«Il logos in principio»
Il prologo giovanneo (Gv. 1,1-18)
di Roberto Vignolo
A che serve un prologo?
Istituita non per la manipolazione del consenso, bensì per inventare parole benefiche, capaci d’incrementare la qualità dell’esistenza, la retorica antiva sosteneva che il prologo di un discorso serviva all’autore per un triplice scopo, e cioè rendere il proprio uditore/lettore benevolo, attento e docile all’esposizione successiva.
Dove però si trattasse non di un discorso, bensì di un racconto storiografico, erano sufficienti sue sole funzioni: bastava consegnare al lettore solo quanto corrispondeva al suo interesse e alla sua istruzione, tralasciando la captatio benevolentiae. Se infatti lo storico saprà parlare «di cose grandi, necessarie, familiari, utili», sicuramente gli si presterà attenzione.
All’autore poi la scelta tra due possibilità, e cioè tra un prologo reale, esplicito, diffusamente elaborato, e invece uno solo virtuale, implicito, abbozzato nelle prime righe del racconto, addirittura nascosto nelle sue pieghe, ridotto al minimo indispensabile per agganciare il lettore. In fondo, ricorda E. Canetti, restano due sole alternative: rimarcare il prologo, perfino esasperarlo rispetto al corpo successivo; oppure ridurlo a poche battute, rapidamente incorporate all’ulteriore sviluppo narrativo.
Questi chiari propositi non possono tuttavia far dimenticare il brivido intrinseco a qualunque prologo, l’emozione davanti alla pagina ancora tutta bianca, al silenzio da dove emerge qualunque avvio di discorso, nella consapevolezza del rischio intrinseco a ogni nostra presa di parola. Infrangere questo silenzio è un impegno energico, che pone il dilemma di come e con che cosa partire, nonché quello d’individuare il nostro interlocutore, a chi parliamo. Per ragionate che siano, le nostre scelte sapranno sempre di agrodolce, perché libere quanto condizionanti. Possiamo infatti iniziare un racconto come meglio crediamo, ma da quella partenza resteremo necessitati, e dovremo proseguire vincolati a direzione e modalità del primo passo.
Il prologo di GiovanniQuale comunicazione e quale interpretazione della storia di Gesù ci veicola dunque il prologo giovanneo? Proviamo a enucleare alcuni riferimenti di una materia complessa.
Il prologo giovanneo (1,18, che converrà specificare come prologo poetico) ha il merito di restituirci come non mai il brivido della presa di parola, unendolo a quello ben più intenso della somma «meraviglia dell’inizio». Riascoltandolo in una traduzione con qualche differenza rispetto a quella ufficiale:
In principio era il Logos, e il Logos era rivolto a Dio, e il Logos era Dio.
Era lui un principio rivolto a Dio.
Ogni evento in lui era vita, la luce per gli uomini era quella vita!
E la luce brilla nelle tenebre, imprendibile alle tenebre.
Venne un uomo, mandato da Dio, che ha nome Giovanni.
Lui venne a testimoniare, per dar testimonianza alla luce, perché tutti credessero mediante lui.
Però non era lui la luce, ma per dar testimonianza alla luce.
Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire al mondo.
Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero.
Ma a quanti l’accolsero, diede potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome,
- lui non da sangue, né da voglia di carne, né da voglia di uomo, ma da Dio generato!
Così il Logos si fece carne, e prese dimora tra noi, e noi contemplammo la sua gloria, -
gloria di unico generato dal Padre, pieno di grazia e verità.
Di lui, Giovanni attesta e proclama:
«Ecco, di lui ho detto:
Viene dietro di me, ma sta davanti a me, primo era infatti su di me!
Sì, dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia sopra grazia!
La legge infatti fu data a Mosè.
la grazia e la verità vennero con Gesù Cristo.
Vedere Dio – nessuno ha mai potuto.
Un unico Dio generato – proteso al seno de Padre –
lui ha potuto narrarne!»
«In principio»
Davvero insuperabile quest’avvio, che muove dall’ in principio stesso, sicché oltre a questo momento originante da lui additato diventerà davvero impossibile andare, visto che esso addirittura viene ricondotto ancor prima della stessa creazione (Gn 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra»), e perfino alla stessa Sapienza, figlia primogenita di Dio, testimone e mediatrice d’ogni azione divina vivificante, creatrice e salvifica (Pr 8-9; Gb 28; Sir 24; Bar 3-4; Sap 6-10).
L’in principio scandito dal quarto Vangelo non è infatti identico a quello che in Gn 1,1ss. vediamo sospeso allo Spirito di Dio volteggiante sopra le acque del tenebroso caos primordiale (Gn 1,2), per dieci volte scandito dall’imperativo creatore (Gn 1,3ss.) che ordina un cosmo secondo le capitali distinzioni di luce e tenebre, acque e asciutto, luminari maggiori e minori, cosicché – una volta che ne siano poste le condizioni di sussistenza (spazio, tempo, riproducibilità) – fiorisca ogni forma e specie di vita vegetale, animale, umana. Infatti, piuttosto che impegnarsi subito ad extra, cioè nel rapporto creatore Dio/mondo, di per sé già inaccessibile a qualunque mortale, Gv 1,1-18 spicca un più audace balzo all’indietro, guardando ad intra, nientemeno che al mistero di Dio pulsante in se stesso, pur sempre invisibile e rigorosamente uno, cui siamo iniziati attraverso il suo Logos, Il Figlio unico generato (1,1-2.18).
Ecco allora individuato l’ in principio nel logos divino, o meglio nel suo legame eterno e vitale a Dio, e tutt’uno con lui, unico e primo destinatario e mediatore di tutto, della vita e della luce per gli uomini (1,3-5.9-11), e in quanto Logos fatto carne (1,14) identificato con l’uomo Gesù Cristo (1,17).
Della storia nel tempo, avente come soggetto «quell’uomo chiamato Gesù» (9,11) l’intero Vangelo racconta attraverso molteplici voci attestanti, prima fra tutte quella di Giovanni battista (1,19ss.), già udita nel prologo (1,5ss.), ultime quelle del discepolo amato, autore del libro, e della sua comunità che ce lo trasmette (21,24; cf. 19,35). Il prologo giovanneo ci parla di Gesù, che però nella sua specifica identità tuttavia resterebbe perfettamente incomprensibile senza diretto riferimento a Dio, nonché al beneficio di vita e di luce apportato ai credenti che l’accolgono. L’uno e l’altro rimandano simultaneamente alla storia di Gesù, mandato dal Padre per dare vita al mondo.
Gesù è il Logos divinoDa subito Giovanni intende confessare:
- Gesù Logos divino e Dio da principio (1,1-2.18),- Logos incarnato (1,14)- Figlio unico generato (1,18) identificato in Gesù Cristo (1,17).
Tutti i commentari sottolineano la grande inclusione tra 1,1-2 (il Logos era Dio) con la confessione di Tommaso davanti al risorto: «mio Signore e mio Dio!» (20,28). Questo collegamento tra 1,1 ( in bocca al narratore) e la confessione di fede di un personaggio all’altro capo del racconto è una forma di comunicazione già efficacemente inaugurata da Marco, con le sue non meno note inclusioni tra 1,1 («Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio»), e la confessione di Pietro a cesarea («Tu sei il Cristo»: Mc 8,29, che conclude la prima parte del Vangelo), e quella del centurione sotto la croce («Veramente quest’uomo era figlio di Dio»: Mc 15,36, a conclusione della seconda). Il prologo veicola immediatamente l’ermeneutica più alta possibile della figura cristologica.
Nel prologo come pure nel Vangelo Giovanni media in proposito tradizione e novità. Per un verso, ricorre infatti a titoli tradizionali (per esempio, Cristo, e Figlio/Figlio di Dio, comunque rinforzati con contenuto e formule più pregnanti); e d’altra parte ne introduce di nuovi, quali l’inedito titolo Logos (1,1-2.14), nonché quello di luce (11,4-5.8-9), e di monoghenes («unigenito», cf. 3,14.16), che non è un semplice sinonimo di agapetos («amato», Mc 1,11 e par.), bensì molto letteralmente «figlio unico generato», con esplicito richiamo al campo semantico della vita filiale ricevuta dal Padre a titolo personale e unico, quella stessa che quindi il Logos-Figlio è abilitato a trasmettere come mediatore salvifico.
Restando nel solco della tradizione d’Israele, consideriamo come il Logos evochi due temi intimamente connessi nel monoteismo giudaico: la confessione dell’unico Dio creatore e salvatore, e la teologia della sapienza.
La confessione dell’unico Dio, creatore e salvatoreIl riferimento al Dio creatore e salvatore spicca fin dai primi cinque versetti (1,1-5; cf. Gn 1,1.3-5). Che si tratti del Dio d’Israele lo si intende senz’ombra di equivoci per l’ulteriore riferimento a Giovanni Battista, nonché alla Torah data tramite Mosè (1,14.17).
Ma nell’idea tradizionale di questo Dio vivificante, come creatore e salvatore, viene introdotta quella nuova, in ultima analisi davvero inaudita (soprattutto per un orecchio greco, ma, pur in misura minore, anche ebraico) di un Dio in se stesso dialogico, con il proprio eterno Logos, di un unico Dio al tempo stesso Padre generante e Figlio generato.
Che Dio sia il vivente e vivificante, creatore e salvatore in forza della sua Torah, sapienza e parola, Israel l’ha sempre saputo. Ma, come inizialmente accennato, che Dio en archè, «prima» di tutto e tutti, generi e abbia un Logos davanti a sé in cui riversare completamente se stesso con questo suo attributo di vivente/vivificante, ecco (insieme a 1,14) la novità squisitamente cristiana di un monoteismo non monastico, bensì dialogico.
Così Giovanni nel prologo comunica con i suoi destinatari (originari e impliciti) tramite un’idea di Dio tradizionalmente giudaica, ma re-interpretandola in una chiave che rimane momentaneamente binaria (limitata a Dio Padre e il Logos Figlio incarnato, Dio unico generato), e solo in seguito si dispiegherà come esplicitamente trinitaria. Sintomatico infatti il silenzio del prologo sullo Spirito, per cui, stando a Gv 1,1-18, non potremmo ancora essere certi di poter distinguere tra Gesù e lo Spirito, dal momento che Gesù Logos potrebbe tranquillamente assommarne in sé la funzione (nella più recente tradizione sapienziale, la Sapienza personificata si caratterizza sia come Logos sia come Spirito). Toccherà a Giovanni Battista, con la sua testimonianza a Gesù (1,32-33; 3,34), a insinuare una distinzione tra lo Spirito e Gesù. Ma solo quest’ultimo istruirà i discepoli in termini decisivi riguardo allo Spirito come «altro Paraclito» (14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11.12-15).
Importante comunque notare come Gv 1,1-18 condivida insieme all’inno di Fil 2,5-11 un cristocentrismo dal trasparente orientamento teo-logico. Entrambi gli inni obbediscono ala logica della rivelazione del Padre nel nome di Gesù. Iniziano infatti dal Figlio/logos collocato in originaria massimale comunione con Dio (Fil 2,6; Gv 1,1-2), e solo alla fine della loro vicenda – dopo la loro kenosi/saltazione (Fil) e incarnazione (Gv) -, menzionano (e quindi svelano) Dio come Padre di Gesù ) Fil 2,11; Gv 1,14-18), in stretta connessione al nome (Fil 2,9.10; Gv 1,12) di Gesù Cristo (Fil 2,5.9.10.11; Gv 1,17). Ambedue gli inni si ispirano al principio di una rivelazione divina non data per scontata, ma riattinta appunto attraverso la mediazione cristologica, quella storia di Gesù, che fornisce un nuovo volto della paternità di Dio.
La teologia della sapienzaPropriamente parlando, tuttavia, la nuova idea di Dio viene introdotta con una rinnovata concezione di logos, che ne propizia la trasformazione. Infatti, l’evidente ripresa di Gn 1,1 da parte di Gv 1,1 avviene tuttavia per la mediazione dei poemi sapienziali, la cui prospettiva di una sapienza primogenita di dio, mediatrice di ogni bene agli uomini, eppur sempre sua creatura, viene comunque ulteriormente trascesa.
Il Logos giovanneo, per i sopraindicati motivi, mentre assolve le funzioni mediatrici e salvifiche, assegnate tradizionalmente alla sapienza, alla parola e alla Torah, tuttavia ne supera la portata, in ragion della sua identità con Dio e della sua storicità riferita a Gesù Cristo (1,17) e alla sua esistenza nella carne entro cui il Logos diviene (1,14). Così, da una parte, in quanto in principio originariamente «verso Dio», rivolto a lui (1,1b.2; cf. 1,18; meglio del «presso Dio» della CEI) il Logos è presentato divino a ogni effetti («Era Dio»: v. 1c). E, dall’altra, in quanto riferito all’evento dell’incarnazione (1,14) – e addirittura, no a caso solo verso la fine, esplicitamente identificato nella persona stessa di Gesù Cristo (1,17) -, ecco del Logos l’ulteriore novità della sua estrema storicizzazione, più accentuata e radicalizzata rispetto a ogni già vivace manifestazione della Torah, sapienza e parola divine, che lancia il proprio appello non più solo dall’interno della vita sociale (Pr 8), ovvero attraverso il libro salomonico (Pr 1; 9), ovvero prendendo dimora nel più autorevole «libro della legge di Mosè», proclamato nella liturgia del tempio (Sir 24,23; bar 4,1).
Rispetto a tutte le esperienze salvifiche già note al popolo di Dio (Sap 10) la novità del Logos giovanneo offre una semplificazione massimale delle sue coordinate abituali, tanto rispetto a Dio, come pure rispetto alla storia, in quella che potremmo intendere appunto come «incarnazione e cristologizzazione del Logos» che fa coincidere nella persona di Gesù l’unità di due grandezze stimate incompatibile per loro intrinseca differenza, e cioè la potenza del Logos divino, creatore e salvatore, nella fragilità di un’esistenza creaturale, nella carne di Gesù di Nazareth (cf. Is 40,6-8).
Il titolo «Logos»
Si discute molto sul perché sia stato prescelto per Gesù questo titolo di Logos, (piuttosto che quelli di torah / nomos / legge ovvero di hokman / sophia / sapienza), e sul perché questo avvenga solo nel prologo giovanneo rispetto all’intero Vangelo (dove non compare più applicato a Gesù).
La spiegazione avanzata in forza del genere maschile di logos preferibile al femminile sophia, incompatibile con la mascolinità di Gesù, non sembra soddisfare (e certamente è invalida per il termine nomos che in greco, a differenza dell’ebraico, è rigorosamente maschile).
Risulta forse più pertinente il riferimento alla tradizione del pensiero greco, elaborata anzitutto dal filosofo efesino Eraclito (soprannominato «l’oscuro», vissuto cinquecento anni prima, a cavallo tra VI e V sec. a.C. ma assai vivo nella memoria della sua città, che gli aveva dedicato una statua). Secondo lui il Logos, indicato con la stessa denominazione assoluta di Giovanni, è quel principio eterno, a tutti «comune», coesivo e interno al mondo, così da farne un cosmo ordinato. Tutto accade quindi «secondo questo Logos», ancorché, paradossalmente, gli uomini sia che lo ascoltino, sia che non lo ascoltino, non ne hanno intelligenza ( fr. 1350372). Sul presupposto di Efeseo come ambiente designato dalla tradizione ecclesiastica per la redazione finale del Vangelo giovanneo, qualche contatto tra il logos eracliteo e quello giovanneo sarebbe rintracciabile nel comune riferimento all’eternità e universalità del logos, nonché al suo rifiuto da parte degli stessi uomini che pur viene a illuminare ( 1,1-5.9-11). In questo caso Giovanni interfaccerebbe il mondo greco interessato alla ragione, al principio e legame universale che congiunge assieme le cose (un pensiero tenuto vivo più recentemente anche dagli stoici), conferendo loro senso e comunicabilità, ma attribuendo al Logos il nuovo assetto della divinità, personalità e storicità cristologica.
Tuttavia, la preferenza di Gv 1,1-18 per Logos rispetto a sophia può spiegarsi semplicemente, considerando che la Sapienza, per quanto preesistente al resto della creazione, ne risulta pur sempre primizia, creatura primogenita di Dio, e quindi dalla parte della creazione stessa di cui ha bisogno; mentre non altrettanto potrà dirsi della parola divina, in quanto legata a una più diretta autocomunicazione divina ( di Dio si dice che ha creato la Sapienza, mai però che avrebbe creato la propria parola, espressione in certo qual modo più diretta di lui). Pur coincidendo largamente con la Sapienza (entrambi escono dalla bocca dell’Altissimo: Sir 24,3; Is 55,11), il Logos pronunciato da Dio intrattiene con Dio stesso un rapporto più originario, più agevolmente identificabile con lo stesso oggetto che la pronuncia. Rispetto a nomos (parola per Giovanni di sapore polemico) e a sophia, Logos dispone quindi di maggior flessibilità semantica verso la trascendenza divina.
Quanto al senso di logos come titolo cristologico riservato a Gv 1,1-18, esso si dimostra subordinato a Gesù in quanto Figlio/Figlio di Dio, che è il principale titolo cristologico giovanneo ( rispettivamente 17x e 9x nel Vangelo, e che nel prologo torna solo implicitamente per riferimento al monoghenes: 1,14.18).
In quanto «Vangelo del Figlio», Giovanni si serve solo inizialmente del Logos nella sua nuova determinazione cristologica non solo per meglio garantire la divinità e la trascendenza, ma anche l’universalità e la capacità di comunicazione vivificante onnipervasiva, cosmica e intrastorica, intrinseca a questo titolo.
La testimonianza di Giovanni Battista
Anche la mediazione testimoniale di Giovanni il battezzatore (1,6-8.15) è di speciale rilievo nel prologo giovanneo, tanto più che è l’unica voce di un personaggio, diversa dal narratore, udibile al v. 15 (e forse possiamo attribuirle tutti i restanti vv. 15-18). Di certo è la prima voce testimoniale ripresa dal prologo narrativo in prosa, in triplice progressione drammatica, con interlocutori rispettivamente
- le autorità di Gerusalemme (1,19-28),
- Israele (1,29-34),
- I primi due discepoli (1,35ss).
Non la sua stessa presenza di precursore conta, di per sé tradizionale per gli inizi del Vangelo e della storia di Gesù, quanto piuttosto la sua nuova qualifica di testimone (1,6-8). Così egli ne esce al tempo stesso più esaltato e anche più relativizzato rispetto a quanto non avvenga nei Sinottici ( non lui la luce, ma solo suo testimone: 1,8; cf. 3,27-30).
Per spiegarne la maggiorazione simultanea al ridimensionamento, non si sbaglierà a pensare che attraverso la figura di Giovanni (20x ca. in tutto) il quarto Vangelo comunichi con la comunità dei battisti. Pur a distanza cronologica notevole della sua morte (29 a.C. ca.), la sua figura risulta ancora imponente nei contesti giudaico-cristiani, e, così sembra, anche in Asia Minore.
Il confronto con Mosè
Dopo Giovanni, Mosè è l’altro personaggio storico-salvifico rilevante nel prologo (1,14-18 ripreso in 1,45; 3,14…, fino a 12x in tutto il Vangelo), evocato non solo in quanto mediatore sinatico della legge, ma anche perché nel giudaismo dell’epoca stimato aver goduto di un’autentica visione diretta, faccia a faccia di Dio (similmente a Isaia ed Ezechiele, nonché all’intera generazione del Sinai)
Sebbene i testi biblici siano al riguardo notoriamente piuttosto restrittivi, proprio nei confronti di Mosè («Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo», gli dice il signore in Es 33,20), una corrente giudaica del tempo, mossa da interessi al tempo stesso mistici e legislativi, era invece piuttosto generosa nell’attribuirgli assai di più di quanto non faccia la tradizione scritturistica. Si spiegano così certe insistenze di Giovanni: «Nessuno ha mai visto Dio» (1,18a); «Non che alcuno abbia visto il Padre…» (6,64a), sciolte solo a favore di Gesù «Un Dio unico generato – proteso al cuore del Padre – lui ha saputo narrarne!» (1,18b); «Ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,46b).
Si anticipa qui il drammatico confronto con il mondo giudaico, probabilmente quello risultante dal sinodo rabbinico di Jamnia (90 d.C. ca.), caratterizzato non più dal pluralismo di correnti e partiti del tempo di Gesù, bensì dall’uniformità e prevalenza farisaica, con cui la comunità giovannea si scontra, patendo la confessione di fede cristologica con la sanzione di espulsione dalla sinagoga (9,22; 12,42; 16,2), episodio cruciale per lo scollamento del cristianesimo dal suo primitivo alveo giudaico.
La drammaticità dello scontro diventa un conflitto ermeneutica intorno alla tradizione veterotestamentaria, che Giovanni – lungi dal ripudiare – rilegge appunto in senso eminentemente cristologico, in contrasto con la legge, polemicamente e ripetutamente dichiarata da Gesù come «vostra legge» (10,34-35 ecc.).
Le reazioni dei destinatari
Ma c’è un momento cruciale in cui il prologo giovanneo riesce a far coincidere strettamente la comunicazione col lettore con la corretta ermeneutica della storia di Gesù, quando – questa volta in chiave antropologica – presenta le reazioni dei destinatari della venuta del Logos luce trai suoi:
E la luce brilla nelle tenebre , imprendibile alle tenebre... Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire nel mondo. Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero. Ma a quanti l’accolgono, dona potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome…(1,5.9-12).
Col contrasto luce / tenebre, nonché che l’alternativa tra accogliere – credere / non accogliere – non riconoscere (un linguaggio davvero giovanneo nei verbi come l’antitesi), il prologo anticipa sinteticamente quell’opzione (non alla pari) tra fede e incredulità che lungo il Vangelo scandirà tutti gli episodi di Giovanni, regolarmente conclusi con la menzione di fede o incredulità in Gesù mandato dal Padre da parte dei diversi personaggi, che il programma narrativo giovanneo, mirante a confermare e far crescere i credenti (19,35; 20,31), mette a confronto diretto con il lettore.
Un ottimo preludio
A ogni pagina il racconto obbedisce alla logica sua propria di «tutto nel frammento», e a questa logica è già improntato il prologo poetico di 1,1-18.
Rispetto al Vangelo non offre quell’ auspicata perfetta sintesi contenutistica che si amerebbe attribuirgli, ma ne costituisce un ottimo preludio che anticipatamente (e anche un po’ enigmaticamente), «dice quasi tutto» della storia successiva, riservando tuttavia allo sviluppo del Vangelo la sorprendente scoperta di un Gesù datore dello Spirito come un altro paraclito, l’icona pregnante e sintetica del libro giovanneo, oggetto precipuo della sua testimonianza (1,32-33; 19,30-37; 20,22-23).
Una volta ascoltata per intero, converrà sempre tornare al preludio iniziale, per riapprezzare la radice trascendente della storia singolare di Gesù.