In cammino con Dio
Il vero pane disceso dal cielo
di Francesco Mosetto
Nel Vangelo di Giovanni il miracolo dei pani è accompagnato da un dialogo tra Gesù e i Giudei, che ne di schiude il significato simbolico sullo sfondo del racconto biblico della manna (Es 16). In un certo senso l'evangelista rilegge in chiave cristologica la pagina dell'Esodo: il «pane dal cielo», che per mezzo di Mosè il Signore aveva donato ai figli di Israele, prefigura il vero pane dal cielo, lo stesso Gesù, che dà la vita al mondo, ossia a tutta l'umanità. Ma accostiamo anzitutto la pagina giovannea, cercando di scoprire il percorso attraverso il quale l'evangelista conduce i suoi lettori.
Un duplice segno
Dopo la sezione iniziale ( «da Cana a Cana», cc. 1-4), il quarto Vangelo riporta una serie di «segni», accompagnati da discorsi oppure dialoghi che ne enucleano il significato: la guarigione del paralitico (c. 5), il miracolo dei pani e il cammino di Gesù sulle acque (c. 6), l'illuminazione del cieco (c. 9), la risurrezione di Lazzaro (c. 11).
I due «segni» del c. 6 del Vangelo di Giovanni sono collegati tra loro anche nei Sinottici: indizio questo di una tradizione comune molto antica. Se in Marco e in Matteo il miracolo dei pani è narrato due volte (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39), ciò si può spiegare con lo sdoppiamento dell'unica tradizione. Luca (Lc 9,10-17) si limita al primo dei racconti. A sua volta la versione giovannea presenta contatti sia con la prima sia con la seconda moltiplicazione dei pani. Mentre lo sfondo biblico e le allusioni sacramentali si possono già avvertire nel racconto dei Sinottici, Giovanni accentua la portata cristologica del racconto, che viene ulteriormente esplicata nel dialogo seguente.
Anche il cammino di Gesù sulle acque lascia trasparire uno sfondo biblico che ne orienta l'interpretazione. Mentre in Marco (Mc 6,45-51) l'automanifestazione di Gesù incontra tuttora l'ottusità spirituale dei discepoli, che impedisce loro di cogliere il mistero della sua persona, in Matteo (Mt 14,22-32) esso conduce a una professione aperta di fede. L'espressione con la quale Gesù si presenta ai discepoli e che si legge anche nei sinottici («lo sono»), nel quarto Vangelo assume una valenza caratteristica (cf 8,24.28.58; 13,19), come equivalente del nome divino (cf Es 3,14; Is 43,10s).
Il dialogo
Quasi si direbbe che per il quarto evangelista il segno dei pani è un pretesto per l'autorivelazione di Gesù. Con i vv. 22-25 si passa velocemente da un racconto pieno di realismo, benché carico di suggestioni simboliche, a un dialogo serrato, la cui architettura rivela un disegno preciso. Per semplicità e chiarezza distinguiamo tre parti, tra loro ben concatenate:
- Prima parte (vv. 26-35): il «segno» rimanda alla realtà: «il pane della vita», che è lo stesso Gesù.
- Seconda parte (vv. 35-48): per avere il pane della vita è necessaria la fede in Gesù, vero pane disceso dal cielo.
- Terza parte (vv. 48-58): dando se stesso come cibo, Gesù «dà la vita al mondo».
All'interno di ciascuna parte il dialogo, dall'andamento a prima vista tortuoso, lascia trasparire una precisa intenzionalità teologica. Ne evidenziamo i passaggi:
Dal «segno» alla realtà
Punto di partenza è il segno del pane: i Giudei cercano Gesù perché ha saziato la loro fame materiale, ma non hanno compreso il segno nel suo vero significato (v. 26). Gesù orienta la loro ricerca verso il suo verso oggetto, il cibo che «rimane in vita eterna» (v. 27). Chi dà questo cibo è Il Figlio dell'uomo, l'inviato di Dio, da lui accreditato con il miracolo; cf 5,36: «le opere che il Padre mi ha dato da compiere... testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
I Giudei accolgono l'invito di Gesù a procurarsi «il cibo che rimane in vita eterna», ma lo fraintendono: giocando sul verbo ergazein (v. 26: ergazesthe, procuratevi; v. 28: ergazometha, facciamo) l'evangelista suggerisce che la parola di Gesù è stata interpretata secondo la mentalità farisaica, come esortazione a procurarsi i beni divini mediante le opere della Legge. Ma subito Gesù corregge il fraintendimento e per la seconda volta imprime alla ricerca dei suoi ascoltatori la direzione giusta: «Questa è l'opera di Dio (quella che egli si attende dall'uomo): credere in colui che egli ha mandato» (v. 29).
L'iniziativa passa ai Giudei, i quali provocatoriamente chiedono un «segno», più precisamente quello della manna, che aveva accreditato Mosè come inviato di Dio (vv. 30-31; si cita il Salmo 78, che richiama Es 16). La richiesta appare paradossale, dal momento che il miracolo dei pani appena avvenuto corrisponde puntualmente alla pretesa dei Giudei; ma il richiamo a Mosè e ad Es 16 è soprattutto funzionale all'interpretazione del segno che Gesù ha compiuto.
Difatti la nuova risposta di Gesù offre la chiave di lettura del miracolo dei pani sullo sfondo del racconto biblico della manna e consente di identificare il pane di Dio, quello che «rimane in vita eterna» e che Gesù stesso aveva annunciato fin dall'inizio del dialogo (vv. 32-35; cf v. 27). Interessante notare la triplice contrapposizione, che sottolinea la somiglianza e insieme la novità del dono escatologico: «non Mosè... ma il Padre mio...»; non la manna, ma «il vero pane dal cielo»; non «vi diede», allora, ma «vi dà», adesso. Un ulteriore confronto tra la manna e il vero pane che discende dal cielo sarà istituito più avanti (vv. 49s): «i padri hanno mangiato la manna nel deserto e (= eppure) sono morti»; chi invece mangia del vero pane dal cielo, solo adombrato dal prodigio dell'esodo, «vivrà in eterno».
Il vero «pane di Dio» - continua Gesù - «è quello/colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Grazie alla consueta tecnica del fraintendimento l'ultimo scambio di battute tra i Giudei e Gesù conduce al primo vertice del dialogo, ove finalmente si decifra il segno del pane, identificato con Gesù stesso. Come la Samaritana aveva chiesto: «Signore, dammi di quest'acqua...» (4,15), così i Giudei, tuttora prigionieri del senso materiale delle parole, dicono: «Signore, dacci sempre questo pane». Eppure Gesù non respinge la domanda; piuttosto ne fa l'occasione per presentarsi come il vero pane che dà la vita e per invitare a se gli uomini: «lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35).
Come avere il pane della vita
La seconda parte del dialogo prende l'avvio dalle parole con le quali Gesù si definisce «il pane della vita» (v. 35) e vi ritorna (v. 48) attraverso un'ampia digressione sul tema della fede; o meglio: tratta della fede come condizione necessaria e indispensabile per ottenere il pane della vita, sviluppando l'accenno introdotto fin dal v. 29.
Con linguaggio sapienziale (cf Is 55,1-3; Prv 9,1-6; Sap 16,26), Gesù invita gli uomini al banchetto della vita: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35). Venire a Gesù equivale a credere in lui come Figlio e inviato del Padre. La fede però non è un'opera umana; alla sua origine c'è l'iniziativa del Padre, che «dà» a Gesù i credenti (v. 37; cf 17,2.12.24), li «attira» a lui (v. 44). «Magna gratiae commendatio», esclama sant' Agostino (in Jo. Tract. XXVI, 2).
A più riprese Gesù ha rivolto il suo appello alla fede (cf 3,14ss.31ss; 5,24.36ss); da ultimo nella parte iniziale del dialogo (v. 29) e con l'invito del v. 35. Ora sollecita la fede dei Giudei e - attraverso il testo evangelico - di tutti gli uomini, insistendo sul senso ultimo della sua venuta nel mondo secondo il disegno del Padre: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (v. 40). Come un ritornello, le parole «io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (vv. 40.43; cf v. 39) contribuiscono a definire il concetto di «vita eterna» come adempimento della speranza giudaica nel mondo futuro.
Vi è però un ostacolo alla fede: l'umanità di Cristo (v. 42). L'interrogativo stupito dei Giudei è noto anche alla tradizione sinottica (cf Mt 13,35; Mc 6,3; Lc 4,22). Il quarto Vangelo ritorna più volte su questo tema (cf 1,45s; 7,25ss.40ss). Senza l'azione invisibile della grazia, l'uomo non riesce a superare il livello dei sensi approdando alla fede nell'Incarnazione del Verbo (vv. 43s).
Mangiare il pane della vita
Riallacciandosi al tema del pane, nella terza parte del discorso (vv. 48-58) Gesù ne sviluppa il simbolismo sotto un duplice aspetto: in riferimento al supremo dono di se, che egli compirà sulla croce, e in ordine all'Eucaristia, memoriale del suo sacrificio e banchetto nel quale egli stesso si fa cibo e bevanda dei credenti.
Dopo aver ripetuto l'affermazione: «lo sono il pane della vita», il vero «pane che discende dal cielo» (vv. 48-51ab), ora Gesù precisa: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51c). Con il linguaggio semitico («carne» nel senso di corpo, persona concreta) e con trasparente allusione al dono di se nella morte («io darò... per...»; cf 10,11.1.5; 11,50.52; 15,13; 17,19;18,14; v. anche 1 Gv 3,16), le parole di Gesù conferiscono ora al pane un valore simbolico più circoscritto rispetto alla identificazione precedente. Lo scopo ultimo della «discesa» del Verbo dal mondo di Dio (il «cielo») è infatti il sacrificio della croce: là e solamente allora Gesù realizza pienamente la figura della manna, pane disceso dal cielo per la vita agli uomini.
La parola di Gesù è rivelazione. Come tale supera le attese e provoca la meraviglia, addirittura lo sconcerto: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 53). Ancora una volta la incomprensione serve da trampolino per un annuncio più aperto, una risposta che non elimina lo scandalo, ma invita a superarlo nella piena disponibilità al dono di Dio.
Poiché la «vita», nel senso alto e pieno che il termine ha nella Bibbia e particolarmente nel linguaggio giovanneo, è data agli uomini per mezzo del Verbo (Gv 1,4), il Figlio unigenito che Dio ha donato «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3,16), il «pane di Dio», che «dà la vita al mondo» (6,33); e poiché tutto ciò si realizza attraverso la morte sacrificale di Gesù, l'uomo non potrà aver parte a tale vita se non ricevendo quel pane nella verità piena del suo essere donato.
Di qui, con logica rigorosa e sconvolgente oblatività, l'invito di Gesù a «mangiare di questo pane» (v. 51), «mangiare la carne del Figlio dell'uomo e bere il suo sangue» (v. 53); Carne e sangue di Gesù - ove il binomio sottolinea che unica è la persona, mentre la distinzione suggerisce la morte cruenta - sono «vero cibo» e «vera bevanda» perché l'uomo attinge in essi la realtà da cui scaturisce la «vita»; non una realtà astratta e atemporale, ma un essere storico e un evento di salvezza.
L'insistenza sui verbi «mangiare»-«bere» e sui termini «cibo»-«bevanda», «carne»-«sangue», è certo intenzionale: il lettore iniziato al sacramento della Cena non può non intuire che l'invito di Gesù riguarda ultimamente il rito sacramentale. Con le parole: «Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue dell'alleanza...» (Mt 26,26.28) non ha forse egli stesso consegnato il memoriale del suo sacrificio? E tuttavia il corpo e il sangue del Signore, che nell'Eucaristia diventano cibo e bevanda dell'uomo, sono appunto l'umanità glorificata del Verbo, il Cristo risorto sorgente di vita per i credenti. La sua morte e risurrezione, evento che compie l'Incarnazione del Verbo come evento di salvezza, fanno dunque di Cristo il vero «pane disceso dal cielo per la vita del mondo».
Una duplice considerazione completa le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (vv. 56-57). La seconda precede e fonda logicamente la prima, perché riguarda la comunione di vita tra Gesù e il Padre. Il Padre, che è il «vivente» per eccellenza (cf Sa142,3 ecc.) e «ha la vita in se stesso» (Gv 5,26), è la sorgente della vita anzitutto nei confronti del Figlio, il quale può dire: «io vivo per il Padre», partecipando cioè alla sua stessa vita.
Il Figlio a sua volta comunica la vita divina agli uomini: chi crede in lui «ha la vita eterna» (vv. 40.47; cf 3,16; 5,24). Alla luce delle cose appena insegnate, ciò si realizza mangiando il «pane della vita»: «colui che mangia di me vivrà per me», ossia: avrà parte alla vita divina che dal Padre per mezzo del Figlio viene comunicata agli uomini.
Tra i credenti e Gesù nasce pertanto una comunione di vita analoga a quella che intercorre tra lui e il Padre: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (v. 56). Parole che anticipano gli insegnamenti dell'ultima cena e ne sono illuminati: «In quel giorno saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (14,20.23); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto...» (15,5); «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... lo in loro e tu in me...» (17,21.23). Fede in Cristo e sacramento della Cena, nel loro inscindibile intreccio, sono dunque il mezzo offerto all'uomo per comunicare intimamente alla vita stessa di Dio, la «vita eterna».
Tu hai parole di vita eterna
L' epilogo registra una duplice reazione alle parole di Cristo e, più generalmente, alla sua rivelazione attraverso i segni e il discorso: il rifiuto dei «molti», che si «tiravano indietro e non andavano più con lui» (6,66) e la fede coraggiosamente professata da Simon Pietro a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Si compie così la «crisi» (3,19; cf 9,36), separazione e giudizio, per la quale gli uomini si dividono davanti a Gesù: da una parte i non credenti, che si scandalizzano della sua persona e per le sue parole; dall'altra quelli che non inciampano nel «duro linguaggio» della rivelazione di Cristo e sono condotti a lui dal Padre.
Gesù stesso commenta lo scandalo e getta luce nell'intimo del cuore umano. La «carne», ossia l'uomo come creatura limitata e fragile, non riesce da sola a percepire la presenza di Dio nel Figlio incarnato. Chi dà la vita «è lo Spirito», la potenza di Dio che rigenera (cf 3,5s) e guida alla conoscenza della «verità» (cf 14,26; 15,26; 16,13). Di questa forza divina sono cariche le parole di Gesù; esse sono «spirito e vita» (v. 63), sono «parole di vita eterna» (v. 68).
D'altra parte, la rivelazione di Gesù è tuttora incompleta: il Figlio dell'uomo deve ancora «salire là dov'era prima». La sua esaltazione (cf 3,14s; 8,28; 12,31ss), oltre a costituire un ritorno alla condizione antecedente la discesa dell'Incarnazione (cf 17,5.7.24), sarà anche manifestazione della sua divinità («Io sono»: 8,28) e conferma suprema delle sue parole.
Dalla manna all’Eucaristia
Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao traccia l'itinerario di un lungo viaggio che ogni credente percorre ogni volta che prende parte all'Eucaristia: dalle steppe del Sinai e dalle pagine del libro dell'Esodo all'incantevole conca del lago di Genezaret, al momento affascinante dell'ultima Cena e a quello terribile della croce, al misterioso incontro con il Risorto nella celebrazione eucaristica, che a sua volta anticipa il banchetto celeste: solo allora il «pane della vita», Cristo, comunicherà definitivamente all'uomo quella vita che egli stesso riceve dal padre, sì che in Lui anche noi possiamo godere la «vita eterna».
L'intero percorso è segnato da un'immagine, quella del pane: prima nella forma di un cibo prodigioso, la manna; poi come segno compiuto da Gesù e da lui stesso interpretato; quindi come cifra dell'Incarnazione del Verbo, «il pane della vita» disceso dal cielo; infine come elemento della cena pasquale, consegnato da Gesù ai suoi come sacramento del suo corpo e memoriale del suo sacrificio.
La prima tappa, quella rappresentata dal miracolo della manna nel cammino dell'esodo, orienta e prefigura quelle successive. Il richiamo al celebre testo biblico nel c. 6 del Vangelo di Giovanni costituisce uno degli esempi classici di quella rilettura dell'Antico Testamento, attraverso la quale il Nuovo Testamento, mentre riconosce al primo un «valore profetico», al tempo stesso ne rivela il «senso spirituale» e ne indica il «compimento» nella realtà nuova e superiore che è Cristo.
Non è certo se il testo citato al v. 31 sia Es 16,4 oppure Sal 78,24 L XX: ciò ha relativa importanza. La citazione porta con se l'eco di una serie di testi, biblici ed ebraici post-biblici, che ricordano il miracolo della manna e ne illustrano il significato. In particolare, sulla scia del Deuteronomio (Dt 8,3), il libro della Sapienza vede nella manna il simbolo della parola di Dio (Sap 16,24-26). L'interpretazione sapienziale è atte stata anche dai commenti rabbinici al libro dell'Esodo (Mekhiltà, Esodo Rabbà) e da Filone di Alessandria (Legum Allegoriae III, 56; Her:.. 39). D'altra parte, all'attesa di un nuovo Mosè era associata l'idea che avrebbe ripetuto il prodigio della manna: «Come il primo salvatore fece scendere la manna... così anche l'ultimo salvatore farà discendere la manna...» (Eccles. Rabba 1,28; v. anche Mekhiltà su Es 16,25; 2 Baruch 29,8).
Al tempo messianico o escatologico si riferisce anche il tema isaiano del banchetto, che il Signore ha preparato sul monte Sion per tutti i popoli (cf Is 25,6-8) ed al quale, nel contesto, è associata la vittoria sulla morte (Is 26,19). Vicino al tema del banchetto messianico è quello della tavola che la divina Sapienza ha imbandito: «Venite a mangiare il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato... e vivrete...» (Sap 9,5s: cf Sir 15,1-3; 24,19s). Questi temi tra loro affini si rifanno ultimamente all'«albero della vita» che si trovava nel paradiso (Gn 2,9; 3,22); ad esso probabilmente si ispirano anche le espressioni giovannee «il pane della vita», «l'acqua viva... che zampilla in vita eterna» (Gv 4,10.14), la «luce della vita» (Gv 8,2). È comunque interessante che nella letteratura giudaica, come per il pane, si trovi una interpretazione sapienziale anche dell’albero della vita: «La Torà è un albero di vita per ogni uomo che la studia...» (Targum Neophyti I, Gn 3,24).
Su questo sfondo la parola di Gesù si comprende in modo più adeguato. Egli è il «vero pane disceso dal cielo», «il pane della vita», che compie le figure dell'Antico Testamento e ne realizza l' annuncio profetico. Il miracolo dei pani è un «segno», la cui portata cristologica risalta alla luce del Primo Testamento; d'altra parte, senza di questo e senza l'ulteriore ricerca (midrash) coltivata nei circoli sapienziali giudaici, non sarebbe nemmeno comprensibile l'evento e il messaggio cristiano.
(da Parole di vita, 4, 97)