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Mercoledì, 01 Settembre 2004 23:23

Qualche riflessione a proposito della lettura cristiana dei Salmi Imprecatori

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di Sr. Germana Strola o.c. s.o.

Uno dei cardini fondamentali della liturgia monastica, fin dalle prime forme embrionali delle comunità anacoretiche o cenobitiche dell'Antico Egitto, è sempre stato la recita integrale del salterio: in esso, i monaci chiamati alla preghiera continua trovavano un'inesauribile fonte di ispirazione, l'alimento per un sempre nuovo approfondimento spirituale e il sostegno per una perseverante fedeltà. Specchiandosi in esso, quasi un'immagine privilegiata del mistero dell'uomo e di Cristo, come insegnava già S. Atanasio nella lettera a Marcellino, il monaco assume nella sua relazione con Dio tutto il travaglio dell'esistenza umana e sperimenta in se stesso la forza di una continua catarsi spirituale.

Ma non è facile, al giorno d'oggi, riconoscersi immediatamente nel linguaggio dei salmi, senza una paziente iniziazione e un lungo apprendimento, che aiuti ad assumere una parola frequentemente aspra, non rielaborata nell'espressione a calco del sentire e del reagire dell'animo. È così che, in applicazione del § 91 della Sacrosantum Concilium del Concilio Vaticano II, la Costituzione Apostolica Laudis Canticum, firmata da Paolo VI il 1 Novembre 1970, nel promulgare la restaurazione dell'Ufficio Divino, al § 4, presentava non solo la distribuzione del salterio nel Breviario Romano nell'arco di quattro settimane, ma anche il principio secondo il quale venivano omessi pauci quidam psalmi et versicu1i asperiores, soprattutto a motivo delle difficoltà che avrebbero potuto sorgere nella celebrazione in lingua vernacolare.

Nella liturgia monastica, tuttavia, si è generalmente conservata la tradizione della recita integrale e continua dell'intero salterio secondo l'ordinamento della Regula Benedicti o distribuito al massimo in due settimane (non abbiamo raccolto in un'indagine rigorosa i dati relativi al mantenimento dei Salmi Imprecatori nelle Liturgie delle varie Congregazioni Benedettine o negli Ordini religiosi di vita contemplativa, la nostra esperienza si limita all'ambito monastico Cistercense, soprattutto quello della Stretta Osservanza), non senza qualche leggera variante rispetto all'uno o all'altro Salmo, in alcune comunità. Può essere interessante, alla distanza di circa quarant'anni, riflettere sull'opportunità o meno, anche nei contesti celebrativi delle comunità benedettine e cistercensi, dell'omissione di certi salmi più difficilmente comprensibili oggi, i Salmi Imprecatori e suggerire alcune annotazioni per stimolare un approfondimento del tema e una più lucida presa di posizione a questo riguardo.

Le difficoltà che si incontrano in una lettura cristiana dei Salmi Imprecatori

Le obiezioni di fondo che si sollevano, oggi come allora, rispetto alla recita pubblica dei Salmi Imprecatori, possono essere ricondotte a due motivi di fondo: uno di carattere culturale e uno di carattere più teologico.

Nella nostra cultura, soprattutto nei paesi occidentali dell'emisfero Nord, i modelli di relazione sociale e comportamentale sono per lo più dettati dal culto dell'immagine, del successo, della riuscita umana e personale. Anche se le generazioni più giovani insorgono contro un "perbenismo" affettato ed esteriore, è comunque innegabile che lo sviluppo delle scienze umane, soprattutto quelle dell'educazione, hanno contribuito a diffondere una divulgazione di massa caratterizzata dall'auto-controllo e da una certa formalità. Siamo quindi un po' tutti allergici a qualsiasi forma di aggressività istintiva o di eccessiva emotività, e giudichiamo rapidamente come devianti o malsane, ad esempio, le esplosioni di collera o certe esternazioni troppo violente. Ovviamente tale constatazione dovrebbe essere sfumata e tener conto di alcune espressioni culturali apparentemente contraddittorie, quali lo stile sempre più cacofonico della musica popolare giovanile, oppure il caos di certe manifestazioni pubbliche in occasione degli scioperi o di altre contestazioni, o forse solo di alcune manifestazioni sportive: resta comunque il fatto che, ritornando al nostro argomento, il clamore dei Salmi Imprecatori e l'espressione così libera di sentimenti quali l'ira, la reazione accesa contro il nemico o la sete di giustizia, immediatamente ci disturba, come un qualcosa di troppo istintuale o primitivo.

Una certa modalità comportamentale reclamizzata, ad esempio, dai mass media, è messa a disagio, dall'insorgere di emozioni che si vorrebbero perlomeno controllate, se non represse.

Questo discorso di carattere più sociologico o culturale, si accompagna, in chi ha almeno una certa formazione cristiana, a considerazioni religiose di ben altro valore e significato teologico. Il Vangelo di Gesù predica l'amore per i nemici: il Cristo stesso, nell'attimo supremo della sua morte sulla Croce, ha pregato per i suoi uccisori: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno". Se nell'Antico Testamento l'esigenza radicale della giustizia trovava espressione nella cosiddetta legge del taglione, secondo la quale la pena da infliggere doveva essere solo proporzionale all'offesa (Es 21,23-25; Lev 24,20; Dt 19,21, ecc.); la legge nuova delle Beatitudini invita ad andare molto più lontano delle mere considerazioni giuridiche, nelle relazioni umane (Mt 5,38-42; Lc 6,29-30), per la scelta gratuita e disinteressata dell'amore per l'altro.

Come si può allora ripetere, in un'economia neotestamentaria, un formulario eucologico in cui trova espressione tutta l'intensità delle passioni umane? La scelta dell'agape dovrebbe saper godere nel ripercorrere le vie dell'oblazione di Cristo: porgi l'altra guancia, lascia il tuo mantello, non richiedere il tuo... Come è possibile riconoscersi nel linguaggio frequentemente violento dell'Antica Alleanza, quando si è chiamati a lasciarsi sempre più convertire agli orizzonti del perdono reciproco, che esige la Nuova? Questi, in grande sintesi, i punti nodali della questione.

Inconciliabilità tra il bene e il male: la denuncia

Non pretendiamo di risolvere qui un problema tanto difficile, davanti al quale il Consilium per la Liturgia, nell'applicazione della Sacrosantum Concilium, come dicevamo, ha operato delle scelte radicali. Nelle nostre comunità monastiche, tuttavia, là dove tutto il salterio continua a far parte integrante della Liturgia delle Ore, è necessario approfondire la riflessione, soprattutto se l'uso della lingua vernacolare espone talora gli animi più semplici ad una problematica sconcertante, non sempre chiaramente confessata.

Bisogna innanzi tutto distinguere con attenzione la mancanza di controllo delle proprie reazioni istintive, nelle relazioni quotidiane delle nostre giornate così intensamente sollecitate dalle relazioni sociali - cioè l'aggressività immediata e ingiustificata verso il prossimo - che rivela non solo una mancanza di educazione, ma soprattutto una passionalità ancora allo stato brado, soprattutto quanto è ferita nel suo egocentrismo: è chiaro che a questo livello si tratta ancora di convertirsi o di lasciarsi convertire all'ideale evangelico; tutt'altra cosa è invece la veracità umile della preghiera, la fame e la sete di giustizia, cioè di santità, in forza della quale ci si lascia attraversare dalla luce di Dio nella realtà del proprio essere, sentire e vibrare, assetato di redenzione.

In ogni caso, il bene e il male sono per loro natura inconciliabili, ed è assolutamente necessario, soprattutto oggi, chiamare le cose con il loro vero nome. Il modo fondamentale in cui si denuncia il male è, da che mondo è mondo, la correzione, la punizione. La voce interiore della coscienza viene in tal modo confermata dalla realtà oggettiva, che condanna il male attraverso la sanzione. Quando il Dio dell'Antico Testamento viene presentato nella sua totale insofferenza nei confronti del peccato del suo popolo - l'ira di Dio, il furore della sua collera, il riversarsi del suo sdegno, l'arrossarsi infuocato delle sue narici - non è certo perché la concezione della divinità fosse allora così primitiva, arcaica, istintiva come talora si è tentati di ritenere. La forza delle immagini e del linguaggio metaforico conduce progressivamente Israele alla coscienza di quanto sia grave agli occhi di Dio la sua idolatria, la sua menzogna, il tradimento, l'omicidio, ecc. ecc. Non c’è altro modo per educare al senso del peccato se non l'evidenziarne la gravità attraverso i flutti di distruzione e di morte.

Se certe modalità espressive nella rivelazione di Dio, che noi riteniamo eccessivamente antropomorfiche o primitive, ci disturbano, per la loro primaria grossolanità, così apparentemente inadeguata alla Trascendenza del Dio Uno e Trino, dovremmo letteralmente epurare dalla Liturgia e dalla lettura pubblica della Bibbia gran parte della Sacra Scrittura, contro il principio di fondo - patristico e teologico - della continuità, e non solo della rottura, tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Il fatto è che allo stesso modo di Marcione e di altri eretici, istintivamente rifiutiamo un'immagine così severa, austera, e in fondo così scomoda, del Dio dell'Antico Testamento. Eppure Egli è realmente un Dio geloso, un fuoco divoratore, anche nel Nuovo Testamento: la severità, che denuncia la gravità di qualsiasi deviazione morale, resta un dato ineliminabile anche nell'economia cristiana (Eb 12,29; cf. Ap 1,14; 2,18; 9,17; 10,1; 11,5; 19,12.15; ecc.).

Continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento

Il punto è quindi la necessità di una più profonda formazione biblica e teologica, che introduca nella comprensione della Parola, anche la più austera, in modo da coglierne l'autentico significato. La misericordia evangelica risalta in tutta la sua inaudita gratuità, proprio sullo sfondo realistico e concreto della gravità della colpa. Non si tratta tanto di ritenere ormai superato un linguaggio antropomorfico o di considerare come decaduta una concezione primitiva della giustizia, ma, anzi, di rileggere e riscoprire le pagine del Vangelo che, proprio per annunciare la misericordia e il perdono, denunciano severamente il male, come tale. Il Cristo stesso ci battezza nello Spirito Santo e nel fuoco (Mt 3,11; Lc 3,16) e non misura le parole nella denuncia dei farisei (Mt 23) o nel preannuncio del castigo (Mt 3,12; 5,22; 7,19; 13,40.42.50; 25,41: Mc 9,48.49; Lc 3,7-9; 17,28-29; Gv 15,6). Il Signore Gesù è venuto non per sminuire o debilitare quasi in modo femmineo la grandezza dell'uomo o le esigenze talora ardue della legge morale, ma, secondo l'immagine di Luca, per portare il fuoco sulla terra (Lc 12,49; ecc).

Le immagini ricche di colore e di contrasti a forti tinte dell'Apocalisse descrivono il confronto ineliminabile delle forze del male contro la Chiesa, allo scopo di consolare i discepoli di Cristo nel loro martirio. L'opposizione tra il bene e il male non cessa di attraversare i secoli della storia, e oggi ancora siamo spettatori, il più delle volte inermi, del dilagare della violenza. Il grido del dolore si eleva, inespresso o lancinante, per chi lo sperimenta o non può soccorrerlo, per la sua impotenza, dal cuore dell'uomo. Dovremmo noi, in nome della legge del perdono portato da Cristo, soffocarne l'angosciante appello che invoca riconoscimento, giustizia e vita ? O non siamo forse chiamati, nella vita monastica, a permanere davanti a Dio, come offerta perenne di questa cosmica liturgia, che di fronte al dilagare della morte fratricida invoca da Dio il dono di una sorgente di misericordia, che non viene mai meno?

Assunzione del grido del dolore che invoca l'intervento di Dio

La sofferenza umana rompe i moduli formali di una cultura del benessere, del consumismo e dell'apparenza, ed emerge imperiosa, nei momenti di difficoltà, di solitudine, di coraggiosa verità esistenziale. Le sorridenti maschere di una gioviale socialità si sciolgono davanti a Dio, che scruta nell'intimo, sonda le profondità dell'anima e ascolta la voce inespressa, soffocata dal superficiale vortice dell'esistenza contemporanea. Le parole grezze dei salmi, che intrecciano in modo così veritiero l'espressione del sentire umano e il grido della preghiera, infrangono, se così si può dire, un'immagine "perbene" di autocontrollo e di misura. Se volessimo epurare tutte le espressioni violente e bellicose del salterio, dovremmo sforbiciarne le pagine molto di più di quanto non sia stato già fatto, tanto lo sfogo della sofferenza e il dolore per il male, di più, le interrogazioni ardite che osano perfino questionare il disegno e l'opera di Dio, percorrono i versetti dei salmi.

Chi invoca aiuto, lo fa perché è nella sofferenza e nel bisogno: c'è un legame intrinseco, costitutivo, tra la prova e la speranza, tra la contraddizione esistenziale e il desiderio. Certo, bisogna intendersi: perfino l'ardire di elevare a Dio un angustiato perché o il grido della vittima, è un appello di fede, elevato sotto la pressione dell'ingiustizia subita o della povertà che contraddice l'anelito alla vita, innalzato all'interno della relazione di alleanza, nella certezza dell'esaudimento. Soffocare questo grido equivale ad impedire l'accesso alla vita, a reprimere la voce di chi, nel nascere, implora l'aiuto indispensabile per poter vivere e in questo modo apre i polmoni alla respirazione del vero ossigeno vivificante. In realtà, toni così veri e così audaci ci disturbano, perchè risvegliano in noi zone represse di emotività, di frustrazione, di vita minacciata ed esposta alla morte. Una tale esperienza di umanità sofferente ed oppressa non è solo dell'Antico Testamento: infatti, siamo salvati nella speranza (Rom 8,24), e anche dopo la venuta di Cristo l'uomo continua a soffrire. Anzi, secondo la lettura patristica, il Cristo è il vero orante dei salmi, Colui che ha assunto in sé tutti il dolore umano, e lo redime nella sua croce e risurrezione, sempre vivo per intercedere per noi al cospetto del Padre (Eb 7,25).

Interpretazione del nemico: l'autentico avversario con cui non si può patteggiare

Il male morale, la cui radice affonda in ogni cuore umano, costituisce la principale fonte di suggestione verso il peccato: esso è il nemico per antonomasia, nei confronti del quale non è possibile nessun patteggiamento, nessuna tregua, nessuna misericordia; è di fronte alle sue insidie che, in ultima istanza, i cristiani invocano difesa, protezione, giustizia e salvezza: così insegnano i Padri a interpretare realisticamente il grido che, nella preghiera biblica, ancora invoca la liberazione. Sopprimere questa dimensione di coscienza, non solo è gravemente pericoloso, ma controproducente: significa non percepire più la lotta tra il bene e il male, la fame autentica di giustizia, vuol dire non essere più coscienti di quel non ancora che ci separa dalla piena realizzazione del Regno.

Abbiamo abbozzato qui, molto sinteticamente, alcuni spunti che richiederebbero uno sviluppo più adeguato, ma che, soprattutto, ci sembrano sollecitare una riflessione più profonda. In definitiva, non abbiamo ancora esaurito, nemmeno all'alba del Terzo Millennio cristiano, l'insondabile ricchezza del messaggio del Vangelo: la tentazione di edulcorarne i toni o di credere di averne acquisito già la profondità sostanziale, è molto pericolosa, anche e soprattutto per noi, all'interno delle sante mura del Chiostro. È l'avvertimento sempre attuale degli evangelisti: guai a voi che ora siete sazi (Lc 6,24-26); ... siccome voi dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane (Gv 9,41).

Per un ulteriore approfondimento, cf. ad esempio:

AA. VV., "Pour ou contre les Psaumes d'Imprecation", Vie Spirituelle 122 (1970), 290-336.
P. BEAUCHAMP, "Le Psalmiste et ses ennemis", Célèbrer 140 (1979), 23-24.
J. TRUBLET, "Violence et prière", Christus 106 (1980), 220-224.
J.M. NICOLE, "I salmi imprecatori", Monastica 2, (1982), 15-19.
E. BIANCHI, "I salmi imprecatori", Parola, Spirito e Vita, 21 (1990) 83-100.

(da Vita nostra, n. 1, 2004)

Letto 4851 volte Ultima modifica il Domenica, 18 Settembre 2011 20:08
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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