Formazione Religiosa

Mercoledì, 05 Dicembre 2007 00:21

«Lo spirito del Signore è su di me» (Is 61) (Claudio Doglio)

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«Lo spirito del Signore è su di me» (Is 61)

di Claudio Doglio

L'ultima parte del libro di Isaia sembra organizzata come una antologia concentrica, che ha il proprio punto focale nei capitoli 60-62. Questi testi rappresentano il nucleo fondamentale della sezione e rispecchiano perfettamente la predicazione consolatoria e promissoria dell'anonimo profeta che i moderni hanno chiamato Terzo-Isaia: la sua struttura può essere così sinteticamente rappresentata:

60,1-22 annuncio della luce per la nuova Gerusalemme;
61,1-11 vocazione e missione del profeta;
62,1-12 promessa del nuovo splendore di Gerusalemme.

Il centro di questo poema centrale, dunque, è costituito dal capitolo 61, in cui l'autore parla di sé e della propria missione.

Un messia sacerdotale

L'orizzonte storico in cui si muove l'autore è quello della comunità giudaica, ritornata nella terra di Israele dopo l'esilio: l'interesse è centrato sulla città di Gerusalemme che si trova in uno stato pietoso, ma alla quale viene predetto un meraviglioso futuro. Il tempio sembra ancora abbattuto o in via di difficile ricostruzione; i rimpatriati sono in preda alla sfiducia e alle lotte intestine; devono per di più affrontare difficoltà morali e religiose, dal momento che alcuni Giudei si sono abbandonati all'idolatria ed i capi del popolo sono inetti ed indifferenti.

Gli ultimi capitoli del libro di Isaia non sono un'opera unitaria, ma una raccolta di materiale che proviene da epoche diverse, sono composti con stili e linguaggi differenti e riflettono il pensiero di varie correnti religiose e spirituali: è difficile, quindi, parlare di un personaggio storico ed identificarlo con l'autore di tutti questi capitoli. Eppure la relativa unità dell'insieme permette di immaginare una figura storica di profeta post-esilico che abbia, per lo meno, svolto un'opera letteraria di raccolta e di compilazione redazionale. In tal modo il Terzo-Isaia può essere immaginato come una guida spirituale dei rimpatriati, pastore di anime e poeta di rinnovamento: con la sua opera letteraria egli vuole innanzi tutto risollevare gli animi oppressi dallo scoraggiamento.

Le affinità di stile con Is 40-55 fanno pensare ad un discepolo del Secondo- Isaia, suo grande ammiratore e tutto pervaso dello spirito del nobile maestro. Ritornato in patria egli avrebbe voluto continuare l'opera del maestro e indicarne in concreto la realizzazione. I rimpatriati, infatti, erano in crisi di fede, perché le promesse del profeta esilico non si erano realizzate: la tentazione era quella di leggere la squallida situazione presente come una controprova della fedeltà di Dio e quindi di abbandonare con disprezzo l'alleanza. In questa pericolosa situazione diversi autori cercarono, nel giro di poco tempo, di dare una nuova interpretazione alle antiche promesse di salvezza, rifacendo i alle varie tradizioni del patrimonio religioso di Israele. Un redattore, che possiamo identificare con il nostro profeta, raccolse questi oracoli, sia orali si stesi per iscritto, disponendoli secondo un suo piano, con l'intento di incrementare la fiducia di Israele nella fedeltà divina e rilanciare l'impegno di adesione all'alleanza con Dio.

Al centro della raccolta, il profeta-redattore ha collocato il poema autobiografico, in cui celebra la propria vocazione e presenta la sua missione di consolatore. Dai particolari di questo testo l'autore si rivela un "messia" sacerdotale, cioè un sacerdote consacrato con 1'unzione, che ha vissuto il propri ruolo cultuale soprattutto come messaggero di pace col compito di predicar un nuovo, grande «giubileo», come anno di misericordia voluto dal Signore. Secondo Pierre Grelot, (1) troviamo in questo testo il riferimento alla prima consacrazione di un sommo sacerdote dopo l'esilio ed il rientro a Gerusalemme: con una ipotetica, ma attendibile ricostruzione storica (2) si può pensare all'unzione sacerdotale di Ioiachim, successore di Giosuè, nell' anno sabbatico 511/510.

Un poema artisticamente composto

Non si tratta di un racconto di vocazione, come per Is 6,1-13, ma piuttosto di un poema autobiografico di investitura e presentazione, simile al canto del Servo che si trova in Is 49,1-6: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato ... ». Il richiamo stilistico a quel testo può essere un indizio di collegamento teologico: il profeta del post-esilio sente di vivere nella propria persona la continuazione dell' antica e unica missione profetica; nella concreta situazione del suo tempo egli sperimenta la chiamata divina e comprende il ruolo e lo scopo a cui è chiamato. Con abilità di artista compone questo poema, per tratteggiare le linee essenziali della sua missione ed i contenuti fondamentali della sua predicazione. Un'analisi attenta del testo rivela una sapiente organizzazione letteraria degli argomenti ed aver chiara la struttura dell'insieme ci aiuta non poco a comprenderne il messaggio. (3)

L'intero poema si può facilmente dividere in due parti: la prima comprende i vv. 1-3 e descrive il senso della consacrazione, mentre la seconda parte coi vv. 4-11 delinea il contenuto della predicazione.

La prima parte, introdotta dall'evocazione dello Spirito divino, presenta due azioni del Signore strettamente congiunte e rivolte all'autore stesso (mi ha unto - mi ha mandato). Tutta l'attenzione è così incentrata sulla missione del profeta che viene descritta con una successione lineare di sette infiniti, i quali nell'originale ebraico hanno la stessa forma grammaticale, tale da richiamare un insieme completo e organico:

  1. a portare una buona notizia ai poveri,
  2. a fasciare i contriti di cuore,
  3. a proclamare la libertà ai detenuti ...
  4. a proclamare l'anno gradito al Signore, ...
  5. a consolare tutti gli afflitti,
  6. a rallegrare gli afflitti di Sion,
  7. a dare loro ...

Il settimo elemento, vertice dell'elenco, viene ampliato con un nuovo elenco dalla struttura ternaria che annuncia un profondo cambiamento, contrapponendo tre realtà negative ad altre tre realtà positive:

  1. corona invece di cenere,
  2. olio di letizia invece di lutto,
  3. abito di lode invece di spirito abbattuto.

Questa prima parte, inoltre, è segnata dall'inclusione con la parola spirito: «Lo Spirito del Signore Dio ... - uno spirito (4) abbattuto».

L'ultima espressione del v. 3 ha un ruolo strutturale di collegamento fra le due parti: conclude la prima, riprendendone alcuni elementi linguistici evidenti in ebraico, con la proclamazione del nome nuovo che verrà dato alla comunità fedele ed introduce la seconda, anticipandone il tema della giustizia e l'immagine vegetale del germoglio rigoglioso.

La struttura della seconda parte è più complessa ed elaborata. Innanzi tutto possiamo riconoscervi tre sezioni, distinte da quella centrale che si differenzia nettamente dalle altre, perché introduce direttamente un oracolo divino:

l a sezione: vv. 4-7 (la novità della ricostruzione);
2a sezione: v. 8 (l'oracolo divino di conferma);
3 a sezione: vv. 9-11 (la gioia della ri-creazione).

Alla brevità della sezione centrale si contrappongono le altre due, molto più sviluppate e strutturate in modo simmetrico. Infatti la prima e la terza sezione sono composte entrambe in modo concentrico, avendo al centro di ciascuna un elemento stilistico nettamente distinto e agli estremi degli interessanti collegamenti linguistici: nel primo caso la distinzione è determinata dal passaggio dalla terza alla seconda persona, per ritornare alla terza, con il collegamento dato dal concetto di eternità ('ôlam); nella terza sezione, invece, al centro si pone chiaramente l'oracolo in prima persona dell' autore stesso, che si differenzia dagli altri due brani collegati dal concetto di seme (zera '),

Cerchiamo di chiarire l'insieme con uno schema di struttura:

1 a sezione:

v. 4 (essi) «costruiranno rovine perenni ... »
vv. 5-6 (voi) «sarete chiamati sacerdoti del Signore ... »
v. 7 (essi) «avranno una gioia perenne»

2a sezione: v. 8 (centro: oracolo divino)

3 a sezione:

v. 9 (essi) «sarà conosciuto il loro seme ... »
v. 10 (io) «gioisco nel Signore ... »
v. 11 (essi) «come la terra fa germogliare i semi ... »

Anche se si tratta, come dicono alcuni studiosi, di una composizione redazionale in cui sono confluite diverse unità bisogna tuttavia riconoscere che il redattore ha saputo organizzare sapientemente questo materiale, dando all’insieme una forma artistica, capace di aiutare a comprendere l'insegnamento teologico.

«Il Signore mi ha unto»

Il poema inizia con un'espressione solenne e potente: «Lo Spirito del Signore Dio (è) su di me». L'autore parla di sé e non esita a presentarsi in stretta relazione con l'azione di Dio ed il suo spirito (ruach): la formula adoperata crea un collegamento tematico con i canti del Servo, ma si richiama anche la profezia pre-esilica, per risalire fino alle più arcaiche manifestazioni d profetismo nel mondo biblico. Nell'oracolo di investitura, che chiamiamo primo canto del Servo, il Signore presenta il suo eletto, dicendo: «Ho posto mio spirito su di lui» (Is 42,1); il profeta Michea si contrapponeva ai ciarlatani del suo tempo rivendicando per sé l'autentica rivelazione divina: «Mentre io sono pieno di forza con lo spirito del Signore, per annunziare a Giacobbe le sue colpe» (Mic 3,8). In linea con questi testi l'autore di Is 61 presenta stesso, proclamando solennemente di essere l'inviato di Dio e, quindi, implicitamente si distingue da altri e sostiene di essere portatore della parola divina, come aveva cantato Davide («Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua»: 2 Sam 23,2) e come si raccontava dell'antico Balaam («Allora lo spirito di Dio fu sopra di lui»: Nm 24,2).

Come può affermare questo con tanta sicurezza? Lo dice egli stesso: «Perché il Signore mi ha unto». L'autore, infatti, interpreta il dono dello Spirito con I categoria sacerdotale dell'unzione: egli è stato consacrato con l'olio e, quindi, risulta evidente che lo Spirito si sia posato su di lui. Se nell'antichità Israele l'unzione era caratteristica soprattutto del re, dopo la fine della monarchia divenne prerogativa esclusiva del sacerdozio e l'unzione del somm sacerdote era sentita come un evento «sacramentale» di grazia che segnava l'inizio di una funzione importantissima ed assomigliava all'intronizzazione del re (cf Es 29,7; 30,22-33). In ebraico si adopera il verbo mašach, che ha dato origine al termine messia, cioè «unto»: quello che era un titolo tipicamente regale, nel posi-esilio diviene attributo sacerdotale. «È dunque un messianismo sacerdotale quello che porta la speranza del popolo per dargli gioia, liberazione, conforto e giustizia. In quest'epoca travagliata in cui c'è tutto d rifare, l'unzione del sommo sacerdote è gravida dell'avvenire radioso promesso alla città e al popolo in funzione della loro alleanza». (5)

Secondo l'antica tradizione religiosa il compito principale del sacerdote israelita doveva essere quello di osservare la divina parola e custodire la sua alleanza per insegnare i decreti e la legge di Dio a Israele (cf Dt 33,10): fedele a tale compito, il sommo sacerdote, autore di questo poema, ha presentato stesso come investito dallo Spirito di Dio e consacrato profeta, cioè portavoce di Dio in quanto sacerdote, suo mediatore per realizzare concretamente quelle circostanze storiche il progetto divino di salvezza e di giustizia. Egli si è sentito intimamente investito di questa missione e così ha delineato il programma del suo pontificato.

«Mi ha mandato a portare una buona notizia»

Il profeta-sacerdote indice il grande giubileo. Secondo la tradizione sacerdotale, codificata in Lv 25, l'anno cinquantesimo, ancor di più dell'anno sabbatico, doveva essere caratterizzato dalla remissione dei debiti, dalla restituzione delle terre e dalla liberazione degli schiavi: probabilmente queste norme non furono mai osservate realmente nell'epoca monarchica e rimasero come un'indicazione ideale di giustizia. Dopo l'esilio, quando la terra perduta ritorna in possesso di Israele, il profeta-sacerdote riconosce come segno dei tempi l'intervento di Dio per fare davvero giustizia: a nome suo, quindi, proclama «l'anno gradito al Signore, un giorno di rivendicazione per il nostro Dio». Questo compito occupa proprio la posizione centrale dei sette infiniti che esprimono la missione dell’autore: l'anno gradito è spiegato con l'espressione giorno del Signore, divenuta nel linguaggio profetico un termine tecnico per indicare il momento escatologico, vertice della storia della salvezza, in cui Dio realizzerà finalmente le sue promesse, punendo i traditori e premiando i fedeli. In questo senso si parla di vendetta (in ebraico naqam): noi, però, potremmo usare, come termine corrispondente e più comprensibile, rivendicazione. Il profeta, cioè, annuncia che il Signore sta intervenendo per realizzare concretamente nella storia gli impegni dell'alleanza, rivendicando i propri diritti: chi si è messo contro di lui ne avrà un grave danno, mentre per chi gli è rimasto fedele si tratterà del momento buono della retribuzione.

Questa è la buona notizia che egli è incaricato di portare al popolo. Il verbo ebraico bisser, reso in greco dai LXX con euangelìzesthai, è entrato nella tradizione cristiana ad indicare il «vangelo», la buona notizia per eccellenza, cioè l'intervento salvi fico di Dio: l'antico autore, consacrato con l'unzione, ha espresso con questo verbo il suo compito di annunziare l'opera del Signore che cura, libera, consola e rallegra.

Destinatari della buona notizia sono i poveri (in ebraico: 'anawîm), i prigionieri, gli afflitti. Non si tratta dei deportati in Babilonia, ma di quelli che sono già rimpatriati; tuttavia non è chiaro se l'autore, adoperando le immagini del giubileo, intenda proclamare un concreto intervento socio-amministrativo a favore dei diseredati, oppure voglia annunciare con delle metafore che la presenza del Signore determinerà un profondo rinnovamento nella misera condizione del suo popolo. (6) Il riferimento ai contriti di cuore orienta verso questa seconda ipotesi: l'espressione, infatti, appartiene al linguaggio religioso dell'autentico pentimento e la ritroviamo, ad esempio, nel salmo Miserere: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore contrito e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 51,19). Il popolo degli esuli ritornati riconosce che alla radice della propria miseria c'è l'infedeltà all'alleanza ed il peccato che li tiene prigionieri; a chi ne prova un vivo dolore ed aspira all'autentica liberazione il profeta annuncia la buona notizia del cambiamento.

L'intervento di Dio che capovolge la situazione viene presentato con tre immagini poetiche di radicale sostituzione. La situazione presente è caratterizzata dalla cenere, il lutto e lo spirito abbattuto: tipici elementi di una liturgia penitenziale con cui il popolo ammette con dolore il proprio peccato. All'atteggiamento di chi riconosce la propria povertà Dio risponde con doni simbolici e liturgici, che caratterizzano la consacrazione sacerdotale: la corona, l'olio di letizia e l'abito di lode. (7) L'autore ha trasfigurato il rito della propria consacrazione come un simbolo capace di esprimere il rinnovamento di tu il popolo (8) ed è di notevole importanza l'inclusione letteraria che segna la p ma parte: allo Spirito di Dio dell'inizio si contrappone lo spirito umano abbattuto del finale. Il richiamo linguistico serve a creare un contrasto di immagini per sottolineare un messaggio teologico: «La parola del profeta scaturisce dallo spirito di Dio; perciò essa sviluppa la potenza che libera lo spirito umano dall'oppressione e lo innalza alla gioia della lode divina. Nella lode lo spirito dell'uomo sperimenta il giubileo dell'amore fedele e misericordioso del Signore e quindi riscopre le grandi possibilità della sua libertà». (9)

«Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore»

Ai poveri di Sion il profeta-sacerdote attribuisce un nome nuovo: «Querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria» (61,3b). Nel passato di Israele c'erano stati giardini idolatrici e culti cananei della fecondità caratterizzati da alberi sacri: ora il popolo stesso, perdonato e rinnovato, viene designato con le immagini vegetali. Il resto fedele di Israele è la stirpe, cioè il seme, che YHWH ha benedetto e sarà proprio quello il seme che il Signore farà germogliare come giustizia e lode al cospetto di tutte le nazioni. Gli Israeliti sono detti «alberi di giustizia», in quanto appartengono al Signore, che è il Giusto, e sono stati piantati da lui per rendere gloria a lui, cioè per mostrarne nel mondo la presenza potente e operante; sono il germoglio «legittimo» a cui il Signore darà fecondità con la sua benedizione. Questa serie di immagini apre la strada alla grande affermazione teologica che segna uno dei vertici della seconda parte: «Voi invece sacerdoti del Signore sarete chiamati, ministri del nostro Dio si dirà a voi» (61,6a). A chi è rivolta questa parola? Enigmatico, infatti, è il cambiamento dalla terza alla seconda persona. Grelot pensa che il sommo sacerdote restringa il discorso a Israele, rivolgendosi solo ai suoi colleghi sacerdoti; (10) ma, data l'assenza di indizi testuali che giustifichino il cambiamento di destinatari, si può ritenere che l'autore sacerdote intenda estendere al popolo intero le caratteristiche sacerdotali. Sembra infatti, descrivere un utopico cambiamento sociale: gli Israeliti lasceranno lavori agricoli e pastorali agli stranieri per svolgere solo compiti sacerdotali «Si suppone che i pagani convertiti al monoteismo riconoscano la preminenza spirituale degli Israeliti, equiparati per la loro intimità con YHWH ai sacerdoti» (11) ma probabilmente l'autore teologo vuol dire di più. Egli vede il popolo eletto come autentico mediatore fra Dio e il mondo intero; immagina che il compito di Israele sia quello di creare comunione fra gli stranieri e YHWH; annuncia che sarà il Signore stesso a far germogliare il seme di Israele perché tutti i popoli possano unirsi alla sua lode.

«Mi ha rivestito delle vesti di salvezza»

L'oracolo divino che l'autore introduce improvvisamente al v. 8 offre la garanzia di realizzazione ed avanza l'impegno che Dio si assume di stipulare un'alleanza eterna: sulla scia di Ger 31 ed Ez: 36, anche il nostro autore esprime la convinzione di un intervento futuro del Signore per stringere un nuovo e definitivo rapporto di amicizia e comunione con il suo popolo. Proprio la dimensione sacerdotale ne costituisce l'elemento portante ed il simbolo sponsale ne esprime la carica esistenziale.

L'altro vertice della seconda parte, infatti, riprende con le immagini dei paramenti sacerdotali il tema della consacrazione: il profeta irrompe nell'insieme delle promesse con un grido di giubilo personale e, nello stesso tempo, si fa voce dell'esultanza sponsale di tutto il popolo. Le «vesti di salvezza» ed il «manto di giustizia» sono simboli festivi della dignità sacerdotale e rimandano al rito solenne di investitura: ancora una volta l'autore ripropone la scena della propria consacrazione come chiave simbolica di lettura per la situazione presente. Nella sua persona, infatti, il popolo riscopre la propria condizione di «sposa per il Signore» e l'immagine liturgica dei paramenti sacri evoca le tanto desiderate nozze con YHWH, dopo i tremendi anni del tradimento e dell'abbandono.

«Il passaggio sfumato dalla proclamazione del messaggero alla descrizione della salvezza ci fa vedere come il profeta, prima di scrivere, abbia meditato sul suo compito e sul modo di descriverlo. Si tratta, per quanto ne sappiamo, dell'ultima volta che nella storia di Israele il profeta esprime con tanta libertà e sicurezza la certezza di essere inviato da Dio a portare un messaggio al suo popolo». (12)

«Oggi, questa profezia si è adempiuta!»

Questa antica teologia sacerdotale si ritrova in modo altamente significativo all'inizio del ministero pubblico di Gesù: nella sinagoga di Nazaret egli, leggendo il testo di Is 61, lo proclama realizzato nella propria persona (Lc 4,14-21). Se è vero che Isaia ha aiutato a comprendere il ruolo del Messia nella storia della salvezza, è altrettanto vero per noi cristiani che la vicenda di Gesù Cristo ha permesso di capire in pienezza le parole dell'antico profeta. La stessa presenza di Gesù, in quanto Figlio di Dio, inaugura l'anno di misericordia del Signore ed annuncia l'euangelion della salvezza. La sua missione è proprio quella di proclamare la beatitudine ai poveri, agli afflitti, ai puri di cuore: egli si presenta come colui che libera i prigionieri e perdona i peccatori, capovolgendo in modo radicale la condizione dell'uomo. In lui si realizza l'autentica mediazione sacerdotale e grazie a lui si celebrano le nozze dell'eterna comunione fra Dio e l'umanità. Nel suo sangue il Signore ha stipulato l'eterna alleanza con il suo popolo e lo ha costituito come «organismo sacerdotale», perché sia sacramento di salvezza per il mondo intero.

(da Parole di Vita, n. 6, 1999)




1) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI: la première consécration d'un grand-prètre», in Revue Biblique 97 (1990), 414-431.
2) La genealogia del sommo sacerdote Giosuè, ritornato da Babilonia col discendente davidico Zorobabele, si trova nel libro di Neemia (12,1-26).

3) Alcuni autori ritengono che il v. 10 sia fuori posto e lo spostano; penso tuttavia che l'insieme possa spiegarsi così com'è, senza bisogno di interventi di ristrutturazione. Il v. 7 risulta di difficile traduzione e si rende in genere a senso, giacché deve essersi verificato qualche corruzione nella trasmissione del testo: nella LXX ne manca metà! La traduzione che adopero è quella ufficiale italiana, ma con diversi ritocchi per rendere più fedelmente l'originale ebraico. 4) La traduzione italiana parla di «cuore», ma in ebraico c'è lo stesso termine ruach, cioè «spirito», che si trova all' inizio del v. 1.

5) H. CAZELLES, Il Messia della Bibbia, Roma 1981, p. 135.

6) «L’autore sta parlando di una restaurazione che deve avvenire in patria e che si apre al futuro. Essa comprende due elementi paralleli e complementari: all’interno deve trionfare la giustizia nelle relazioni civili, all’esterno devono cessare le ingiustizie e le oppressioni contro i giudei.» (L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 1984, p. 418)

7) Il termine ebraico tradotto con «corona» è pe'er, reso in greco con mitra, e designa un copricapo liturgico sacerdotale; inoltre offre un interessante gioco linguistico con la parola “cenere” che è 'eper. Lo stesso termine ritorna al v. 10 per indicare la corona simbolica dello sposo (non diadema!). L'espressione «olio di letizia» ricorre anche in Sal 45,8 per designare la consacrazione del re ed orienta ad un significato liturgico. Infine non si capisce perché il testo italiano parli di «canto di lode», quando l'ebraico adopera un termine che indica l'abito (in greco: katastolé, in latino: pallium).

8) Una scena simbolica di vestizione del sommo sacerdote Giosuè si trova nel libro del profeta Zaccaria (3,1-7), che con tale visione intende proprio significare il cambiamento della situazione dopo l'esilio.

9) G. ODASSO, «Isaia», in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 1789.

10) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI», p. 423: «La suite, dans le discours en vous, est evidedemment adressé aux membres du sacerdoce qui l’entourent».

11) S. VIRGULIN, Isaia, Roma 1977, p. 405.

12) C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, Brescia 1978, p. 438.


IL GIUBILEO

di Giuseppe Dell'Orto

Nel testo della vocazione di Terzo Isaia (Is 61,l-3a) si legge questa espressione letterale: «per proclamare ai detenuti l'amnistia e ai prigionieri la liberazione» (Is 61,l). Ora tale espressione trova un parallelo terminologico in Levitico 25,10: «Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete l'amnistia su tutto il paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».

Inoltre, l'anno di grazia del Signore (Is 61,2) si riferisce alla grazia dell'amnistia e alla istituzione del riscatto (ghe 'ullah). Dunque, il Terzo Isaia considera il Signore come il vero Go'el, il Redentore, che opera il riscatto con la stessa modalità con la quale era stato annunciato dall' anno giubilare.

È il testo di Levitico 25,8-55 quello che presenta dettagliatamente le norme e il senso dell'anno giubilare. Diciamo, subito, che il termine «Giubileo» viene fatto derivare dall'ebraico jobel (che compare 27 volte), che sta per «il corno dell'ariete»: nel decimo giorno del mese di Tishri - ossia nel giorno della espiazione - veniva proclamato l'anno giubilare mediante il suono del «corno dell'ariete».

Il termine, però, può essere spiegato anche diversamente. Non mancano Autori che, rifacendosi al verbo jbl (= restituire, mandar via), sostengono che jobel si riferisca semplicemente alla restituzione delle persone o delle cose. Su tale base si spiega anche la scelta della LXX di rendere sempre jobel con afesis, cioè «remissione, rinvio, liberazione».

Vi è anche un terzo modo di spiegare il termine: poiché uno dei motivi teologici principali del «Codice di Santità» (Lv 17,1-26,16) è rappresentato dal riconoscimento di JHWH come unico Signore, jobel sarebbe la sintesi di una breve professione di fede che riconosce JHWH (prefisso Jo-) come il Bahal (= bel), vale a dire come il vero Signore e padrone. Non a caso la legislazione dell'anno giubilare inizia e si conclude con l'affermazione «Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 25,17.55).

Il lungo brano di Lv 25,8-55 presenta sei microunità letterarie, così distribuite:

  1. data e celebrazione del giubileo (vv. 8-12)
  2. compravendita dei terreni (vv. 13-17)
  3. il riposo della terra (il maggese: vv. 18-22)
  4. il riscatto della terra (vv. 23-28)
  5. il riscatto delle case (vv. 29-34)
  6. il riscatto delle persone (vv. 35-55).

Al centro, dunque, della celebrazione dell'anno giubilare si trovano la persona, la famiglia e la terra con i loro diritti di sopravvivenza: appartengono al Signore e non possono diventare proprietà di nessun altro. Poiché l'anno giubilare è un anno «santo» (qadosh), attraverso la tutela delle persone e delle terre si diventa partecipi della santità di Dio, prima che mediante lo stesso culto riservato al Signore.

L'autore del libro del Levitico sembra dire che questa rappresenta la via principale per «diventare santi come Dio è santo» (Lv 19,2).

Edotta dalla disastrosa esperienza monarchica, quando fattori economici e sociali causarono gravi disordini e provocarono la catastrofe dell' esilio babilonese, la corrente sacerdotale del postesilio propose per il futuro un sistema ottimale, che si doveva realizzare in una società fraterna governata secondo il principio religioso, che Israele è unicamente servo di Dio.

Più che un testo legislativo di un'epoca passata, le prescrizioni giubilari sono un documento profetico avente una prospettiva escatologica.

I precetti dell'anno giubilare restarono in gran parte una prospettiva ideale, più una speranza che una realizzazione concreta, divenendo peraltro prophetia futuri, in quanto preannuncio della vera liberazione che sarebbe stata operata dal Messia.

Gesù, nella sinagoga di Nazaret, annuncerà l'«oggi» del compimento dell'«anno di grazia» (Lc 4,16-30).


Letto 6603 volte Ultima modifica il Lunedì, 04 Febbraio 2008 02:42
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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