Formazione Religiosa

Domenica, 25 Dicembre 2005 20:10

Si è fatto povero per noi (Michele Lenoci)

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Si è fatto povero per noi

di Michele Lenoci

Punto di partenza della nostra ricerca, tendente a evidenziare la portata profonda della condivisione di Cristo con la nostra umanità, è il passo di 2 Cor 8,9. Il brano si trova inserito nel contesto della colletta organizzata fra le Chiese per i fratelli poveri di Gerusalemme, e precisamente nella serie delle varie motivazioni addotte da Paolo per esortare i Corinzi a rispondere con generosità a tale iniziativa. All'improvviso, l' Apostolo, con «una impennata cristologica», afferma: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».

Fin dai tempi dei Padri questo testo ha avuto interpretazioni discordanti. Alcuni hanno inteso la «povertà» di Cristo in riferimento alla incarnazione, in quanto assunzione della nostra natura umana, povera, limitata, sottoposta anche alla morte; altri, nel senso di povertà reale, come scelta, fatta da Cristo, di una vita economicamente povera.

Le due posizioni, spesso presentate come conflittuali e opposte tra loro, se considerate alla luce dell'intero epistolario paolino e dei dati globali del NT, si illuminano e si integrano reciprocamente: la povertà in senso sociologico ed economico, che si riscontra nella vita di Gesù, è la manifestazione esteriore della povertà più radicale accettata con l'incarnazione.

Sia grammaticalmente che contenutisticamente 2 Cor 8,9 è simile ad altri passi paolini (2 Cor 5,21; Gal 3, 13s; 4,4s; Rm 8,3s) che E. STAUFFER definisce «formule paradossali dell’incarnazione», mentre M. D. HOOKER parla di «formule di interscambio». Tali testi sono normalmente bipartiti e contengono, nella prima parte, l'affermazione di una scelta fatta da Cristo di una situazione negativa a Lui non dovuta, e, nella seconda, la finalità soteriologica di tale scelta.

Una particolare somiglianza si nota con il celebre inno cristologico di Fil 2,6-11, di cui 2 Cor 8,9 sembra essere un condensato meno elaborato ma ugualmente pregnante. I due passi sono costruiti con il participio presente in una apposizione e l'aoristo nella proposizione principale, per esprimere non successione temporale ma simultaneità e contemporaneità. Ambedue, inoltre, contengono una visione sintetica e globale della vita e della storia di Cristo, dall'abbassamento nella incarnazione sino alla suprema umiliazione della croce, per giungere alla esaltazione celeste.

Dal confronto con i testi suddetti si può concludere che in 2 Cor 8,9, dato che la frase ha come soggetto «Gesù Cristo» e non «il Verbo», l'impoverimento non va inteso nel senso dell'abbandono della natura divina, bensì nel senso della rinuncia ai privilegi e alle prerogative divine, e della assunzione di una precisa modalità di esistenza, contrassegnata dalla debolezza, dal limite, dalla mortalità. È questa la "ricchezza" alla quale Cristo rinuncia. Si noti pure che, nel corpus paolino - eccetto 1 Tm 6, 17 - il vocabolario della “ricchezza” , (ploutos e derivati) non è mai usato per indicare i beni terreni, ma solo i beni divini: ricchezza di Dio (Rm 11,33), di Cristo (Ef 3,8), della grazia (Ef 1,7; 2, 7).

Vanno in questo senso anche le affermazioni dei Padri della Chiesa: «Il Signore è povero in quanto uomo. Secondo l' Apostolo si è fatto povero per arricchirci, Lui che di tutte le cose del mondo non ebbe che il suo corpo. E, per la salvezza, ha voluto nascere povero da una vergine; padrone dei cieli, non ha posseduto ne argento, ne campi, ne greggi» (Ilario di Poitiers). «Pur essendo ricco, ha preso una carne mortale nel seno della Vergine; e tutte le circostanze che hanno contrassegnato la sua infanzia povera sono state le conseguenze di questa povertà fondamentale che era l'incarnazione» (Agostino).

La scelta della "povertà" non avvenne quindi nella sfera divina prima dell'incarnazione: essa ha avuto luogo ripetutamente nell'ambito della vita terrena di Gesù e si è evidenziata concretamente come assunzione di un tenore di vita caratterizzato, se non dalla indigenza e dalla miseria, certamente dalla modestia e dalla sobrietà; condivisione della nostra «carne di peccato» (Rm 8,3); compromissione con la "povertà" dell'uomo nella "kenosi" della morte.

"Povertà" socio-economica di Gesù

Gesù venne al mondo in una delle grotte scavate nelle colline circostanti Betlemme, grotte adibite spesso ad abitazioni per famiglie, ed ebbe come culla una mangiatoia (Lc 2,7). Quando venne presentato al Tempio, i suoi genitori offrirono «una coppia di tortore» (Lc 2,24), offerta che secondo la Legge (cf Lv 12,6ss) dovevano compiere coloro che, per non agiate condizioni economiche, non potevano permettersi di offrire un agnello.

Nella sua adolescenza Gesù non frequentò le scuole dei rabbi (Gv 7,15), nelle quali i figli delle famiglie benestanti si preparavano alla carriera di scriba e ai compiti più importanti della società (cf At 22,3). La sua formazione avvenne, invece, nella famiglia e nella sinagoga.

Visse per trent'anni nell'anonimato, senza distinguersi dagli altri coetanei e senza compiere gesti degni di attirare l'attenzione dei suoi concittadini. Si spiega così la loro reazione, stupita e insieme incredula, attestata in Mc 6,3: «Non è questi il falegname, il figlio di Maria?». Trascorse questi anni in un villaggio sconosciuto e senza importanza (cf Gv 1,45), aiutando Giuseppe nel suo lavoro. Dai nazaretani verrà designato come «il figlio del carpentiere (tekton)» (Mt 13,55) e come tekton egli stesso (Mc 6,3); l'appellativo può indicare mestieri sostanzialmente equivalenti: falegname, carpentiere, artigiano.

Quando iniziò la vita pubblica, Gesù abbandonò il lavoro manuale svolto fino ad allora, per dedicarsi totalmente e incondizionatamente al suo ministero, distinguendosi sotto questo aspetto dagli scribi che esercitavano un mestiere in concomitanza con l'insegnamento. Lo differenziava, inoltre, dai rabbi del suo tempo il fatto di non avere, come loro, una sede fissa e stabile, condizione essenziale per un insegnamento regolare ed efficace. Gesù era invece sempre in movimento e si spostava continuamente da un luogo all'altro (Mt 4,23 e altrove).

Non si preoccupò di forme sicure di previdenza, preferendo vivere di donazioni libere e spontanee (Lc 8,3). A chi chiese di poterlo seguire, Egli fece presente che viveva in condizioni di precarietà e di insicurezza, avendo rinunciato nel suo ministero alla tranquillità e al calore di una casa: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20 par. Lc 9,58). Il detto, che per la sua forma linguistica e letteraria sicuramente risale allo stesso Gesù, ci rivela come egli concepisse la sua missione.

Tuttavia, se è vero che Gesù scelse liberamente e volontariamente la povertà, è altrettanto vero che non può essere collocato tra gli indigenti, tra coloro cioè che mancano del necessario per vivere e non sono neanche in grado di procurarselo. Dai vangeli sappiamo che Gesù poteva contare sull'ospitalità dei suoi amici e dei suoi seguaci (Mc 3,30; Lc 10,38s) e che poteva disporre di una certa quantità di danaro, messo a sua disposizione da benefattori e benefattrici, per provvedere al necessario per vivere (Gv 4,8) e per aiutare i poveri (Gv 12,6; 13,29).

Se Gesù rinuncia ad una professione ben retribuita, a risorse sicure, a una casa sua, egli lo fa per essere in tutto servo del Regno che annuncia. La sua non è miseria ma sobrietà, motivata non dal disprezzo dei beni economici oda un ideale di ascetismo e di austerità, sul tipo di quello praticato da Giovanni Battista (i suoi nemici anzi lo accusano di essere «un mangione e un beone»: Mt 11,18s); è dettata, piuttosto, oltre che dalla volontà di dedicarsi pienamente alla sua missione, dalla fiducia illimitata nella sollecitudine paterna di Dio. Gesù ha vissuto per primo quello che ha insegnato: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).

La «povertà» di Cristo come condivisione

L 'affermazione cristologica di 2 Cor 8,9 non vuol certo affermare che Gesù si è spogliato della sua natura divina, bensì della gloria e della maestà di cui avrebbe potuto circondarsi venendo tra noi. Preferendo la "povertà" di una condizione umana, del .tutto simile alla nostra fuorché nel peccato (Eb 4,15; Gv 8,46), Cristo ha fatto sua la condizione e la sorte di tutti gli uomini.

I vangeli (in particolare Marco) riportano parole, gesti, sentimenti che evidenziano l'umanità di Gesù: la compassione nei riguardi di chi soffre (Mc 1,40-43), l'indignazione e l'afflizione dinanzi alla durezza di cuore (Mc 3,5; 10,13), la meraviglia e lo stupore per la incredulità dei concittadini (Mc 6,1 ), l'ignoranza dell'ora della parusia (Mc 13,22). Il secondo evangelista riferisce persino il giudizio non certo favorevole e riguardoso pronunciato nei confronti di Gesù: «È fuori di sé» (3,21).

Lo stesso Giovanni, pur mettendo in rilievo la divinità e la gloria del Verbo incarnato, non cerca di attenuare o di velare i tratti che ne rivelano l'umanità. Il Gesù giovanneo è un anthropos ( = uomo): il termine, usato con riserbo nei sinottici, è molto frequente nel quarto evangelista, che lo adopera con una certa gradualità e con una chiara pregnanza di significato per indicare il "mistero" dell'uomo Gesù (4,29; 5,12; 7,45s.51; 8,39s; 10,33; 11,50; 18,17). Giovanni presenta Gesù soggetto, come ognuno di noi, alla stanchezza e alla sete (4,6s), sensibile alla dolcezza e al fascino dell'amicizia (11,5; 13,1; 15, 14s), commosso e in pianto dinanzi alla tomba di Lazzaro (11,34-38), toccato profondamente dalla prospettiva del tradimento di Giuda (13,21).

Un'altra forma di "povertà", che riscontriamo nella umanità di Gesù, è la rinunzia a poter disporre di se stesso e del proprio tempo. Scrive a questo proposito J. Guillet: «Gesù non si appartiene e uno dei segni di questa rinuncia è il suo modo di vivere nel tempo. Una delle forme di ricchezza è avere del tempo davanti a sé, poter disporre a piacimento dei momenti che vengono, usarli a modo proprio... Ora Gesù vede la propria esistenza asservita e spogliata di se stessa. Non un istante che gli appartenga e di cui egli disponga a piacimento... Il suo tempo non gli appartiene, ma è tutto consacrato al Padre e alla sua opera... Il suo tempo non è suo, ma di tutti quelli che hanno bisogno di lui. Egli lo riceve dal Padre non come un tesoro di cui disporre a piacimento, ma come un deposito di cui rendere conto».

La "povertà" di Gesù si manifesta anche nella rinuncia a una propria progettualità nella determinazione della missione da realizzare e dei mezzi da adoperare. Nella piena accettazione del suo essere «figlio» si affida totalmente al Padre, in atteggiamento di consapevole obbedienza e sottomissione alla sua volontà (Gv 4,34; 5,30; 8,29). Unica sua preoccupazione è quella di compiere tutto ciò che piace a Lui (Gv 8,55), di annunciare e proclamare solo quanto ha udito e gli è stato ordinato da Lui (Gv 12,49s; 14,31) e di osservare i suoi comandi (15,10; 17, 1s).

La "povertà" di Gesù si manifesta, infine, nella scelta fatta fin dall'inizio del suo ministero, della via messianica del rifiuto della forza, della violenza, dell'affermazione di sé, alternativa alla aspettativa generale di un messia potente non solo da un punto di vista politico-militare. Gesù sceglie volontariamente per sé, e presenta ripetutamente ai suoi, una proposta di realizzazione umana e di salvezza basata non sul successo, sul prestigio, sull'asservire gli altri a se, ma sul «rinnegare se stessi», «prendere la propria croce», «perdere la propria vita per salvarla», «essere non il primo ma l'ultimo e il servo di tutti» (Mc 8,34s; 10,35).

Coerente con questa logica è la scelta, incomprensibile per la mentalità umana comune, della non assunzione, da parte di Gesù, di una posizione sociale di rilievo, senza creare buoni rapporti con le autorità politiche e religiose del tempo. Se fosse nato e vissuto in ambienti socialmente rispettati, se si fosse circondato di persone culturalmente qualificate, la sua missione avrebbe potuto avere risonanze più ampie e conseguire risultati più rilevanti. Ma questa - direbbe Paolo - è «la sapienza di questo mondo» che «Dio ha dimostrato stolta» (1 Cor 1,20), in Cristo «il quale è diventato per noi sapienza...» (1 Cor 1,30).

La "povertà" di Cristo nella kénosi della croce

Soprattutto nella prova della passione e della morte Gesù vive fino in fondo il suo «farsi povero per noi», ed è nell'esperienza della croce che si può cogliere tutta la vicinanza dell'uomo Gesù alla condizione degli uomini suoi fratelli.

L 'idea, presente in Paolo (cf FiI 2,6-8; 2 Cor 5,21 ecc.) e in tutto il Nuovo Testamento (cf Mc 10,45 ecc.), è sviluppata in maniera ampia e particolareggiata nella lettera agli Ebrei. Nel suo scritto l'autore prende le distanze dalla concezione veterotestamentaria del sacerdozio, fondato sulla esigenza della separazione più rigida, regolato da norme minuziose di purità rituale e oggetto spesso di mire e maneggi ambiziosi e disinvolti. Il sacerdozio «nuovo» realizzato e vissuto da Gesù ha, invece, come sua legge e come condizione qualificante la rinuncia ad ogni ricerca di gloria, l'abnegazione, l'assimilazione ai fratelli in tutto, fuorché nel peccato (cf Eb 2,17s; 4,15). Questi requisiti indispensabili vengono pienamente soddisfatti «nei giorni della vita terrena» di Cristo, e precisamente quando «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte» e nei quali «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l' obbedienza dalle cose che patì» (5,7s): «Affermazioni ardite - commenta A. Vanhoye - che siamo tentati di ignorare o di attenuare, ma che rivelano però tutta la serietà della incarnazione e della redenzione».

Partendo da questa visione originale e innovatrice della mediazione sacerdotale, l'autore della lettera agli Ebrei può affermare che Gesù «diventa» sommo sacerdote nel momento della passione e morte, nel momento cioè in cui diventa sommamente partecipe della essenza più profonda della condizione umana.

La passione e la croce sono il punto d'arrivo di tutta l'esistenza di Gesù vissuta come "kenosi", come spogliazione, come "povertà". La croce indica non solo la morte avvenuta nell'angoscia e nella sofferenza, ma anche tutti i dettagli e le circostanze precise di quella morte. Gesù sperimenta il tradimento, il rinnegamento, l'abbandono dei suoi, dettato sia dalla paura sia dalla delusione patita dinanzi all'esito tragico e fallimentare della sua vicenda. Subisce gli insulti e le denigrazioni delle guardie romane, dei capi del popolo, della folla presente sul Calvario e sopporta, indifeso e umiliato nella sua dignità, una morte ignominiosa, tendente non solo a eliminarlo fisicamente ma anche a cancellarne l' onore e la reputazione.

Inchiodato sulla croce, dopo un lungo silenzio, muore lanciando un grido straziante; si rivolge al Padre dicendo non più «Padre mio», come sempre faceva distinguendosi dagli altri uomini, ma soltanto «Dio mio, Dio mio...» (Mc 15,34; Mt 27 ,46). «Gesù si rivolge al Padre con una domanda. E il Padre tace. La voce che ha parlato al battesimo e alla trasfigurazione, qui tace... La domanda esprime l'abbandono degli uomini e di Dio, ma anche la fiducia. È infatti l'inizio della preghiera del giusto abbandonato che muore affidandosi pienamente a Dio (Sal 22). Dunque fiducia. Ma è la fiducia in una esperienza di totale abbandono. Questa è la fede di Gesù». Come scrive A. Camus nella sua opera «Il caso»: «Non era un superuomo... io lo amo questo mio amico, proprio perché morì con la domanda sulle labbra». Come conseguenza ultima del suo essere uomo, Gesù vive in pieno l'ora della notte di Dio, il momento estremo dell'impotenza di Dio, nella sua morte solitaria e abbandonata.

La croce di Cristo, però, non è fallimento: la sua morte vissuta nella preghiera, nell'obbedienza filiale al Padre e nell'amore solidale verso i fratelli, rivela la profondità del mistero della sua persona («Veramente quest'uomo era Figlio di Dio». Mc 15,39), e anche l'identità vera dell'uomo: essere creato e chiamato ad affidarsi liberamente e totalmente all'amore fedele del Padre e a vivere nella donazione e nel servizio disinteressato ai fratelli.

Tutto questo ora è possibile all'uomo realizzarlo proprio in virtù della «grazia del Signore nostro Gesù Cristo», il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9; cf Eb 5,9: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza per coloro che gli obbediscono»).

 

Letto 2395 volte Ultima modifica il Lunedì, 23 Gennaio 2012 10:04
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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