesimo di Gesù, riconoscendovi la manifestazione della sua relazione filiale a Dio, relazione unica, garantita dai cieli squarciati, dalla discesa dello Spirito dalla voce celeste. Irriducibile a semplice investitura (o vocazione) profetico-messianica di Gesù, quella relazione (al momento nota solo a lui, e coincidente col cosiddetto «segreto messianico» destinato a un drammatico svelamento), rimanda ben oltre la circostanza del Giordano, e presuppone, dal punto di vista di Marco, una cristologia se si vuole grezza, ma nient’affatto «bassa.

Sta di fatto comunque, che, raccontata così, quella sua immersione al Giordano generò qualche imbarazzo per le comunità primitive, poiché si prestava a un duplice equivoco: sia quello di un Gesù palesemente inferiore al profeta suo precursore (il dialogo di Mt 3,14-15 cercherà di scioglierlo), sia quello di un Gesù che solo all’uscita dalle acque sarebbe appunto diventato Figlio di Dio, senza esserlo precedentemente, secondo la riduttiva interpretazione nota come adozionista ed ebionita, che i successivi Vangeli, ciascuno a suo modo, si premurano di controbattere.

Un nuovo inizio, secondo Matteo e Luca

Comprendiamo allora la tendenza di Matteo, Luca (e Giovanni) a spostare all’indietro l’origine di Gesù, retrocedendo anche cronologicamente fino a un altro evento in cui far brillare la consistenza della sua relazione a Dio con inequivoca trasparenza. Questo appunto ci inducono a pensare i cosiddetti Vangeli dell’infanzia (Mt 1-2; Lc 1-2), nonché lo stesso prologo giovanneo.

Così dall’età adulta di Gesù Matteo e Luca si spingono indietro, fino alla sua preannunciata nascita e concepimento verginale da Maria a opera di Spirito Santo, per rimarcare com’egli non aspetti certo il battesimo al Giordano per diventare Figlio di Dio, dimostrando di esserlo fin dal suo stesso concepimento.

Ecco allora il prologo matteano ( per limitarci a Mt 1,1-17) intitolato «il libro della genealogia di Gesù Cristo, figli di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1), e successivamente articolato in una genealogia discendente (1,2-17) ispirata alla tradizione sacerdotale e cronistica. Questo molto ampio prologo genealogico, esplicitamente storico-salvifico (che interfaccia un uditorio giudiaco-cristiano, ma universalistico, con tanto di pagani annessi), si connette bene all’origine e nascita singolari di Gesù ( 1,18ss), conferendo alla sua successiva storia uno sfondo di robustissimo spessore. Fissandone gli inizi da lontano (Davide, Abramo) e dall’alto (Figlio di Dio), Gesù viene situato al singolare incrocio tra promessa orizzontale e pura grazia verticale, tra la discendenza abramitica e diretta potenza pneumatica (1,19ss). Significativa chiave d’interpretazione dell’identità di Gesù è la distorsione finale dell’abituale formula genealogica dove, a differenza degli altri generati, tutti collegati in linea maschile («Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…») compare Maria, su cui non interviene un uomo: « Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo»: 1,16), bensì lo Spirito («Ciò che fu generato in lei, viene da Spirito Santo»: 1,22).

Per illustrare l’origine di Gesù, anche Luca inserisce una genealogia, ma solo dopo il battesimo (Lc 3,21-22.23-38), e riagganciando Gesù indietro fino ad Adamo e a Dio stesso («Figlio di Adamo, figlio di Dio»). Inoltre, ispirato alle convenzioni degli storiografi antichi, e rivolto a un uditorio di raffinata cultura ellenistica, apre con un breve proemio storico-letterario ( Lc 1,1-4), dove si mantiene piuttosto riservato sul contenuto salvifico-cristologico della sua opera. D’altronde Luca rompe subito ogni reticenza con il suo ben arrangiamento dittico tra Giovanni Battista e Gesù, confrontati in chiave tipologica e secondo il genere delle vite parallele ( che sarà prediletto da Plutarco), a partire dall’annuncio della loro missione pubblica (Lc 3-4), per entrambi portatrice di rivelazione profetica. Il concetto di archè è invece da lui riferito all’inizio della vita pubblica di Gesù (Lc 3,23) come pure all’inizio della missione ecclesiale (At 11,15).

Il prologo giovanneo

Da parte sua Giovanni apre invece con un prologo innico, di stampo sapienzale (Gv 1,1-18). Contando sul potere maggiorato di quel linguaggio poetico, laudativo (e canoro) cui Israele affida le proprie migliori espressioni di fede nel suo Dio, Giovanni più d’ogni altro elabora le potenzialità di un prologo ben spiccandolo rispetto al corpo successivo del racconto, ma anche mantenendo narrativamente e contenutisticamente omogeneo al successivo sviluppo, senza mortificare quest’ultimo. Se infatti per Gv 1,1-18 parliamo d’un prologo innico, un vero e proprio prologo narrativo sarà riconoscibile nella prima sezione del Vangelo (1,19-2,12), comprendente la testimonianza del Battista (1,19-34), la sequela/ricerca dei primi discepoli (1,35-51), fino alle stesse nozze di Cana (2,1-12). Qui all’inizio dei segni di Gesù, coincidente con la prima manifestazione della sua gloria, determinante la prima fede dei discepoli come gruppo (2,11), fissa una bella inclusione sull’idea di inizio (1,1; 2,11), chiudendo così la prima unità letteraria maggiore, magnifica ouverture del quarto Vangelo, comprensiva d’un prologo poetico e di uno narrativo, insieme formanti un unico intenso preludio della storia di Gesù.

In tal senso prologo poetico e successivo racconto giovanneo stanno tra di loro in un rapporto così descrivibile:

Non è solo il Prologo che ha bisogno del Vangelo, ma è anche il vangelo che ha bisogno del Prologo, perché, fin dall’inizio, si veda chiaramente di chi si tratta quando è in questione Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù, si caratterizza per un punto di partenza preciso e per una fine precisa. Spesso si è fatto notare che il Vangelo di Giovanni radicalizza la questione del punto di partenza rispetto agli altri Vangeli. Non comincia con la comparsa del Battista (Marco), né con il racconto della nascita di Gesù (Luca), né con una specie di genealogia (Matteo), ma situa l’inizio nell’inizio primordiale, prima ancora della creazione, cioè in Dio stesso. La questione del punto di partenza della storia di Gesù è la questione della sua origine. Ora, la questione della sua origine è nello stesso tempo la questione della sua identità. La questione dibattuta nel Vangelo - da dove questo Gesù trae origine? (cf. 7,27-28; 8,14; 9,29.30; 19,9) – è l’equivalente della questione: chi è questo Gesù? Il mistero dell’origine di Gesù, che è quello della persona stessa di Gesù, è svelato nel Prologo.

(da Parole di vita, 6)

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:41

In principio (Roberto Vignolo)

In principio

di Roberto Vignolo

«Principio» (archè), «indica sempre un primato di tempo, o di luogo, o di grado» (G. DELLING). Usato con massima pregnanza nominale diventata addirittura un titolo divino (Ap 3,14), magari in opposizione polare con télos: «Io sono il poncio e la fine» (Ap 21,6; 22,13). Può significare inizio o origine, ovvero quintessenza, prototipo. Magari questi due sensi sono simultanei, come in Gv 2,11, dove il vino di Cana è definito come archè ton deméion, cioè il primo ma anche il prototipo di tutti i segni poi operati da Gesù.

Nella tradizione giovannea si distinguono formule simili costruite con lo stesso sostantivo, ma con preposizioni diverse, e tuttavia differenziate nella loro costruzione, come pure di portata assai diversa. Così più frequenti ( anche nell’ambito del linguaggio ordinario) sono le formule «da principio» (con ap’ archês: 8,44; 15,27; 1Gv 1,1; 2,7.13-14.24; 3,8.11; 2Gv 5-6; e con ex archês : 6,64; 16,4). Più rara invece quella in testa al prologo del Vangelo: «In principio» (en archè: 1,1-2), che riprende Pr 8,23 (LXX), dove la Sapienza proclama: «Dall’eternità fui fondata, fin dal principio (en archè), prima dell’origine della terra» (cf. Sir 24,9; 4Esd 6,1-6).

Diversamente da «in principio», che rimanda al rapporto più originario possibile oltre la storia stessa, tra Gesù Logos/Figlio e il Padre (di cui si è già detto nel testo), «da principio» (ex archês), fa invece riferimento all’avvio dell’esperienza discepolare tra Gesù e i suoi, alla loro primitiva elezione e sequela. A sua volta, «da principio ap’ archês » fa pure riferimento a un evento intrastorico, che in 8,44 indica il principio della storia della salvezza, guastato dall’invidia del diavolo omicida e bugiardo, pregiudizialmente nemico alla verità di Gesù.

Invece 1Gv 1,1-4 indica l’esperienza della originaria manifestazione (phaneròo per ben 2x al v. 2) di Gesù Logos vivificante ai primi testimoni suoi destinatari e in seguito tradenti aisuccessivi credenti. In 1Gv 2,7-8 si riferisce al comandamento dell’amore reciproco, «antico» in quanto ricevuto dai credenti fin dal primo momento della loro esperienza di fede, e tuttavia «nuovo» in quanto verità e luce dissipante le tenebre. Insomma, il principio della fede cristiana coincide nel suo oggetto con il «principio» assoluto del cristianesimo: sia oggettivamente (nella storia), sia soggettivamente (nell’accoglienza dei cristiani), ed è riconducibile al Cristo verità dei e nei credenti (cf. DE LA POTTERIE, Studi di cristologia giovannea, 237).

(da Parole di Vita, 6)

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:28

16. L'esilio (Rinaldo Fabris)

Nonostante il trauma dello sradicamento dalla propria terra e i disagi del trasferimento attraverso il deserto, la vita in terra di esilio non è di tipo schiavistico.

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:04

Lezione Sedicesima. L'esistenza cristiana nel mondo

Lezione Sedicesima

L’ESISTENZA CRISTIANA NEL MONDO

 



Introduzione

1. Mentre l.a figura umano-divina di Gesù si dileguava tra le nubi del cielo nell'ascensione, gli angeli ammoniscono gli apostoli a girare gli occhi verso la terra: «Perché state a guardare il cielo?». E indicano loro l'ultimo appuntamento della storia: la seconda venuta di Gesù: «Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo» (At. 1,11).

La storia che va dalla Pentecoste alla seconda venuta dev'essere coperta dall’attività della Chiesa e del cristiano per fermentare con l'evangelo: «l’andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mt. 28,16-20 e parr.). La nostra storia è il tempo del regno, il terreno in cui Dio prepara e compie la salvezza.

Pubblicato in Bibbia
«Il logos in principio»
Il prologo giovanneo (Gv. 1,1-18)

di Roberto Vignolo


A che serve un prologo?

Istituita non per la manipolazione del consenso, bensì per inventare parole benefiche, capaci d’incrementare la qualità dell’esistenza, la retorica antiva sosteneva che il prologo di un discorso serviva all’autore per un triplice scopo, e cioè rendere il proprio uditore/lettore benevolo, attento e docile all’esposizione successiva.

Dove però si trattasse non di un discorso, bensì di un racconto storiografico, erano sufficienti sue sole funzioni: bastava consegnare al lettore solo quanto corrispondeva al suo interesse e alla sua istruzione, tralasciando la captatio benevolentiae. Se infatti lo storico saprà parlare «di cose grandi, necessarie, familiari, utili», sicuramente gli si presterà attenzione.

All’autore poi la scelta tra due possibilità, e cioè tra un prologo reale, esplicito, diffusamente elaborato, e invece uno solo virtuale, implicito, abbozzato nelle prime righe del racconto, addirittura nascosto nelle sue pieghe, ridotto al minimo indispensabile per agganciare il lettore. In fondo, ricorda E. Canetti, restano due sole alternative: rimarcare il prologo, perfino esasperarlo rispetto al corpo successivo; oppure ridurlo a poche battute, rapidamente incorporate all’ulteriore sviluppo narrativo.

Questi chiari propositi non possono tuttavia far dimenticare il brivido intrinseco a qualunque prologo, l’emozione davanti alla pagina ancora tutta bianca, al silenzio da dove emerge qualunque avvio di discorso, nella consapevolezza del rischio intrinseco a ogni nostra presa di parola. Infrangere questo silenzio è un impegno energico, che pone il dilemma di come e con che cosa partire, nonché quello d’individuare il nostro interlocutore, a chi parliamo. Per ragionate che siano, le nostre scelte sapranno sempre di agrodolce, perché libere quanto condizionanti. Possiamo infatti iniziare un racconto come meglio crediamo, ma da quella partenza resteremo necessitati, e dovremo proseguire vincolati a direzione e modalità del primo passo.

Il prologo di Giovanni

Quale comunicazione e quale interpretazione della storia di Gesù ci veicola dunque il prologo giovanneo? Proviamo a enucleare alcuni riferimenti di una materia complessa.

Il prologo giovanneo (1,18, che converrà specificare come prologo poetico) ha il merito di restituirci come non mai il brivido della presa di parola, unendolo a quello ben più intenso della somma «meraviglia dell’inizio». Riascoltandolo in una traduzione con qualche differenza rispetto a quella ufficiale:

In principio era il Logos, e il Logos era rivolto a Dio, e il Logos era Dio.
Era lui un principio rivolto a Dio.
Ogni evento in lui era vita, la luce per gli uomini era quella vita!
E la luce brilla nelle tenebre, imprendibile alle tenebre.
Venne un uomo, mandato da Dio, che ha nome Giovanni.
Lui venne a testimoniare, per dar testimonianza alla luce, perché tutti credessero mediante lui.
Però non era lui la luce, ma per dar testimonianza alla luce.
Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire al mondo.
Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero.
Ma a quanti l’accolsero, diede potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome,
- lui non da sangue, né da voglia di carne, né da voglia di uomo, ma da Dio generato!
Così il Logos si fece carne, e prese dimora tra noi, e noi contemplammo la sua gloria, -
gloria di unico generato dal Padre, pieno di grazia e verità.
Di lui, Giovanni attesta e proclama:
«Ecco, di lui ho detto:
Viene dietro di me, ma sta davanti a me, primo era infatti su di me!
Sì, dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia sopra grazia!
La legge infatti fu data a Mosè.
la grazia e la verità vennero con Gesù Cristo.
Vedere Dio – nessuno ha mai potuto.
Un unico Dio generato – proteso al seno de Padre –
lui ha potuto narrarne!»

«In principio»

Davvero insuperabile quest’avvio, che muove dall’ in principio stesso, sicché oltre a questo momento originante da lui additato diventerà davvero impossibile andare, visto che esso addirittura viene ricondotto ancor prima della stessa creazione (Gn 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra»), e perfino alla stessa Sapienza, figlia primogenita di Dio, testimone e mediatrice d’ogni azione divina vivificante, creatrice e salvifica (Pr 8-9; Gb 28; Sir 24; Bar 3-4; Sap 6-10).

L’in principio scandito dal quarto Vangelo non è infatti identico a quello che in Gn 1,1ss. vediamo sospeso allo Spirito di Dio volteggiante sopra le acque del tenebroso caos primordiale (Gn 1,2), per dieci volte scandito dall’imperativo creatore (Gn 1,3ss.) che ordina un cosmo secondo le capitali distinzioni di luce e tenebre, acque e asciutto, luminari maggiori e minori, cosicché – una volta che ne siano poste le condizioni di sussistenza (spazio, tempo, riproducibilità) – fiorisca ogni forma e specie di vita vegetale, animale, umana. Infatti, piuttosto che impegnarsi subito ad extra, cioè nel rapporto creatore Dio/mondo, di per sé già inaccessibile a qualunque mortale, Gv 1,1-18 spicca un più audace balzo all’indietro, guardando ad intra, nientemeno che al mistero di Dio pulsante in se stesso, pur sempre invisibile e rigorosamente uno, cui siamo iniziati attraverso il suo Logos, Il Figlio unico generato (1,1-2.18).

Ecco allora individuato l’ in principio nel logos divino, o meglio nel suo legame eterno e vitale a Dio, e tutt’uno con lui, unico e primo destinatario e mediatore di tutto, della vita e della luce per gli uomini (1,3-5.9-11), e in quanto Logos fatto carne (1,14) identificato con l’uomo Gesù Cristo (1,17).

Della storia nel tempo, avente come soggetto «quell’uomo chiamato Gesù» (9,11) l’intero Vangelo racconta attraverso molteplici voci attestanti, prima fra tutte quella di Giovanni battista (1,19ss.), già udita nel prologo (1,5ss.), ultime quelle del discepolo amato, autore del libro, e della sua comunità che ce lo trasmette (21,24; cf. 19,35). Il prologo giovanneo ci parla di Gesù, che però nella sua specifica identità tuttavia resterebbe perfettamente incomprensibile senza diretto riferimento a Dio, nonché al beneficio di vita e di luce apportato ai credenti che l’accolgono. L’uno e l’altro rimandano simultaneamente alla storia di Gesù, mandato dal Padre per dare vita al mondo.

Gesù è il Logos divino

Da subito Giovanni intende confessare:

- Gesù Logos divino e Dio da principio (1,1-2.18),- Logos incarnato (1,14)- Figlio unico generato (1,18) identificato in Gesù Cristo (1,17).

Tutti i commentari sottolineano la grande inclusione tra 1,1-2 (il Logos era Dio) con la confessione di Tommaso davanti al risorto: «mio Signore e mio Dio!» (20,28). Questo collegamento tra 1,1 ( in bocca al narratore) e la confessione di fede di un personaggio all’altro capo del racconto è una forma di comunicazione già efficacemente inaugurata da Marco, con le sue non meno note inclusioni tra 1,1 («Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio»), e la confessione di Pietro a cesarea («Tu sei il Cristo»: Mc 8,29, che conclude la prima parte del Vangelo), e quella del centurione sotto la croce («Veramente quest’uomo era figlio di Dio»: Mc 15,36, a conclusione della seconda). Il prologo veicola immediatamente l’ermeneutica più alta possibile della figura cristologica.

Nel prologo come pure nel Vangelo Giovanni media in proposito tradizione e novità. Per un verso, ricorre infatti a titoli tradizionali (per esempio, Cristo, e Figlio/Figlio di Dio, comunque rinforzati con contenuto e formule più pregnanti); e d’altra parte ne introduce di nuovi, quali l’inedito titolo Logos (1,1-2.14), nonché quello di luce (11,4-5.8-9), e di monoghenes («unigenito», cf. 3,14.16), che non è un semplice sinonimo di agapetos («amato», Mc 1,11 e par.), bensì molto letteralmente «figlio unico generato», con esplicito richiamo al campo semantico della vita filiale ricevuta dal Padre a titolo personale e unico, quella stessa che quindi il Logos-Figlio è abilitato a trasmettere come mediatore salvifico.

Restando nel solco della tradizione d’Israele, consideriamo come il Logos evochi due temi intimamente connessi nel monoteismo giudaico: la confessione dell’unico Dio creatore e salvatore, e la teologia della sapienza.

La confessione dell’unico Dio, creatore e salvatore

Il riferimento al Dio creatore e salvatore spicca fin dai primi cinque versetti (1,1-5; cf. Gn 1,1.3-5). Che si tratti del Dio d’Israele lo si intende senz’ombra di equivoci per l’ulteriore riferimento a Giovanni Battista, nonché alla Torah data tramite Mosè (1,14.17).

Ma nell’idea tradizionale di questo Dio vivificante, come creatore e salvatore, viene introdotta quella nuova, in ultima analisi davvero inaudita (soprattutto per un orecchio greco, ma, pur in misura minore, anche ebraico) di un Dio in se stesso dialogico, con il proprio eterno Logos, di un unico Dio al tempo stesso Padre generante e Figlio generato.

Che Dio sia il vivente e vivificante, creatore e salvatore in forza della sua Torah, sapienza e parola, Israel l’ha sempre saputo. Ma, come inizialmente accennato, che Dio en archè, «prima» di tutto e tutti, generi e abbia un Logos davanti a sé in cui riversare completamente se stesso con questo suo attributo di vivente/vivificante, ecco (insieme a 1,14) la novità squisitamente cristiana di un monoteismo non monastico, bensì dialogico.

Così Giovanni nel prologo comunica con i suoi destinatari (originari e impliciti) tramite un’idea di Dio tradizionalmente giudaica, ma re-interpretandola in una chiave che rimane momentaneamente binaria (limitata a Dio Padre e il Logos Figlio incarnato, Dio unico generato), e solo in seguito si dispiegherà come esplicitamente trinitaria. Sintomatico infatti il silenzio del prologo sullo Spirito, per cui, stando a Gv 1,1-18, non potremmo ancora essere certi di poter distinguere tra Gesù e lo Spirito, dal momento che Gesù Logos potrebbe tranquillamente assommarne in sé la funzione (nella più recente tradizione sapienziale, la Sapienza personificata si caratterizza sia come Logos sia come Spirito). Toccherà a Giovanni Battista, con la sua testimonianza a Gesù (1,32-33; 3,34), a insinuare una distinzione tra lo Spirito e Gesù. Ma solo quest’ultimo istruirà i discepoli in termini decisivi riguardo allo Spirito come «altro Paraclito» (14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11.12-15).

Importante comunque notare come Gv 1,1-18 condivida insieme all’inno di Fil 2,5-11 un cristocentrismo dal trasparente orientamento teo-logico. Entrambi gli inni obbediscono ala logica della rivelazione del Padre nel nome di Gesù. Iniziano infatti dal Figlio/logos collocato in originaria massimale comunione con Dio (Fil 2,6; Gv 1,1-2), e solo alla fine della loro vicenda – dopo la loro kenosi/saltazione (Fil) e incarnazione (Gv) -, menzionano (e quindi svelano) Dio come Padre di Gesù ) Fil 2,11; Gv 1,14-18), in stretta connessione al nome (Fil 2,9.10; Gv 1,12) di Gesù Cristo (Fil 2,5.9.10.11; Gv 1,17). Ambedue gli inni si ispirano al principio di una rivelazione divina non data per scontata, ma riattinta appunto attraverso la mediazione cristologica, quella storia di Gesù, che fornisce un nuovo volto della paternità di Dio.

La teologia della sapienza

Propriamente parlando, tuttavia, la nuova idea di Dio viene introdotta con una rinnovata concezione di logos, che ne propizia la trasformazione. Infatti, l’evidente ripresa di Gn 1,1 da parte di Gv 1,1 avviene tuttavia per la mediazione dei poemi sapienziali, la cui prospettiva di una sapienza primogenita di dio, mediatrice di ogni bene agli uomini, eppur sempre sua creatura, viene comunque ulteriormente trascesa.

Il Logos giovanneo, per i sopraindicati motivi, mentre assolve le funzioni mediatrici e salvifiche, assegnate tradizionalmente alla sapienza, alla parola e alla Torah, tuttavia ne supera la portata, in ragion della sua identità con Dio e della sua storicità riferita a Gesù Cristo (1,17) e alla sua esistenza nella carne entro cui il Logos diviene (1,14). Così, da una parte, in quanto in principio originariamente «verso Dio», rivolto a lui (1,1b.2; cf. 1,18; meglio del «presso Dio» della CEI) il Logos è presentato divino a ogni effetti («Era Dio»: v. 1c). E, dall’altra, in quanto riferito all’evento dell’incarnazione (1,14) – e addirittura, no a caso solo verso la fine, esplicitamente identificato nella persona stessa di Gesù Cristo (1,17) -, ecco del Logos l’ulteriore novità della sua estrema storicizzazione, più accentuata e radicalizzata rispetto a ogni già vivace manifestazione della Torah, sapienza e parola divine, che lancia il proprio appello non più solo dall’interno della vita sociale (Pr 8), ovvero attraverso il libro salomonico (Pr 1; 9), ovvero prendendo dimora nel più autorevole «libro della legge di Mosè», proclamato nella liturgia del tempio (Sir 24,23; bar 4,1).

Rispetto a tutte le esperienze salvifiche già note al popolo di Dio (Sap 10) la novità del Logos giovanneo offre una semplificazione massimale delle sue coordinate abituali, tanto rispetto a Dio, come pure rispetto alla storia, in quella che potremmo intendere appunto come «incarnazione e cristologizzazione del Logos» che fa coincidere nella persona di Gesù l’unità di due grandezze stimate incompatibile per loro intrinseca differenza, e cioè la potenza del Logos divino, creatore e salvatore, nella fragilità di un’esistenza creaturale, nella carne di Gesù di Nazareth (cf. Is 40,6-8).

Il titolo «Logos»

Si discute molto sul perché sia stato prescelto per Gesù questo titolo di Logos, (piuttosto che quelli di torah / nomos / legge ovvero di hokman / sophia / sapienza), e sul perché questo avvenga solo nel prologo giovanneo rispetto all’intero Vangelo (dove non compare più applicato a Gesù).

La spiegazione avanzata in forza del genere maschile di logos preferibile al femminile sophia, incompatibile con la mascolinità di Gesù, non sembra soddisfare (e certamente è invalida per il termine nomos che in greco, a differenza dell’ebraico, è rigorosamente maschile).

Risulta forse più pertinente il riferimento alla tradizione del pensiero greco, elaborata anzitutto dal filosofo efesino Eraclito (soprannominato «l’oscuro», vissuto cinquecento anni prima, a cavallo tra VI e V sec. a.C. ma assai vivo nella memoria della sua città, che gli aveva dedicato una statua). Secondo lui il Logos, indicato con la stessa denominazione assoluta di Giovanni, è quel principio eterno, a tutti «comune», coesivo e interno al mondo, così da farne un cosmo ordinato. Tutto accade quindi «secondo questo Logos», ancorché, paradossalmente, gli uomini sia che lo ascoltino, sia che non lo ascoltino, non ne hanno intelligenza ( fr. 1350372). Sul presupposto di Efeseo come ambiente designato dalla tradizione ecclesiastica per la redazione finale del Vangelo giovanneo, qualche contatto tra il logos eracliteo e quello giovanneo sarebbe rintracciabile nel comune riferimento all’eternità e universalità del logos, nonché al suo rifiuto da parte degli stessi uomini che pur viene a illuminare ( 1,1-5.9-11). In questo caso Giovanni interfaccerebbe il mondo greco interessato alla ragione, al principio e legame universale che congiunge assieme le cose (un pensiero tenuto vivo più recentemente anche dagli stoici), conferendo loro senso e comunicabilità, ma attribuendo al Logos il nuovo assetto della divinità, personalità e storicità cristologica.

Tuttavia, la preferenza di Gv 1,1-18 per Logos rispetto a sophia può spiegarsi semplicemente, considerando che la Sapienza, per quanto preesistente al resto della creazione, ne risulta pur sempre primizia, creatura primogenita di Dio, e quindi dalla parte della creazione stessa di cui ha bisogno; mentre non altrettanto potrà dirsi della parola divina, in quanto legata a una più diretta autocomunicazione divina ( di Dio si dice che ha creato la Sapienza, mai però che avrebbe creato la propria parola, espressione in certo qual modo più diretta di lui). Pur coincidendo largamente con la Sapienza (entrambi escono dalla bocca dell’Altissimo: Sir 24,3; Is 55,11), il Logos pronunciato da Dio intrattiene con Dio stesso un rapporto più originario, più agevolmente identificabile con lo stesso oggetto che la pronuncia. Rispetto a nomos (parola per Giovanni di sapore polemico) e a sophia, Logos dispone quindi di maggior flessibilità semantica verso la trascendenza divina.

Quanto al senso di logos come titolo cristologico riservato a Gv 1,1-18, esso si dimostra subordinato a Gesù in quanto Figlio/Figlio di Dio, che è il principale titolo cristologico giovanneo ( rispettivamente 17x e 9x nel Vangelo, e che nel prologo torna solo implicitamente per riferimento al monoghenes: 1,14.18).

In quanto «Vangelo del Figlio», Giovanni si serve solo inizialmente del Logos nella sua nuova determinazione cristologica non solo per meglio garantire la divinità e la trascendenza, ma anche l’universalità e la capacità di comunicazione vivificante onnipervasiva, cosmica e intrastorica, intrinseca a questo titolo.

La testimonianza di Giovanni Battista

Anche la mediazione testimoniale di Giovanni il battezzatore (1,6-8.15) è di speciale rilievo nel prologo giovanneo, tanto più che è l’unica voce di un personaggio, diversa dal narratore, udibile al v. 15 (e forse possiamo attribuirle tutti i restanti vv. 15-18). Di certo è la prima voce testimoniale ripresa dal prologo narrativo in prosa, in triplice progressione drammatica, con interlocutori rispettivamente

- le autorità di Gerusalemme (1,19-28),
- Israele (1,29-34),
- I primi due discepoli (1,35ss).

Non la sua stessa presenza di precursore conta, di per sé tradizionale per gli inizi del Vangelo e della storia di Gesù, quanto piuttosto la sua nuova qualifica di testimone (1,6-8). Così egli ne esce al tempo stesso più esaltato e anche più relativizzato rispetto a quanto non avvenga nei Sinottici ( non lui la luce, ma solo suo testimone: 1,8; cf. 3,27-30).

Per spiegarne la maggiorazione simultanea al ridimensionamento, non si sbaglierà a pensare che attraverso la figura di Giovanni (20x ca. in tutto) il quarto Vangelo comunichi con la comunità dei battisti. Pur a distanza cronologica notevole della sua morte (29 a.C. ca.), la sua figura risulta ancora imponente nei contesti giudaico-cristiani, e, così sembra, anche in Asia Minore.

Il confronto con Mosè

Dopo Giovanni, Mosè è l’altro personaggio storico-salvifico rilevante nel prologo (1,14-18 ripreso in 1,45; 3,14…, fino a 12x in tutto il Vangelo), evocato non solo in quanto mediatore sinatico della legge, ma anche perché nel giudaismo dell’epoca stimato aver goduto di un’autentica visione diretta, faccia a faccia di Dio (similmente a Isaia ed Ezechiele, nonché all’intera generazione del Sinai)

Sebbene i testi biblici siano al riguardo notoriamente piuttosto restrittivi, proprio nei confronti di Mosè («Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo», gli dice il signore in Es 33,20), una corrente giudaica del tempo, mossa da interessi al tempo stesso mistici e legislativi, era invece piuttosto generosa nell’attribuirgli assai di più di quanto non faccia la tradizione scritturistica. Si spiegano così certe insistenze di Giovanni: «Nessuno ha mai visto Dio» (1,18a); «Non che alcuno abbia visto il Padre…» (6,64a), sciolte solo a favore di Gesù «Un Dio unico generato – proteso al cuore del Padre – lui ha saputo narrarne!» (1,18b); «Ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,46b).

Si anticipa qui il drammatico confronto con il mondo giudaico, probabilmente quello risultante dal sinodo rabbinico di Jamnia (90 d.C. ca.), caratterizzato non più dal pluralismo di correnti e partiti del tempo di Gesù, bensì dall’uniformità e prevalenza farisaica, con cui la comunità giovannea si scontra, patendo la confessione di fede cristologica con la sanzione di espulsione dalla sinagoga (9,22; 12,42; 16,2), episodio cruciale per lo scollamento del cristianesimo dal suo primitivo alveo giudaico.

La drammaticità dello scontro diventa un conflitto ermeneutica intorno alla tradizione veterotestamentaria, che Giovanni – lungi dal ripudiare – rilegge appunto in senso eminentemente cristologico, in contrasto con la legge, polemicamente e ripetutamente dichiarata da Gesù come «vostra legge» (10,34-35 ecc.).

Le reazioni dei destinatari

Ma c’è un momento cruciale in cui il prologo giovanneo riesce a far coincidere strettamente la comunicazione col lettore con la corretta ermeneutica della storia di Gesù, quando – questa volta in chiave antropologica – presenta le reazioni dei destinatari della venuta del Logos luce trai suoi:

E la luce brilla nelle tenebre , imprendibile alle tenebre... Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire nel mondo. Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero. Ma a quanti l’accolgono, dona potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome…(1,5.9-12).

Col contrasto luce / tenebre, nonché che l’alternativa tra accogliere – credere / non accogliere – non riconoscere (un linguaggio davvero giovanneo nei verbi come l’antitesi), il prologo anticipa sinteticamente quell’opzione (non alla pari) tra fede e incredulità che lungo il Vangelo scandirà tutti gli episodi di Giovanni, regolarmente conclusi con la menzione di fede o incredulità in Gesù mandato dal Padre da parte dei diversi personaggi, che il programma narrativo giovanneo, mirante a confermare e far crescere i credenti (19,35; 20,31), mette a confronto diretto con il lettore.

Un ottimo preludio

A ogni pagina il racconto obbedisce alla logica sua propria di «tutto nel frammento», e a questa logica è già improntato il prologo poetico di 1,1-18.

Rispetto al Vangelo non offre quell’ auspicata perfetta sintesi contenutistica che si amerebbe attribuirgli, ma ne costituisce un ottimo preludio che anticipatamente (e anche un po’ enigmaticamente), «dice quasi tutto» della storia successiva, riservando tuttavia allo sviluppo del Vangelo la sorprendente scoperta di un Gesù datore dello Spirito come un altro paraclito, l’icona pregnante e sintetica del libro giovanneo, oggetto precipuo della sua testimonianza (1,32-33; 19,30-37; 20,22-23).

Una volta ascoltata per intero, converrà sempre tornare al preludio iniziale, per riapprezzare la radice trascendente della storia singolare di Gesù.


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Sabato, 29 Dicembre 2007 23:48

Il logos e il logos giovanneo (Roberto Vignolo)

Il logos e il logos giovanneo

di Roberto Vignolo


Logos in greco è termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse («discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg- richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo.

Per capire l’uso di logos nel Nuovo Testamento, scritto in greco (dove compare 330x), in realtà si deve tener presente lo sfondo dell’Antico Testamento. Qui troviamo per lo più il dabar ebraico (1440x), col senso di «parola», «evento», «episodio», «affare»), senza nulla togliere alla sua qualità noetica, per cui tanto energia quanto intelligibilità caratterizzano la teologia della parola profetica («Parola del Signore»: 230x circa). Così questa locuzione designa la rivelazione divina attraverso la Torah, capace di vivificare (Dt 32,46-47) e di illuminare gli uomini (Sal 19,8; 119,105). Oppure è la parola creatrice (Sal 33,6; Sap 9,1). Una notevole personificazione precorritrice di quella giovannea offre Is 55,11 (la Parola del Signore esce dalla sua bocca, scende efficace come la pioggia e la neve, compie il suo mandato, e poi ritorna a lui; analogamente, Sal 147,15.18; Sap 18,5). A sua volta la Sapienza è assimilata alla Parola ( Sir 24,3; Sap 9,1-2).

«La parola»diventa nel primo cristianesimo il contrassegno sintetico del vangelo predicato da Gesù e dagli apostoli (Mc 4,14-15;At 8,4). Solo 4x nei Vangeli si usa «la parola di Dio» per la predicazione di Gesù, mentre la formula è molto frequente per il vangelo apostolico, volentieri specificata («parola di Dio»: At 4,29.31;6,2.7; «del Signore»: At 8,25; 13,44.49; «della salvezza»:At 13,26). In contrasto con «parola di uomini» (1Ts 2,5.13), con «parola di Dio», Paolo indica la sua predicazione kerygmatica.

Giovanni dà molto peso alla parola che Gesù pronuncia (2,22; 4,50; 12,48), caratterizzandola col possessivo cristologico («mia»: 5,24; 8,31.37), o teologico, di parola ricevuta dal Padre (14,24; «la tua parola»: 17,6.14.17).

Quella di Gesù è parola che si compie, alla stregua della promessa divina (18,9.32). Tutto questo tema del logos è egemonizzato dalla figura cristologica: alla/e parola/e di Gesù i discepoli hanno da prestare fede (4,41), ascoltandola (5,24), accogliendola (12,48), così che tra loro e Gesù si instauri un’ immanenza reciproca (15,4ss.). È riconoscibile una tendenziale identificazione tra Gesù e la sua parola (del resto già in Mc 8,38 e par.).

Ancorché non al livello di Gv 1,1-18, altri due testi della tradizione giovannea danno un senso già altamente personificato in chiave cristologica:

- in Ap 19,11-16 il guerriero e giudice in groppa ad un cavallo bianco, porta come nome, oltre a quello di «Fedele» e «Verace» (v. 11), anche di «Logos di Dio» (v. 13), nonchè di «Re dei re e Signore dei signori»(v. 16);

- In 1Gv 1,1 logos viene connesso alla formula «dal principio» e al concetto di vita, indicando l’oggetto dell’annuncio apostolico.

(da Parole di Vita, 6)

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Mercoledì, 19 Dicembre 2007 00:07

Lezione Quindicesima. La Chiesa sacramento di salvezza

Lezione Quindicesima

LA CHIESA SACRAMENTO DI SALVEZZA

 




Introduzione

La storia della salvezza realizzata nella persona di Gesù di Nazareth, raggiunge il suo culmine e la sua definitività, ma non si conclude con lui. La sua opera di salvezza, espressa pienamente nel mistero pasquale della sua passione-morte-risurrezione, è destinata a continuare finché dura la storia dell'umanità. Venuto tra gli uomini per salvarli («per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo…»), Cristo li ha associati in modo indissolubile a sé e li destina ad essere il tramite della salvezza per coloro che ancora non credono in lui. La Chiesa, in quanto comunità dei credenti in Cristo, è intimamente legata al Signore Gesù e ne è, in qualche modo, la continuazione della sua presenza salvifica nel mondo.

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Giovedì, 06 Dicembre 2007 23:22

Nuove ipotesi su Qumran (Estelle Villeneuve)

Nuove ipotesi su Qumran

di Estelle Villeneuve *

Le rovine di Qumran sono conosciute in tutto il mondo come il “monastero” della setta ebraica essena. Tuttavia, da una quindicina d’anni, i progressi della ricerca – archeologica e testuale – spingono a riconsiderare le vestige e a sfumare, se non a contraddire, il modello stabilito.

Luogo stupefacente quello di Khirbet Qumran, sulla riva occidentale del Mar Morto, ai piedi dei monti scoscesi della Giudea. Visitate varie volte fin dalla metà del secolo XIX, senza attirare l’attenzione, queste rovine insignificanti avrebbero poi acquistato notorietà se, un bel giorno del 1947, sette rotoli di pelle eccezionali non fossero stati trovati in una cavità naturale della roccia, poche centinaia di metri più in là? Sotto il fuoco dei proiettori dapprima puntati sulle grotte e il loro tesoro di manoscritti, i ruderi di Khirbet Qumran hanno preso un’importanza formidabile. Infatti i testi facevano eco al modo di vita e alle credenze degli Esseni, descritti dagli autori antichi. Per questo gli archeologi si interessarono di nuovo alle rovine, sperando di trovarvi le tracce della setta scomparsa

In questa prospettiva furono portate avanti sei campagne di scavi, fra il 1951 e il 1958, sotto la guida del padre domenicano Roland de Vaux, archeologo e biblista famoso della Scuola biblica di Gerusalemme. Assistito da giovani ricercatori, con una cinquantina di operai arabi, liberò completamente gli edifici di Khirbet Qumran e una cinquantina di tombe del cimitero a fianco; una campagna fu consacrata anche alla dipendenza di ‘Ain Feshka, un‘oasi a due chilometri sulla riva del Mar Morto. Dovendo fronteggiare l’urgenza di un salvataggio, in un clima politico in crisi, il gruppo lavorava da pioniere dell’archeologia classica regionale, con i metodi di scavo che prevalevano in quel momento.

Lo scenario essenico del padre de Vaux

Fin dalla prima campagna, l’ipotesi del nesso fra le rovine e le grotte parve confermato dalla presenza qui e là di uno stesso modello di giare cilindriche con coperchio. Fino alla fine dello scavo il padre de Vaux confrontò continuamente le sue osservazioni con l’ipotesi di un insediamento essenico, ritenendo che nulla, nella disposizione dei luoghi e negli arredi ritrovati venisse a contraddirla formalmente. Nello scenario dell'occupazione dei luoghi che egli ricostruì, le tre dominanti del paesaggio circostante – grotte, rovine, cimitero – si trovavano riunite come il teatro coerente di un dramma essenico in tre atti.

La fase I aveva visto l’istallazione del gruppo dopo la rottura con il giudaismo ufficiale verso la metà del II secolo prima della nostra era.

Dopo un breve abbandono in seguito a un terremoto nel 31 a.C., la comunità avrebbe rioccupato i luoghi verso l'anno 4 o 1: è la fase II, interrotta brutalmente quando i Romani devastarono la regione nel 68 per dominare la prima rivolta giudaica. Infine, nella fase III, una guarnigione romana si sarebbe accampata per poco tempo nei ruderi fino alla caduta di Masada nel 73.

Questa ricostruzione della storia di Qumran, esposta in vari articoli apparsi fra il 1956 e il 1963, si è imposta rapidamente nella comunità scientifica e nel grande pubblico. Per più di trent’anni è stata accettata all’unanimità.

Le nuove ipotesi degli anni ‘90

A poco a poco la pubblicazione dell’insieme dei documenti estratti dalle undici grotte rivelò una maggiore diversità di tendenze giudaiche, minimizzando il contributo essenico che era stato ipotizzato in un primo momento. Questa nuova valutazione portò con sé una nuova ricerca sulle vestigia. Se i testi infatti non erano più necessariamente esseni, i ruderi lo erano ancora? La domanda pareva tanto più pertinente in quanto i progressi dell’archeologia regionale offrivano ormai al sito un contesto geoculturale più vasto. I luoghi oggetto di scavi in Giudea (Gerusalemme, Gerico, Masada, Erodione) o sulla riva oltre il Giordano (Calliroè, Macheronte) avevano infatti apportato nuovi contributi alla storia dell’architettura e alla datazione delle ceramiche. Qumran sorpassava il quadro strettamente essenico che gli era stato attribuito. Il consenso alla tesi del padre de Vaux non poteva più reggere. Fin dal 1994 alcuni archeologi, ipotizzando una provenienza non qumranica dei manoscritti, vollero dissociare la coppia sito/grotte e sottrarsi alla lettura imposta dai testi. Furono avanzate interpretazioni alternative, per la maggior parte profane, modificando il punto di vista originale. La storia militare della regione suscitò l’idea di un fortino di resistenti contro Roma, con il suo bastione e a fianco il cimitero dei suoi prodi. Mettendo l’accento sulle risorse agricole della regione, altri scoprirono una villa rustica che viveva della coltivazione del balsamo per estrarne l’essenza. Altri vi videro un centro commerciale o, più recentemente, una fabbrica industriale di ceramiche con i suoi bacini di decantazione dell’argilla.

La via del compromesso Ma si può rivedere l’interpretazione del padre de Vaux alla luce dei dati nuovi, senza per questo escludere completamente l’Esseno? Jean-Baptiste Humbert, archeologo alla Scuola biblica e incaricato della pubblicazione finale degli scavi, difende questa terza via. Egli rafferma che Khirbet Qumran e i suoi abitanti furono certamente implicati nel deposito dei rotoli nelle grotte, quale che sia la provenienza dei manoscritti. Infatti le giare così particolari che li proteggevano non hanno equivalenti fuori del sito dove si trovano in gran quantità. D’altra parte la maggior parte dei manoscritti si trovavano in grotte artificiali scavate negli strapiombi marnosi proprio ai piedi dell'insediamento.

Quanto alla fase iniziale dell’occupazione del luogo, l’esame dell’architettura lascia intravedere nella pianta dell’edificio principale, con il suo cortile centrale e i resti sparsi di una decorazione monumentale, un edificio ristrutturato caratteristico delle case nobiliari dell’Oriente ellenizzato. Contrariamente dunque allo scenario del P. de Vaux, l’occupazione è stata dapprima aristocratica e profana e, secondo le monete, non potrebbe risalire a prima del regno dell’asmoneo Alessandro Gianneo, fra il 104 e il 75 a.C.

L’insediamento non ha cambiato natura che nella seconda metà del I secolo prima della nostra era. In mancanza di iscrizioni che designino per nome gli abitanti del sito, l’archeologia non può affermare che essi fossero esattamente degli Esseni. In cambio può discernere gesti e usanze che competono all’antropologia religiosa. Vari indizi infatti vanno nel senso della pratica rituale ebraica: l’asse del recinto nord che è spostato rispetto al resto degli edifici, ma orientato verso Gerusalemme, dà la direzione del tempio dal quale sono separati, verso il quale dirigere le preghiere. Un lungo muro collega Qumran all’oasi di Ain Feshka; non può essere né recinto, né fortificazione, ma potrebbe essere un eruv, cioè la clausura simbolica che delimita lo spazio di circolazione consentito nel giorno di sabato. Ossa di animali seppellite in vasellami sotto il pavimento del recinto nord e accanto al “refettorio” sono senza dubbio i resti di pasti rituali, eventualmente consumati nell’ambito di un pellegrinaggio pasquale degli ebrei d’oltre Giordano. I vasellami del “refettorio” non potevano servire ai pasti perché il locale in cui erano stati sistemati era stato murato; bisognerà piuttosto vedervi dei vasi sacri che siano andati in disuso oppure messi al riparo da una profanazione? Tutti questi elementi precisano il carattere giudaico, assai pio, dell’occupazione del luogo nella fase che precedette la distruzione del 68.

In definitiva, Qumran fu, sì o no, essena? Certamente sì, se si ascoltano le testimonianze degli autori antichi che localizzavano le comunità essene in questo settore occidentale del Mar Morto. Ma se la storia consente di considerare il sito come esseno, l’archeologia non autorizza più a vederlo come il centro chiuso di una comunità che vivesse reclusa alla maniera dei monasteri medioevali. Questa prospettiva non contraddice le testimonianze degli autori antichi, ma priva gli esegeti di una cornice forse prefabbricata in cui l’Esseno, stereotipato, sembrava muoversi a suo agio.

* Archeologa, ricercatrice a l’UMR «Archéologie et Sciences de l’Antiquité»

(da Le monde des religions 22, pp. 32-24)
Pubblicato in Bibbia

Nei due Libri dei Re si raccontano le vicende storiche dei due regni: quello del Nord Israele, con la capitale Samaria, e quello del Sud, regno di Giuda, con la capitale Gerusalemme.

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