Formazione Religiosa

Martedì, 18 Settembre 2007 01:38

Lezione Dodicesima. L'esperienza dell'esilio

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Lezione Dodicesima

L’ESPERIENZA DELL’ESILIO

 



«Dopo la caduta di Gerusalemme
fui trasferito in Babilonia
e là Israele fu
quale nave senza nocchiero»

(Poesia di chiusura della Megillà di Puru)

1. L’Evento storico

Sotto il nome di esilio si designano le deportazioni in Babilonia dei notabili del popolo d’Israele, vinto ed assoggettato militarmente dalla potenza caldea. Questo fenomeno era comune nell’Oriente antico: la deportazione delle classi dominanti dal punto di vista economico, politico e spirituale, era una misura preventiva contro eventuali insurrezioni (cfr. Am. 1).

 

Già nel 734 alcune città del regno del Nord ne fecero la dura esperienza (2 Re 15,29). Poi nel 721, dopo un assedio durato tre anni, la capitale Samaria venne occupata e gli Israeliti deportati in Assiria. Lo storico dell’evento, impregnato di reminiscenze del Deuteronomio e dei Profeti, fa risalire questa triste esperienza allo scisma religioso del regno del Nord. Al centro delle riflessioni c’è il peccato degli Israeliti contro il Signore loro Dio che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto: l’idolatria (2 Re 17,7ss). «Il Signore si adirò molto contro Israele e lo allontanò dalla sua presenza e non rimase se non la sola tribù di Giuda. Ma neppure quelli di Giuda osservarono i comandi del Signore loro Dio … perciò rigettò tutta la discendenza di Israele; li umiliò e li mise in balìa del briganti…» (2 Re 17,18-20). Nel territorio attorno a Samaria si stabilì della gente di Babilonia e di città assire. Queste colonizzazioni, nella fusione con gli Israeliti rimasti sul posto, diedero origine ai Samaritani (2 Re 17,24ss). Dei deportati del regno settentrionale non si sa più nulla.

Le deportazioni che più hanno inciso sulla storia del popolo dell’alleanza, sono quelle fatte da Nabucodonosor, a conclusione delle sue campagne, negli anni 597, 587 e 582 (2 Re 24,14; 25,11; Ger. 52,28ss).

L’esperienza che più fa impressione è la seconda presa di Gerusalemme, seguita dall’incendio della reggia, del tempio di Jahwé e di tutte le case. La rovina di Gerusalemme e la distruzione del Santuario, ebbero una risonanza tremenda sulla coscienza religiosa di Israele. La residenza del Dio della storia salvifica era distrutta; ormai non esistevano più né terra né promessa, né dinastia regale, né popolo, le realtà che avevano trasmesso il piano salvifico. Falliva così un certo ideale.

2. L’esilio e i Profeti

L’esperienza dell’esilio doveva segnare una profonda svolta per Israele. Fino ad allora si era creduto che il patto di Jahwé con il suo popolo implicasse anche la protezione del suo stato politico. Jahwé era venerato come il Dio cui apparteneva la terra; nel re si vedeva il rappresentante di Jahvé. Ora tutto il sistema era messo in questione; il disegno di Dio sembrava sconvolto, vanificato, smentito.

Anche dopo la deportazione l’esilio era inimmaginabile ed illogico. Si pensava che la situazione sarebbe presto tornata normale. Geremia denuncia questa aspettativa come un’illusione (Ger. 29). Perché la via del ritorno si aprisse, fu necessario attendere la caduta di Babilonia e l’editto di Ciro del 538 (2 Cron. 36,22ss).

Questo lungo periodo di prove imponeva il tentativo di spiegarsi il motivo della catastrofe, l’approfondimento del disegno di Dio e la ricerca del vero piano di Dio.

1. L’esilio è castigo del peccato

In questa fase di ripensamento i profeti sono accanto a quelli che gemono nell’esilio per aiutarli a superare le valutazioni errate della storia salvifica. Con il perdurare della catastrofe i profeti cercano di far comprendere la necessità di acquistare coscienza della loro perversione incurabile (Ger. 13,23; 16,12ss). Le minacce dei profeti, prese troppo alla leggera, si realizzano alla lettera.

L’esilio appariva così come il castigo delle colpe tante volte denunciate:

- colpe dei dirigenti, che invece di fondarsi sull’alleanza divina, cercano sicurezza nei loro calcoli umani e nelle alleanze politiche (Is. 8,6; 31,1; Ez. 17,19ss);

- colpe dei grandi, che avevano sostituito il sopruso alla giustizia, con la violenza e la frode (Is. 1,23; 5,8; 10,1);

- colpe di tutto il popolo, traviato da immoralità e idolatria (Ger. 5,19; Ez. 22).

In particolare, Geremia ed Ezechiele aiutano il popolo eletto a capire chi è veramente il Dio d’Israele e quali sono le sue esigenze di fedeltà e santità: Ger. 22,8ss.:

«Quando molti popoli passeranno vicino a Gerusalemme e si domanderanno: perché il Signore ha trattato così questa grande città? Si risponderà: perché hanno abbandonato l’alleanza del Signore loro Dio, per adorare e servire dèi stranieri».

La situazione desolata di Gerusalemme è descritta nelle pagine più liriche di tutto l’A.T.: le Lamentazioni, raccolta di cinque elegie composte da autori anonimi, di cui uno testimone oculare della distruzione e un deportato in Babilonia. Nella liturgia sinagogale le Lamentazioni vengono lette ogni anno il 19 di Ab, nell’anni­versario della distruzione di Gerusalemme; nella Chiesa si leggono durante il triduo sacro della Settimana Santa.

2. L’esilio, prova feconda

La vigna del Signore divenuta pianta selvatica, è stata saccheggiata e divelta (Is. 5); la sposa adultera è stata spogliata degli ornamenti e duramente castigata (Os. 2; Ez. 16,38); il popolo è stato scacciato dalla sua terra e disperso fra le genti (Dt. 28, 63-68).

Il rigore delle sanzioni rivela la gravità della colpa. A partire da quell’epoca l’umile confessione dei peccati diventerà abituale in Israele (Ger. 31,19; Es. 4,6; Neem. 1,6; 9,16.26; Dan. 9,5).

L’esilio era come una “teofania negativa”, una rivelazione dell’ira del Dio santissimo e del suo orrore per il male. Israele è tentato di scoraggiarsi (Ez. 11,15; 37,11; Is. 49,14).

I piani di Dio seguono una traiettoria sconcertante, ma vengono interpretati e letti nell’orizzonte di salvezza che essi aprono sulle rovine e sul dolore.

Jahwé ha lasciato il tempio, perché la sua “gloria” è disonorata dagli dèi stranieri. Egli non ha più posto e se ne va. Ma porta con sé la salvezza. Raggiunge Israele a Babilonia, per costituire un resto che si convertirà (Ez. 6,8-10). Jahwé stesso sarà il tempio (Ez. 11,16) e tornerà con Israele nella terra promessa per formare un popolo nuovo (Ez. 11,27ss; 20,39ss). La speranza si riaccende per quanti comprendono la santità gelosa di Dio e ritornano a Lui come a un Padre (Ger. 31,20). La riflessione di Israele si rivolge alla gravità del peccato e alla sua distruttività:

«Ti castiga la tua stessa malvagità; le tue ribellioni ti puniscono. Riconosci e vedi come sia cosa cattiva e amara l’aver abbandonato Jahwé, tuo Dio» (Ger. 2,19).

All’uomo che riconosce il proprio peccato, Dio rivela la sua misericordia e la sua fedeltà alle promesse. Egli non rigetta per sempre. Non può distruggere Israele:

«Come potrei farti simile ad Adma, renderti come Zeboim? Il mio cuore si rivolta in me, mi sento tutto muovere a compassione. Non agirò secondo la mia ira ardente, non tornerò a distruggere Efraim. Perché io sono Dio e non uomo; sono santo in mezzo a te e non farò lo sterminio» (Os. 11,8-9).

Dio non è legato ai meriti di coloro che egli ama. Il castigo è contrario alla sua volontà, che è di beneficare. Per questo mentre commina il castigo dell’esilio, gli prospetta il ritorno:

«C’è spereanza per il tuo avvenire: i tuoi figli ritorneranno nei loro confini» (Ger. 31,17).

«Nell’eccesso della collera, ho nascosto per un poco la mia faccia da te, ma con eterno affetto ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore Jahwé» (Is. 1,25).

L’esilio diventa il tentativo estremo. Nelle intenzioni di Dio deve provocare una profonda crisi spirituale, purificarlo attraverso il fuoco del dolore e dell’u­miliazione:

«Stenderò la mano su di te, purificherò in un forne le tue scorie, rinnoverò tutto il tuo piombo» (Is. 1,25).

Agli esuli ritornati dirà il Signore:

«Ecco, ti ho purificato per me come argento, ti ho provato nel forno della miseria» (Is. 48,20).

Il ritorno dall’esilio rappresenta il compimento di un periodo collettivo di penitenza: raffigura il ritorno a Dio, incarnato in un impegno morale di riparazione e di ricostruzione della fedeltà della Legge. Si noti come la stessa radice shub indica, in Gen. 13,8 e Tob. 13,5-6, il pentimento o ritorno interiore del popolo a Dio, il ritorno di Dio al suo popolo, e il ritorno materiale dei profughi dall’esilio.

3. Rilettura della storia salvifica

Geremia ed Ezechiele sono profeti di stirpe sacerdotale. Geremia proviena da Anatot; benché escluso dalle funzioni del tempio (cap. 1 Re, 2,26) esercitò grtande influenza spirituale sulla riforma di Giosia. Si colloca in quel periodo, il cosiddetto «libro della consolazione» (Ger. 30,1-31,22 e 3,6-13), in cui il profeta prevede la riunione di tutto l’antico Israele e la «creazione di una casa nuova sulla terra» (Ger. 31,22).

Ezechiele probabilmente ha collaborato alla compilazione delle tradizioni cultuali che formano il blocco “sacerdotale” del Pentateuco.

1. La tradizione sacerdotale

Durante l’esilio i sacerdoti assurgono a dirigenti del popolo e ne preservano la personalità religiosa. Essi cercano di valorizzare il patrimonio spirituale che si era andato sviluppando all’ombra del tempio e di recuperare quella ricchezza tradizionale, immettendola in norme fisse.

Tuttavia, l’opera sacerdotale non è puramente ritualistica: essa è propriamente teologica e ricca. Israele, a contatto con religioni e culti idolatri deve riflettere sulla sua storia. Perciò, la fonte P in questo periodo pone le istituzioni religiose nella sfera della storia della salvezza, ricollegando il tempio, il sacerdozio, le leggi rituali in rapporto con gli eventi del Sinai (Ez. 25ss; Num. 18,19, 26-30), il sabato con il modello della creazione (Gen. 1), la circoncisione con il patto di Abramo (Gen. 17).

La tradizione sacerdotale reinterpreta le origini del mondo e dell’umanità (Gen. 1-11) per vedere nella storia particolare d’Israele il popolo incaricato della missione di rappresentare tutta l’umanità. Alle domande degli esuli sulla sorte del popolo eletto, la risposta è data dall’evento passato. Il Signore della storia, creatore e salvatore, realizza il suo disegno di salvezza mediante Israele.

2. Il Deuteronomista

Il Dt è redatto sostanzialmente sul finire del sec. VII e viene portato a termine durante l’esilio. Il ciclo deuteronomista (da Dt a II Re) va dagli eventi del Sinai fino alla rovina di Gerusalemme e all’esilio. Questa fonte è tutta centrata su questi due poli e sviluppa i temi dell’obbedienza all’alleanza, dell’amore per Dio salvatore, del dono della terra. Il nucleo redatto in periodo di esilio è la fase di storicizzazione: in essa l’alleanza è letta in chiave retrospettiva. La storia passata dà la risposta agli interrogativi sul futuro (Dt. 4).

3. Deutero-Isaia (Dt. 40-55)

La seconda parte del libro di Isaia è da attribuire ad un anonimo profeta vissuto in esilio. In base alle prime parole: «Consolate, consolate il mio popolo» (Is. 40,1) è chiamato il «libro della consolazione di Israele». Questo è il tema principale. I capp. 40-48 annunciano la fine; i capp. 49-55 la fine del peccato e la restaurazione dei credenti. Jahwé, annunciato come Signore della storia, è il Santo di Israele, prepara un intervento che supererà con forza gli eventi passati: «Ecco io faccio una cosa nuova» (43,16-21): un esodo più grande di quello dell’Egitto. Questo si realizzerà in modo inaspettato, sarà mediante un re pagano, Ciro, che si realizzerà la salvezza di Dio ad un orizzonte universalista (41, 4-48). È ancora questo profeta anonimo che prospetta la salvezza realizzata dalla figura del «Servo di Jahwé», figura misteriosa che può identificarsi con il popolo eletto o lo stesso Deutero-Isaia. L’idea della sofferenza prepara la salvezza futura di Gesù.

Conclusione

L’esperienza dell’esilio sul piano storico salvifico è capitale. Esso è anzitutto l’occasione, per una nazione provata, di procedere ad un esame radicale della propria situazione di fronte al Dio dell’alleanza. La durezza della prova costringe Israele a confessare il suo peccato e a ritornare a Dio, con una accresciuta coscienza della sua vocazione.

Questo periodo ha permesso un passo ulteriore nell’approfondimento della rivelazione e della soteriologia attraverso l’opera soteriologica della tradizione sacerdotale, la storicizzazione del deuteronomista, l’universalismo del Deutero-Isaia e la riflessione sapienziale. L’esilio è stato un’esperienza per Israele e per Dio, l’occasione per ricostruire i piani di salvezza per l’uomo.


Bibliografia

F. Festorazzi, La crisi dell’esilio e i grandi interrogativi della fede di Israele, in Introduzione alla storia della salvezza, cit., pp. 115-133.

J. S. Croatto, Storia della salvezza, cit., pp. 156-184.

C. Lesquivit-A. Vanhoye, Esilio, in X. Leon Dufour, Dizionario di teologia biblica, cit., pp. 115-133.

G. Gatti, L’esilio come evento penitenziale, in «Parole di vita», 16 (1971), pp. 83-99.

P. de Surgy, Le grandi tappe del mistero della salvezza, cit., pp. 125-139.

G. von Rad, Teologia dell’A.T., cit., pp. 223-233.

Letto 9579 volte Ultima modifica il Venerdì, 18 Novembre 2011 16:15
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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