Formazione Religiosa

Mercoledì, 05 Marzo 2008 00:57

Paolo e Gesù: una stessa religione? (Michel Quesnel)

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Paolo e Gesù: una stessa religione?

di Michel Quesnel

Paolo sarebbe il vero fondatore del cristianesimo? La domanda è provocatoria, ma non sciocca, e neppure nuova. Molti storici delle origini cristiane l’hanno posta da un secolo e mezzo, e continua ad esserlo da autori contemporanei.

Come tutte le parole in «esimo» il termine «cristianesimo» suggerisce un sistema, ovvero un'ideologia di cui Paolo sarebbe il padre, più di Gesù. Sulla base della testimonianza evangelica, si concorda in realtà nel riconoscere in quest’ultima un pensiero spoglio di qualsiasi ambizione sistematica, il che non è certo il caso dì Paolo, che molti considerano il più grande teologo del I secolo. Vuol dire che Gesù non era teologo? Indipendentemente da ogni questione cronologica, lo scarto che separa Gesù da Paolo è considerevole. Molte cose oppongono i due uomini. Se Paolo sì riferisce costantemente a colui che considera il suo Signore, lo fa in termini che non consentono di riconoscere spontaneamente il profeta itinerante di Galilea quale lo presentano i vangeli. Questo porta a domandarsi in quale misura egli si collega alla tradizione di cui Gesù è la fonte e se la religione dei due si può sovrapporre. Effettivamente, la filiazione che va dall'uno all’altro, se esiste, passa attraverso giri tortuosi. È bene precisare in quale misura Paolo riprenda la tradizione che deriva da Gesù, e ricostruire, per quanto possibile, l'itinerario che condusse l'apostolo a riformulare il messaggio di colui che, a suo dire, gli ha affidato la missione.

Quale immagine paolina di Gesù?

Le differenze tra la persona di Gesù rappresentata nei vangeli e il Figlio di Dio cui si riferisce Paolo nelle sue lettere saltano agli occhi. Numerosi storici e teologi del XIX secolo, appartenenti alla corrente del Protestantesimo liberale, le hanno ampiamente sottolineate: la persona di Gesù secondo Paolo è talmente divina che le rimane ben poco di umano. Alfred Loisy, simbolo del pensiero modernista nel cattolicesimo francese, scriveva nel 1914: «Il Gesù al quale Paolo si è convertito non è il predicatore del Regno di Dio». Con presupposti diversi ma conclusioni abbastanza simili sui rapporti tra Gesù e la prima generazione cristiana, Rudolf Bultmann poneva, nel suo Gesù pubblicato nel 1926, una opposizione famosa in il Cristo della fede, in altri termini detto il Risorto, divenuto oggetto della predicazione della Chiesa primitiva e il Gesù della storia, profeta e predicatore itinerante del Regno di Dio, la cui vita terrestre va interamente collocata nella sfera del giudaismo. È raro che Paolo designi Gesù col suo solo nome. Più generalmente usa per nominarlo un titolo composto: «Gesù Cristo», o «il Signore Gesù Cristo». Il nome stesso rimane spesso nella penna per lasciare spazio ai soli titoli «Cristo» e «Signore» che sono sufficienti per indicare il riferimento a Cristo nel discorso. Perché proprio di discorso si tratta in Paolo, un discorso di cui Gesù è il centro, ma costruito su concetti filosofici e teologici ispirati al mondo greco, estranei alla predicazione storica di Gesù e molto spesso assenti dai testi evangelici. È stato inoltre sottolineato da lungo tempo che le allusioni fatte da Paolo alla vita terrena di Gesù sono assai scarse. Solo il racconto della Cena (1 Cor 11,23-25) e il ricordo di alcuni comandamenti risalenti al Signore (ad esempio 1 Cor 7.10-11; 9,14) possono essere incisi in parallelo con avvenimenti o parole evangeliche precedenti la Passione. Il resto è molto generico. Si può sapere da Paolo che Gesù è «nato da donna e sottomesso alla Legge» (Gal 4,4), «disceso secondo la carne dalla stirpe di Davide» (Rm 1,3), e che tutto si concluse con la sua morte sulla croce. Ma nelle lettere paoline non si trova alcuna allusione ai miracoli, alle parabole o a tanti altri episodi della vita di Gesù. Grazie alla penna di Paolo entrano nel pensiero cristiano numerosi concetti entrati in seguito nel vocabolario teologico della Chiesa: redenzione, giustificazione, coscienza, libertà: queste parole abbondano nelle lettere paoline mentre si cercherebbero invano nei vangeli. È a partire da queste, o da altre parole simili che si è formulato il dogma cristiano. Esse sono diventate le pietre di un discorso coerente che si elaborò progressivamente nel corso dei primi secoli e che primi concili consacrarono nel corso di dibattiti spesso accesi.

Ora l'idea stessa di strutturare la fede attraverso il dogma è estranea al giudaismo che non possiede nè corpo né dottrine nè magistero, e Gesù non sembra averne avuto il progetto. Numerosi maestri ebrei ritengono che l'elaborazione in un dogma sia un tradimento al procedimento della Bibbia. Il loro insegnamento fatto di richiami all'intervento di Dio nella storia di haggada (racconto di esempi edificanti) e di halakha (riflessioni sul come osservare i precetti), appartiene ad un altro modo di procedere. Si comprende come Paolo, padre della teologia dogmatica cristiana, sia allora particolarmente malvisto nel giudaismo, mentre Gesù è spesso considerato in modo nettamente più benevolo. Vi è inoltre un punto sul quale Paolo prende grande distanza rispetto al giudaismo e nello stesso tempo rispetto a Gesù, e che rende la sua posizione particolarmente critica agli occhi degli ebrei, e cioè l'osservanza dei comandamenti della Torà. Paolo dichiara che essa non ha più ragion d'essere. Gesù, certo, aveva criticato l'interpretazione formalista della Legge fatta da alcuni maestri del suo tempo, ma non vi si è mai sottratto: Paolo,. al contrario, su questo punto è molto radicale.

Dal maestro al discepolo

Le differenze che si sono appena rilevate possono spiegarsi in diversi modi. La prima spiegazione è semplicemente cronologica. La missione terrena di Gesù si svolse negli anni 27-30 della nostra era. La più antica lettera di Paolo, che è anche lo scritto più antico di tutto il Nuovo Testamento, è generalmente datata all'anno 50. Quanto ai vangeli, il primo redatto nella sua forma canonica è probabilmente quello di Marco, che la maggior parte dei biblisti data all'incirca all’anno 70. Vent'anni separano la vita di Gesù dalla scrittura delle lettere di Paolo, e bisogna ancora attendere altri venti anni per giungere alla redazione da un vangelo conosciuto. Paolo è il primo testimone delle redazioni che risalgono a Gesù. Ma queste non sono conoscibili in forma di racconto che attraverso scritti che sono loro posteriori. Questa situazione di intreccio temporale implica che alcune originalità di pensiero che il lettore sarebbe tentato di attribuire a Paolo possono essere dovute ad altri. Paolo forse non è l'inventore dei termine «giustificazione» e «redenzione» che si trovano per la prima volta in un testo di cui egli è il firmatario. Egli stesso può averli ripresi da tradizioni anteriori, inconoscibili perché non hanno lasciato tracce scritte. Bisogna in realtà guardarsi dal confondere le parole attribuite a Gesù nei vangeli con le sue ipsissima verba. Farlo sarebbe dimenticare che gli evangelisti sono, proprio come Paolo, teologi, e che danno di Gesù un ritratto condizionato dal loro proprio progetto pedagogico, storico e teologico.

Un’altra spiegazione delle differenze rilevate tra le lettere di Paolo e i vangeli deriva dal fatto che si tratta di opere appartenenti a generi letterari diversi: i vangeli sono teologia sotto forma di racconto, mentre Paolo scrive di teologia in forma epistolare. Là dove Paolo parla di «redenzione» Marco e Matteo scrivono: «Il Figlio dell'uomo è venuto a dare la sua vita per la salvezza di molti» (Mc 10,45; Mt 20,28). I termini sono diversi, ma il concetto teologico è lo stesso. Ad ogni i forma letteraria corrisponde un tipo di lessico. Confrontare il pensiero di Paolo con quello di Gesù limitandosi ad accostare parola a parola sarebbe dunque un cattivo metodo per un duplice motivo. Il primo è che un tale procedimento potrebbe con fondere arbitrariamente le formule evangeliche con quelle di Gesù stesso. Il secondo consisterebbe nel non tenere conto della differenza di forma tra i due tipi di opera letteraria.

A leggere Paolo da vicino, ci si rende conto che egli valorizza un buon numero di tradizioni risalenti a Gesù di cui tengono conto anche gli evangelisti. Si è già citata l'ultima Cena così come i loghia sul divorzio e la mercede dei missionari. Si possono aggiungere le parole sulla seconda venuta, il puro e l'impuro, l'uso del termine Abba per rivolgersi a Dio, parecchi insegnamenti etici e sul Regno, le critiche rivolte ai capi religiosi di Gerusalemme, le parole sul primo dei comandamenti, l'accoglienza dei piccoli e dei poveri, il perdono ai peccatori...

Un itinerario originale

Gesù non aveva, o quasi, lasciato la terra ebraica, Paolo, al contrario, fu martirizzato a Roma dopo avere solcato terre e mari. Il modo di vivere condiziona il pensiero, ed è dunque normale che i due uomini non abbiano detto le stesse cose, e questo tanto più perché uno è scrittore, l'altro no. Si tratta allora di una differenza essenziale e persino, come è stato preteso, di un'infedeltà?

L’originalità del pensiero paolino rispetto a quello di Gesù può essere compresa a partire dall'itinerario dell'apostolo, dalle sue origini sino alla morte. Esso comporta numerose rotture, delle fasi, si potrebbe dire, per riprendere un termine di moda. Se non se ne tiene conto, si rischia di non comprendere la relazione tra Paolo e Gesù, e neppure il pensiero di Paolo stesso. Mentre Gesù era galileo, provincia ebraica aperta alle influenze esterne, ma facente parte del territorio ebraico, Paolo è un ebreo della diaspora, nato a Tarso in Cilicia. Che abbia fatto o no studi a Gerusalemme - la questione è controversa - il greco era la sua lingua materna, e la Bibbia di cui si è alimentata la sua fede di bambino e poi di adolescente è la Settanta. L'uomo è alla frontiera delle due culture, l'ebraica e la greca. Forse aveva letto Filone, il celebre filosofo alessandrino; è certo, in ogni caso. che aveva una formazione intellettuale di buon livello. Probabilmente si recò più volte a Gerusalemme in pellegrinaggio durante l'infanzia, ma vi sono ottime probabilità che non vi abbia mai incontrato Gesù che, da parte sua, non vi soggiornava che periodicamente. La sua prima relazione con Gesù, lo confessa nelle sue lettere, fu di perseguitarne i discepoli (Gal 1,13.23). É impossibile conoscere con certezza il motivo di questa persecuzione, ma le poche righe autobiografiche della lettera ai Galati permettono di supporre che le libertà che la giovane Chiesa si prendeva riguardo la Legge ebraica, di cui Paolo era un rigoroso zelante, non erano prive di peso (Gal 1,14).

La grande svolta della sua vita è la via di Damasco. Là egli vide il Signore Gesù (1 Cor 9,1) e, situazione del tutto eccezionale, egli fece di questa visione l'ultima manifestazione del Risorto (1 Cor 15,8). Ultimo della lista dei beneficiari delle apparizioni, egli si designa come l'ektrôma, termine greco mal reso dalla parola italiana «aborto» e che più precisantente significa «figlio non vitale di una madre morta di parto». È dunque proprio l'ultimo, molto dopo tutti gli altri, e dopo di lui non ce ne saranno più: la matrice è come spezzata. È una situazione eccezionale, egli ne è ben consapevole. Che egli abbia agli inizi trovato del sospetto da parte degli altri apostoli è del tutto normale.

predicatore della Risurrezione in Arabia Petrea dove rimase tre anni (Gal 1,17-18), poi, dopo una breve visita a Gerusalemme dove incontrò alcuni apostoli (Gal 1,18-19), ripartì spontaneamente verso nord in direzione della sua terra natale, stabilendosi principalmente ad Antiochia e a Tarso.

Nella diffusione del vangelo, Antiochia è un punto cardine. Là, secondo Luca, storicamente debole su questo punto, i missionari osarono indirizzarsi per la prima volta a Greci (non ebrei), al punto che fu necessario inventare un nome per designare questo gruppo religioso di nuovo genere: i christianoi, o «cristiani» (At 11,26). In una lista arcaica di cinque «profeti e discepoli» legati alla Chiesa di Antiochia ritrascritta dagli Atti degli Apostoli, Barnaba è nominato per primo, Paolo per ultimo (At 13,1). È ancora un responsabile di secondo rango, ma la sua prospettiva si confonde con quella della Chiesa di Antiochia nel suo insieme: la Buona Novella della Risurrezione di Gesù è talmente importante per l'insieme del mondo abitato che vale la pena che sia predicata a dei Greci. Questo non può che creare delle difficoltà di coabitazione tra cristiani ebrei, osservanti da sempre la Torà, e cristiani di origine pagana, ma è meglio affrontarle che limitare la predicazione ai soli ebrei. Arrivati a questo punto dell'evoluzione di Paolo, ci si rende conto che è stata superata una distanza considerevole rispetto al modo di agire di Gesù, che non aveva incontrato Greci e Romani che in modo occasionale, all'interno del territorio ebraici. Essa è stata superata non da un uomo, ma da un gruppo, di cui Paolo fa parte, e di cui non è il capofila. L’evoluzione avvenuta dopo la Pentecoste e, a maggior ragione, dopo Gesù, è considerevole. Non accettarla, avrebbe limitato la diffusione del vangelo al mando ebraico, contesto che una parte significativa dei missionari considerava come troppo ristretto, rispetta a ciò che rappresentava nel disegno universale di Dio.

La logica missionaria

La logica missionaria praticata ad Antiochia implicava che non ci si limitasse alla provincia romana di Siria. Bisognava estendere la diffusione nell'insieme del mondo allora conosciuto, il mondo mediterraneo. Incaricati di Antiochia, Barnaba e Paolo partirono per Cipro, patria in Barnaba, la Panfilia e la Cilicia. Il capo della missione era, nulla di più normale, Barnaba. All'inizio del primo viaggio missionario di Paolo, Barnaba è sempre nominato per primo (At 13,2.4). Si poneva nel frattempo una nuova questione, che fu all'origine di una nuova rottura: di predicare il vangelo ai Greci, tutti gli Antiocheni sembravano condividerlo. Ma come farli vivere una volta convertiti? Bisognava integrarli nella Chiesa ebrea, cosa che comportava di far loro rispettare la Torà con le sue regole alimentari e la circoncisione? Mai un Greco avrebbe accettato questo di buon grado. Si poteva ammettere che la fede in Gesù era l’unica esigenza necessaria alla salvezza e che i cristiani di origine pagana non dovevano essere sottomessi alla legge? Dibattuto ad Antiochia e a Gerusalemme, questo problema era così vivo che un vero accordo non fu trovato, malgrado il racconto accomodante che Luca fa dell'Assemblea di Gerusalemme (At 15,1-35). Ad Antiochia, Paolo si urtò così persone del seguito di Giacomo, sostenitori dell'imposizione dei comandamenti della Torà a tutti (Gal 2,12), entrò in aperto conflitto con Pietro, che aveva apparentemente avuto difficoltà a collocarsi tra due posizioni estreme (Gal 2,11-14). Egli stesso era dell'idea di andare fino in fondo alla logica missionaria che aveva colto nei primi tempi del suo soggiorno ad Antiochia: guadagnare pagani a Cristo comportava di non imporre nessuno dei precetti della Torà; che i giudeo-cristiani continuassero ad osservarli se, in coscienza, non potevano fare diversamente (Rm 14); ma la Legge non era per loro di alcuna utilità in ordine alla salvezza.

Tale è la posizione cui giunse Paolo, che la espresse con chiarezza nella lettera ai Romani dopo averne gettato le fondamenta nella lettera ai Galati. Così facendo, egli creò davvero un'opera originale e si trovò abbastanza isolato nella Chiesa, seguito soltanto da alcuni discepoli che aveva egli stesso formato. Egli aveva lasciato molto indietro la Chiesa di Antiochia. Così, quando si recò ad Antiochia per l'ultima volta (At 18,23), si comprende che non poté farvi che un soggiorno breve. La Chiesa locale preferiva in realtà non offrire l'ospitalità troppo a lungo a questo personaggio ingombrante che là dove passava seminava zizzania. Essa non gli diede più incarichi. Egli partì rapidamente per il suo terzo viaggio missionario, probabilmente con sollievo di parecchi.

Verso una predicazione universale

Per diverse ragioni tra cui non ultima la presa di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70, col conseguente indebolimento del giudeo-cristianesimo, la storia darà ragione a Paolo. Non senza difficoltà e rotture. Il più grave danno che ne derivò fu che il cristianesimo perse in parte le sue radici ebraiche. Ma prese una dimensione universale che né il conservatorismo di Giacomo, né la posizione più moderata di Pietro avrebbero potuto assicurargli.

Così si spiegano in gran parte le differenze tra Paolo e Gesù, specialmente se si parla dell’ultimo Paolo, l'autore delle grandi epistole. In ogni modo, essi non avevano affatto la stessa religione. La religione di Gesù era incontestabilmente il giudaismo. Quella di Paolo si evolse; ebreo di origine, ebreo rimase. Ma il suo itinerario si confonde con i passi che fece il ramo cristiano del giudaismo per costituirsi progressivamente in una religione nuova ben presto chiamata cristiana. E gli ultimi cristiani che egli portò a Gesù furono dispensati dall'applicare la legge e pur considerando l'Antico Testamento come fondamento della loro fede.

Dire se una tale evoluzione è un tradimento del messaggio di Gesù o se, al contrario, essa è la via della vera fedeltà non riguarda la competenza dello storico. Esistono fedeltà allo spirito che prendono le loro distanze dalla lettera: «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 Cor 3,6). In questo versetto c'è una chiave di volta per la comprensione sia della sua persona sia del suo pensiero.

* Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, 53)

Letto 1978 volte Ultima modifica il Venerdì, 04 Aprile 2008 17:20
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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