Formazione Religiosa

Martedì, 20 Giugno 2006 23:09

L’esilio a Babilonia. Crogiolo del monoteismo (Thomas Römer)

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L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *


Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…

Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.

Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.

Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio

I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).

In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.

Condizioni propizie alla fede monoteista

Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.

L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.

Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).

Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo

La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.

La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Letto 6420 volte Ultima modifica il Venerdì, 01 Dicembre 2006 20:39
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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