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Venerdì, 03 Marzo 2006 00:21

La numerazione dei Salmi (Tiziano Lorenzin)

La numerazione dei Salmi
di Tiziano Lorenzin

Chi in questi anni usa abitualmente il Salterio per pregare le Lodi o i Vespri, ricorda a memoria il numero di alcuni salmi: il Sal 22 è Il Signore è il mio pastore, il Sal 50 è il Miserere. Se però prende in mano La Bibbia di Gerusalemme, si accorge che il Sal 22 è diventato il Sal 23; che il Miserere non è più il Sal 50, ma il Sal 51. Come mai? Richiamo un po' di storia dell'edizione del Salterio.

L'esistenza di una divisione del testo biblico in versetti - non solo per i salmi - è documentata dalla Mishna e dal Talmud babilonese. Nel Codice di Aleppo (ebraico, della prima metà del X sec. d.C.), i salmi sono scritti su due colonne; ma non c'è numero o lettera tra un salmo e l'altro. Si usava designare i vari salmi non con il numero, ma con la citazione delle sue prime parole.

La numerazione dei versetti nel Salterio ebraico fu inserita solo a partire dalla grande Bibbia rabbinica di D. Bomberg, pubblicata a Venezia nel 1547-1548, nella quale numeri ebraici (cioè lettere) sono apposti ogni cinque versetti.

Il dato curioso è che l'attuale numerazione dei salmi fu adottata a partire dalla traduzione latina della Bibbia, la Volgata.

È il Salterio ebraico, pubblicato da J. Froben nel 1563, la prima sezione della Bibbia ebraica che si presenta con numerali arabi al margine di ogni versetto. La diversità poi di numerazione dei salmi dipende dal fatto che la liturgia latina segue la numerazione introdotta nella Volgata, probabilmente da S. Langton, nel tredicesimo secolo. Questa, a partire dal Sal 9 si discosta dalla quella ebraica, perché nel Salterio ebraico il Sal 9 è diviso in due (Sal 9 e Sal 10), per cui quasi fino alla fine del Salterio il numero dei salmi che recitiamo nella nostra Liturgia delle ore è di un numero inferiore a quello della Bibbia ebraica. Comunque dal Sal 148 i numeri dei salmi ritornano a coincidere. E il numero totale dei salmi rimane di 150 sia nel testo ebraico che nelle versioni greca (L XX) e latina (Volgata).

Ecco le differenti numerazioni:

Testo ebraico

Volgata (LXX)

1-8

1-8

9-10

9

11-113

10-112

114-115

113

116,1-9

114

116,10-19

115

117-146

116-145

147,1-11

146

147,12-20

147

148-150

148-150

Le Bibbie moderne, tradotte dai testi originali, seguono la numerazione dell'ebraico, ma di solito mettono tra parentesi anche la numerazione della Volgata, che a sua volta segue la numerazione dell'antica versione greca dei Settanta.

(da Parole di Vita, 5, 2004)

Pubblicato in Bibbia

Gesù Cristo immagine di Dio in 2Cor
di Giovanni Giavini

Il contesto della lettera

Che Gesù si «immagine di Dio» è esplicitamente scritto in 2Cor 4,4. Ma che cosa intendeva precisamente Paolo con quell’affermazione? E, una volta compresa, quale attualità possiede ancora per noi, che quasi nemmeno la usiamo per parlare di Gesù? Lo vedremo alla fine: prima, da buoni esegeti benché non specialisti «doc», dobbiamo cercare di ascoltare il testo paolino nel suo contesto originario, precisamente quello della 2Cor.

Questa lettera è, per certi aspetti, molto interessante, assai ricca di tematiche preziose per la fede cristiana di sempre; basti pensare al «caritas Christi urget nos» (la carità di Cristo ci spinge) di 5,14. La lettera è anche uno spettacolo: in quanto molto autobiografica, essa presenta al lettore una vasta gamma di sentimenti e allude a diversi episodi di quel vulcano che era Paolo; ma non solo di lui: anche dei primi cristiani, in particolare dei suoi cari e deludenti corinzi. Tra l’apostolo e loro correvano sentimenti contrastanti, specialmente lui ne è quasi travolto a ondate successive e diverse: a volte è tenero come una madre, altre invece diventa polemico e sferzante, pronto ad addolcire espressioni, sfoghi, colpi severi. Soprattutto egli è preoccupato di difendere a spada tratta il suo «evangelo», ossia la sua tipica e appassionata proclamazione di Gesù crocifisso, risorto, Signore; e di difendere anche il suo ministero apostolico, compreso il suo stesso modo d’agire con la Chiesa di Corinto.

Tutto ciò imprime alla 2Cor un tono molto simile a Galati, altra lettera stupenda ma assai difficile: per la forte carica emotiva e polemica. Si sa: quando scrivi sotto la pressione dei sentimenti e volendo anche polemizzare con gli interlocutori diretti, si battono e ribattono errori, esagerazioni, approssimazioni, accuse; si sfrutta il loro linguaggio per arrivare dritti allo scopo, senza troppe attenzioni alla precisione e alla logica concatenazione del discorso: le idee escono a fiotti, per contrasti, lasciando da parte o da ricostruire una sintesi organica. Tanto più quando si scrive o parla è un semita, come lo era Paolo, e non un greco abituato alla chiarezza e alla logica dell’analisi e della sintesi.

È appunto in un contesto vivace e polemico, appassionato e forte, che è inserita anche l’affermazione di Cristo «immagine di Dio». Altrove Paolo aveva scritto, e proprio ai corinzi, che l’uomo è «immagine e gloria di Dio», anzi il maschio (1Cor 10,7: altro testo polemico, contro un esagerato femminismo, dove le idee si rincorrono e si correggono l’un l’altra); in 1Cor 13,49 aveva già messo accanto all’idea del vecchio Adamo come «immagine di Dio», che noi condivideremo quaggiù, quella di Cristo risorto come «immagine» che condivideremo in giorno (cf. anche Rm 8,29); in 2Cor 4,4 invece l’apostolo sembra ignorare del tutto che anche Adamo era immagine del Creatore. Perché? Per una specifica polemica, che ora dobbiamo considerare da vicino.

Vecchia e nuova alleanza

La polemica immediata riguarda un tema paolino classico (Fil 3, Gal, Rm, Ef): quello del rapporto tra Toràh e Gesù Cristo, tra Antico Testamento, tra opere della legge e fede, tra lettera e Spirito. Questo tema è assai spinoso, anche per le difficoltà già a tradurre e poi a comprendere il senso esatto dei termini e delle questioni. Anche qui esistono problemi di traduzione e di comprensione, come annotano i commentatori citati in bibliografia; vi sorvoliamo, limitandoci ai punti più importanti.

Il nostro brano abbraccia tutto il c. 3 e va almeno fino a 4,6. Esso contrappone polemicamente le figure di Mosè e di Gesù Cristo, il ministero o diaconia del primo e quello del secondo: uno è diaconia della «lettera che uccide», ossia della legge incisa su tavole di pietra, l’altro è ministero dello «Spirito che dà vita». Ovviamente l’esaltazione dell’opera di Cristo comprende e produce anche quella del ministero apostolico di Paolo, in quanto dipende e prolunga quello di Gesù.

Il contrasto tra le due diaconie, quella di Mosè e quella di Gesù e del suo apostolo, si sviluppa in un modo molto originale e sorprendente, ma molto illuminante per il nostro tema. Paolo sfrutta (vv. 7-11) la famosa pagina di Es 34, che parla dello splendore irraggiante dal volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio e con la luce della sua parola. Pur polemizzando, l’apostolo non nega, anzi afferma che quello splendore era vero e significativo; ma, scovando un senso possibile e implicito in Es 34,33-35, egli dice che esso era anche «effimero», passeggero; anzi Mosè apposta si metteva un velo sul volto per nascondere il carattere passeggero di tale splendore!

Qui Paolo ricorre al metodo rabbinico di cavare dalle Scritture sensi impliciti, possibili e pur discutibili. Probabilmente quel metodo risultava molto adatto (come gli argomenti ad hominem ed altri simili) per dare a intendere ai suoi cristiani di Corinto, giudei o giudaizzanti, ciò che veramente gli premeva: Cristo comunica al suo apostolo una forte audacia e franchezza, per la quale questi non si pone alcun velo sul viso, perché in lui risplende una luce non effimera, non passeggera, non limitata!

Ma proprio qui il testo s’ingarbuglia e risulta un po’ difficile seguirlo (vv. 12-15). Paolo infatti sembra innanzitutto pensare che, come lui, anche i cristiani autentici non si pongono un velo sugli occhi quando leggono la parola delle Scritture: ne sono illuminati un modo diverso da Mosè e soprattutto dai giudei legati ancora a lui e alla sua legge. Su questo limite, su questa lettura dell'antica alleanza velata come da un velo sugli occhi, Paolo ora insiste. I giudei, ma gli stessi cristiani di Corinto a loro troppo legati, non riescono a leggere bene le antiche Scritture, a scoprirne, con lo splendore, anche i limiti. Per leggerle bene occorrono occhi e cuore liberi dal velo, occorrono occhi e cuore di Cristo. Perché?

In modo rabbinico i vv. 16-17 offrono una risposta, un po’ oscura per noi (c’è qualche velo anche su noi, o Paolo non si è espresso in modo felice?). Interpretando un po’ liberamente Es 34,34 e giocando sul doppio senso del termine greco «Kurios - Signore» e su quello di «rivolgersi - conventirsi», egli fa capire che: come Mosè quando rivolgeva/convertiva al Signore Dio si toglieva il velo dal viso per esserne illuminato (sia pur in modo effimero), così anche il giudeo sarà illuminato veramente e raggiungerà la forza vitale delle Spirito e la vera libertà a patto che non si limiti alla lettera scritta su tavole di pietra o nelle Scritture antiche, ma si rivolga/converta al Signore Dio e al Signore Gesù: ora infatti conosciamo il Signore Dio e il suo Cristo assai di più del pur irraggiato Mosè.

Il v. 18 torna «noi tutti» credenti nel Dio di Mosè e in Gesù: la fede ci permette un nuovo e decisivo contatto (sia pure come mediante uno specchio) con la luce della vera gloria di Dio; ma questo contatto non è solo una conoscenza intellettuale: ci trasforma sempre più «in quella medesima immagine […] per l’azione del Signore [Dio e Gesù], cioè del suo Spirito». Qual è quell’ «immagine»? Il contesto non lascia dubbi: è proprio Gesù, in quanto rispecchia e riecheggia la luce e la gloria di Dio assai di più di Adamo (e quindi di ogni uomo) e soprattutto di Mosè e della sua legge pur splendida! Conviene ricordare che un certo giudaismo aveva divinizzato la legge, assimilandola alla Sapienza, alla Parola, alla vita e alla luce di Dio stesso (cf. Sir 24; Baruc 3,9-4,4 e tradizioni giudaiche connesse).

Gesù, immagine di Dio

In 4,1-2 Paolo riafferma l’autenticità del contenuto e del metodo del suo apostolato. Nei vv. 3-4 dà un’amara e polemica (quindi parziale) spiegazione del fatto che molti (tra i giudei e i pagani?) non credono ancora al vangelo: «Si perdono, perché il Dio di questo mondo ha accecato la loro mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio».

È qui che troviamo esplicitamente il nostro tema, ormai ben illuminato dal contesto precedente e completato dal v. 6: «Sul volto di Cristo rifulge la gloria di Dio», la sua presenza illuminante e salvifica, più che nella divina legge, nel tempio e soprattutto più che nel vecchio Adamo e in altre realtà pur belle e buone.

Paolo, per grazia, rispecchia quello splendore e lo irradia, così che anche i suoi cristiani di Corinto ne sono illuminati e divengono a loro volta illuminanti nel loro mondo (cf. 2Cor 3,1-3: la Chiesa di Corinto – pur con tutti i suoi difetti! – è «lettera di Cristo» inviata al mondo).

Come le Chiese degli autentici credenti effettivamente riflettono e irradiano lo splendore che rifulge sul volto di Cristo? In 2Cor Paolo risponde: specialmente con la testimonianza della speranza anche di fronte alla morte (4,7-5,10) e con la carità tra genti diverse, di cui la colletta per i poveri di Gerusalemme era segno preclaro (cc. 8-9). Facile viene il richiamo a 1Cor: anche là (c. 15) il tema di Cristo-immagine era connesso con la speranza e alla speranza non poteva mancare la «via della carità» (c. 13).

Oltre al richiamo a testi paolini precedenti si potrebbe anche procedere verso altri testi successivi, nei quali ritorna il tema di Cristo-immagine di Dio: Col 1,15 è chiaro; più vaghi Col 3,10 ed Eb 10,1, ma anche qui incontriamo gli stessi aspetti di 2Cor 4. Interessantissimo il confronto con il prologo di Giovanni: Gesù non vi compare come immagine di Dio, ma come sua «Parola»; il messaggio però è identico: «La Parola s’è fatta carne […] e noi vedemmo la sua gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità […]. La legge fu data [fu quindi anch’essa un dono] per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità [ossia la grazia quella vera, quella piena e definitiva] avvenne per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,14-17; cf. anche 1Gv 1,1-4). Le analogie tra Giovanni e il paolo di 2Cor 4 sono davvero molto forti, al di là del linguaggio leggermente diverso.

Dalla 2 Corinzi a noi

Dopo aver ascoltato il testo paolino nel suo contesto originale e quindi colto il suo messaggio alla Chiesa di Corinto, ora avviamo qualche rilettura attualizzante per il nostro tempo.

Come sempre, anche qui Paolo ci trasfonde la forza e il calore della sua fede in Gesù Cristo e nel suo Dio. Non era facile allora credere che sul volto di quel crocifisso risplendesse la gloria di Dio, quando tutto induceva a pensare che su di lui pesassero una «maledizione», quella della Toràh sugli appesi a un patibolo (Dt 21,23; Gal 3,13) e l’ombra di una «scandalosa follia» (1Cor 1,18-23). Non era facile allora, certo, ma nemmeno adesso, quando tanti fatti mettono in crisi la nostra fede nel Signore Gesù e nel suo Dio. Ben altri infatti sembrano i veri «signori» e i veri «dèi». Di qui la crisi forse più profonda che stiamo attraversando. Paolo ha forza da venderci al riguardo.

La fede in Cristo non era pura «gnosi», semplice conoscenza intellettuale di qualche messaggio astratto, generico, semplicemente rivestito di una storia apparente (come quella della New Age e di altri movimenti religiosi antichi e recenti). Certo, la fede era anche gnosi, comprendeva cioè anche una conoscenza e precisamente di una storia vera, recente, bella ma anche drammatica (la croce!), ma diventava poi dinamica: produceva speranza e carità, quelle che derivano dalla convinzione che Cristo crocifisso e glorioso (risorto), lui e lui solo, era la vera «immagine» di Dio e quindi anche il vero Adamo, l’autentico uomo: un uomo capace di vincere anche la morte e di costruire nuovi ponti tra popoli, razze, religioni diverse, superando anche i limiti e le barriere della vecchia legge mosaica.

Qui tocchiamo un altro problema attualissimo: il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Israele e Chiesa, tra legge mosaica e morale cristiana. Lo sappiamo: è un problema assai delicato e arduo, anche perché siamo stimolati e pressati da tendenze diverse: da quella che tende a svalutare del tutto o quasi l’Antico Testamento, l’antica alleanza e la sua legge, oppure a leggerlo allogoricamente, solo come premessa, anticipo, profezia di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti, ecc. (tendenza molto diffusa in passato e non defunta nemmeno tra la nostra gente); e da quella che invece cerca di mantenere all’Antico (o «primo») Testamento un autentico, originale, perenne valore salvifico almeno per gli ebrei, se non addirittura per la Chiesa stessa. Il testo di 2Cor 3-4 suggerisce un corretto equilibrio: l’Antico Testamento, con le sue realtà, era e rimane «splendido», ma di uno splendore non pieno, incompleto, relativo rispetto a quello del volto di Cristo.

È questa la linea che ci permette, da una parte, di valorizzare i tesori della tradizione ebraica (pensiamo, per esempio, alla straordinaria ricchezza e attualità dei profeti, di Giobbe, dei Salmi, della Genesi, che una volta si studiavano quasi solo per cercare le scarse profezie sul Messia); dall’altra, di coglierne anche i limiti, la temporalità, i legami con culture precristiane e con le varie fasi della «pedagogia» di Dio nel condurre il suo popolo verso la pienezza della grazia e della verità (pensiamo, per esempio, alle pagine sulle guerre e su altri aspetti della vita morale o a quelle in cui appare ammessa l’esistenza di altri dei). Tutto ciò, ovviamente, a prescindere da qualsiasi giudizio sul cammino personale o di coscienza dei singoli «fratelli maggiori». La posizione di Paolo e di Giovanni, vista sopra, si può leggere nella Dei Verbum del Vaticano II (nn. 14-16) e in modo più ampio e mirabile nel recente documento: Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.

Da ultimo 2Cor 3-4 è pure un esempio (pienamente riuscito?) di inculturazione della fede cristiana: è evidente, infatti, lo sforzo, purtroppo anche polemico, di paolo di trasmettere ai suoi lettori immediati quella fede tradizionale con vari linguaggi adatti a loro, specialmente con quello giudaico-rabbinico e i rispettivi metodi usati allora (e non solo allora). Anche per questo aspetto, pur meno importante dei precedenti, il brano paolino si dimostra attuale. Ci è costata un po’ di fatica la sua esegesi, ma , a conti fatti, n’è valsa la pena…o no?

(da Parole di vita, 5, 2002)

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 05 Febbraio 2006 17:27

Diagnosi del peccato (Vincenzo Scippa)

Diagnosi del peccato

di Vincenzo Scippa





1. AMOS: PECCATO E CASTIGO

Amos, il primo profeta scrittore dell'VIII secolo, di Tekòa, villaggio non molto distante da Gerusalemme, possidente agricolo ed allevatore di bestiame nonché incisore di sicomori (1,1; 7, 14) fu mandato da Dio a predicare nel regno del Nord (7, 15) al tempo del re di Giuda Ozia e del re d'Israele Geroboamo II. Franco ed essenziale, in conformità al suo stile di vita, Amos va direttamente al nocciolo dei problemi, stigmatizzando il male del suo tempo nei suoi molteplici aspetti. Esso derivava, come ovvia e naturale conseguenza, dal periodo di particolare benessere del regno di Geroboamo II, dovuto alle sue conquiste e diplomazia, e dal momentaneo ecclissarsi sulla scena mondiale delle superpotenze del tempo: Assiria ed Egitto.

Forte della chiamata di Dio (7,14-15) e psicologicamente condizionato da Lui come dal ruggito del leone (3,8), Amos denuncia la situazione generale di grande ingiustizia e di grande ipocrisia venutasi a creare, nonché il conseguente castigo divino. E così il libro quasi per intero (ad eccezione di 9,11-15, di mano posteriore) è pervaso dal tema del peccato e del conseguente castigo divino. Per quanto riguarda il peccato sono accusati sia gli Israeliti, sia le nazioni.

Il peccato degli Israeliti

A parte l' accusa generale contro tutta la stirpe che Dio ha fatto uscire dall'Egitto (cf 3,1-2), Amos scaglia le frecce più pungenti in particolar modo contro i notabili del popolo, chiamati «spensierati di Sion» (6,1), contro i commercianti (8,4-8), contro le donne ricche di Samaria, chiamate in senso dispregiativo «vacche di Basan» (4,1) e contro altri, di cui si denuncia il peccato anche senza individuarli secondo la loro categoria (3, 10.12; 5,7.10-11.18; 8,13-14).

Scendendo più nel concreto possiamo riassumere la situazione di ingiustizia denunciata da Amos sotto due aspetti: contro il prossimo e contro Dio.

Ingiustizia contro il prossimo

Si denuncia, da una parte, l'oppressione e l'esosità dei ricchi nei riguardi dei più poveri e più deboli e, dall'altra, la ricchezza illecita ingiustamente acquisita da un 'avidità che non si fa scrupoli di calpestare gli altri (3,9-10; 5,11; 8,5-6) e che sfocia nel lusso sfrenato, portando all'indifferenza per il destino del popolo (6,1-2.6.13) e alla licenziosità dei costumi (3,12-15; 4,1; 5,11; 6,4-6). Si parla di disordini, violenze e rapine (3,9-10). Le donne di Samaria sono accusate di opprimere i poveri; sulla loro pelle, esse prendono l'iniziativa, rivolgendosi ai loro mariti o amanti, di incominciare la gozzoviglia che sfocia poi nella lussuria (4,1).

Amos denuncia i ricchi di schiacciare l'indigente estorcendogli ingiustamente una parte di grano, con il cui disonesto profitto vengono costruite case lussuose con pietre squadrate e vigneti deliziosi (5, 11 ); rimprovera i commercianti di calpestare gli umili del paese, esercitando un'attività truffaldina e fraudolenta diminuendo le misure (di capacità), aumentando il siclo (misura di peso) e usando bilance false (8,4-8); comprando inoltre per denaro gli indigenti ed il povero per un paio di sandali, bisognosi cui si riesce a vendere anche lo scarto del grano (cf 2,6-8).

Questo stato di cose è sfacciatamente messo in mostra dal possesso di beni che non sono alla portata di tutti, e dalla vita lussuosa che i ricchi conducono. Amos denuncia infatti il possesso di divani e coperte preziose, della doppia casa: quella d'inverno e quella d'estate, delle case d'avorio, dei grandi palazzi (3,12.15), delle case fatte con pietre squadrate, delle vigne deliziose (5, 11), dei letti d'avorio (6,4), tutte cose che i poveri non si potevano permettere. La mollezza e la sfrenatezza della vita è mostrata ancora dalle gozzoviglie (4,1; 5,11) al suono dell'arpa e degli strumenti musicali, dell'uso di unguenti raffinati (4,4-6), dall'immoralità e dalla prostituzione (2,7-8).

Ingiustizia contro Dio

L 'ingiustizia contro il prossimo non è che una delle facce della medaglia. L 'ingiustizia contro Dio consiste nel tentativo di camuffare la grave ingiustizia sociale con il culto esteriore formalistico, che si macchia anche di impurità, per che sincretistico e idolatrico. Infatti le stesse visite-pellegrinaggi ai santuari (Betel, Galgala. ..) sono inquinate. Esse servono a far peccare ancora di più (4,4-5) e provocano l'ira di Dio che infierisce contro gli altari di Betel «i cui corni saranno spezzati e cadranno a terra» (3,14). Il Signore non vuole tale culto falso ed ipocrita. È impressionante, per la forte presa di posizione contro le feste e contro il culto formalistico in genere, la seguente profezia:

« lo detesto, respingo le vostre feste
e non gradisco le vostre riunioni,
anche se voi mi offrite olocausti
io non gradisco i vostri doni
e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:
il suono delle tue arpe non posso sentirlo!
Piuttosto scorra come acqua il diritto (mishpat)
e la giustizia (sedaqah) come un torrente perenne.
Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto
per quarant'anni, o Israeliti?
Voi avete innalzato Siccùt vostro re
e Chiiòn vostro idolo,
la stella dei vostri dèi che vi siete fatti.
Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco,
dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti»
(5,21-27).

Con una sequenza di espressioni molto forti il Signore afferma decisamente che «odia» (sāne’tî) e «rigetta» (mā’astî) offerte ed olocausti e cerimonie liturgiche, ma che vuole giustizia e che si cerchi sinceramente lui (5,4.6). Il culto genuino è perciò subordinato a questo, altrimenti è solo segno di ipocrisia e di vanità.

A causa di questi peccati, sia di Israele, sia di Giuda (2,4-5), che sono numerosi ed enormi, il Signore deve necessariamente comminare il castigo. Tali peccati infatti comportano anche l’incapacità di emendarsi, data l'assuefazione ad essi, per cui non si ascolta più «chi ammonisce alla porta» e «chi parla secondo verità» (5, 10), si resta incalliti nel male e insensibili a tanti avvertimenti (4,6-12). Il castigo ha, sì, il carattere di punizione (cf 3,11; 4,2-3; 6,7), ma è principalmente un estremo tentativo per indurre i peccatori a penitenza. È interessante a proposito la profezia di 4,6-12 ove il profeta, sulla falsariga delle dieci piaghe dell'Esodo (Es 7,8-12,34), ricorda la mancanza di pane, il rifiuto della pioggia, l'invio della ruggine e del carbonchio e delle cavallette che hanno mangiato il raccolto, della peste e la conseguente moria degli animali, e l'uccisione di spada dei giovani. E dopo queste reminiscenze, come un intercalare si ripete ben cinque volte, a mo' di ritornello, l'amara seguente constatazione: «e non siete ritornati a me (we lo'-shavtem 'aday), dice il Signore ».

Il castigo è caratterizzato sia da affermazioni generali (2,13; 5,17) sia da punizioni più circostanziate quali: invasione nemica (3,11; 6,14), rovina e devastazione (5,9; 6,11), esilio (5,27; 6,7), morte e lutto conseguente (5,16-17) e deportazione (4,2-3; 6,6; 9,4.9).

Il peccato delle nazioni

Anche gli altri popoli sono accusati di peccato, anche se per lo più non si tratta di azioni contro lo stesso Israele. Ciò vuol dire che Amos crede alla validità universale di alcune regole morali garantite da Dio, sebbene non in riferimento al patto di alleanza. Si può affermare perciò che in Amos I 'universalismo teologico sfocia nell'universalismo morale.

Il profeta rimprovera a Damasco (Siria) di aver annientato i vinti di Galaad passando sui loro cadaveri come si passa con la trebbiatrice sui campi (scena di freddo sadismo e brutalità che raccapriccia) (1,3). Rimprovera i Filistei, gli Edomiti e i Fenici di Tiro di aver praticato il commercio degli schiavi («hanno deportato popolazioni intere») (1,6-10). Rimprovera gli Ammoniti per aver compiuto in guerra misfatti atroci, come sventrare le donne incinte (1,13). Rimprovera i Moabiti per aver bruciato le ossa del re di Edom. La cremazione infatti era ritenuta un crimine abominevole perché rendeva infelice il defunto nell'oltretomba (2,1). Rimprovera gli Edomiti per aver lottato contro il loro «fratello» (Israele), discendendo essi da Esaù fratello di Giacobbe capo stipite degli Israeliti (cf Gn 25,21-24.29-30). Essi hanno mantenuto viva la loro inimicizia e ostilità verso gli Israeliti con «un'ira senza fine» (1,11) e conservando «lo sdegno per sempre » (1, 12). Rimprovera infine i Fenici di Tiro perché non hanno rispettato l'alleanza fraterna con Israele, alleanza di antica data (cf 1 Re 5,26; 9,10-14) sancita anche con matrimonio (1 Re 16,31) (1,9).

Come per i peccati d'Israele, anche per quelli dei popoli sono preparati i castighi. Essi sono per lo più di tre tipi: la distruzione con il fuoco (1,4.7.10.12.14; 2,2.5), la deportazione in esilio (1,5.15), la guerra (1,8.14; 2,2). I peccati infatti violano l'ordine divino delle relazioni tra i popoli, ordine voluto da Dio come uno scudo di salvezza per tutti gli uomini. Perciò Dio non può restare indifferente a tale violazione, che è anche fondamentalmente ingiustizia.

Dall'analisi precedente si deduce che in Amos prevale la tematica del peccato e del castigo, ma non è assente quella della salvezza, sebbene in prospettiva, quasi in sottofondo e in tono sfumato. A parte i due oracoli di salvezza tardivi (9,11-12.13-15), si può scorgere tale speranza nel tema del «resto» d'Israele (3,12; 5,1-3.15) a patto che esso ritorni a Dio: «Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto (mishpat); forse il Signore, Dio degli eserciti avrà pietà del «resto» (she'erît) di Giuseppe» (5,15).


2. OSEA: PECCA TO E PERDONO

Osea ha predicato nel Regno del Nord fra il 750 ed il 752 circa, nello stesso quadro storico mondiale in cui si è elevata la protesta ferma di Amos contro l'ingiustizia e l'ipocrisia. L 'epoca di Geroboamo Il è alla fine (7,8) e la prosperità del suo regno sta volgendo al termine. Il messaggio di Osea quindi coincide in parte con quello di Amos per la denuncia delle ingiustizie, della corruzione (4, 1-2) e del falso culto (6,4-6; 5,6; 8, 11.13).

Il profeta è simbolo vivente del messaggio di Dio al popolo: in se stesso, nella persona della moglie e in quella dei suoi tre figli, i cui nomi stessi (Lo' -rûhamah «Non-amata», Lo'- 'am-m î«Non popolo mio», Jizre'el «Dio semina»; cf Os 1,4.6.9) suonano come un atto di denuncia dell'infedeltà d'Israele nei confronti dell'alleanza.

Ma Osea rispetto ad Amos sottolinea fortemente la condanna dell'idolatria che, stando al suo vocabolario sponsale diffuso in tutto il libro, chiama prostituzione (zenût). Essa si può considerare sotto due aspetti: idolatria cultuale e idolatria politica. Questo è dovuto in particolar modo alla crisi religiosa che imperversa nel paese (cf 2 Re 14,24; 15,9.18.24.28; 17,2) (favorita dalla situazione politica, specialmente dopo la morte di Geroboamo Il) e all'influsso assiro, che causa la spaccatura dell'unità politica e il formarsi di diverse fazioni.

L 'idolatria cultuale

In un quadro molto realistico Osea descrive la situazione religiosa della Samaria.

Il culto jahvista nei santuari nazionali è solo formale ed esteriore (7,14a; 8,11-13) e, in più, fortemente contaminato (6,10). Gli altari stessi sono diventati occasione di peccato (8,11-13). Si adora Baal e si praticano i suoi riti di fertilità (4,12-13; 7,14b; 9,1); si adora il vitello d'oro, che il popolo equivocando ha identificato con Iahvè stesso (8,5-6), mentre al principio quando fu istallato da Geroboamo I (1 Re 12,28-30) era solo simbolo della presenza di Dio in mezzo al popolo senza fare alcuna difficoltà (il suo culto non è stato mai osteggiato da Elia ed Eliseo!).

Si viene così meno al I e Il comandamento; come se ciò non bastasse, tale culto portò di conseguenza alle pratiche immorali, proprie delle religioni cananee.

Le stesse classi dirigenti, civili e religiose, non ne furono esenti e, prese dalla violenza della contaminazione, dimenticarono anche i loro doveri e obbligazioni.

Così si scaglia Osea contro i sacerdoti ed i profeti del tempo, accusandoli:

« Ma nessuno accusi. nessuno contesti..
contro di te, sacerdote, muovo l'accusa.
Tu inciampi di giorno
ed il profeta con te inciampa di notte
e fai perire tua madre,
Perisce il mio popolo
per mancanza di conoscenza.
Poiché tu rifiuti la conoscenza,
rifiuterò te come mio sacerdote;
hai dimenticato la legge del tuo Dio,
io dimenticherò i tuoi figli.
Tutti hanno peccato contro di me;
cambierò la loro gloria in vituperio.
Essi si nutrono del peccato del mio popolo
e sono avidi della sua iniquità.
Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte;
li punirò per la loro condotta,
e li retribuirò dei loro misfatti.
Mangeranno. ma non si sazieranno,
si prostituiranno, ma non avranno prole,
perché hanno abbandonato il Signore
per darsi alla prostituzione»
(: culto idolatrico) (4,4-10)

E così rimprovera le autorità civili e religiose:

« Ascoltate questo, o sacerdoti,
state attenti, gente d’Israele,
o casa del re, porgete l'orecchio.
poiché contro di voi si fa il giudizio...
Io conosco Efraim
e non mi è ignoto Israele.
Ti sei prostituito, Efraim!
Si è contaminato Israele.
Non dispongono le loro opere
per far ritorno al loro Dio,
poiché uno spirito di prostituzione è fra loro
e non conoscono il Signore.
L’arroganza d’Israele testimonia contro di lui,
Israele ed Efraim cadranno per le loro colpe
e Giuda soccomberà con loro.
Con i loro greggi e i loro armenti
andranno in cerca del Signore,
ma non lo troveranno:
egli si è allontanato da loro.
Sono stati sleali verso il Signore,
generando figli bastardi:
un conquistatore li divorerà
insieme con i loro campi»
(5,1-7).

Le conseguenze di questa irreligiosità e immoralità si fanno sentire nella vita sociale. Infatti dice amareggiato il profeta: «Non c'è sincerità, ne amore del prossimo, ne conoscenza di Dio nel paese. Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue» (4,1-2); «come banditi in agguato una ciurma di sacerdoti assale sulla strada di Sichem, commette scelleratezze» (6,9); «...si pratica la menzogna: il ladro entra nella casa e fuori saccheggia il brigante» (7, 1).

L 'idolatria politica

Il tentativo della monarchia di cercare la salvezza al di fuori del vero Dio (12,1-2) alleandosi con altri popoli come l' Assiria e l'Egitto, le due superpotenze più in auge del momento (5,13; 7, II; 8,9) rivela in fondo la perdita della fiducia in Dio Salvatore. La monarchia si è allontanata da Dio (8,4; 9,15) e ha perso il senso religioso della sua origine considerandosi alla pari di quella di altri popoli (7,8; 8,8.14). L'istituzione monarchica secondo Osea, è «frutto della collera di Dio» (13,11), quasi una concessione strappata a forza e concessa malvolentieri (cf 1 Sam 8-12, ove si fondono insieme la col1cezione a favore dell'istituzione monarchica e quella contraria ad essa).

Per questo Osea annuncia il castigo, che seguirà la legge del contrappasso :

« Non darti alla gioia, Israele,
non far festa con gli altri popoli,
perché hai praticato la prostituzione,
abbandonando il tuo Dio,
hai amato il prezzo della prostituzione
su tutte le aie da grano.
L'aia e il tino non li nutriranno
e il vino nuovo verrà loro a mancare.
Non potranno restare nella terra del Signore,
ma Efraim ritornerà in Egitto
in Assiria mangeranno cibi immondi»
(9,1-3).

Il perdono

L 'atteggiamento di Dio davanti al peccato del popolo e dei suoi governanti è delineato dal poema di 2,4-25, ove si enumerano tre possibilità di atteggiamento davanti alla sposa infedele ed adultera: a) porle davanti degli ostacoli per impedirle di andare dagli amanti (idoli) e quindi costringerla a ritornare (vv. 8-9); b) castigarla in pubblico duramente (vv. 10-15); c) concederle il perdono solo per puro amore, fare un nuovo viaggio di nozze ed un nuovo regalo nuziale per restaurare l'intimità coniugale come in un nuovo matrimonio. Prevale infine questa terza ipotesi: quella dell'amore gratuito di Dio.

Si ha, quindi, in Osea, una logica nuova rispetto a quella che ci saremmo aspettato. Anziché la sequenza «peccato-conversione-perdono», si ha «peccato-perdono-conversione». Il perdono precede la conversione (è la novità che apre al Nuovo Testamento! ; cf Rm 5,8). Dio perdona prima che il popolo si converta e sebbene non si sia ancora convertito! La conversione è risposta all'amore di Dio, più che una condizione previa allo stesso perdono (cf 1 Gv 4,10). Si ha così il passaggio dall'immagine di Dio «sposo» a quella di Dio «padre» (11, 1-9; 14,2-9). Questa consolante rivelazione diventa più esplicita e attuale con Cristo che incarna e manifesta la misericordia del Padre!

(da Parole di Vita)

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:21

8. La caduta. Gen 2,4b-3,24 (Rinaldo Fabris)

Sull'origine del male umano, culminante nella morte, la Bibbia offre una riflessione di tipo sapienzale. “In principio” non c'è il male, ma solo l'azione di Dio che fa esistere il mondo e lo chiama “buono” o “bello-splendido”.

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 13 Gennaio 2006 02:03

La signora Sapienza (Donatella Scaiola)

La signora Sapienza
di Donatella Scaiola



Nel libro dei Proverbi i cc. 8-9, che hanno come tema la sapienza personificata, si trovano alla fine dell'ampia introduzione al libro intero (cc. 1-9). Prima di introdurci, quindi, all'analisi dei testi, ci sembra utile inserirli nel contesto prossimo nel quale essi attualmente si trovano.

Un’introduzione alla raccolta dei proverbi

Innanzitutto bisogna notare che l'introduzione al libro (Pr 1-9) si apre (1,20-33) e si chiude con un discorso formulato dalla sapienza personificata (8; 9,1-6.13-18). Questi discorsi mirano a suscitare il desiderio della sapienza e di un determinato stile di vita, piuttosto che incitare a specifici comportamenti. L'insegnamento non verte, infatti, su atti sapienti precisi, ma sulla scelta di uno stile di vita sapiente, dal quale discenderanno scelte coerenti. In questa ricerca della sapienza vi è anche un aspetto trascendente, dal mo- mento che la sapienza, in Pr 8, è presentata nella sua relazione con Dio. Quindi, cercare la sapienza significa cercare Dio. La sapienza è uscita da Dio ed è presente nel mondo come ordine primordiale che l 'uomo può scoprire (Pr 8). Essa soltanto può condurre a Dio. Per riuscire nella vita, bisogna conoscere e padroneggiare la realtà, ma nessuno può conseguire questo obiettivo (essere sapiente) se non vive in comunione con Dio. Infatti, «fondamento della sapienza è il timore di Dio, la scienza del Santo è intelligenza» (Pr 9,10; cf 1,7).

In questi capitoli introduttivi, inoltre, il discorso viene portato avanti spesso in forma dialettica. Le dialettiche più importanti sono quelle tra la donna sapienza e la donna straniera, immagine della follia, una polarità che si trova al centro del c. 9. Collegato a questo discorso è poi il confronto tra le due vie: la via dei giusti e la via dei malvagi. L'opzione tra queste due vie è oggetto di discernimento; di qui l'importanza attribuita ai genitori in rapporto alla sapienza (Pr 1,8; 6,20)1.

In questa attiva ricerca della sapienza, che il giovane intraprende seguendo anche l'insegnamento dei genitori, si frappongono degli ostacoli, rappresentati fondamentalmente dagli uomini stolti (1,8-19; 4,10-19) e dalla donna ingannatrice. Entrambi cercano di convincere chi li ascolta a scegliere la loro strada. Essi offrono «vita», nel senso di benessere, piacere. Parlano in qualche modo come la sapienza, per cui occorre discernimento per scoprire l'inganno che si cela dietro i loro discorsi seduttori. È un modo per dire che la sapienza non è ne banale ne semplice da acquisire.

Infine, questi capitoli introduttivi si rivolgono a un uditore ideale, chiamato «figlio», metafora di tutti coloro che cercano la sapienza. Il lettore di Pr 1-9 è un figlio che viene istruito dai genitori, soprattutto dal padre, sulla vita che dovrebbe condurre. Di qui il carattere «scolare» di questi testi:

Pr 1-9 sembra una raccolta di discorsi di invito all' apprendimento, netta quale il maestro non risparmia sforzi per suscitare nei suoi allievi il desiderio e far comprendere ad essi l'importanza fondamentale del suo insegnamento.

Analisi dei testi

Il titolo del paragrafo non deve trarre in inganno o indurre attese che non verranno del tutto soddisfatte. Infatti, soprattutto il c. 8 del libro dei Proverbi è un testo assai studiato da diversi punti di vista. Dal punto di vista filologico esso pone molti problemi, che almeno in parte non sono risolvibili; si tratta, inoltre, di un testo assai utilizzato nelle controversie teologiche fin dai tempi patristici; all'interno dei libri sapienziali, poi, appartiene a un gruppo ristretto di testi (Gb 28; Sir 24; Bar 3; Sap 7) che si distinguono dall'insieme della riflessione sapienziale per il modo in cui la sapienza personificata parla di se stessa. Quindi, non sarà proposta qui un'analisi dettagliata di questi capitoli, ma piuttosto una riflessione di carattere più teologico.

L' origine della sapienza e il suo rapporto col mondo ( Pr 8)

In Pr 8 parla la sapienza, ma non viene detto chi essa sia, anche se sembra subito che si identifichi con l'intelligenza, cioè con la comprensione del reale. La sapienza fin dai versetti introduttivi (1-3) viene presentata come maestra, come qualcuno che ha un messaggio da comunicare. Formula un discorso di cui essa prende l'iniziativa, rivolgendosi in modo diretto ai suoi uditori, come la parola profetica che scende da Dio, non stimolata dagli uomini. La sapienza parla poi in un preciso spazio urbano, «all'incrocio delle strade» (v. 2), «presso le porte della città» (v. 3), il luogo del mercato, in cui si rende giustizia, là dove la gente s'incontra e gli uomini vivono in società. La sapienza ha di mira non i capi, ma le folle.

Ciò che la sapienza proclama a tutti è la «verità» e la «giustizia» (vv. 7-8), qualità proprie di YHWH in D t 32,4-5, e sintesi dei valori morali e religiosi di Israele.

Ma chi è la sapienza? Essa si svela gradualmente. Nei vv. 12-21 descrive se stessa come consigliera giudiziosa, fonte di benedizione. Invece nei vv. 22-31, la parte più discussa del capitolo, si svela l'identità della sapienza con un richiamo alle origini del mondo. Qui la sapienza parla del ruolo che ha avuto nella creazione. Manca la formula «creare dal nulla», ma parlare di un tempo in cui gli abissi e le acque «non erano», o «non erano ancora», significa parlare di un tempo in cui non esisteva niente. Fin da allora, però, la sapienza esisteva. Essa precede ogni cosa e anteriormente a lei non c'era assolutamente niente.

L'inno chiarisce anche qual era il ruolo della sapienza in quel contesto: essa era là, assisteva all'azione di Dio. La sapienza non è creatrice, infatti essa fu generata (8,24a.25b), ma è il progetto a partire dal quale Dio ha creato il mondo. Svolge dunque un ruolo attivo nel lavoro di organizzazione e di strutturazione armonica del mondo, anche se viene affermato con chiarezza che è Dio a istituire l'ordine dell'universo. La sapienza non crea il mondo ne coincide semplicemente col mondo; essa sta davanti a Dio (v. 30c), ma la sua delizia è con gli uomini (v. 31b); proviene da YHWH (v. 22), ma è presente nel mondo (27a). La sapienza non è Dio, ma non è neanche il mondo: essa ha una sua propria funzione da svolgere nel rapporto tra il mondo e Dio. Rispetto a Dio, la sapienza dona al mondo armonia e stabilità; rispetto agli uomini, essa è il legame che li collega a Dio attraverso la mediazione esercitata dal mondo. poiché la sapienza occupa questa posizione, non sorprende che sia presente senza posa, quotidianamente.

Degno di interesse è lo schema per mezzo del quale viene descritta la creazione. Essa viene presentata come un grande gioco, il gioco dell' artista che crea, metafora adeguata a esprimere il modo in cui Dio crea. Non per egoismo, non per bisogno, ma perchè vuole realizzare un capolavoro, per comunicare se stesso, come l'artista e come il bambino. La creazione viene, dunque, presentata utilizzando la simbolica estetica, ludica, una rappresentazione assai diversa da quelle presenti nell'antico vicino Oriente dove si avevano soprattutto due concezioni della creazione: la creazione come lotta, battaglia, e la creazione come opera del vasaio che plasma (cf Gn 2; Sal 139). In Pr 8 si parla ancora del lavoro, ma facendo riferimento all' artista che non fa fatica perchè la sua fatica è gioia e divertimento.

Questa interpretazione dà un giudizio sull'universo e sul mondo squisitamente ottimistico, perchè la creazione viene presentata come una trama di meraviglie. La rappresentazione non ha solo una funzione contemplativa, ma ha anche una valenza progettuale. Si traduce cioè nell'invito a non rovinare il giardino, a non spezzare l' armonia del mondo. Non è solo il peccato che rovina la meraviglia del mondo, ma anche la mancanza di valori umani, la superficialità, la stupidità.

Da questa autopresentazione scaturisce, quasi naturalmente, l'invito alla presa di coscienza e alla decisione. Nei versetti conclusivi (32-36), infatti, la sapienza si rivolge a tutti: «figli» (v. 32) e «uomo» (v. 34), affinché facciano propria l'educazione proposta dal maestro. L'unica condizione posta all'uomo (v. 34: 'âdâm) per trovare la vita ed essere felice è di ascoltare, accogliere e amare la sapienza (vv. 32-35).

In conclusione, la sapienza viene da YHWH, Dio di Israele, ma anche Dio creatore dell'universo, che interpella ogni uomo per mezzo del mondo. Pr 8 afferma che l' armonia e l' ordine del mondo possono essere compresi e accolti da ogni uomo che, attraverso tale via, incontra il Signore. In questa figura, che è insieme cosmica ed etica, la cui via inizia da YHWH (v. 22) e finisce ad 'âdâm (v. 31), c'è l'offerta che Dio fa a ogni uomo e non solo all'israelita.

L' enigma del banchetto ( P, 9 )

In questo capitolo continua la presentazione della sapienza, però il discorso qui non è più formulato in prima persona. Non parla cioè la sapienza, ma si parla di lei in terza persona. Inoltre, cambia il genere letterario, nel senso che l'inno di autoelogio del c. 8 cede il posto a un discorso diverso. In comune col capitolo precedente, però, ci sono diversi elementi: c'è innanzitutto l'immagine della sapienza costruttrice. Là presiedeva alla costruzione del mondo, qui essa costruisce la sua casa, intaglia le sue sette colonne. C'è poi un invito che parte dai luoghi pubblici della città e si rivolge a un' ampia cerchia di persone; concretamente, a chiunque abbia bisogno di lei. Diverso è, invece, il contenuto dell'invito, come vedremo. Nonostante le differenze!, dunque, i cc. 8-9 possono essere letti in modo complementare.

Perchè la sapienza rivolge questo invito? Sembra qui trattarsi del convito che si offriva normalmente in occasione dell' inaugurazione di una casa nuova. Si possono citare testi sia biblici che extrabiblici, tratti dal ciclo di Baal, a sostegno di questa interpretazione. La costruzione del palazzo, poi, indica l'inaugurazione del regno (2Sam 5,11-12). Si può ricordare, nella stessa direzione, anche un testo proveniente dalla tradizione ebraica che commenta Pr 9,1-6 con il seguente mashal: «Un re costruì un palazzo e, per inaugurarlo, ordinò un convito; egli invitò poi i suoi ospiti».

I testi citati fanno pensare che la sapienza descritta in Pr 9 sia una figura regale. Ci avrebbe allora una progressione rispetto al testo di Pr 8, precedentemente considerato, in cui la sapienza veniva presentata come consigliera di re, ma non come figura regale in se.

Comunque, ci pare che il testo di Pr 9 non metta tanto l' accento sulla costruzione del palazzo quanto sull'invito che la sapienza rivolge a coloro che avrebbero maggiormente da guadagnare dal contatto con lei. In questo consiste anche la principale differenza tra Pr 9 e i testi extrabiblici in cui si parla della costruzione di un palazzo. Per esempio, nel mito relativo a Baal si dice che egli aveva invitato i suoi pari al banchetto, mentre qui la sapienza invita «chi manca di cuore», cioè di discernimento, secondo l'antropologia biblica. A coloro che hanno bisogno di acquistare capacità di giudizio la sapienza offre il suo banchetto, che sembra, a prima vista almeno, essere piuttosto generico: carne (v. 2), pane (v. 5), vino (vv. 2.5).

Senza fermarsi alla prima impressione, occorre considerare la posizione che questo testo occupa all'interno del libro. Dicevamo precedentemente che i cc. 1-9 costituiscono un'introduzione ai Proverbi. Questo capitolo conclude l' introduzione, per cui si può pensare che il banchetto che la sapienza offre sia costituito dall'insieme della raccolta che segue immediatamente. In questo senso si potrebbe intendere anche il riferimento alle sette colonne della casa, che non sarebbero altro se non le sette parti, o collezioni, di cui si compone il libro dei Proverbi. Il vero nutrimento di chi manca di sapienza è l'insieme della raccolta dei Proverbi, che può dare vita e discernimento al semplice.

La sapienza, che in Pr 8,22 veniva da Dio, adesso si rende pienamente disponibile, accessibile a chiunque sia disposta ad accoglierla. È quanto esplicitamente si legge in un proverbio della prima raccolta:

«Le labbra del giusto nutrono molte persone» (Pr 10,21).

A questo fa eco un altro consiglio analogo:

«Mangia miele, figlio mio, perchè è buono, un favo di miele è dolce al tuo palato.
Così sarà, sappilo, la sapienza per la tua anima» (Pr 24,13-14).

Bisogna comunque decidere di accogliere l'invito della sapienza, smascherando le parole false, ma apparentemente simili che la follia rivolge agli stessi interlocutori (Pr 9,13-18). Anche la stoltezza è dotata di una certa autorità, perchè siede su uno sgabello e abita in un luogo elevato, ma, mentre attività e diligenza caratterizzano il modo di essere e di presentarsi dèlla sapienza, la stoltezza se ne sta seduta pigra e oziosa, senza occuparsi di nulla. Sia la sapienza che la follia invitano il giovane inesperto con parole seducenti e con attraenti promesse a recarsi nella loro casa. Le due figure cercano di affascinare l'inesperto mediante la loro voce: la parola è qui, infatti, lo strumento della seduzione.

Questa osservazione ci inviterebbe ad allargare il discorso, riflettendo sulla forza seduttrice che ha la parola umana, su come essa funziona e considerando a quali effetti conduce. Ma in questa sede non possiamo percorrere tale pista di approfondimento.

Conclusione

Non solo nei cc. 8-9, ma nell'insieme della sezione introduttiva (Pr 1-9), la sapienza parla come una donna che intende generare figli alla vita, e il testo la oppone chiaramente alla follia, rappresentata sempre al femminile, ma utilizzando una serie di metafore negative, diverse ma equivalenti dal punto di vista semantico (la prostituta, l'adultera, la straniera). Si tratta sempre di figure seduttrici, ma pericolose. La parola seduttrice è quella che mira a distruggere la comunità e, di conseguenza, a pervertire il linguaggio. La sapienza è, invece, una parola che non solo educa il giovane inesperto, ma edifica anche la comunità. La contrapposizione di due figure femminili antitetiche che offrono apparentemente le stesse cose, allude alla confusione dei valori che si attua attraverso la perversione e lo stravolgimento del linguaggio.

(da Parole di vita, 1, 2003)

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 25 Dicembre 2005 20:25

A immagine di Cristo (Sandro Carbone)

A immagine di Cristo
di Sandro Carbone

1. CRISTO PROTOTIPO DELL 'UOMO NUOVO

Paolo usa per la prima volta il termine «icona» in 1 Cor 11,7, partendo da Gn 1,26-27, dove l'uomo viene definito «icona di Dio». L'apostolo afferma che «l'uomo è immagine e gloria di Dio», usando il termine «icona» in relazione al termine «gloria», che sta qui ad indicare l'onore che può rendere a Dio solo chi partecipa in qualche modo allo splendore dell'essenza divina. Per Paolo, quindi, fin dall'inizio l'icona fu creata in relazione alla gloria, come riflesso di essa.

Poco dopo, quando ne riparla in 15,44ss, l' Apostolo relazione, il termine «immagine» a un doppio livello, antropologico e cristologico: «Si semina un corpo psichico (o: animale), e risorge un corpo spirituale. E se vi è un corpo psichico, vi è anche un corpo spirituale. Così sta scritto: Il primo uomo, Adamo, divenne un'anima vivente. L'ultimo Adamo divenne Spirito vivificante... E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo fatto di polvere, porteremo anche l'immagine dell'uomo celeste». Il termine «icona» viene continuamente predicato in questi passi in relazione a due prototipi opposti nel tempo e nello spazio, il primo e l'ultimo, e suggerisce l'idea di una forma che esiste come «partecipazione di...»; oppure di un «sussistere in...». Così l'umanità sussiste prima in Adamo, come partecipazione di un'unica anima vivente, ma terrena, e parte del genere animale; dopo nel Cristo risorto, come partecipazione di un'unica esistenza nuova, celeste, molto particolare, perché dono preciso di uno spirito datore di vita che supera le capacità dell'uomo (cf Rm 8,1-30).

«Vi è un corpo animale e vi è un corpo spirituale» (1 Cor 15,44). Il termine «corpo», o «carne», che in questo capitolo gli equivale, indica che questa immagine ha certamente una impronta reale, complessa e completa, delineata a partire dalla persona umana che conosciamo. Ciò è dimostrato dal fatto che Paolo aveva precedentemente messo in rapporto la risurrezione di Cristo con la risurrezione dei morti (1 Cor 15,12.17-19: «Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?»)e la risurrezione dei morti con quella di Cristo (vv. 13.16: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto!»). Ciò significa che, in polemica con la mentalità greca, .egli considera entrambi in senso reale e globale, tanto è vero che nei vv. 35ss aveva cercato concretamente di spiegare «come» è da intendersi questa risurrezione dei corpi: «Come risusciteranno i morti, con quale corpo verranno?... Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale».

Sulla base di questo termine comune, Paolo può incastonare uno nell'altro i due prototipi ai quali egli riferisce il termine icona. Tra i corpi celesti e i corpi terreni, tra i due Adamo, vi è un rapporto di trasformazione sulla base di un rapporto di identità. Di conseguenza, la risurrezione di Cristo è realmente la risurrezione di un vero uomo, stabilito nel suo corpo glorioso come prototipo di ogni futuro corpo umano; e ogni uomo è chiamato a partecipare alla realtà del Cristo risorto. Il pensiero è essenzialmente quello che sarà sviluppato in Rm 8,29 e Fil 3,21: Cristo è l'architetto di una nuova umanità, di coloro che sono «predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo», il quale «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a se tutte le cose». Anzi, la risurrezione finale di ogni corpo umano è il vero senso della risurrezione del corpo di Cristo. Ciò stabilisce un forte rapporto d'identità e di compenetrazione tra l'uomo e il Cristo, tra la sua vicenda e la nostra. Infatti, come Cristo ha portato l'immagine dell'uomo terrestre, così noi porteremo l'immagine dell'uomo celeste. Anzi, questo pensiero di Paolo prende le mosse a monte proprio dall'identificazione del Cristo risorto con quell'icona portatrice della gloria divina, quell'immagine di Dio in senso radicale, di cui parla il testo di Gn 1,26-27, nella quale e in vista della quale ogni uomo è stato creato. Essa è l'anticipo del primo Adamo, quello terrestre, da essa inizialmente emanato, e poi preso, assunto in se e trasformato nell'immagine gloriosa dell'uomo celeste. Ciò che è ultimo nella realizzazione, si sa, è anche primo nella progettazione, perché la causa finale è inseparabile dalla causa formale. In questo senso Cristo è il primo ab æterno, l'icona di Dio che sussiste da sempre, per mezzo del quale l'uomo fu fatto e nel quale ogni uomo redento sussiste.

Già prima di Paolo il giudaismo aveva visto in quell'icona di Dio di Gn 1,26-27, nella quale I'uomo fu creato, un prototipo di uomo: «Il Re dei re fece ogni uomo con lo stampo del primo uomo» (Mishnah Sanhedrin IV ,5), e questo primo uomo è tanto nobile e di fattezze così divine che gli angeli volevano chiamarlo Santo (cf Genesi Rabbah VIII, 10). Infatti: «Superiore ad ogni creatura vivente è Adamo» (Sir 49,16). Significativo è l'episodio di Rabbi Banaah, che, dopo aver visto Abramo presso le tombe dei patriarchi, avrebbe voluto vedere anche Adamo. Ma allora si udì una voce: «Tu hai visto la somiglianza (demūt) della mia immagine, ma non puoi vedere la mia stessa immagine» (Baba Batra 58a). Secondo Filone Alessandrino « ci sono due tipi di uomo, l'uno è l'uomo terrestre, l'altro è l'uomo celeste», e quello celeste fu il primo ad essere creato, l'archetipo, che secondo Filone corrisponde all'idea platonica di uomo. Infine Rabbi Aqiba disse che l'elezione consiste nel fatto che all'uomo fu fatto conoscere che egli fu creato nell'immagine di Dio (Mishnah 'Avot III,14).

Ora, per Paolo solo il Cristo risorto è l'Adamo escatologico, che ha donato all'uomo la conoscenza di essere stato fatto in quella stessa immagine che ora è pienamente realizzata in Lui, Signore della gloria. Tanto più che per l' Apostolo questa conoscenza non è presente ratione propria nel primo Adamo.


2. LA «STORIA» DELL 'IMMAGINE DI DIO NELL 'UOMO

a) Immagine, gloria e somiglianza...

Sebbene Paolo riconosca esplicitamente in 1 Cor 11,7 che l'uomo fin dall'inizio fu creato secondo l'immagine e la gloria di Dio, tuttavia egli sente il bisogno di distinguere «l'immagine» e la «gloria» come se tra i due vi fosse una differenza, come se la prima fosse una forma recipiente in rapporto alla seconda. Se quell'immagine di Dio che è l'uomo, si trova ad essere distinta dalla gloria che le compete, la causa è che fondamentalmente soltanto in Cristo questo è possibile. Sull'arco di tensione delineato dal rapporto di queste due figure si dispiega tutta l'economia della storia salvifica.

Paolo sviluppa questo concetto in diversi testi. In primo luogo, in rapporto alla trasgressione di Adamo, nel capitolo 5° della lettera ai Romani v. 12. La nuova sezione della lettera tratta della vita nuova, dono della grazia di Cristo, in seguito alla caduta, al peccato e alla colpa di un solo uomo, Adamo, a causa del quale la morte è entrata nel mondo.' Adamo è però figura di colui che doveva venire, il quale ha dato molto di più in termini di dono di grazia, di giustizia e di vita eterna, di quello che l'uomo aveva perso nel primogenitore. Le due figure Adamo e Cristo, primo uomo e ultimo uomo, sono contrapposte tra loro in base a un rapporto tipologico di figura/compimento, come i termini immagine e gloria di 1 Cor 11,7.

L'apostolo ne ha già parlato in relazione al peccato dell'umanità, nel capitolo lo della Lettera ai Romani: «In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà ed ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia...» (v. 18). In questo contesto troviamo per la prima volta un termine sinonimo di icona: «somiglianza», abbinato a icona come in Gn 1,26 (LXX: il TM ha rispettivamente selem e demūt), predicato da Paolo in 1,23 di questi uomini i quali: «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio nella somiglianza dell'immagine dell'uomo corruttibile, dei volatili, dei quadrupedi e dei rettili».

Da questo inizio della lettera ai Romani apprendiamo che nella letteratura paolina l'idea della riproduzione di una forma è resa con almeno due concetti non esattamente equivalenti: immagine e somiglianza. Nel greco della LXX, conformemente all'uso classico, immagine designa una riproduzione perfetta di un prototipo, come un quadro o una statua di un personaggio. Essa deve riprodurre le sembianze e le fattezze dell'originale, come una copia, o ancora di più, come una rappresentazione visibile dell'essenza della cosa, come un ritratto o un busto devono rendere l'idea fisica e spirituale del soggetto rappresentato, conformandosi radicalmente ad esso. Poi che l'immagine deriva da una realtà originaria, essa comporta sempre una relazione di dipendenza o d'origine. Talvolta lo stretto e completo legame che unisce il prototipo alla sua fedele riproduzione viene spiegato come irradiazione della sua sostanza, quindi come partecipante della sua stessa realtà.

Alquanto più debole sembra il concetto di somiglianza, che talvolta sembra essere introdotto più per giustificare le differenze che per spiegare le uguaglianze. Si tratta di un'immagine che non è certo identica all'archetipo, ma semmai in qualche modo simile ad esso, dello stesso tipo, per forma o dinamica. Inoltre è da notare che il concetto di somiglianza, derivando in greco da un verbo in -οω che significa «rendere simile» o «diventare simile» , esprime la particolare accezione di «reiterato movimento di conformazione a», di «crescita secondo l'immagine».

Ciò è confermato dall'uso che hanno questi termini tanto nei gli ultimi strati dell'AT, spesso in connessione col sostrato ebraico, e nel giudaismo extra biblico, quanto nel NT e nel linguaggio dei Padri della Chiesa. Se, infatti, da un lato la teologia della tradizione Sacerdotale era giunta a concepire l'uomo come immagine di Dio a partire dal fatto che egli è collocato nel creato qual segno della sovranità di Dio (Gn 1,27), per rendere lode e culto a Dio, dall'altro essa sfuma il termine con somiglianza quando parla di Dio ad immagine dell'uomo (cf Ez 1,26: «Qualcosa simile ad una figura d'uomo»). Similmente,quando gli autori del NT (cf 2 Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,3), o Padri della Chiesa come Tertulliano, Ireneo, Origene,ecc. devono parlare del rapporto del Figlio col Padre, usano il termine «immagine», così pure quando enunciano la realtà dell'uomo immagine di Dio in senso radicale; mentre il termine «somiglianza» trova posto piuttosto nel loro linguaggio storico-salvifico, a designare le diverse realtà antropologiche tese a «conformarsi a...».

Queste eccezioni hanno indubbiamente un rapporto molto forte con la teologia e il linguaggio di San Paolo, il quale ne fa dei concetti chiave per sviluppare la sua cristologia e la sua antropologia teologica. .

b) Fatto alla somiglianza degli uomini...

In sintesi, si può spiegare il problema posto da 1 Cor 11, 7 sulla distinzione dell'immagine dalla gloria, con il messaggio dei primi capitoli della lettera ai Romani: creato immagine di Dio per essere supporto della Sua gloria, l'uomo si è volto verso un'altra fonte; un altro prototipo che non Dio stesso, cercando di riprodurne in se stesso le fattezze (somiglianze). Hanno preso come punto di riferimento l'immagine di altri uomini, o di animali o di astri celesti, divinizzandoli. In questo modo hanno scambiato la loro gloria e mutato le loro relazioni naturali (cf vv. 23.26-27), sino a disonorare completamente il loro corpo. Avendo perso la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di una conoscenza depravata (v. 28). La loro mente ottenebrata non riflette più la luce della gloria di Dio, mettendo quindi in pericolo la loro stessa esistenza, che da essa deriva. Il termine «somiglianza» del v. 23 indica proprio il loro reiterato sforzo di conformarsi a qualcosa di alieno, nel tentativo di acquisirlo come forma definitiva del proprio essere. Infatti, questo tentativo è stato condotto tanto avanti, e non solo dalle genti, ma persino da Israele (cf Rmfatti simili a Gomorra» (Is 1, 9 citato in Rm 9,29). 1,18-32 e 2,1-3,20), che: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, saremo diventati come Sodoma e

Dio Padre però, nella sua immensa ed onnipotente misericordia, è intervenuto e: «Mandando il Suo Figlio nella somiglianza della carne del peccato e per il peccato, ha condannato il peccato nella carne». Se è vero che altrove Paolo usa un termine molto più forte, arrivando adire che Dio «fece» Cristo peccato in nostro favore (2 Cor 5,21), tuttavia qui il significato resta quello di una attribuzione esterna, giuridica e formale, che è ben resa nel suo significato col termine «somiglianza». Più nell'essenza entra la figura di FiI 2,6ss: «Cristo, pur essendo in forma di Dio, non reputò rapina l'essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso prendendo la forma di servo, essendo diventato così simile agli uomini. Ed essendosi trovato così all'esteriore come un uomo, abbassò se stesso, essendosi fatto ubbidiente sino alla morte». Qui si tratta di qualcosa di più di una identificazione giuridica in un processo salvifico, ma di una assunzione e di una trasformazione, «perché noi potessimo diventare per mezzo di Lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

Quindi, «se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17).

Per contrapposizione, come il tentativo precedente dell'uomo di conformarsi a somiglianza della sua semplice immagine naturale o, peggio, all'immagine di animali inferiori, ha abortito in una realtà di schiavitù (cf Fil 2, 7; Rm 1,26-32), così ora I'abbassamento di Cristo che ha assunto una carne simile a quella del peccato e la condizione dello schiavo, è riuscita a liberare l'uomo da quella stessa somiglianza di peccato che aveva assunto.

L'azione redentrice della misericordia di Dio si muove in ogni modo con la stessa tattica dell'azione umana, cambiandole però totalmente direzione e rendendo questa volta efficace il suo cammino, facendolo procedere secondo natura e secondo il Suo progetto storico-salvifico.

3. L'UOMO IMMAGINE DI DIO IN CRISTO

a) A somiglianza della Sua morte... per partecipare della Sua Risurrezione

Nella Lettera ai Romani si legge: «Noi siamo stati innestati con Cristo, a somiglianza della sua morte» (Rm 6,5). Siamo all'interno di un discorso «sacramentale». Si tratta del Battesimo, che ci rende conformi alla sua morte, per farci partecipare alla sua risurrezione. Anche qui, quando si tratta di partecipare alla morte, si usa il termine somiglianza, perché noi in realtà non siamo morti affatto di una morte cruenta come quella di Cristo. Ma l'identificazione è operativa, dinamica, storico-salvifica, e ha un effetto reale. Questa somiglianza alla sua morte indica infatti tutto il cammino che l'uomo deve intraprendere per diventare una forma recipiente adatta a ricevere l'azione di Dio in lui.

Quando, infatti, si tratta di conformazione all'immagine del Cristo risorto, allora Paolo usa appunto il termine «immagine», «icona». Così sintetizza bene Sant'Agostino questo procedimento che ora esamineremo brevemente in San Paolo: «Hoc agit spiritus gratiae, ut imaginem Dei, in qua naturaliter facti sumus, instauret in nobis. Vitium quippe contra naturam est».

San Paolo fa di nuovo riferimento alla creazione e a Gn 1,26-27 quando, sintetizzando i capitoli (1-8) della lettera ai Romani sulla giustificazione e la vita nuova e introducendo i seguenti sulla storia della salvezza e il problema d'Israele (cc. 9-11), in un potente sguardo sintetico e prolettico enuncia: «Coloro che Dio ha preconosciuto, li ha anche precostituiti ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché questi sia primogenito tra molti fratelli» (8,29). Ciò significa che quella vera immagine ideale che esiste fin dall' eternità è il Cristo. Ritorniamo al testo di Gn 1,26-27.

Dio Padre, pensando a quell'immagine alla quale doveva essere conforme l'uomo che avrebbe creato, pensava al Figlio suo incarnato, morto e risorto. Soltanto per mezzo di quell'immagine vera, l'uomo può essere rivestito dell'immagine di Dio.

Per dirla con Sant' Agostino, quell'immagine nella quale noi siamo stati creati deve, per mezzo del dono della grazia di Cristo fatto dal Padre nello Spirito, cioè per mezzo della comunicazione della Sua gloria, entrare completamente in noi e realizzare una copia perfetta, un'immagine radicale, una, irripetibile e identica: un'icona del Cristo Gesù.

Questa storia viene brevemente tratteggiata in 2 Cor 3 partendo questa volta dal libro dell'Esodo. Mentre gli israeliti nel deserto avevano avuto nel volto splendente di Mosè una limitata visione della gloria di Dio destinata all'uomo, oggi tutti, gentili e cristiani, possono volgersi al Signore senza velo sugli occhi, tolto dallo Spirito del Signore, e riflettere come in uno specchio la gloria del Cristo. Questo significa, secondo le parole di San Paolo stesso, essere trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria (cf v. 18), di somiglianza in somiglianza, ricostruendo in se la radicalità dell'immagine. Questa gloria, che è già da essi condivisa con Lui, incessantemente aumenta verso uno stadio sempre maggiore, con una concatenazione reciproca in crescendo, poiché la ricezione della gloria diventa causa essa stessa di una sua maggior capacità di acquisizione.

Per Paolo il Cristo risorto ha donato all'uomo non solo la conoscenza di essere stato fatto in quella stessa immagine che ora è pienamente realizzata in Lui, ma soprattutto la possibilità di essere trasformati in quella sua stessa immagine gloriosa di Risorto.

Questo è possibile perché, da un lato, i cristiani non hanno davanti semplicemente un'immagine di un dio conoscibile solo attraverso le sue emanazioni di sapienza accessibili per speculazioni, come vuole la gnosi, ma perché essenzialmente hanno davanti un'immagine concreta, corporale, in Cristo incarnato, morto e risorto, resa dinamica e comunicabile nello Spirito attraverso progressive somiglianze sacramentali; e, dall'altro, per che il Cristo Risorto è in primo luogo l'icona di Dio che comunica all'uomo l'immagine perfetta dell'archetipo divino.

b) Cristo immagine di Dio

Siamo arrivati così al primo argomento di questa nostra trattazione, al quale abbiamo più volte accennato, ma che è stato riservato per ultimo secondo l'ordine dato probabilmente da San Paolo stesso. Di Cristo icona del Padre l' Apostolo parla infatti esplicitamente solo nella lettera ai Colossesi, a parte una glossa in 2 Cor 4,4, che probabilmente è una citazione tratta da quell'inno riportato in Col 1,15-20 (cf anche FiI 2,6-11), dove il concetto di Cristo immagine di Dio è una parte costitutiva di tutta l'argomentazione.

Ecco il testo: «Il dio di questo secolo ha accecato le menti degli increduli, affinché la luce dell'Evangelo della gloria di Cristo, il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, non appaia loro» (2 Cor 4,4). Ora, se con «divina gloria» in questo passo s'intende il modo di vivere e di agire di Dio stesso, e se questa gloria è predicata del Cristo, ciò significa che il Cristo stesso viene detto Dio, ed il concetto d'immagine trascina qui il concetto di processione da un prototipo diverso nell'esistenza, ma identico nelle proprietà, in modo tale che l'uomo può tramite Cristo, immagine di Dio, giungere a conoscere la divinità di Dio, cioè a percepire qualcosa dell'essenza divina. Questo concetto è fondamentale per il NT e per la dottrina dell'uomo immagine di Dio. Se Dio «abita in una luce inaccessibile; il quale nessun uomo ha veduto ne può vederlo» (1 Tm 6,16), in Cristo si è fatto visibile, accessibile e conoscibile (Col1,15ss: cf Gv 1,18; 5,37, ecc.). Ciò permette all'uomo di riflettere la Sua gloria, e di esser trasformato nella Sua stessa immagine (cf 2 Cor 3.7-18; 1 Gv 1,1-5). Ma per questo è indispensabile che Cristo non sia immagine di Dio in quanto creatura Sua, ma immagine in quanto Dio. La sua definizione d'immagine di Dio gli proviene dalla sua relazione trascendente con Dio. La gloria di Dio, comunicata a Cristo, lo costituisce come immagine.

Da qui il suo ruolo: primo, nella creazione ( Col 1, 15-17); secondo, nella redenzione (Col 1,18-19; 3,9).

1. Il Figlio immagine di Dio nella creazione

«Egli è l'immagine dell'invisibile Dio, il primogenito di ogni creatura, poiché in Lui tutte le cose sono state create, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, troni, signorie, principati e potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e a causa di Lui. Egli è prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui» (Col 1,15-17).

Il Cristo, in quanto Dio che si rende visibile, è all'origine di tutto il creato. Dire che il Cristo è il primogenito di ogni creatura non significa qui che è il primo di una serie, ma che si distingue da tutto il creato perché tutto il creato fu fatto per mezzo di Lui, e per mezzo di Lui riceve la capacità di continuare ad esistere (cf Sir 43,26). Egli è l'agente strumentale (quello principale è il Padre: cf il passivo «sono state create» del v. 16) che si pone di fronte a tutto il creato, perché Lui come primogenito del Padre sta al di sopra di ogni creatura (cf Prv 3,9; 8,27-31; 1 Cor 8,6; Eb 1,3.6). La creazione a opera di Cristo, immagine di Dio stabilisce tutto il mondo in potenza di fruizione derivata e di sottomissione e tutti gli uomini in attesa d'elezione. Da quel momento in poi tutta la creazione, sottomessa inoltre alla corruzione a causa del soprag-giunto peso del peccato, sospira verso il momento della redenzione, da lei non intravisto, ma da Dio previsto. Qui si delinea tutto il travaglio teologico del pensiero paolino, che va da Cristo al mondo e dal mondo a Cristo: da Cristo all'opera di salvezza e dall'opera di salvezza al Cristo.

2. Cristo immagine di Dio nella redenzione

«Ed egli stesso è il capo del corpo che è la Chiesa, il principio,il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Poiché è piaciuto al Padre che tutta la pienezza abiti in Lui» (Col 1,18-19).

In questo caso il termine primogenito ha un altro significato. Il Cristo è stato costituito «Figlio di Dio in potenza» e « Signore», ricostituito in perfetta immagine di Dio come era prima dei secoli, proprio per che diventasse primogenito di molti fratelli, primizia di coloro che dormono, nel senso vero di colui che fa sussistere non solo per mezzo di se o a causa di se, ma anche in se, nella sua immagine, tante «icone» di cui Lui è l'archetipo. Per di più, solo a causa del fatto che con la sua risurrezione ha nuovamente sottomesso il creato a se e ha dato il potere ad ogni uomo di rigenerarsi completamente, «spogliato dell'uomo vecchio con i suoi atti, e vestito il nuovo, che si rinnova a conoscenza, secondo l'immagine di colui che l'ha creato» (Col 3,9-10), Cristo avrà in mano il Regno ed ogni signoria, che potrà rimettere al Padre (1 Cor 15,24).

c) Conclusione: l'uomo in Cristo immagine di Dio

«Se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (GaI 6,15; 2 Cor 5, 17). Anche la creazione escatologica di Dio fa sempre riferimento a Gn 1,26-27. Paolo esorta a rivestire I 'uomo nuovo, che è il compimento in noi di quell'immagine a somiglianza del Creatore nella quale siamo stati creati, che di fatto è il Cristo (Col 1,15), ma che ora deve rinnovarsi completamente in noi di conoscenza in conoscenza, giorno dopo giorno, conformandosi alla kenosi del crocifisso (cf FiI 2,6ss) per poter poi raggiungere di somiglianza in somiglianza la piena e perfetta immagine del Cristo Risorto in noi (cf 2 Cor 4,16; Rm 6,5; 8,29; Col 3,9-10).

Quell'immagine figurale nella quale eravamo stati creati, che era potenza di fruizione derivata, supporto di una somiglianza e crescita secondo determinate somiglianze attraverso l'obbedienza della croce, ora di gloria in gloria è diventata sussistente di vita nuova ed eterna come partecipazione diretta all'emancipazione dell'essenza divina, partecipazione nel Logos all'impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3), alla gloria, come immagine dell'Immagine di Dio che è il Figlio Suo, reso a noi visibile, conoscibile e comunicabile nello Spirito (cf 2 Cor 3,18; Rm 5,5; 8,8-14; GaI 5,16-23 ecc.). Il concetto d'immagine applicata all'uomo abbraccia così tutta la realtà dell'uomo, la anticipa e la sintetizza, dalla creazione alla redenzione, e soprattutto a partire da quest'ultima, perché fondamento dell'ontologia dell'icona è la sua escatologia. Infatti, sia che si applichi all'uomo terreno, sia che si applichi all'uomo celeste, essa indica sempre una relazione di origine e di dipendenza dal modello ultimo, anche se a diversi livelli e con diversi movimenti, dall'emanazione all'assunzione, dal tipo all'antitipo, dall' Adamo al Cristo, dalla figura allo svelamento, dalla fotografia al negativo a quella al positivo, per dirla in altre parole.

Termine di questo processo e di questa economia è l'uomo nuovo, fatto ad immagine del Cristo glorioso che l'ha generato. Esso appartiene all'ordine escatologico (1 Cor 15,45), è «spirituale» nel significato pieno del termine, partecipa a Dio in Cristo, è d'origine celeste (1 Cor 15,46s), è l'uomo immagine di Dio in senso radicale, l'uomo divinizzato, irradiazione della Sua sostanza, quindi partecipante della Sua stessa realtà. È I 'immagine di Cristo che il Padre per mezzo dello Spirito ha impresso in noi, perché diventassimo sua dimora santa e gloriosa (cf Ef 2,19-22), «ut imaginem Dei, in qua naturaliter facti sumus, instauret in nobis».

Con ciò siamo tornati a quella dinamica dell'assunzione e trasformazione dell'uomo terreno in uomo celeste, di cui trattavamo nel paragrafo secondo a partire da 1 Cor 15,45ss, e vi resteremo fino a quando di somiglianza in somiglianza giungeremo all'immagine radicale, «quando questo corruttibile avrà rivestita l'incorruttibilità, e questo mortale l'immortalità» (1 Cor 15,54), allora «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28).

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 25 Dicembre 2005 20:10

Si è fatto povero per noi (Michele Lenoci)

Si è fatto povero per noi

di Michele Lenoci

Punto di partenza della nostra ricerca, tendente a evidenziare la portata profonda della condivisione di Cristo con la nostra umanità, è il passo di 2 Cor 8,9. Il brano si trova inserito nel contesto della colletta organizzata fra le Chiese per i fratelli poveri di Gerusalemme, e precisamente nella serie delle varie motivazioni addotte da Paolo per esortare i Corinzi a rispondere con generosità a tale iniziativa. All'improvviso, l' Apostolo, con «una impennata cristologica», afferma: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».

Fin dai tempi dei Padri questo testo ha avuto interpretazioni discordanti. Alcuni hanno inteso la «povertà» di Cristo in riferimento alla incarnazione, in quanto assunzione della nostra natura umana, povera, limitata, sottoposta anche alla morte; altri, nel senso di povertà reale, come scelta, fatta da Cristo, di una vita economicamente povera.

Le due posizioni, spesso presentate come conflittuali e opposte tra loro, se considerate alla luce dell'intero epistolario paolino e dei dati globali del NT, si illuminano e si integrano reciprocamente: la povertà in senso sociologico ed economico, che si riscontra nella vita di Gesù, è la manifestazione esteriore della povertà più radicale accettata con l'incarnazione.

Sia grammaticalmente che contenutisticamente 2 Cor 8,9 è simile ad altri passi paolini (2 Cor 5,21; Gal 3, 13s; 4,4s; Rm 8,3s) che E. STAUFFER definisce «formule paradossali dell’incarnazione», mentre M. D. HOOKER parla di «formule di interscambio». Tali testi sono normalmente bipartiti e contengono, nella prima parte, l'affermazione di una scelta fatta da Cristo di una situazione negativa a Lui non dovuta, e, nella seconda, la finalità soteriologica di tale scelta.

Una particolare somiglianza si nota con il celebre inno cristologico di Fil 2,6-11, di cui 2 Cor 8,9 sembra essere un condensato meno elaborato ma ugualmente pregnante. I due passi sono costruiti con il participio presente in una apposizione e l'aoristo nella proposizione principale, per esprimere non successione temporale ma simultaneità e contemporaneità. Ambedue, inoltre, contengono una visione sintetica e globale della vita e della storia di Cristo, dall'abbassamento nella incarnazione sino alla suprema umiliazione della croce, per giungere alla esaltazione celeste.

Dal confronto con i testi suddetti si può concludere che in 2 Cor 8,9, dato che la frase ha come soggetto «Gesù Cristo» e non «il Verbo», l'impoverimento non va inteso nel senso dell'abbandono della natura divina, bensì nel senso della rinuncia ai privilegi e alle prerogative divine, e della assunzione di una precisa modalità di esistenza, contrassegnata dalla debolezza, dal limite, dalla mortalità. È questa la "ricchezza" alla quale Cristo rinuncia. Si noti pure che, nel corpus paolino - eccetto 1 Tm 6, 17 - il vocabolario della “ricchezza” , (ploutos e derivati) non è mai usato per indicare i beni terreni, ma solo i beni divini: ricchezza di Dio (Rm 11,33), di Cristo (Ef 3,8), della grazia (Ef 1,7; 2, 7).

Vanno in questo senso anche le affermazioni dei Padri della Chiesa: «Il Signore è povero in quanto uomo. Secondo l' Apostolo si è fatto povero per arricchirci, Lui che di tutte le cose del mondo non ebbe che il suo corpo. E, per la salvezza, ha voluto nascere povero da una vergine; padrone dei cieli, non ha posseduto ne argento, ne campi, ne greggi» (Ilario di Poitiers). «Pur essendo ricco, ha preso una carne mortale nel seno della Vergine; e tutte le circostanze che hanno contrassegnato la sua infanzia povera sono state le conseguenze di questa povertà fondamentale che era l'incarnazione» (Agostino).

La scelta della "povertà" non avvenne quindi nella sfera divina prima dell'incarnazione: essa ha avuto luogo ripetutamente nell'ambito della vita terrena di Gesù e si è evidenziata concretamente come assunzione di un tenore di vita caratterizzato, se non dalla indigenza e dalla miseria, certamente dalla modestia e dalla sobrietà; condivisione della nostra «carne di peccato» (Rm 8,3); compromissione con la "povertà" dell'uomo nella "kenosi" della morte.

"Povertà" socio-economica di Gesù

Gesù venne al mondo in una delle grotte scavate nelle colline circostanti Betlemme, grotte adibite spesso ad abitazioni per famiglie, ed ebbe come culla una mangiatoia (Lc 2,7). Quando venne presentato al Tempio, i suoi genitori offrirono «una coppia di tortore» (Lc 2,24), offerta che secondo la Legge (cf Lv 12,6ss) dovevano compiere coloro che, per non agiate condizioni economiche, non potevano permettersi di offrire un agnello.

Nella sua adolescenza Gesù non frequentò le scuole dei rabbi (Gv 7,15), nelle quali i figli delle famiglie benestanti si preparavano alla carriera di scriba e ai compiti più importanti della società (cf At 22,3). La sua formazione avvenne, invece, nella famiglia e nella sinagoga.

Visse per trent'anni nell'anonimato, senza distinguersi dagli altri coetanei e senza compiere gesti degni di attirare l'attenzione dei suoi concittadini. Si spiega così la loro reazione, stupita e insieme incredula, attestata in Mc 6,3: «Non è questi il falegname, il figlio di Maria?». Trascorse questi anni in un villaggio sconosciuto e senza importanza (cf Gv 1,45), aiutando Giuseppe nel suo lavoro. Dai nazaretani verrà designato come «il figlio del carpentiere (tekton)» (Mt 13,55) e come tekton egli stesso (Mc 6,3); l'appellativo può indicare mestieri sostanzialmente equivalenti: falegname, carpentiere, artigiano.

Quando iniziò la vita pubblica, Gesù abbandonò il lavoro manuale svolto fino ad allora, per dedicarsi totalmente e incondizionatamente al suo ministero, distinguendosi sotto questo aspetto dagli scribi che esercitavano un mestiere in concomitanza con l'insegnamento. Lo differenziava, inoltre, dai rabbi del suo tempo il fatto di non avere, come loro, una sede fissa e stabile, condizione essenziale per un insegnamento regolare ed efficace. Gesù era invece sempre in movimento e si spostava continuamente da un luogo all'altro (Mt 4,23 e altrove).

Non si preoccupò di forme sicure di previdenza, preferendo vivere di donazioni libere e spontanee (Lc 8,3). A chi chiese di poterlo seguire, Egli fece presente che viveva in condizioni di precarietà e di insicurezza, avendo rinunciato nel suo ministero alla tranquillità e al calore di una casa: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20 par. Lc 9,58). Il detto, che per la sua forma linguistica e letteraria sicuramente risale allo stesso Gesù, ci rivela come egli concepisse la sua missione.

Tuttavia, se è vero che Gesù scelse liberamente e volontariamente la povertà, è altrettanto vero che non può essere collocato tra gli indigenti, tra coloro cioè che mancano del necessario per vivere e non sono neanche in grado di procurarselo. Dai vangeli sappiamo che Gesù poteva contare sull'ospitalità dei suoi amici e dei suoi seguaci (Mc 3,30; Lc 10,38s) e che poteva disporre di una certa quantità di danaro, messo a sua disposizione da benefattori e benefattrici, per provvedere al necessario per vivere (Gv 4,8) e per aiutare i poveri (Gv 12,6; 13,29).

Se Gesù rinuncia ad una professione ben retribuita, a risorse sicure, a una casa sua, egli lo fa per essere in tutto servo del Regno che annuncia. La sua non è miseria ma sobrietà, motivata non dal disprezzo dei beni economici oda un ideale di ascetismo e di austerità, sul tipo di quello praticato da Giovanni Battista (i suoi nemici anzi lo accusano di essere «un mangione e un beone»: Mt 11,18s); è dettata, piuttosto, oltre che dalla volontà di dedicarsi pienamente alla sua missione, dalla fiducia illimitata nella sollecitudine paterna di Dio. Gesù ha vissuto per primo quello che ha insegnato: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).

La «povertà» di Cristo come condivisione

L 'affermazione cristologica di 2 Cor 8,9 non vuol certo affermare che Gesù si è spogliato della sua natura divina, bensì della gloria e della maestà di cui avrebbe potuto circondarsi venendo tra noi. Preferendo la "povertà" di una condizione umana, del .tutto simile alla nostra fuorché nel peccato (Eb 4,15; Gv 8,46), Cristo ha fatto sua la condizione e la sorte di tutti gli uomini.

I vangeli (in particolare Marco) riportano parole, gesti, sentimenti che evidenziano l'umanità di Gesù: la compassione nei riguardi di chi soffre (Mc 1,40-43), l'indignazione e l'afflizione dinanzi alla durezza di cuore (Mc 3,5; 10,13), la meraviglia e lo stupore per la incredulità dei concittadini (Mc 6,1 ), l'ignoranza dell'ora della parusia (Mc 13,22). Il secondo evangelista riferisce persino il giudizio non certo favorevole e riguardoso pronunciato nei confronti di Gesù: «È fuori di sé» (3,21).

Lo stesso Giovanni, pur mettendo in rilievo la divinità e la gloria del Verbo incarnato, non cerca di attenuare o di velare i tratti che ne rivelano l'umanità. Il Gesù giovanneo è un anthropos ( = uomo): il termine, usato con riserbo nei sinottici, è molto frequente nel quarto evangelista, che lo adopera con una certa gradualità e con una chiara pregnanza di significato per indicare il "mistero" dell'uomo Gesù (4,29; 5,12; 7,45s.51; 8,39s; 10,33; 11,50; 18,17). Giovanni presenta Gesù soggetto, come ognuno di noi, alla stanchezza e alla sete (4,6s), sensibile alla dolcezza e al fascino dell'amicizia (11,5; 13,1; 15, 14s), commosso e in pianto dinanzi alla tomba di Lazzaro (11,34-38), toccato profondamente dalla prospettiva del tradimento di Giuda (13,21).

Un'altra forma di "povertà", che riscontriamo nella umanità di Gesù, è la rinunzia a poter disporre di se stesso e del proprio tempo. Scrive a questo proposito J. Guillet: «Gesù non si appartiene e uno dei segni di questa rinuncia è il suo modo di vivere nel tempo. Una delle forme di ricchezza è avere del tempo davanti a sé, poter disporre a piacimento dei momenti che vengono, usarli a modo proprio... Ora Gesù vede la propria esistenza asservita e spogliata di se stessa. Non un istante che gli appartenga e di cui egli disponga a piacimento... Il suo tempo non gli appartiene, ma è tutto consacrato al Padre e alla sua opera... Il suo tempo non è suo, ma di tutti quelli che hanno bisogno di lui. Egli lo riceve dal Padre non come un tesoro di cui disporre a piacimento, ma come un deposito di cui rendere conto».

La "povertà" di Gesù si manifesta anche nella rinuncia a una propria progettualità nella determinazione della missione da realizzare e dei mezzi da adoperare. Nella piena accettazione del suo essere «figlio» si affida totalmente al Padre, in atteggiamento di consapevole obbedienza e sottomissione alla sua volontà (Gv 4,34; 5,30; 8,29). Unica sua preoccupazione è quella di compiere tutto ciò che piace a Lui (Gv 8,55), di annunciare e proclamare solo quanto ha udito e gli è stato ordinato da Lui (Gv 12,49s; 14,31) e di osservare i suoi comandi (15,10; 17, 1s).

La "povertà" di Gesù si manifesta, infine, nella scelta fatta fin dall'inizio del suo ministero, della via messianica del rifiuto della forza, della violenza, dell'affermazione di sé, alternativa alla aspettativa generale di un messia potente non solo da un punto di vista politico-militare. Gesù sceglie volontariamente per sé, e presenta ripetutamente ai suoi, una proposta di realizzazione umana e di salvezza basata non sul successo, sul prestigio, sull'asservire gli altri a se, ma sul «rinnegare se stessi», «prendere la propria croce», «perdere la propria vita per salvarla», «essere non il primo ma l'ultimo e il servo di tutti» (Mc 8,34s; 10,35).

Coerente con questa logica è la scelta, incomprensibile per la mentalità umana comune, della non assunzione, da parte di Gesù, di una posizione sociale di rilievo, senza creare buoni rapporti con le autorità politiche e religiose del tempo. Se fosse nato e vissuto in ambienti socialmente rispettati, se si fosse circondato di persone culturalmente qualificate, la sua missione avrebbe potuto avere risonanze più ampie e conseguire risultati più rilevanti. Ma questa - direbbe Paolo - è «la sapienza di questo mondo» che «Dio ha dimostrato stolta» (1 Cor 1,20), in Cristo «il quale è diventato per noi sapienza...» (1 Cor 1,30).

La "povertà" di Cristo nella kénosi della croce

Soprattutto nella prova della passione e della morte Gesù vive fino in fondo il suo «farsi povero per noi», ed è nell'esperienza della croce che si può cogliere tutta la vicinanza dell'uomo Gesù alla condizione degli uomini suoi fratelli.

L 'idea, presente in Paolo (cf FiI 2,6-8; 2 Cor 5,21 ecc.) e in tutto il Nuovo Testamento (cf Mc 10,45 ecc.), è sviluppata in maniera ampia e particolareggiata nella lettera agli Ebrei. Nel suo scritto l'autore prende le distanze dalla concezione veterotestamentaria del sacerdozio, fondato sulla esigenza della separazione più rigida, regolato da norme minuziose di purità rituale e oggetto spesso di mire e maneggi ambiziosi e disinvolti. Il sacerdozio «nuovo» realizzato e vissuto da Gesù ha, invece, come sua legge e come condizione qualificante la rinuncia ad ogni ricerca di gloria, l'abnegazione, l'assimilazione ai fratelli in tutto, fuorché nel peccato (cf Eb 2,17s; 4,15). Questi requisiti indispensabili vengono pienamente soddisfatti «nei giorni della vita terrena» di Cristo, e precisamente quando «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte» e nei quali «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l' obbedienza dalle cose che patì» (5,7s): «Affermazioni ardite - commenta A. Vanhoye - che siamo tentati di ignorare o di attenuare, ma che rivelano però tutta la serietà della incarnazione e della redenzione».

Partendo da questa visione originale e innovatrice della mediazione sacerdotale, l'autore della lettera agli Ebrei può affermare che Gesù «diventa» sommo sacerdote nel momento della passione e morte, nel momento cioè in cui diventa sommamente partecipe della essenza più profonda della condizione umana.

La passione e la croce sono il punto d'arrivo di tutta l'esistenza di Gesù vissuta come "kenosi", come spogliazione, come "povertà". La croce indica non solo la morte avvenuta nell'angoscia e nella sofferenza, ma anche tutti i dettagli e le circostanze precise di quella morte. Gesù sperimenta il tradimento, il rinnegamento, l'abbandono dei suoi, dettato sia dalla paura sia dalla delusione patita dinanzi all'esito tragico e fallimentare della sua vicenda. Subisce gli insulti e le denigrazioni delle guardie romane, dei capi del popolo, della folla presente sul Calvario e sopporta, indifeso e umiliato nella sua dignità, una morte ignominiosa, tendente non solo a eliminarlo fisicamente ma anche a cancellarne l' onore e la reputazione.

Inchiodato sulla croce, dopo un lungo silenzio, muore lanciando un grido straziante; si rivolge al Padre dicendo non più «Padre mio», come sempre faceva distinguendosi dagli altri uomini, ma soltanto «Dio mio, Dio mio...» (Mc 15,34; Mt 27 ,46). «Gesù si rivolge al Padre con una domanda. E il Padre tace. La voce che ha parlato al battesimo e alla trasfigurazione, qui tace... La domanda esprime l'abbandono degli uomini e di Dio, ma anche la fiducia. È infatti l'inizio della preghiera del giusto abbandonato che muore affidandosi pienamente a Dio (Sal 22). Dunque fiducia. Ma è la fiducia in una esperienza di totale abbandono. Questa è la fede di Gesù». Come scrive A. Camus nella sua opera «Il caso»: «Non era un superuomo... io lo amo questo mio amico, proprio perché morì con la domanda sulle labbra». Come conseguenza ultima del suo essere uomo, Gesù vive in pieno l'ora della notte di Dio, il momento estremo dell'impotenza di Dio, nella sua morte solitaria e abbandonata.

La croce di Cristo, però, non è fallimento: la sua morte vissuta nella preghiera, nell'obbedienza filiale al Padre e nell'amore solidale verso i fratelli, rivela la profondità del mistero della sua persona («Veramente quest'uomo era Figlio di Dio». Mc 15,39), e anche l'identità vera dell'uomo: essere creato e chiamato ad affidarsi liberamente e totalmente all'amore fedele del Padre e a vivere nella donazione e nel servizio disinteressato ai fratelli.

Tutto questo ora è possibile all'uomo realizzarlo proprio in virtù della «grazia del Signore nostro Gesù Cristo», il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9; cf Eb 5,9: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza per coloro che gli obbediscono»).

 

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 02 Dicembre 2005 20:42

“Il codice Da Vinci” (Filippo Morlacchi)

“Il codice Da Vinci”

di Filippo Morlacchi



Occorre cercare di capire, per poter giudicare. Come mai il romanzo Il codice Da Vinci ha trasformato in breve tempo Dan Brown – uno sconosciuto docente di letteratura inglese con il pallino per la storia dell’arte e per il simbolismo esoterico – in un acclamato e ricchissimo autore di best seller? La risposta non è facile. La trama del thriller risulta complessivamente avvincente, ma non tale da giustificare gli oltre diciassette milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si potrebbe anzi rilevare un certo calo di tensione verso la fine del racconto, quando il succedersi dei colpi di scena diventa così ripetitivo da risultare prevedibile o perfino esasperante. C’è un elemento però che caratterizza il romanzo dall’inizio alla fine: il voluto, inestricabile intreccio di elementi evidentemente fantastici con altri più credibili, in modo tale che il piano della fiction e quello della realtà non siano ben distinguibili. Questo, probabilmente, è stato lo stratagemma vincente. La versione originale (1) del romanzo, dopo una pagina di ringraziamenti riporta il seguente testo: «Fatto: Il Priorato di Sion – una società segreta europea fondata nel 1099 – è un’organizzazione reale. Nel 1975 la Biblioteca Nazionale di Parigi scoprì alcune pergamene conosciute come I dossiers segreti, che identificano numerosi membri del Priorato di Sion, inclusi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci. La prelatura vaticana conosciuta come Opus Dei è una setta cattolica profondamente religiosa che è stata l’argomento di una recente controversia dovuta ad accuse di lavaggio del cervello, coercizione e una pericolosa pratica nota come mortificazione corporale. L’Opus Dei ha appena completato la costruzione di un Quartier Generale Nazionale da 47 milioni di dollari al 243 di Lexington Avenue a New York City. Tutte le descrizioni di manufatti, architetture, documenti e rituali segreti in questo romanzo sono accurate» (2). Come si vede, l’autore avanza esplicitamente la pretesa di dire cose “accuratamente vere”, almeno rispetto ad alcuni elementi del romanzo. L’editore italiano (Mondadori) ha riportato la traduzione di questa pagina fino alla sesta ristampa; poi si è invece cautelato, mettendo in guardia il lettore con il classico avviso: «Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi o persone, vive o defunte, è assolutamente casuale» (p. 4 della traduzione italiana) (3). Tuttavia è evidente che le numerose affermazioni formulate dai personaggi del romanzo in relazione a numerosi argomenti di storia, religione, simbologia, crittografia, ecc., vogliono rivendicare validità scientifica. Il lettore viene così costantemente e deliberatamente indotto in errore, dal momento che svarioni grossolani e imperdonabili, imprecisioni veniali e comprensibili, deformazioni storiografiche fantasiosamente capziose ed affermazioni scientificamente accettabili si susseguono senza distinzione, presentate tutte su uno stesso livello. Il valore scientifico della maggior parte delle presunte verità affermate dai protagonisti del romanzo però non ha maggior consistenza storica della loro fantasiosa vicenda. Quanto afferma uno dei personaggi, la crittologa Sophe Neveu, a proposito della sua Smart rossa fiammante («Cento chilometri con un litro (4) », p.164) ha lo stesso valore di quanto afferma – ad esempio – il ricco sir Leigh Teabing a proposito del Concilio di Nicea (p. 272ss). Con la differenza che per scoprire la falsità della prima affermazione basta chiedere ad un possessore di Smart quanto fa con un pieno, mentre l’accertamento di complesse verità storiche relative ad un concilio svoltosi nel 325 d.C. richiede una verifica decisamente più laboriosa, che ben pochi hanno voglia di attuare, finendo così con l’accettare per buone le presunte rivelazioni del romanzo. Rivelazioni che però – come giustamente osservava l’editore italiano – sono pura «opera di fantasia».

Si può dunque sostenere che il romanzo, pur essendo nella sua confezione esterna un thriller, è un vero e proprio “romanzo di idee”. La vicenda intende offrire al lettore suggestioni e spunti per riflettere, e non il puro divertimento di un racconto giallo. Dan Brown ha scritto il romanzo come strumento per diffondere alcune sue convinzioni, basate – a suo dire – su certi fatti. Peccato però che molti di questi presunti fatti non siano tali. Quali sono queste idee e questi fatti, e perché possiamo dire che si tratta di una bufala? Dobbiamo andare per gradi.

La tesi di fondo del romanzo si può riassumere così: la Chiesa cattolica, la cui gerarchia è composta da soli uomini, ha funzionalmente costruito una cultura misogina nascondendo una terribile e scomoda verità: Gesù Cristo amava Maria Maddalena, desiderava affidare a lei la guida della sua comunità e generò con lei una discendenza “di sangue reale”, che attraverso i Merovingi, è giunta fino a noi. A causa degli interessi della gerarchia ecclesiastica e con la complicità dell’imperatore Costantino, tutta la cultura ebraico-cristiana si è invece fondata sul pregiudizio maschilista e sul nascondimento di ogni testimonianza a favore del “sacro femminino”. Ma una setta denominata Priorato di Sion, da sempre custode di questo terribile segreto, sarebbe oggi pronta a rivelare questo segreto al mondo intero. Questa teoria sarebbe suffragata, secondo l’autore, da alcuni presunti fatti, relativi in particolare al Priorato di Sion e all’Opus Dei. Ora, l’intera costruzione dimostra la sua fragilità, se si considera che tutto ciò che viene affermato a proposito del Priorato di Sion è invece assolutamente falso.

Non voglio fornire un resoconto dettagliato della trama (è l’unica cosa che merita la lettura del libro, e non vorrei togliere ai possibili lettori il gusto di scoprire come va a finire l’intreccio), né di tanti elementi storiografici inseriti nel romanzo, relativi alle leggende del Santo Graal, al Priorato di Sion, all’ordine dei Templari, ecc. (5) Mi limiterò a esaminare, riportando alcune citazioni, le tesi “ideologiche” più avventate e, a mio giudizio, più pericolose del volume.

Ecco perciò una raccolta antologica delle affermazioni che il lettore ingenuo potrebbe accogliere come verità finalmente svelate, se dimenticasse che non solo luoghi e persone – come l’autore dichiara – ma anche le tesi proposte dai protagonisti del romanzo non vanno prese per oro colato, ma sono frutto di pura invenzione.

1) La lunga presentazione di Costantino imperatore come pagano impenitente che si sarebbe servito del cristianesimo per vantaggio politico («un ottimo uomo d’affari [che] vedendo che il cristianesimo era in ascesa si è limitato a puntare sul cavallo favorito», p. 272), redattore della Bibbia tramite la distruzione dei vangeli da lui ritenuti pericolosi («commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Gesù», p. 275), primo assertore della divinità di Cristo al Concilio di Nicea («fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo», p. 273) è infarcita di errori. Nella discussione si leggono alcuni ridicoli anacronismi; ad esempio, l’affermazione che «stabilire la divinità di Cristo fu un passo cruciale per l’ulteriore unificazione tra l’Impero Romano e il nuovo potere con sede nel Vaticano» (p. 274): l’errore sarebbe imperdonabile anche per un alunno di scuola media, considerando che la sede del papato non fu il Vaticano, ma il colle Laterano, e questo fin dopo la cattività Avignonese, mille anni dopo Costantino. Oppure l’affermazione che «quando Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù [da umana a divina], erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso» (p. 275): tra la morte di Cristo (avvenuta circa nell’anno 30 dell’Era Volgare) e il concilio niceno (tenutosi nel 325) passano meno di trecento anni, e non quasi quattro secoli (e bisogna aggiungere che affermazioni della filiazione divina di Gesù di Nazareth erano formulate in maniera chiara già nella tradizione cristiana del primo secolo!). Vi sono poi numerose affermazioni non documentate (e non documentabili); ad esempio, che «più di ottanta vangeli sono stati presi in considerazione per il Nuovo Testamento» (p. 272: il numero è di pura fantasia, assolutamente non ricostruibile); che «naturalmente, il Vaticano, per non smentire la sua tradizione di disinformazione, ha cercato di impedire la diffusione di questi testi [cioè i papiri di Qumran e di Nag Hammadi]» (p. 275: tra gli studiosi più qualificati di questi testi ci sono numerosi cattolici); la tesi che la Chiesa costantiniana abbia voluto cancellare i tratti umani di Gesù facendone un essere divino («la Chiesa delle origini doveva convincere il mondo che il profeta mortale Gesù era un essere divino», p. 286: chiunque abbia sfogliato un manuale di storia dei dogmi, o anche solo il catechismo, sa bene che la dottrina cristiana insiste sulla duplice natura, umana e divina, nell’unica persona di Gesù: nessuna cancellazione, dunque, della natura umana); e tante altre presuntuose sciocchezze, reperibili alle pp. 271-77 (6). È sufficiente leggere un’aggiornata introduzione al testo biblico o un testo documentato di storia della chiesa antica per smentire una ad una simili pretestuose affermazioni.

2) La Chiesa è trattata da Brown in modo contraddittorio: da un lato è considerata attrice perversa di una consapevole mistificazione (vuol nascondere al mondo la verità su Cristo), dall’altro sembra invece ingenuamente succube dei propri errori («la Chiesa moderna … è convinta della tradizionale visione di Cristo. Nel Vaticano ci sono molti uomini di profonda fede religiosa, certi che questi documenti (cioè i vangeli gnostici) siano testimonianze false»: pag. 275).

L’aspetto più insidioso e subdolo dell’insieme è dato però dal fatto che, sparse qua e là, si trovano anche alcune affermazioni corrette, che confondono le acque al lettore inesperto, rendendogli difficile tracciare il confine tra verità e menzogna, fantasia e ricostruzione storica.

Ad esempio, è innegabile che «la Bibbia non ci è arrivata per fax dal cielo» (p. 271), come invece sostengono le teorie fondamentaliste, o che «le sopravvivenze della religione pagana nella simbologia cristiana sono innegabili» (p. 272). Allo stesso modo, stili di vita e di pensiero che a buon diritto possono essere attribuiti all’Opus Dei – una delle lobbies che giocano un ruolo determinante nel racconto – si intrecciano con mistificazioni ed esagerazioni infamanti.
Solo una lettura attenta del romanzo, da parte di persone competenti e avvedute, consente di separare la verità dall’errore, così intimamente intrecciati a bella posta nel racconto.

3) Le spiegazioni sulle opere di Leonardo, in particolare La vergine delle Rocce e L’ultima cena mescolano interpretazioni assolutamente stravaganti e insostenibili (a titolo di esempio segnalo la teoria che identifica il discepolo che sta alla destra di Gesù ne L’ultima cena con Maria Maddalena) ed elementi veritieri (come ad esempio il riferimento ai pessimi restauri del diciottesimo secolo, p. 286). Sull’argomento, rimando alla letteratura specifica di critica d’arte.

4) La leggenda sul rapporto tra Gesù e Maria Maddalena, ampiamente diffusa nelle tradizioni gnostiche fin dall’antichità e poi in ambienti catari, percorre il romanzo come un fil rouge.
«Come ho detto, il matrimonio di Gesù e Maria Maddalena è storicamente documentato… Non l’annoierò con gli infiniti riferimenti all’unione tra Gesù e Maria Maddalena. È stata esplorata fino alla nausea dagli storici moderni» (p. 287-8; 290). Ebbene, perché questa documentazione non viene mai prodotta, e neppure indicata? L’argomento che «se Gesù non fosse stato sposato, almeno uno dei vangeli della Bibbia avrebbe accennato alla cosa e avrebbe fornito una spiegazione di quella innaturale condizione di celibato» (p. 288) può essere facilmente rivoltato: non solo i vangeli canonici, ma neppure i vangeli apocrifi a noi conosciuti parlano mai di un matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, come giustamente la bella Sophie obietta al Maestro. Non sarà che tale matrimonio è solo un parto della fantasia? Il testo del Vangelo di Filippo che viene citato nel romanzo (7) poi non è scritto in aramaico, come sembra potersi evincere dalle parole del dotto (o presuntuoso) Teabing (p. 288), ma in copto, e probabilmente l’originale perduto era in greco.

5) Ben più complesso si fa il discorso a proposito dell’“oblio del femminile” all’interno della Chiesa e della dottrina ecclesiale. Qui, senza cadere in unilateralità femministe, la Chiesa può e deve fare ammenda delle proprie colpe; in parte è già stato fatto in opportuna sede nel corso dell’ultimo anno giubilare. Ma una valutazione onesta deve tener conto anche della dottrina cristiana sulla Vergine Maria, della riflessione biblico-patristica sulla Sapienza (Sophia), di quella biblico-rabbinica sulla Shekinah (ricordata, ma totalmente fraintesa a p. 364) fino alla recente sofiologia dei teologi russi del secolo scorso (V. Soloviev, ecc.). Evidentemente l’autore, in «un romanzo così pesantemente basato sul sacro femminino» («a novel drawing so heavily on the sacred feminine»: Ringraziamenti della v. o.), è interessato più a descrivere le idee gnosticheggianti da lui scoperte con stupore di rivelazione, che a discutere onestamente la dottrina cattolica e la sua tradizione.

6) A pag. 316 il riferimento alle dottrine New Age e all’avvento dell’era astrologica dell’acquario si fa esplicito. Ciò che fa sorridere è il collegamento tra l’era dei Pesci, conclusa con il cambio di millennio, e caratterizzata dal fatto che «l’uomo debba ricevere ordini dai poteri superiori perché è incapace di pensare da solo» (p. 314), con la persona di Cristo, indicato con il simbolo del pesce. L’antichissima identificazione di Gesù con il pesce, come neppure uno studentello può permettersi di ignorare, si deve al fatto che la parola greca ichtýs (pesce) è acronimo di Iesous Christos Theou Yios Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), e non a considerazioni astrologico-zodiacali. La libertà interiore insegnata da Gesù sembrerebbe poi adattarsi meglio alla spiritualità dell’Acquario, «il cui ideale afferma che l’uomo è capace di apprendere la verità e di pensare per sé» (p. 314); e, soprattutto, il simbolo del pesce rivela l’antichità della fede in Gesù Figlio di Dio, contro quanto affermato nelle pagine precedenti.

7) Il pentametro giambico e la sua simbolica. Ancora una volta, si mescolano un insieme di mezze verità e di seducenti affinità simboliche. È vero che il giambo è un piede formato da «due sillabe con enfasi opposte. Lunga e breve» (p. 356; in realtà il giambo è composto da una breve e una lunga; ma evitiamo la pedanteria…); però da qui a dire che si tratti di «Yin e yang. Una coppia equilibrata. In fila di cinque. Cinque come il pentacolo di Venere e del femminino sacro» (ivi) mi pare che ne corra. Si tratta del vezzo (che sembra risuscitato di sana pianta dal gusto medioevale) di cercare una selva di simboli nascosti in tutto. Non escludo che si possano trovare elementi simbolici in ogni cosa; mi pare però onesto chiedersi se ciò sia frutto della realtà stessa o non piuttosto della lente con cui la realtà viene letta.

8) La spiegazione dello hieros gamos (nozze sacre) fornita alle pagg. 362ss è un’accozzaglia confusa di elementi provenienti da religioni di epoche storiche e aree geografiche assolutamente eterogenee, frutto di letture storico-religiose affrettate e mal digerite. Impossibile negare il valore sacrale universalmente attribuito alla sfera della sessualità, presso ogni cultura; ma confondere culto della dea madre, prostituzione sacra, misteri dionisiaci, tantrismo e quant’altro in un unico calderone è segno di ignoranza, non di eclettismo. Che poi nel tempio di Gerusalemme si praticasse la prostituzione sacra è un’accusa infamante a cui i fratelli maggiori ebrei dovrebbero rispondere energicamente, se non ci fosse motivo di dubitare dell’utilità di ogni contenzioso, data l’ottusità della controparte. Infine sostenere che «il tetragramma ebraico YHWH – il nome sacro di Dio – derivava da Yahweh ovvero Geova, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Hawa” o “Havah”» (p. 364) è affermazione degna di nota solo perché non era facile dire tante sciocchezze in una frase sola. Per smentirle tutte dovrei scrivere troppo a lungo, e mi astengo dal farlo.

In conclusione, la tesi di fondo del libro, oltre al recupero del femminile divino (di cui ho già segnalato gli aspetti positivi, che pur ci sono), mi sembra la seguente: «tutte le religioni del mondo sono basate su falsificazioni. È la definizione di “fede”: accettare quello che riteniamo vero, ma che non siamo in grado di dimostrare. Ogni religione descrive Dio attraverso metafore, allegorie e deformazioni della verità, dagli antichi egizi fino agli attuali insegnamenti di catechismo. Le metafore sono un modo per aiutare la nostra mente a spiegare l’inspiegabile. I problemi sorgono quando cominciamo a credere alla lettera alle nostre metafore… Dovremmo proclamare che Gesù non è nato da un parto letteralmente verginale? Coloro che comprendono veramente la loro fede sanno che queste storie sono metafore» (p. 401-2; v. o. p. 369-370). Ebbene, questa è l’essenza del docetismo e dello gnosticismo, eresie contro cui già alla fine del primo secolo la Chiesa si è dovuta scontrare: «ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1Gv 4,2).

Insomma, nulla di nuovo; a parte il fatto che l’ignoranza della fede è il miglior pascolo per alimentare la confusione. Come ha recentemente segnalato il già citato M. Introvigne (8), un libro che parla del divino ma sparla della Chiesa viene felicemente incontro ai desideri dell’uomo religioso di oggi. In un tempo in cui sembra diffondersi sempre più il fenomeno del believing without belonging («credere senza appartenere», ossia senza sentirsi parte di una chiesa, perché “appartenere” è più impegnativo), un romanzo del genere – che tratta di apertura religiosa all’invisibile, ma senza alcun vincolo dogmatico, complotti e società segrete, critica della Chiesa cattolica e rivelazioni di presunte verità nascoste – non poteva non incontrarsi con le “richieste del mercato”. Con buona pace dell’onestà intellettuale.

Note

(1) The Da Vinci Code. A novel, Doubleday, New York – London – Toronto – Sydney – Auckland 2003; d’ora in poi abbreviato con: v. o. Per facilità di consultazione, quando non indicato altrimenti, le pagine del testo citate nell’articolo si riferiscono invece alla traduzione italiana di R. Valla.

(2) «FACT: // The Priory of Sion––a European secret society founded in 1099––is a real organization. In 1975 Paris’s Bibliothèque Nationale discovered parchments known as Les Dossiers Secrets, identifying numerous members of the Priory of Sion, including Sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo, and Leonardo da Vinci. // The Vatican Prelature known as Opus Dei is a deeply devout Catholic sect that has been the topic of recent controversy due to reports of brainwashing, coercion, and a dangerous practice known as “corporal mortification.” Opus Dei has just completed construction of a $47 million National Headquarters at 243 Lexington Avenue in New York City. // All description of artwork, architecture, documents, and secret rituals in this novel are accurate» (pag. 1).

(3) Dopo che questo anomalo fatto è stato pubblicamente segnalato da M. Introvigne (insigne esperto italiano di nuovi movimenti religiosi, sette ed esoterismo) la pagina è “miracolosamente” ricomparsa nelle più recenti edizioni e ristampe. Chissà, forse dietro il libro c’è davvero qualche potere occulto e magico!…

(4) Si dice proprio “al litro” (“to the liter”: v. o. pag. 147) e non “per gallone”, come si poteva benevolmente supporre: non è dunque una svista del traduttore italiano, ma proprio uno sfondone dell’autore.

(5) Se ne può trovare un dettagliato resoconto critico nel documentato articolo di Massimo Introvigne “Il Codice Da Vinci”: ma la storia è un’altra cosa, disponibile on-line sul sito www.cesnur.it. Dello stesso autore è prevista la pubblicazione per settembre 2005 del volume Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità dietro Angeli e Demoni e Il Codice da Vinci (ediz. Piemme): la competenza dell’autore è una garanzia di affidabilità rispetto alle decine di testi già usciti sul Codice. Per riassumere la questione, si può dire che un’associazione denominata “Priorato di Sion” esiste, ma non risale al 1099, e non vi hanno preso parte Botticelli, Leonardo, Newton o Hugo, come afferma Il codice Da Vinci. È stata infatti fondata il 7 maggio 1956 da Pierre Plantard (1920-2000), un ex collaboratore del governo filo-nazista di Vichy; i documenti detti dossiers segreti che narrerebbero la sua millenaria fondazione sono invece dei falsi, composti nel 1967, come ha ammesso alcuni anni dopo uno dei falsari che li ha prodotti su richiesta di Plantard, tal Philippe de Chérisey. Ma i manoscritti furono ritenuti autentici da Gérard de Sède, il quale li pubblicò nel suo volume L’Or de Rennes (1967); tre giornalisti anglosassoni – Henry Lincoln, Michael Baigent e Richard Leigh – credettero alla verità di questi falsi, e riscrissero la storia arricchendola di nuovi elementi e adattandola al pubblico inglese nel volume The Holy Blood and the Holy Graal (1982). Infine Dan Brown ha letto quest’ultimo volume, credendo alla verità di quanto vi era contenuto, e lo ha preso come spunto per il suo The Da Vinci Code (2003). Recentemente Baigent e Leigh hanno intentato causa a Brown, accusandolo di aver copiato il loro libro senza citarli esplicitamente; infatti l’unico riferimento al loro volume è il fatto che uno dei protagonisti del romanzo – e guarda caso proprio il “cattivo” – si chiama Leigh di nome e Teabing (anagramma di Baigent) di cognome. Cfr l’intervista di R. POLESE a R. Leigh: Dan Brown ci ha saccheggiati, Corriere della Sera, 9 maggio 2005, p. 23. Ma a noi interessa rilevare che la prima e fondamentale delle “fonti sicure” di Brown è un volume assolutamente inaffidabile, poiché basato su un falso storico.

(6) V. o., pp. 250-256 (cap. 55).

(7) «La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli allora gli dissero: – Perché ami lei più di tutti noi? – Il Salvatore rispose e disse loro: – Perché non amo voi tutti come lei?» (Vangelo di Filippo, 55, ad es. in: I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, p. 521). Il testo va messo in parallelo con la dottrina gnostica della generazione spirituale per mezzo del bacio, perché dalla bocca scaturisce il Verbo, ossia la Parola: «il perfetto diventa fecondo per mezzo di un bacio, e genera» (ivi, 31, p. 516). La matrice gnosticheggiante del pensiero di Brown si manifesta con chiarezza nella scelta del nome di Sophie, “Sofia, Sapienza”, per la protagonista femminile del romanzo: la coppia “Gesù – Maddalena” nel pensiero gnostico è riflesso di quella “Salvatore – Sapienza”. E guarda caso, l’ultima discendente di Maria Maddalena si chiama proprio Sophie!... Come spiega il curatore della citata edizione dei vangeli apocrifi, facendo riferimento alla dottrina gnostica delle coppie di eoni o syzugìai, «l’unione perfetta dei due eoni Sotèr/Sophia è il motivo del maggior affetto dimostrato da Gesù a Maria Maddalena» (nota 3, p. 521). Difficile stabilire un confine tra l’ingenua ignoranza e la voluta malizia di Brown.

(8) “Il Codice da Vinci”: tutta la verità, in Vita pastorale, 5 (2005) 86-91.

Pubblicato in Bibbia
Domenica, 20 Novembre 2005 20:29

Che cosa si sa oggi di Paolo? (Michel Trimaille)

Che cosa si sa oggi di Paolo?
di Michel Trimaille


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Cronologia

6 a.C. Nascita di Paolo in Galilea

Primi anni del I secolo I suoi genitori sono deportati a Tarso, in Cilicia.

Intorno al 15 d.C. Paolo studia a Gerusalemme.

33 Conversione di Paolo a Damasco.

34 Soggiorno presso gli arabi Nabatei.

37 Ritornato a Damasco, Paolo fugge e si sottrae al governatore del re Areta (39).

37 Prima visita a Gerusalemme. Paolo ritorna in Siria-Cilicia. Ritorna ad Antiochia e istruisce i nuovi cristiani.

41 Editto di Claudio contro certi ebrei di Roma. Torbidi a causa di «Chrestos». Primo viaggio missionario con Giovanni Marco, sotto la responsabilità di Barnaba (Cipro, Anatolia).

Inverno 45-46 ad Antiochia Seconda missione con Sila, senza Barnaba. Paolo è capo missione, ritorna al centro dell’Anatolia.

Estate 46 Viaggio verso la Galazia settentrionale (regione di Pessinunte), poi evangelizzazione della Macedonia: Filippi, Tessalonica, Berea, passaggio ad Atene. Soggiorno di fondazione a Corinto (18 mesi?). Paolo sbarca a Cesarea, discende ad Antiochia.

49-50 Incontro a Gerusalemme con Barnaba e Tito («dopo 14 anni», Gal 2,1). Paolo ad Antiochia. Incidente con Pietro (Gal 2,11-14).

50 Paolo si ferma ad Efeso che diventa il centro del suo irradiamento missionario.

51-52 Proconsolato di Gallione a Corinto. Paolo compare dinanzi a lui in occasione di uno dei suoi passaggi a Corinto.



Piacerebbe potersi rallegrare senza riserve di numerosi, sapienti lavori su Paolo…

Ma, anche se vi si possono trovare delle convergenze, parecchi problemi rimangono senza soluzione e le numerose ipotesi avanzate non si mostrano sempre convincenti. Perché tanti problemi? Perché, sull’esistenza di Paolo, noi possediamo due tipi di fonti: le sue tredici lettere (di cui sette sono considerate autentiche dalla quasi totalità dei commentatori), e gli Atti degli Apostoli di Luca, la cui seconda parte è pressochè interamante un racconto della vita missionaria di Paolo sino al suo arrivo a Roma. Dal momento che le lettere paoline non hanno nulla di un’agenda, e che, in compenso, Luca segue un metodo narrativo che sembra concatenare le tappe della vita di Paolo nel loro ordine cronologico, i biografi hanno, sino a tempi recenti, considerato questo quadro come il più semplice, liberi di completarlo con informazioni spigolate dalle lettere. Ma oggi si sa meglio che Luca, sia nel primo che nel suo secondo libro, era in primo luogo un teologo del Figlio di Dio e della sua Chiesa, e che le sue relazioni con i fatti «storici» non erano così originali come si credeva.

Allo stesso tempo, si incontravano sempre più difficoltà a conciliare certi dati degli Atti con le informazioni attinte dalle lettere, benché conosciute da Luca!

Di qui la reazione, detta «principio di Knox», dal nome di un esegeta che scrisse attorno al 1950, secondo il quale gli Atti degli Apostoli possono essere utilizzati – e con prudenza – soltanto per completare i dati autobiografici delle lettere, ma mai per correggerli. In realtà, un fatto narrato da chi l’ha vissuto merita sempre maggior credito delle informazioni fornite da un terzo che si pone finalità teologiche o apologetiche.

Questo principio radicale si rivela però difficile da metter in pratica. Le lettere di Paolo sono scritti di circostanza: egli parla poco d sé, se non costretto dalla polemica. Vi è poi il problema dell’autenticità letteraria: alcune delle sue lettere ci informano soltanto sul ricordo emozionante ed efficace che egli ha lasciato nella memoria delle Chiese. Infine, un ultimo scoglio: nelle sue lettere, Paolo non cita alcun avvenimento conosciuto attraverso la storia, tranne una volta, in 2 Cor 11,32, in cui racconta dei suoi contrasti in Damasco con il governatore del re Areta (re degli arabi Nabatei, morto nel 39).

Non si può dunque stabilire una cronologia dell’opera missionaria di Paolo senza tenere conto, in modo certamente critico, dei riferimenti cronologici riferiti da Luca, tanti più che la sua documentazione di base merita di essere valutata seriamente nel suo valore storico.

Tenterei quindi modestamente di distinguere i punti che sembrano condivisi da quelli sui quali ci si attendono ulteriori lumi per potersi pronunciare con onestà.


Un ebreo fariseo di Tarso?

Nelle sue lettere, Paolo non allude mai al suo luogo di nascita o alle origini della sua famiglia. Solo Luca parla di Tarso In 9,11 a Damasco il Signore rivolgendosi ad Anania nomina «Saulo di Tarso» (9,1) più tardi (9,30) «i fratelli… lo fecero partire per Tarso» dove Barnaba andrà a cercarlo per riportarlo ad Antiochia (11,25). Al momento del suo arresto a Gerusalemme Paolo fa due volte questa dichiarazione di identità, prima rivolto ad un tribuno romano: «Io sono un Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza…» (21,39), poi davanti alla folla: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia» (21,3). Non si vede per quale motivo Luca avrebbe inventato di sana pianta questo luogo d'origine; ma Paolo è nato a Tarso? Il problema non si poneva sino a quando non si è cominciato a prendete in seria considerazione l'informazione fornita da san Girolamo (che la traeva da Origene): «I genitori di Paolo erano originari di Gyscal, provincia di Giudea, e quando tutta la provincia fu devastata dagli eserciti romani e gli ebrei dispersi in tutto il mondo, essi furono trasportati a Tarso, città della Cilicia. Paolo, ancora giovanissimo, seguì i suoi genitori…». Girolamo riferisce altrove un'informazione simile. Questa versione dei fatti permette di attribuire un certo credito ad alcuni dati sino a quel momento difficili da spiegare. In primo luogo a quello della cittadinanza romana di cui Paolo non parla mai in prima persona, ma di cui, secondo Luca, si avvale. I suoi genitori avrebbero potuto acquisirla facilmente a Tarso, poiché, secondo Filone, «la maggior parte degli ebrei di Roma erano degli affrancati». Il nome romano Paulus («piccolo», «poco») era molto vicino all'aramaico grecizzato Saulos. A seguito della sua rivendicazione di essere «Ebreo, figlio di Ebrei» (Fil 3,5; 2Cor 11,22) essa suppone, con la Palestina, relazioni più strette di quelle di un qualunque ebreo della diaspora. Di colpo, l'informazione di Luca secondo la quale Paolo aveva a Gerusalemme un nipote, e forse una sorella diventa più credibile (At 23,16). Infine, si comprende meglio che la sua appartenenza al ramo farisaico più osservante del giudaismo sia sottolineata altrettanto da lui che da Luca (Fil 3,5 ed anche Gal 1,14; At 22,3; 23,6; 26,5). In realtà non possediamo prove certe dell’esistenza, prima della caduta di Gerusalemme, di gruppi farisaici al di fuori dei territori abitati in maggioranza da ebrei (Giudea, Galilea, Perea). Inoltre, se la famiglia di Paolo è stata deportata soltanto da una generazione (4 a.C. e 6 d.C. sono date possibili), non è strano che nella sua famiglia non si sia dimenticata l'appartenenza alla tribù di Beniamino (Fil 3,5), mentre la maggior parte degli ebrei delle antiche diaspore avevano perso la memoria dello loro radici tribali. Gli anni di studio a Gerusalemme (At 22,3) diventano più verosimili: e là, alla scuola di Gamaliele, avrebbe potuto diventare un fariseo abbastanza motivato da perseguitare la Chiesa.

Tuttavia gli storici ammettono la loro perplessità sulla possibilità di essere contemporaneamente ebrei di stretta osservanza e cittadini, di una città ellenistica come Tarso. Se la cittadinanza romana in sè, non imponeva obblighi inconciliabili con la fede, il fatto di appartenere a pieno titolo a una tale città implicava il riconoscimento di istituzioni, ivi comprese quelle culturali e religiose, difficilmente accettabili per un fariseo rigoroso. Si può pensare che Luca abbia visto in questo semplicemente un modo di collocare il suo eroe ai vertici della gerarchia sociale.

Paolo ha conosciuto Gesù di Nazaret?

Alcuni di coloro che scrivono su Gesù utilizzano un testo per pretendere che Paolo avrebbe conosciuto Gesù di Nazaret, ma avrebbe deciso consapevolmente di ignorarlo per conoscere soltanto il Risorto. Ecco il testo: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16). Per loro, «conoscere Cristo secondo la carne» significa «conoscere Gesù terrestre», come si conoscerebbe chiunque. Sottolineiamo che Paolo scrive qui due volte, alla lettera: «conoscere qualcuno secondo la carne». Ora, Paolo ha degli usi letterari: quando parla dell’esistenza umana di un personaggio, egli scrive sempre: «un tale (Abramo, Davide, ecc) secondo la carne». Se egli scrive qui «conoscere Cristo secondo la carne», significa che la locuzione avverbiale qualifica la conoscenza, e non il Cristo. Ora, per lui «conoscere secondo la carne» è il contrario di «conoscere secondo lo spirito», cioè una conoscenza a cui la sapienza umana non può condurre (I Cor 1-2). Paolo non dice dunque di avere incontrato in qualche occasione Gesù di Nazaret e che questo non conta. Egli dice soltanto che egli vede in ogni uomo una persona redenta dal Cristo, dunque un'altra persona! E altrettanto accade per lo sguardo che egli rivolge a Cristo! Lo storico non può dunque sapere se la via di Gesù ha incrociato quella di Paolo prima di Damasco. Non è impossibile, ma non se ne sa nulla!

Come datare la fondazione delle chiese in Europa?

I viaggi di san Paolo («il Mondo della Bibbia» n° 30) ha esposto le argomentazioni per cui le chiese di Filippi, Tessalonica e Corinto sono state fondate nei quattordici anni intercorsi tra le due prime salite di Paolo a Gerusalemme (Gal 2,1). Luca, collocando il secondo viaggio missionario dopo la riunione di Gerusalemme mostra che Paolo aveva fondato queste chiese dopo un accordo armonioso realizzato a Gerusalemme con le «colonne». Così Paolo non è più il franco tiratore di cui lui stesso dà l’idea nelle sue lettere, ma ha lavorato in pieno accordo con le direttive degli apostoli. Adottare questa nuova concatenazione dei fatti obbliga a rimettere in questione alcuni dati accettati. Così, la prima lettera ai Tessalonicesi è stata probabilmente scritta prima di quanto si supponesse. Allora, la comparsa di Paolo a Corinto davanti al proconsole Gallione, fissata attualmente con la maggiore probabilità nei 51, non ha necessariamente avuto luogo - se veramente ha avuto luogo - in occasione del soggiorno di fondazione della chiesa di Corinto. 1 e 2 Cor ne contano almeno tre, ma, come ha fatto in altre occasioni, Luca ha raggruppato questi diversi soggiorni in uno solo, e, quando il lettore lo crede terminato, il racconto riprende con la comparizione di Paolo davanti al proconsole (18,12-17). Analogamente, diventa possibile attribuire l'editto di Claudio contro g!i ebrei di Roma (At 18,2; Svetonio, Vita di Claudio, 25), alla data del 41 che ha, oggi, il favore degli storici, mentre i biografi legati allo schema di Luca si richiamano a quella del 49, che peraltro è stata fissata soltanto nel V secolo, in funzione della supposta datazione della fondazione della chiesa di Corinto: un perfetto circolo vizioso!

Su cosa ci si è accordati a Gerusalemme?

«A me, da quelle persone ragguardevoli (Giacomo, Cefa e Giovanni), non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi...» (Gal 2,6-7). Si tratta di una spartizione geografica dei «territori di missione»? Non è assolutamente verosimile, dato che le comunità a cui si rivolge la prima lettera di Pietro coesistono, nelle stesse province, con delle Chiese paoline. È una spartizione su base etnica? Nemmeno! Cristiani di origine ebraica sono relativamente numerosi a Filippi e a Corinto, e le Chiese che dipendono da Pietro contengono degli antichi pagani (1 Pt 2,18-3,2). L'ipotesi più moderata è quella di un accordo non privo di ambiguità (Cf l'incidente di Antiochia, Gal 2,11ss): esso permetteva che Paolo non chiedesse la circoncisione da parte pagani, ma permetteva anche a Pietro e agli altri di lasciare i cristiani venuti dal giudaismo liberi di conservare le tradizioni, compresa la circoncisione. Paolo ha interpretato l'accordo in senso rnassimalista, ma oggi sappiamo che l'incarnazione della fede nelle culture è lenta e un decreto non è sufficiente perché tutto funzioni secondo i principi, soprattutto in materia di alimentazione! Pietro ne era forse più consapevole.

Un terzo viaggio missionario?

I biografi di Paolo abitualmente raccontano di un terzo viaggio missionario, il cui collegamento con la fine del secondo è problematico: «Giunto a Cesarea, si recò a salutare la Chiesa di Gerusalemme e poi scese ad Antiochia. Trascorso un po' di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli» (At 18,22-23). E il versetto successivo ci conduce in piena Chiesa di Efeso. Queste centinaia di chilometri superati con poche parole dopo la partenza da Corinto (18,18) si spiegano con lo spostamento della riunione di Gerusalemme di cui ho appena detto. In realtà, è dopo la fondazione delle Chiese di Macedonia e di Grecia che Paolo, sbarcato a Cesarea, riscese ad Antiochia, a prendere con sé Barnaba, e, in compagnia di Tito, «salire a Gerusalemme». Dopo la riunione narrata in Gal 2,1-10 (e trascritta da Luca in At 15), Paolo è ritornato ad Antiochia e, dopo l'incidente con Paolo, appoggiato dal fedele Barnaba, è partito per installarsi ad Efeso, ma il suo soggiorno fu interrotto da necessità: il viaggio a Corinto dove era richiesta la sua presenza; e soprattutto mantenimento della promessa di venire in aiuto ai cristiani di Gerusalemme (Gal 1,10).

Paolo ha fondato Chiese in Illiria?

Si potrebbe pensarlo leggendo Rm 15,11ss, in cui egli fa il bilancio della sua missione: «Così da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo...». In due parole, egli percorre tutto lo spazio della sua passata vita apostolica. Ma i limiti che egli fornisce sono da intendere in senso inclusivo o esclusivo? La limitazione che egli aggiunge quanto ai luoghi che ha rifiutato di evangelizzare esclude ogni rivendicazione guardante Gerusalemme: la Chiesa esisteva prima di lui!. È dunque logico non includere l'llliria (attuale Albania), e di comprendere tra Gerusalemme e l'llliria, escludendo l'una e l'altra: egli ha, in realtà, evangelizzata con successo le province limitrofe della Macedonia da un lato, e della Siria dall'altro, per non parlare dei suoi inizi presso gli arabi Nabatei in Transgiordania.

Quali furono i suoi ultimi progetti missionari?

Paolo li espone alla fine della lettera ai Romani: «Avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi i quella regione». In quel momento (inverno 55-56) quando scrive ai Romani prima di portare a Gerusalemme la colletta che gli ha causato tante preoccupazioni, Paolo non è più l’inviato ufficiale di una Chiesa, come lo ero stato in altri tempi di quella di Antiochia, prima del disaccordo di Gal 2,11ss. Viene da dire che la sua vocazione non l'invia là dove Cristo è già conosciuto. La Spagna ben risponde a questi criteri: essa è quella «estremità della terra» alla quale era inviato il Servo di Jahwè al quale egli si paragona in Gal 1,15 («io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» Is 49,6); e siccome là non vi è diaspora ebraica, il suo invio «alle nazioni» troverebbe dunque una destinazione ideale; essa è a qualche giorno di navigazione da Ostia, il porto di Roma; egli può trovare a Roma dei collaboratori che conoscano le regioni occidentali dell'Impero e forse la lingua di popolazioni che non parlano il greco; senza parlare dl quell’aiuto finanziario che i Filippesi gli hanno largamente fornito quando lavorava nelle province orientali. Potersi presentare come un rappresentante ufficiale della Chiesa di Roma sarebbe per lui una carta sicura, forse una condizione necessaria. È questo il motivo per cui, a questa chiesa in cui sono numerosi gli ebrei, egli scrive i tre capitoli più positivi di tutta la sua corrispondenza sul ruolo di Israele nella storia della salvezza (9-11). Paolo ha realizzato questo progetto? Cronologicamente, nulla vi si oppone: prima della data probabile della sua morte a Roma, ne avrebbe avuto il tempo, ma le cose non si sono svolte come previsto: il viaggio che egli annuncia ai cristiani di Roma lo farà come imputato, nella speranza che l'imperatore lo assolva da tutto ciò di cui lo hanno accusato gli ebrei di Gerusalemme. Egli poté essere assolto ed essersi recato in Spagna, ma, sembra, senza grande successo. Non aveva probabilmente ben misurato tutta la difficoltà dell'impresa, presso popolazioni molto diverse per razza, cultura e lingua. Comunque sia, Clemente dì Roma, che scrive una lettera verso l'anno 95, suggerisce che egli ha per lo meno tentato: «Paolo… ha toccato i confini dell'Occidente...». Per uno che abita a Roma, i «confini dell'Occidente» non possono essere che il limite occidentale dell'Impero romano.

La colletta di Paolo è stata accettata?

Paolo non ha avuto l'occasione di scriverne. Si dice che Luca non parli mai della colletta, e per taluni questo silenzio nasconde il rifiuto che Paolo temeva in Rm 15,31: questo rifiuto avrebbe significato, per Giacomo e i suoi fedeli, che la comunione con le Chiese paoline non esisteva veramente. Trattare questa ingiuria col silenzio sarebbe proprio dello stile di Luca: egli tace sui conflitti che non fanno onore alle Chiese. Ma non è certo che Luca non dica nulla della colletta. Secondo 24,17; egli ne testimonia in maniera indiretta: «Sono venuto a portare elemosine al mio popolo», dichiara Paolo al governatore. E in 21,19, nella frase: «egli [Paolo] cominciò a esporre nei particolari quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo del suo ministero, la parola «ministero» è quella con cui Paolo designa la colletta, quando ne parla ai Romani (15,31). Essa avrebbe avuto, anche per Luca, benefici effetti nelle Chiese paoline. Nel difficile quadro storico di quest’epoca i cristiani di Gerusalemme ne avevano bisogno, e non avrebbero potuto permettersi un tale rifiuto.

Che cosa si sa del suo martirio?

Luca chiude il libro degli Atti con l'arresto di Paolo a Gerusalemme, le tappe del suo processo dinanzi alle autorità provinciali, il suo movimentato viaggio verso Roma a somiglianza di un Giona fedele alla sua missione, e il suo arrivo nella capitale. I commentatori che accettano l'autenticità di 2 Tm pensano di beneficiare di altre informazioni e avanzano ipotesi sull'esito positivo del suo processo, la sua liberazione, la realizzazione del suo progetto spagnolo, un nuovo apostolato nelle province orientali e nel mar Egeo, prima di un secondo arresto e la prospettiva del martirio. La prudenza vuole una maggior moderazione nelle certezze ed è poco onesto ammettere la propria ignoranza. Il martirio di Paolo c(i è noto soltanto attraverso una tradizione ecclesiale difficilmente contestabile perché testi e culto convergono. Lo storico Eusebio di Cesarea (313) riferisce la testimonianza di Tertulliano, scrittore romano cristiano, che lo colloca nel contesto della persecuzione di Nerone: «Leggete le vostre memorie: vi troverete che Nerone, per primo, ha perseguitato questa fede, soprattutto nel momento in cui, avendo sottomesso l'intero Oriente, si mostrò crudele verso tutti. Noi siamo orgogliosi che tale condanna venga da un tale promotore». Ed Eusebio prosegue: «Si racconta che, sotto il suo regno, Paolo sia stato decapitato a Roma ed anche Pietro sia stato crocifisso, e questo racconto è confermato dai nomi di Pietro o di Paolo che ancor oggi sono dati ai due cimiteri di questa città». Si ricostruisce questa fase della storia come segue: a seguito dell'incendio di Roma (luglio 64) i cristiani, secondo la testimonianza di Tacito, furono accusati perché fosse discolpato Nerone (primavera 65). Allora si svolsero le scene orribili descritte in Annali XI. È verosimile che Pietro sia stato crocifisso in questo contesto. Inoltre, la decapitazione di Paolo comporta un regolare processo, che si sarebbe svolto un poco più tardi ma prima del suicidio di Nerone il 9 giugno del 68. Si può ipotizzare la data del 67.


(Michel Trimaille,
Professore di Sacra Scrittura nel Seminario maggiore del Vietnam, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi e nell’Institut Catholique di Parigi).

(Da Il mondo della Bibbia, n. 53)


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Mercoledì, 16 Novembre 2005 01:28

7. La creazione. Gen 1,1-2,4a (Rinaldo Fabris)

Il verbo ebraico barâ, «creare», può essere riferito sia all'azione di Dio che «plasma» il suo popolo liberandolo dall'oppressione sia all'opera iniziale della creazione dell'universo.

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